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☺ Perchè VOCI FUORI DAL CORO? Generalmente durante la settimana leggo quello che viene pubblicato online in merito ad argomenti di mio interesse, ovvero, in particolare, news, aspetti di geopolitica, rapporti fra mondo occidentale e mondo islamico, novità in ambito culturale e nell'Arte. Alcuni scritti sono particolarmente illuminanti perché diradano le nebbie create dalle tante affermazione arbitrarie che incautamente vengono espresse anche nei media. Sperando di fornire un servizio utile ho pensato di raccogliere ogni settimana su questo blog in una RASSEGNA STAMPA i link degli articoli e dei post per me più significativi. Con gli stessi principi vengono formulati COMMENTI. Ho chiamato queste web-pages VOCI FUORI DAL CORO semplicemente perché oggi chi si esprime in maniera corretta, informata e serena è una voce 'fuori dal coro' delle opinioni affrettate, faziose, demagogiche, disinformate e urlate, ovvero che si impongono per i toni della prevaricazione verbale piuttosto che per i contenuti. Buona Lettura! webmaster - Roberto Rapaccini ☺

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• Il Passato sarà un buon rifugio, ma il Futuro è l'unico posto dove possiamo andare. (Renzo Piano) •

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☺ Perchè VOCI FUORI DAL CORO? Generalmente durante la settimana leggo quello che viene pubblicato online in merito ad argomenti di mio interesse, ovvero, in particolare, news, aspetti di geopolitica, rapporti fra mondo occidentale e mondo islamico, novità in ambito culturale e nell'Arte. Alcuni scritti sono particolarmente illuminanti perché diradano le nebbie create dalle tante affermazione arbitrarie che incautamente vengono espresse anche nei media. Sperando di fornire un servizio utile ho pensato di raccogliere ogni settimana su questo blog in una RASSEGNA STAMPA i link degli articoli e dei post per me più significativi. Con gli stessi principi vengono formulati COMMENTI. Ho chiamato queste web-pages VOCI FUORI DAL CORO semplicemente perché oggi chi si esprime in maniera corretta, informata e serena è una voce 'fuori dal coro' delle opinioni affrettate, faziose, demagogiche, disinformate e urlate, ovvero che si impongono per i toni della prevaricazione verbale piuttosto che per i contenuti. Buona Lettura! webmaster - Roberto Rapaccini ☺

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COMMENTI...FUORI DAL CORO...III (dal 5 marzo 2018) di Roberto Rapaccini

LE RECENTI ELEZIONI EUROPEE: PRIME RIFLESSIONI (su L’Azione del 31.5.2019) 
Purtroppo un dato costante delle elezioni europee è un elevato numero di ‘non votanti’. Il partito dell’astensionismo paradossalmente potrebbe aspirare a incarichi di governo, essendo supportato da una percentuale che si avvicina alla maggioranza assoluta. Se si esaminano i dati delle precedenti consultazioni europee, si evidenzia che l’astensionismo ha avuto un trend in aumento: nel 1979 quasi il 14%, nel 1984 il 17%, nel 1989 più del 29%, nel 2004 andò meglio e si astenne meno del 27%, nel 2009 il 33,5%. Nel 2014 si registrò il maggior numero di astenuti, un ’preoccupante’ 41% (ovvero più di 20 milioni di cittadini europei). Per questo motivo il Parlamento europeo si è impegnato in numerose iniziative per sensibilizzare i cittadini sulla necessità di partecipare alle consultazioni elettorali, che peraltro questa volta si sono collocate in un momento molto delicato per il futuro degli organismi comunitari. Queste consultazioni elettorali, infatti, sono state caratterizzate dalla contrapposizione fra un forte fronte euroscettico - che ha ottenuto ottimi risultati soprattutto in Italia, in Francia e in Gran Bretagna – e i tradizionali partiti ‘europeisti’ che, nonostante qualche significativa flessione negativa, nel complesso hanno tenuto. Sull’onda dell’effetto ‘Greta’, si è registrato un significativo successo dei Verdi – secondi in Germania e terzi in Francia - che manifesta una generale maggiore sensibilità per le problematiche ambientali. Il dato sull’astensione, considerato il suo carattere fisiologico, non deve incidere sull’attendibilità della volontà espressa dalle elezioni. Emerge un quadro composito: le esigenze di rinnovamento sono chiamate ora al difficile compito di tradursi in proposte concrete. RR

L’IMPORTANZA DELLE PROSSIME ELEZIONI EUROPEE (su L’Azione del 24.5.2019)
Il prossimo appuntamento elettorale europeo avrà un’importanza cruciale per il futuro dell’Europa, in quanto, nonostante le dichiarazioni e i programmi siano stati confezionati tenendo conto dell’esigenza di rassicurare gli elettori sulla soddisfazione delle loro attese, si confronteranno gruppi che possono essere ricondotti a due linee politiche radicalmente diverse. Preliminarmente si osserva che è sicuramente un sentimento trasversale comune a movimenti e a partiti l’esigenza di una profonda riforma delle istituzioni comunitarie, che negli ultimi anni sono sembrate inadeguate a promuovere una condivisa ripresa economica, palesando inoltre l’incapacità di svolgere un ruolo politico unico nello scenario internazionale. In proposito i due schieramenti hanno una diversa visione dei rimedi da opporre a questo momento di crisi. Lo schieramento definito ‘sovranista’ ed ‘euroscettico’ ritiene che sia necessario che gli Stati riacquistino in tutto o in parte la quota di sovranità che hanno ceduto aderendo all’Unione. Al contrario gli ‘europeisti’ affermano che, sulla base delle affinità culturali e storiche che legano i popoli d’Europa, sia necessario consolidare e implementare l’Unione Europea, ovvero la struttura sovranazionale che, oltre ad assicurare una maggiore coesione fra i Paesi europei, è l’unico strumento in grado di fronteggiare le congiunture economiche e le tempeste geopolitiche mondiali. Pertanto gli elettori sono chiamati a ponderare con particolare attenzione le loro scelte politiche, perché queste in concreto avranno un’importanza decisiva sul futuro del progetto comunitario. RR

È IN ATTO UN CONFLITTO FRA CRISTIANI E MUSULMANI? LE STATISTICHE DICONO DI NO. (su L’Azione del 17.5.2019)
Le indagini iniziali sui recenti attentati del giorno di Pasqua in Sri Lanka hanno evidenziato che il gruppo islamico radicale responsabile avrebbe agito per rappresaglia contro i crimini di stampo islamofobo consumati in Nuova Zelanda nel marzo scorso.  L’ipotizzata connessione ha alimentato la convinzione che sia in atto una guerra di  religione: tuttavia un esame dei dati statistici contraddice questa congettura. Secondo il National Consortium for the Study of Terrorism and Responses to Terrorism (START - Università del Maryland) dal 1970 al 2017 gli attacchi contro i luoghi di culto sono stati meno del 2% di tutte le iniziative terroristiche nel mondo. Se consideriamo anche le azioni contro altri obiettivi religiosi, la percentuale si eleva di un solo punto avvicinandosi al 3%. Si deve altresì rilevare che in tempi recenti, in particolare tra il 2012 e 2018, la statistica ha subito un brusco incremento soprattutto a causa dell’uccisione di 311 fedeli sufi all’interno di una moschea nel 2017. Complessivamente le aggressioni terroristiche a beni privati sarebbero invece il 24%, agli obiettivi militari il 15,4%, a pertinenze di polizia il 13,5%, a siti governativi o istituzionali l’11,4%. Questi dati si riferiscono a modelli globali, e quindi si discostano dalle varianti regionali di cui sono una media. Va anche considerato che alcune ostilità contro obiettivi musulmani sono stati commessi da frange islamiste violente. Pur non ridimensionando la gravità dei delitti perpetrati per motivi confessionali, dalle articolate statistiche elaborate dal predetto osservatorio universitario statunitense emerge uno scenario che sembra contraddire che  la violenza terroristica di questo inizio secolo sia il corollario di una guerra di religione, in particolare fra l’occidente cristiano e fondamenta. RR

ATTENTATI NELLO SRI LANKA: ALCUNE RIFLESSIONI (Su L’Azione del 3.5.2019)
Dopo i gravissimi attentati contro la comunità cristiana nel giorno di Pasqua nello Sri Lanka, si è riacceso il dibattito fra chi ritiene che sia in atto una guerra globale fra religioni - in particolare fra Islam e Cristianesimo - e chi invece minimizza le matrici confessionali. È stato evidenziato che la vita ordinaria a Ceylon è caratterizzata da una tradizionale pacifica convivenza fra le diverse comunità (buddhista, indù, cattolica, etc.,). I fatti sembrano indicare il contrario. L’agenzia missionaria Open Doors colloca lo Sri Lanka fra i Paesi asiatici nei quali si consumano le maggiori ostilità nei confronti dei cristiani; questo atteggiamento ha avuto come punta avanzata l’opposizione delle autorità governative cingalesi (di fede buddhista) nel 2015 alla visita di Papa Francesco, che aveva il fine di chiedere perdono per le atrocità commesse dalle potenze coloniali. Circa la matrice degli attentati, anche se non si deve minimizzare la rivendicazione islamista, non è ragionevole identificare un’intera religione con le iniziative di un gruppo di criminali fondamentalisti. Sullo sfondo emerge la difficoltà di parlare di Islam al singolare. In realtà ci sono ‘tanti Islam’. L’Islam infatti non è una monade dai tratti definiti. Manca un’autorità capace di esprimere una posizione ufficiale su ogni questione e convivono in questo cosmo tante confessioni che assumono posizioni anche divergenti. L’Islam è anche un’ideologia in quanto si pone come scopo finale la radicale trasformazione delle istituzioni politiche in senso confessionale perseguendo come progetto l’instaurazione di una teocrazia incompatibile con istanze democratiche. Le derive terroristiche sono una sciagurata scorciatoia per raggiungere questa malintesa finalità. RR

 ….LEGGENDO UN LIBRO……(sulla Giornata del Libro - su L’Azione del 26.4.2019)
Sono tante le ragioni che dimostrano che leggere è importante, e che la lettura migliora la qualità della vita. Leggere innanzitutto è uno strumento di conoscenza, e uno stimolo alla riflessione che consente momenti di prezioso isolamento dai rumori di fondo a cui siamo costantemente esposti. Questo avviene solo quando abbiamo  di fronte un libro cartaceo, perché la lettura su un pc, su uno smartphone o su un tablet al contrario espone a distrazioni, come notifiche di vario genere o altre contestuali sollecitazioni. Poi, il mondo digitale trasmette una arcana necessità di dover fare in fretta, che uccide  gli slanci del pensiero critico. Avere in mano un libro e sfogliarlo rilassa. Nello stesso tempo si acquisisce la consapevolezza dell’esistenza di un’altra realtà, nella quale ci si può perdere per ritrovare se stessi. Il libro con i suoi contenuti comunica un po’ della sua eterna durata insieme all’illusione che per qualche istante  ci si possa sottrarre all’ordinaria condizione di precaria ed effimera temporaneità. Concentrarsi sulla completa comprensione della comunicazione che procede da una pagina scritta fa crescere, aumenta l’elasticità e l’abilità della mente. I messaggi solo verbali rimangono sulla superficie delle relazioni, non possono penetrarne l’intimità. er questo insegnare a leggere e a scrivere è una delle missioni più importanti. Comprendere uno scritto è anche uno strumento che educa all’ascolto. E per costruire una realtà sociale realmente partecipata questo è fondamentale. Inoltre leggendo si arricchisce il proprio vocabolario, e si affinano armi per contrastare la difficoltà di trasmettere le emozioni e le suggestioni che si desidera che siano condivise. Dice un proverbio arabo che un libro è un giardino che ci portiamo con noi in tasca.  RR

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE (su L’Azione del 19.4.2019)
Come è noto il diritto internazionale nella vigenza pratica risente del peso politico dei Paesi nei confronti dei quali si invoca l’applicazione di norme o principi. In proposito è paradigmatico il recente caso della diversa opinione dell’Amministrazione americana nei confronti di due fattispecie dai caratteri a prima vista analoghi. Segnatamente si tratta dell’annessione delle alture del Golan da parte di Israele e dell’acquisizione della Crimea da parte della Russia. Il Segretario di Stato Mike Pompeo, sentito sulla questione nel corso di un’audizione di fronte al Senato americano, ha affermato che secondo (non meglio precisati) principi di diritto internazionale, il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan - conquistate da Israele ai danni della Siria nel 1967 durante la Guerra dei 6 Giorni - non avrebbe nulla in comune con l'annessione della Crimea da parte della Russia. Israele avrebbe ottenuto le Alture del Golan legittimamente perché si sarebbe limitato a difendersi anche  attraverso l’acquisizione del territorio conquistato. Diversamente la Russia non era in una posizione difensiva: in un momento favorevole avrebbe deciso di strappare illegittimamente un territorio ad uno Stato che non la minacciava. In relazione a questo caso e a situazioni simili, senza entrare nel merito delle singole questioni, ci si potrebbe chiedere se il diritto internazionale da un punto di vista pratico esista realmente. Non si ritiene di poter negare la vigenza di patti, di trattati, di accordi. Si vuole semplicemente affermare che spesso nella pratica l’unico diritto che viene tutelato è quello affermato o millantato dallo Stato più forte.  RR 

FLUSSI MIGRATORI E CONVIVENZA INTERCULTURALE (su L’Azione del 12.4,2019)
In uno dei suoi ultimi libri  (“Stranieri alle porte”, 2016) il sociologo Zygmunt Bauman (1925 – 2017), uno dei più autorevoli interpreti dei nostri tempi, sottolinea  l’inquietudine dei Paesi europei in relazione alle questioni connesse ai flussi migratori, auspicando un approccio ispirato ad un dialogo in grado di superare  diffidenze. L’enorme numero di rifugiati e richiedenti asilo è un corollario della violenza di alcuni scenari di guerra, che ha spinto decine di migliaia di persone ad abbandonare le proprie case aggiungendosi al flusso dei migranti economici, cioè di coloro che continuano a muoversi spinti dal desiderio di una vita migliore. Questi fenomeni, anziché costituire oggetto di una problematica da affrontare globalmente considerando l’umanità unitariamente, hanno creato in occidente una profonda frattura che ne insidia la stabilità. La demagogia politica, infatti, rigidamente polarizzata su principi simmetricamente opposti, ovvero quello dell’accoglienza generalizzata e quello del respingimento indiscriminato, strumentalizza le possibili derive conseguenti ai due atteggiamenti, rendendo difficili approcci costruttivi che possano conciliare i principi di civile solidarietà con i problemi strutturali indotti del  sovraffollamento e della criminalità.  Al contrario, la convivenza interculturale richiede continue negoziazioni ed un’opera di mediazione fra i vari gruppi etnici, al fine di evitare i conflitti fra le diverse identità. I mutamenti delle condizioni di vita e i costi sociali non dovrebbero essere tali da alimentare contrapposizioni fra i cittadini del Paese ospitante e i nuovi arrivati. Solo tenendo presenti questi presupposti e rinunciando ad alimentare l’enfasi populista di un facile buonismo o all’opposto quella ad effetto di un’inconsistente intransigenza, le questioni connesse alla convivenza multirazziale, seppur non risolte, potranno essere affrontate seriamente. L’integrazione è un dovere civile, ma ha senso qualora sia reale e non si esaurisca in affermazioni di facciata da spendere per fini politici o scopi elettorali. RR

INTERNET È ALLA VIGILIA DI UN CAMBIAMENTO EPOCALE? (su L’Azione del 5.4.2019)
Internet potrebbe essere alla vigilia di un cambiamento epocale in materia di libertà di pubblicazione online. Il Parlamento Europeo ha approvato (348 favorevoli, 274 contrari) una direttiva che propone di apportare modifiche rilevanti alle norme vigenti sul diritto d’autore.  In particolare si persegue l’obiettivo di impedire che vengano illegalmente caricati contenuti sulle maggiori piattaforme digitali, che saranno responsabili per i contenuti in questione. Questo in concreto si tradurrà in un pesante onere per alcuni dei servizi più popolari (presumibilmente YouTube, Facebook e Google News). Un altro nodo problematico della direttiva è la previsione che obbliga le piattaforme che pubblicano i cosiddetti ‘snippet’ – cioè frammenti di contenuti (di solito notizie) a cui sono associati ‘link’ di approfondimento - a munirsi preventivamente di una licenza rilasciata dal detentore dei diritti sui contenuti stessi. In virtù di questo disposto il detentore potrebbe infatti pretendere un compenso. Quanto previsto, oltre a rendere più gravosa la pubblicazione di notizie, potrebbe in concreto penalizzare la visibilità dei siti di informazione, poiché servizi come Google o Facebook potrebbero decidere di non pagare il compenso in determinati casi, rinunciando alla pubblicazione.  I Paesi membri hanno due anni per implementare questa direttiva, i cui effetti potrebbero andare oltre i confini europei, data la natura transnazionale del Web e la necessità per le aziende di settore di elaborare politiche globali. La direttiva è valutata negativamente dai sostenitori della libera espressione attraverso l’esercizio dei diritti digitali. RR

IL RAPPORTO ANNUALE SULLA FELICITA’: I PAESI AFRICANI AGLI ULTIMI POSTI (su L’Azione del 29.3.2019)
Anche quest’anno l’Onu in occasione della Giornata Internazionale della felicità (20 marzo) ha pubblicato l’annuale Rapporto Mondiale sulla Felicità.  La classifica è stata redatta chiedendo ai cittadini di 156 Paesi quanto si ritenessero felici. Il dato è stato poi integrato con quelli relativi all’aspettativa di vita, al reddito e all’assistenza sociale. Secondo il Rapporto i Paesi nei quali è più elevata la qualità della vita sono quelli del Nord Europa, segnatamente la Finlandia, seguita dalla Norvegia, dalla Danimarca, dall’Islanda, dalla Svizzera e dai Paesi Bassi. Il primo Paese extraeuropeo classificato è il Canada, seguito dalla Nuova Zelanda. L’Italia è solo quarantasettesima. Agli ultimi posti risultano i Paesi africani. È il Sud Sudan il Paese meno felice. Secondo l’Onu, il 60% dei suoi cittadini vive in condizioni difficili a causa della povertà diffusa e della sanguinosa guerra civile. Il Sud Sudan condivide le ultime posizioni della classifica con la Repubblica Centrafricana: le condizioni di vita dei suoi abitanti sono compromesse da un lungo conflitto civile, da instabilità politica e da una diffusa e capillare violenza. Il rapporto precisa che in generale la felicità mondiale è comunque diminuita negli ultimi anni, mentre aumentano, soprattutto in Asia e Africa, sentimenti negativi come preoccupazione, tristezza e rabbia. In Africa, la nazione più felice è Mauritius, un arcipelago che ha una buona crescita economia e una discreta stabilità politica. L’Onu, nell’elaborare questo rapporto annuale, sembra manifestare la stessa sensibilità delle autorità del Buthan, il primo Paese al mondo che considera fra i principali obiettivi di governo la ricerca della felicità dei propri abitanti. RR

CINA ED EUROPA (su L’Azione del 22.3.2019)
La necessità di elaborare una posizione comune nei confronti della Cina costituisce in questo particolare momento un banco di prova per l’Unione Europea.  Poter operare in contesti internazionali come un unico ente politico - ovvero adottando soluzioni condivise da tutti gli Stati Membri - è sempre stata la maggiore aspirazione comunitaria. Al contrario, di fronte alla rapida ascesa della potenza cinese, alla destabilizzazione dei mercati finanziari, alle tensioni non sempre latenti fra Cina e Stati Uniti, i Paesi europei finora si sono limitati ad intraprendere iniziative individuali (ovvero che potessero giovare solo ai propri interessi nazionali), favorendo così le aspettative globali di Pechino e confermando la difficoltà europea di elaborare comuni politiche in ambito internazionale. In proposito, è nota la contrarietà della Francia - che avrà prossimamente accordi bilaterali con i vertici cinesi - per l’accordo italiano sulle ‘nuove vie della seta’.  La Commissione Europea, al fine di fissare i presupposti per una politica unitaria, il 12 marzo u.s. ha pubblicato una lista di dieci proposte in merito ai rapporti tra l’Unione Europea e la Cina. Questo documento sarà discusso prossimamente dai Capi di Stato e di Governo. L’iniziativa della Commissione, anche se non risolverà le conflittualità e le contraddizioni fra le principali economie europee, può essere considerata positivamente, in quanto manifesta l’intenzione dell’esecutivo comunitario di riappropriarsi di una leadership nell’elaborazione di politiche comuni, negli ultimi tempi sacrificata a vantaggio di un atteggiamento sterile e remissivo di fronte alle pretese sovraniste degli Stati Membri. RR

È ovviamente oggetto di acceso dibattito la riforma della scriminante della legittima difesa. In effetti l’istituto negli ultimi anni non si era dimostrato adeguato alle esigenze di tutela sociale e, segnatamente, alla funzione di consentire a chi subiva un’aggressione di potersi legittimamente difendere. La questione giuridica è molto tecnica, e quindi le valutazioni non dovrebbero subire le suggestioni e i condizionamenti suggeriti dai propri orientamenti politici. La norma nella formulazione prevista dal Codice Penale, a garanzia di eccessi, precisava stretti limiti entro i quali doveva essere contenuta la reazione di chi subiva l’attacco ad un proprio bene. Tuttavia, a fronte di una grave recrudescenza della criminalità, i parametri che circoscrivevano la legittimità della reazione si sono dimostrati inadeguati, perché spesso in concreto hanno penalizzato l’aggredito. In proposito il punto più controverso riguardava la proporzionalità fra offesa e difesa (“Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa.” - Art.52 C. P.). A prescindere dalle preziose e profonde considerazioni svolte in questi anni dalla ‘Dottrina’ sul requisito della proporzionalità, il problema è soprattutto pratico: chi subisce un’aggressione reagisce e si difende con i mezzi che ha a disposizione. Un esempio concreto: chi si ritrova in casa un ladro è plausibile che faccia uso di un’arma se ne dispone, mentre sarebbe penalizzante – se non assurdo – che l’aggredito, prima di reagire, valuti fin dove la sua reazione sia legittima. Peraltro sembra un implicito principio di giustizia che chi aggredisce un bene altrui si esponga alla reazione della vittima; l’aggressore inoltre non dovrebbe contare sul principio che impone alla vittima di contenere la sua reazione. La riforma ‘ha semplificato’ la questione abolendo la proporzionalità. Segnatamente il comma 2 dell’art.52 C. P.  nella nuova formulazione prevede la possibilità di utilizzare un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo per la difesa della propria o altrui incolumità, o dei beni propri o altrui. Così la legittimità della difesa sarà sempre presunta, ovvero sarà sempre ritenuto sussistente il rapporto di proporzionalità tra offesa e difesa. È ugualmente sempre legittima la difesa di colui il quale, trovandosi legittimamente nel proprio o altrui domicilio, agisca per respingere un'intrusione posta in essere con violenza o minaccia. Ogni istituto giuridico si colora di contenuti al momento della sua applicazione; la giurisprudenza potrà fornire elementi per eventuali future precisazioni in sede normativa. L’abolizione della proporzionalità va coordinata con altri contenuti della riforma riguardanti soprattutto il mantenimento e le precisazioni in tema di eccesso colposo, di cui si dirà. RR

L’ATTUALE LEADERSHIP POLITICA DEL BRASILE (su L’Azione dell’8.3.2019)
Negli ultimi anni tutti i Paesi dell’America Latina hanno vissuto una recessione economica, o, nei casi migliori, una crescita lenta, mentre la società civile, indipendentemente dall’ideologia o dal partito al potere, era penalizzata da una sistematica corruzione, da una insufficiente sicurezza interna, da un precario ordine pubblico, da una gestione poco democratica e illiberale dei pubblici poteri. Queste patologie hanno riguardato anche il Brasile, massima potenza regionale, emergente a livello internazionale. Anche il Brasile ha subito una stagnazione economica, mentre la vita pubblica è stata gravemente colpita dagli scandali che hanno coinvolto gli ex presidenti di sinistra Lula Da Silva e Dilma Roussef.  Questa situazione ha favorito l’ascesa del leader politico di destra Jair Messias Bolsonaro, Presidente dal I gennaio 2019. Bolsonaro si ispira a valori cristiani interpretati in maniera estremamente conservatrice e tradizionale, ed è ritenuto espressione del movimento politico trasversale ‘Alt Right’.  Il movimento ‘Alt Right’, di origine statunitense, in alternativa alla destra tradizionale propone politiche radicalmente orientate al nazionalismo, al protezionismo, all’isolazionismo, all’antisemitismo (o ultra-sionismo, in alcuni casi, in funzione islamofoba), al negazionismo dell'Olocausto e al populismo di destra, opponendosi al femminismo, all'immigrazione, alla società multietnica e multirazziale. Le visioni politiche della compagine governativa, guidata da Bolsonaro, non sono del tutto omogenee al suo interno, e questo è un elemento che può insidiare la stabilità della nuova leadership del Paese. RR

INDIPENDENZA E SOVRANITÀ’ (su L’Azione del 1.3.2019)
Le accese discussioni sul futuro dell’Europa - nelle quali sembra difficile un equilibrato e obiettivo confronto - mi richiamano alla mente un brano di un’omelia del 1981 di Joseph Ratzinger: “La voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. La morale politica consiste nella resistenza alla seduzione delle grandi parole. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale della politica”. In proposito non mi sembra ragionevole l’enfatizzazione che si pone sulla correlazione fra il recupero di una maggiore indipendenza degli Stati dalle politiche economiche dell’Unione Europea e l’accrescimento delle sovranità nazionali. In un mondo fortemente globalizzato, nel quale le speculazioni finanziarie e politiche sono pericolose e imprevedibili, l’Unione Europa e l’appartenenza alla moneta unica costituiscono un antidoto contro gli esiti di un possibile isolamento nel contesto geopolitico internazionale. Sono tuttavia sicuramente necessarie riforme mirate a rendere le istituzioni europee maggiormente adeguate alle esigenze interne di coesione e di equità fra Stati Membri, e a quelle esterne di maggior peso politico; queste riforme devono rafforzare la sovranità nazionale strutturandola come corollario e non antagonista di quella condivisa in sede comunitaria, che consente di unificare gli sforzi governativi verso comuni obiettivi globali. Questa opzione strategica richiede il rafforzamento anziché l’indebolimento degli organismi comunitari. Scriveva Tito Livio: “Contro individui concordi, anche la potenza dei re s'infrange: ma la discordia e la sedizione offrono infiniti vantaggi agli avversari.” RR 

LE TENSIONI GEOPOLITICHE FRA STATI UNITI E RUSSIA (10.2.2019)
Com’è noto, la seconda metà del secolo scorso è stata caratterizzata dalla cosiddetta ‘Guerra Fredda’. L’ordine geopolitico mondiale era strutturato sulla contrapposizione ideologica e militare fra Usa e Urss: i due Paesi avevano la leadership rispettivamente del blocco dei Paesi occidentali e di quello sovietico. La pace mondiale si fondava quindi su un precario equilibrio bipolare, caratterizzato da una condizione permanente di ostilità reciproche. Simbolo di questa separazione era il Muro di Berlino, che divideva la città tedesca in due zone rigidamente sottoposte al controllo delle rispettive autorità dei due Stati nei quali allora era frammentata la Germania. Con la caduta del ‘Muro di Berlino’ nel 1989 e con la conseguente dissoluzione dell’Unione Sovietica, è venuto meno questa bipartizione e gli Usa di fatto sono diventati l'unica potenza egemone. Nel secolo scorso, già prima della caduta del ‘muro di Berlino’, dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Settanta, si era affermata una politica di distensione caratterizzata da una convergenza globale di interessi: sembrava che Usa e Urss avessero intrapreso un convinto dialogo, che poneva le condizioni per la loro coesistenza pacifica attraverso regole di comune gestione nel governo delle crisi internazionali. In quel periodo furono numerosi gli incontri fra i leader sovietici e quelli statunitensi. Più precisamente le due grandi potenze tacitamente accettavano in linea di massima la divisione mondiale in aree di rispettiva influenza. In alcuni casi forzavano questa tacita spartizione di potere intervenendo in conflitti locali; tuttavia evitavano con cura il coinvolgimento in confronti militari diretti. Con il Trattato del luglio 1968 sulla non proliferazione degli armamenti nucleari inoltre erano stati oggetto di prudente considerazione i rischi connessi ad un eventuale guerra atomica. All’inizio di questo nuovo secolo, il XXI, sono emerse tensioni fra gli Stati Uniti e la Federazione Russa che ha raccolto l’eredità politica e militare dell’Unione Sovietica. Un recente fronte si è aperto in Venezuela con il rispettivo sostegno ai due politici rivali: il leader russo Putin sostiene il presidente Nicolas Maduro, mentre Trump supporta l’autoproclamato presidente ‘ad interim’ Juam Guaido. In precedenza un’analoga situazione si era riscontrata in Siria in relazione al possibile cambio di regime. Come in tempi passati le due superpotenze si fronteggiano attraverso ‘proxy war’, ovvero guerre ‘per procura’, nelle quali il loro confronto non è mai diretto ma avviene attraverso figure interposte, come fazioni o poteri locali. Le attuali conflittualità fra Stati Uniti e Russia non sono una riproposizione della guerra fredda del secolo scorso. Allora i contrasti riflettevano anche un’opposta visione ideologica: da una parte i Paesi comunisti, dall’altra il mondo capitalista. Al contrario attualmente non sembrano avere un ruolo determinante né le ideologie, né l’aspirazione ad un ordine mondiale fondato sul primato dello stato di diritto, né strategie fondate su valori. Le guerre e le tensioni internazionali sono esclusivamente il risultato delle valutazioni di capi politici, che, giudicando positivamente interessi egemonici o espansionistici dei propri Paesi, intraprendono iniziative belliche o semplicemente ostili.  Probabilmente all’interno di questa logica deve essere valutata la sottrazione della Crimea all’Ucraina voluta dal presidente Vladimir Putin. Ugualmente prioritaria per la Federazione Russa sembra la creazione di zone cuscinetto per proteggersi dalle possibili minacce di un occidente ostile e ridurre la vulnerabilità del proprio territorio. RR

LA GIORNATA DELLA MEMORIA  (su L'Azione del 1.2.2019)
Conformemente a quanto previsto dalla Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU n. 60/7 del I novembre, domenica 27 gennaio come ogni anno si è celebrata la Giornata della Memoria, una ricorrenza internazionale per ricordare le vittime dell’Olocausto. Inevitabilmente negli anni che verranno il ricordo della Shoah e la sua valenza di monito per l’umanità sono destinati a ridimensionarsi. Tra qualche tempo probabilmente non sarà più in vita nessun testimone sopravvissuto agli orrori dello sterminio nazista, e per le prossime generazioni il genocidio di almeno 6 milioni di ebrei sarà considerato con distacco, sarà solo il racconto di un capitolo della storia umana, remoto e di difficile comprensione, confuso e assimilato alla narrazione di tanti altri accadimenti. Si tratterà di eventi percepiti con l’indifferenza banale con la quale l’uomo presente declina il passato, considerato irripetibile solo perché apparentemente estraneo al progresso della modernità, per definizione immune da errori. Chi sarà animato da curiosità intellettuale potrà conoscere i particolari della Shoah sfogliando i libri di Storia o effettuando una mirata ricerca sul Web. Alcuni avranno dubbi su quanto realmente accaduto. Ma sarà stato veramente così? È possibile? Auschwitz e Birkenau saranno solo nomi difficili di località straniere famose per qualcosa. Cicerone nel De oratore diceva che Historia magistra vitae, la Storia è maestra di vita; più esattamente la frase completa è Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis, cioè la storia in verità è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell'antichità. Nei tempi che verranno, con riferimento all’Olocausto, la Storia rischia pericolosamente di cessare di insegnare qualcosa. Forse tutto questo sta già avvenendo. Forse stiamo già dimenticando. RR

DALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO ALL’ABBATTIMENTO DELLE TORRI GEMELLE (su L’Azione del 25.1.2019)
Nella seconda metà del XX secolo la realtà geopolitica globale era caratterizzata dalla contrapposizione fra il blocco dei Paesi occidentali e quello sovietico.  Simbolo di questa separazione era il Muro di Berlino, che divideva la città tedesca in due zone rigidamente sottoposte alle rispettive autorità dei due Stati nei quali, allora, era frammentata la Germania. Nel 1989 con la cosiddetta ‘caduta del Muro di Berlino’, si disgregò il blocco sovietico. Fino ad allora l’ordine mondiale si era retto sul precario equilibrio bipolare ‘Usa – Urss’. Con la successiva dissoluzione dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti d’America rimasero di fatto l’unica superpotenza. A seguito degli attacchi terroristici culminati nell’abbattimento delle Torri Gemelle avvenuto a New York l’11 settembre 2001, cominciò ad opporsi all’Occidente un’aggregazione fondamentalista di matrice islamista. Questa nuova realtà geopolitica, contrapponendosi al mondo occidentale, di fatto occupò il vuoto lasciato dal crollo dell’Unione Sovietica. Sembrava avverarsi la profezia del politologo Samuel Huntington, che già nel 1996 aveva scritto che le fonti di conflitti negli anni futuri non sarebbero state né ideologiche né economiche, ma si sarebbero generate dalle diverse culture; più precisamente i confini tra le civiltà sarebbero stati i campi nei quali si sarebbero consumate le battaglie del futuro. L’attuale contrapposizione dell’Occidente con il mondo islamico è molto diversa da quella pregressa con il blocco sovietico. L’attuale blocco occidentale e quello dei Paesi islamici sono caratterizzati infatti da profonde contraddizioni interne di natura politica e ideologica, mentre le aree di influenza che nel secolo scorso gravitavano intorno agli Usa e all’Urss erano monadi fortemente coese. RR

L,’ISLAM È SEMPRE POLITICO (su L’Azione del 18 gennaio 2019)
Spesso al termine Islam viene associato l’aggettivo ‘politico’. Questo attributo, salvo che si vogliano enfatizzare aspetti peculiari della religione musulmana, è inutile in quanto non aggiunge, né qualifica o circoscrive la parola a cui si riferisce. L’Islam è ‘politico’, in quanto, prima di essere una religione, è un’ideologia.  La fede religiosa infatti può essere vissuta in due modi: o come rapporto individuale tra l’uomo e il trascendente, o come dimensione afferente la collettività. In questo secondo caso è  uno strumento per l’affermazione di un assetto sociale ispirato a un’etica confessionale. L’adesione a una fede religiosa, anche quando rimane confinata nella sfera individuale, ha spesso una proiezione esterna, in quanto può  chiedere  al fe­dele il proselitismo (l’apostolato per i cristiani), ovvero iniziative finalizzate ad estendere la condivisione della fede. Come corollario nella società civile anche in questo caso si diffondono principi di matrice confessionale (ad esempio, la solidarietà e la fratellanza nel caso del Cristianesimo). Tuttavia in questa ipotesi la trasformazione della società è solo un effetto del proselitismo, non il suo obiettivo principale. Quando invece la fede è vissuta come ideologia, come nel caso dell’Islam, al proselitismo si sostituisce la militanza, cioè l’impegno collettivo dei fedeli per promuovere con ogni mezzo, compreso il ricorso alla violenza, l’instaurazione di un ordine sociale nel quale le leggi civili sono sosti­tuite progressivamente da un ordinamento plasmato sulla legge divina. Anche nei Paesi a maggioranza islamica che cercano con apprezzabile intenzione di percorrere la via della democrazia e della laicità (come la Tunisia), il Corano rimane uno strumento di riferimento  irrinunciabile, in quanto negli ordinamenti di questi Paesi in maniera esplicita o implicita  sono previsti meccanismi istituzionali che in concreto evitano che la vita civile si articoli in maniera contraddittoria o semplicemente autonoma dai principi dell’Islam.    RR

ISLAM E PRESEPE (su L’Azione del 21 dicembre 2018)
In questi giorni si è discusso dell’opportunità di evitare di allestire il Presepe in scuole e luoghi pubblici al fine di non infastidire la sensibilità dei musulmani. In realtà il problema è raramente posto da islamici, mentre gli esponenti delle relative comunità si affrettano a precisare di non sentirsi offesi da questa consuetudine. La questione è spesso sollevata da italiani posseduti dal furore di una malintesa laicità. È vero, le istituzioni devono essere indipendenti da qualsiasi influenza ‘confessionale’. Questo tuttavia non significa che le tradizioni religiose debbano essere vietate, ma che tutti debbano essere messi nella condizione di professare la propria spiritualità entro i limiti del rispetto delle leggi dello Stato. Ad esempio, vietare il burka non significa penalizzare l’Islam, ma dare attuazione ad una norma che vieta il travisamento senza giustificato motivo. Non mi sembra che l’allestimento di un Presepe possa violare la laicità degli spazi pubblici. Il Presepe è più di una manifestazione religiosa. In occidente è diventato un simbolo: con la memoria della Natività si auspica l’avvento di un’umanità rigenerata. Analogamente le nostre case spesso sono rallegrate da un ‘albero di Natale’. L’albero di Natale ha origini pagane (addobbare una pianta era un’usanza nell’Antico Egitto, passata poi ai Greci e adottata infine dai Celti). Ma noi ‘facciamo l’albero’ semplicemente perché è una consuetudine. Restando sul terreno religioso, dobbiamo ricordare che Gesù nell’Islam è considerato un grande profeta, e insieme a Maria, è oggetto di rispetto. Può oltraggiare un musulmano il ricordo della Sua nascita? Molti preferiscono ignorare tutto questo asserendo che un illuminato progresso richieda la cancellazione delle tradizioni culturali e spirituali.
RR

IL DIALOGO INTERRELIGIOSO SEMPRE IN PRIMO PIANO (su L’Azione dell’11.1.2019)
Inizia un nuovo anno e fra i propositi si continua a parlare dell’irreversibilità del dialogo interreligioso, in  particolare di quello islamo-cristiano. Come è stato autorevolmente affermato, siamo condannati al dialogo: l’alternativa è la guerra, che è la conseguenza estrema della deriva fondamentalista che intende imporre una visione che nega spazio alla convivenza. Il presupposto del dialogo è un concreto riconoscimento dell’altro, che si fonda su un impegno di comprensione - che non significa, naturalmente, condivisione - delle qualità (presunte o reali) dell’interlocutore. La conoscenza postula una testimonianza di verità, che richiede uno sforzo di umile determinazione per individuare nell’altro un depositario di valori spirituali, storici e culturali su cui riflettere  obiettivamente, ovvero evitando che subiscano una marginalizzazione o una penalizzazione a causa di pregiudizi o di un’endemica preconcetta banalizzazione. In questo processo la propria eventuale Fede e l’obiettività della Ragione devono sostenere  un impegno a promuovere lo studio teologico aggiornato delle confessioni religiose, dei loro tratti comuni e delle loro divergenze, allo scopo di formare chiare e illuminate identità, idonee ad un dialogo costruttivo. Complementare a questo processo è l’educazione al rispetto della vita altrui, della sua innata dignità e dei diritti inalienabili e inviolabili come la libertà di coscienza e quella in materia spirituale. E’ necessario anche evitare le suggestioni del nostro etnocentrismo, considerando costantemente, come è stato acutamente scritto, che “…ritenere di non avere pregiudizi è il più comune dei pregiudizi….” (Nicolas Gomez Davila).   RR

AFRICA: ASSISTENZIALISMO O PROGETTI DI SVILUPPO? (su L’Azione del 14.12.2018)
L’attività degli enti che lavorano nell’ambito della cooperazione per lo sviluppo dei Paesi poveri ha sempre oscillato fra l’approccio assistenzialista  e quello che afferma la necessità di investimenti atti a favorire politiche di sviluppo. Le due esigenze - entrambe fondamentali in quanto quella assistenziale contrasta la povertà mentre l’altra promuove iniziative per il progresso economico - possono essere armonizzate mediante i progetti di ‘business sociale sostenibile’, ovvero promuovendo attività che, dopo essere state avviate dalle organizzazioni non governative, possono essere gestite dalla popolazione locale. Le risorse in questo modo restano sul territorio; inoltre gli ‘autoctoni’ cessano la loro dipendenza, cioè smettono di essere solo mano d’opera al servizio di ‘padroni’ stranieri; così vengono responsabilizzati. Pertanto il ‘social business’ indica un tipo di impresa che ha come obiettivo la massimizzazione delle finalità sociali del prodotto; in questo contesto il primo vincolo è l’autosufficienza economica, organizzativa e amministrativa. In termini concreti il vantaggio sociale prende il posto della massimizzazione del profitto. Queste attività, che creano un lavoro dignitoso ‘in loco’, possono avere come primo effetto la permanenza di quei giovani che sarebbero disposti ad affrontare un viaggio rischioso che in media dura due anni verso l’Occidente, o anche il ritorno degli espatriati. Un singolare esempio di questo approccio innovativo è l’app. ‘Farmerline’ che offre informazioni su tablet e smartphone ai contadini sul meteo, come sviluppare nuove tecniche produttive e come commercializzare i prodotti.  RR

GERUSALEMME AL CENTRO DEL CONFLITTO FRA EBREI E PALESTINESI (su L’Azione del 30.11.2018
Il 29 novembre si celebra la Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese. Il pensiero corre a Gerusalemme, che sta vivendo tempi difficili. Gerusalemme è la capitale più emozionante e più carica di significati culturali, storici, e spirituali che ho avuto il privilegio di conoscere. Era il 1991 e provenivo da Amman, da un Paese, la Giordania, che in quel periodo era in guerra con Israele. Attraversato il confine ad Allenby Bridge, allora fronte bellico, dopo le tensioni del  viaggio, giunto a Gerusalemme, mi trovai immerso in un’oasi di pace e di serenità, e al  centro di una memoria evocativa che al mio sguardo riprendeva improvvisamente vita. Potevo passeggiare liberamente e anche di sera dal Muro del Pianto al Santo Sepolcro, e da qui alla Spianata delle Moschee. C’era ancora l’atmosfera della gestione illuminata del sindaco Theodor Kollek, che nel 1976 ordinò di rimuovere una barriera di pietra che divideva la città; Teddy Kollek, apprezzato anche dalla comunità palestinese, amava dire che Gerusalemme è migliore unita piuttosto che divisa. Quel periodo è lontano. Dopo pochi mesi dal mio soggiorno venne commesso un grave attentato al mercato della città vecchia, dove io passavo quotidianamente soffermandomi. Per Gerusalemme, fino ad allora protetta dalla sua sacralità simbolica, iniziò una sovraesposizione segnata da un’escalation di violenze. Forse la centralità geopolitica del conflitto fra ebrei e palestinesi è la causa delle difficoltà a trovare una soluzione pragmatica. L’attenzione mondiale ha infatti trasformato questo scontro in una contrapposizione simbolica ed identitaria.  RR

ASIA BIBI E LA LEGGE SULLA BLASFEMIA (su L’Azione del 16 novembre 2018)
Nonostante le pressioni di gruppi islamisti, Asia Bibi, la contadina pakistana di fede cristiana condannata a morte per blasfemia nel 2010, è stata graziata e rilasciata dalla Corte Suprema del Pakistan. Il Presidente della Corte, rassicurato dall’appoggio del Primo Ministro, non si è fatto condizionare dal leader del partito fondamentalista di matrice sunnita Tehreek-e-Labbaik, che aveva minacciato disordini in caso di sua scarcerazione. In Pakistan, per penalizzare la minoranza cristiana, che conta cinque milioni di fedeli costretti a vivere ai margini della società, si ricorre ad una iniqua applicazione della legge sulla blasfemia, introdotta nel corso del processo di islamizzazione imposto dal regime del Generale Zia ul Huaq  (al potere dal 1977 al 1988). In molti Paesi islamici sono vigenti norme che puniscono la blasfemia, sanzionata con la pena di morte non solo in Pakistan, ma anche in Afghanistan, in Iran, in Nigeria, in Arabia Saudita e in Somalia. Il concetto di blasfemia nel mondo islamico è ampio: per consumare il reato non è necessaria un’espressione ingiuriosa o un’imprecazione, ma è sufficiente una manifestazione di libero pensiero. In Pakistan il reato di blasfemia è previsto dal codice penale. La fattispecie può essere facilmente strumentalizzabile; è arbitrariamente applicata anche per risolvere questioni personali, dal momento che l’onere della prova non compete all’accusatore ma all’accusato, che, per non essere condannato, deve dimostrare l’insussistenza del fatto. Asia Bibi è stata accusata di aver criticato Maometto. Si deve positivamente constatare che alla felice conclusione della sua  vicenda ha contribuito una mobilitazione internazionale che si è concretizzata in convinte pressioni politiche e mediatiche.      RR

CRIMINI INFORMATICI, SE LA SCIENZA PREVBALE SULLA POLITICA (su L’Azione del 9.11.2018)
L’edizione annuale che si è svolta di recente a Roma di CyberTech 2018, il più importante evento europeo sulle innovazioni tecnologiche informatiche, ha riacceso i riflettori sulla rilevanza della partnership sinergica fra aziende private e autorità istituzionali e governative sui temi della cybersicurezza, del cyberwar, del cyberspace. Le problematiche di sicurezza informatica sono molto più ampie di quelle della sicurezza tradizionale. Nel 2017 ci sono stati 1127 attacchi gravi, prevalentemente rivolti verso target economici e statali, che hanno determinato una spesa totale in investimenti per il contrasto e la prevenzione del cybercrime superiore a 100 miliardi di dollari. Le minacce informatiche hanno un impatto crescente su un numero sempre più alto di dispositivi. La lotta al cybercrime richiede una piattaforma nella quale tutti gli attori si possano confrontare. In questo contesto la protezione del dominio informatico è un aspetto fondamentale per garantire l’incolumità delle infrastrutture della pubblica amministrazione, delle imprese e dei cittadino. Sono oggi le premesse su cui si radica la crescita economica di un Paese: il cyberspazio e la cybersecurity hanno una rilevanza strategica per assicurare il massimo livello di affidabilità del villaggio globale. Con l’evento CyberTech 2018 si è cercato di sensibilizzare persone ed enti sulla necessità di un approccio congiunto per elaborare strategie di sviluppo comuni.  Forse la scienza e la tecnologia consentono quella cooperazione multietnica che la politica oggi non appare più in grado di assicurare. RR

LA SITUAZIONE DEI CRISTIANI IN CINA (Su L’Azione del 26 ottobre 2018)
In ambito geopolitico il potere e il prestigio della Repubblica Popolare Cinese sono in costante ascesa. Purtroppo nel Paese non ci sono stati analoghi progressi nel rispetto dei diritti di libertà, soprattutto di quelli in materia religiosa. Sono numerose e pressanti le limitazioni e i controlli prescritti a livello amministrativo nei confronti dei cristiani; queste iniziative di fatto configurano una vera e propria latente persecuzione. Ad esempio, recentemente è stata disposta la rimozione delle croci dagli edifici adibiti a luoghi di culto e ordinata la demolizione di chiese ritenute troppo grandi. Bob Fu, il pastore cino-americano fondatore e presidente dell’associazione China-Aid - che promuove la libertà religiosa e fornisce assistenza legale ai Cristiani in Cina -  afferma che queste iniziative normative del governo sono parte di una strategia per ridurre la presenza religiosa. Tuttavia ottimisticamente Bob Fu precisa che le persecuzioni dei Cristiani, da quelle in epoca romana a quelle disposte da Stalin e Mao, hanno sempre sortito l’effetto contrario, cioè hanno rafforzato la fede radicata nelle coscienze individuali. Come saggiamente notò una scrittrice olandese alla vigilia del secondo conflitto mondiale (Etty Hillesum, 1913-1943), il dolore della persecuzione (in quel caso nei confronti degli Ebrei) allarga i nostri orizzonti e ci rende più umani liberandoci dalle piccolezze e dagli orpelli inutili della vita terrena. Se avviene questo, le persecuzioni possono aver un amaro e paradossale risvolto positivo. RR

I CRISTIANI IN MEDIO ORIENTE (su L’Azione del 19.10.2018) 
I Cristiani stanno progressivamente riducendo la loro presenza in Medio Oriente, nonostante le loro profonde radici. Alla fine della Prima Guerra Mondiale essi erano il 20% della popolazione. Oggi sono soltanto il 4-5%.  Le cause di questa flessione sono i bassi tassi di natalità e l’emigrazione provocata dalle persecuzioni religiose. La confessione maggiormente diffusa nella regione è quella dei Cristiani Copti, che in Egitto è il 10% della popolazione. Hanno scarsissima rilevanza politica e sono stati spesso oggetto di violenze. In Iraq i Cristiani di confessione caldea prima della caduta di Saddam Hussein erano un milione e mezzo; oggi sono meno di 500.000. Molti sono fuggiti a seguito dei disordini che si sono scatenati dopo la morte del dittatore iracheno. In Siria i cristiani cercano di sopravvivere al conflitto mantenendo una posizione neutrale pur temendo l’ascesa dei gruppi jihadisti. Le chiese vengono danneggiate, mentre i fedeli sono destinatari di soprusi e violenze. I cristiani libanesi sono prevalentemente di confessione maronita che dopo quella copta è la seconda comunità di Cristiani in Medio Oriente. Statistiche ufficiose affermano che essi sono circa il 35% della popolazione. Esiste nel Paese un accordo fra Cristiani, Musulmani Sunniti e Musulmani Sciiti per un’equa condivisione delle cariche istituzionali. In Giordania il 6% della popolazione è di professione cattolica e greco ortodossa. Membri della comunità cristiana siedono in Parlamento e ricoprono cariche istituzionali. In Israele i Cristiani, soprattutto di etnia araba, sono circa 160.000, ovvero il 2% degli israeliani. Nella striscia di Gaza i Cristiani, in maggioranza greco-ortodossi, sono in costante declino da quando Hamas ha preso il potere nel 2007. RR 

IL SALAFISMO IN EUROPA (su L’Azione del 5 ottobre 2018)
Nella deriva fondamentalista e antioccidentale di al­cuni Stati arabi ha avuto un notevole influsso il movi­mento  sunnita di orientamento salafita, che promuove un ritorno all’Islam delle origini e il rifiuto di qualsiasi modernità. Questa istanza antimodernista è emersa nel mondo arabo soprattutto nei momenti di crisi ideologica. Secondo il Salafismo il buon governo è l’ade­guamento della prassi politica e giuridica ai fondamentali principi della Sharia, che deve re­golare ogni comportamento umano. Viene manifestata una radicale ostilità nei confronti di quei governi che si allontanano dalla via tracciata dal Corano: non c’è spazio per forme democra­tiche di tipo occidentale. Questo atteg­giamento è stato recepito nelle frange estreme degli am­bienti fondamentalisti che hanno ritenuto così di avere un conforto religioso nella pianificazione di azioni violente. I Salafiti in Europa sono una presenza in crescita, o, in ogni caso, particolarmente visibile, dal momento che manifestano in maniera palese la volontà di isolarsi da una società di cui disprezzano i principi etici. I Salafiti europei a fini di proselitismo hanno sviluppato iniziative per accogliere rifugiati e migranti economici musulmani che raggiungono l’Europa. Nei Paesi europei la presenza salafita è correlata alla dimensione della comunità musulmana nazionale. Quindi le più numerose presenze salafite si riscontrano in Francia, mentre in Belgio, nei Paesi Bassi, in Spagna e in Germania questo orientamento religioso musulmano ha avuto recentemente un sensibile incremento. Nel Regno Unito le correnti fondamentaliste islamiche non sono legate al Salafismo, ma a movimenti estremisti pakistani e indiani. RR

NESTLE’ E WATERGRABBING (su L’Azione del 28.9.2018)
L’acqua ha un valore di primaria importanza. Nella storia umana è stata spesso una risorsa contestata alla base di guerre e conflitti locali. È sorta la questione se si debba  privatizzare la sua ordinaria fornitura. In proposito, alcune ONG ritengono che l’acqua debba essere un diritto pubblico, ovvero ogni essere umano dovrebbe avere un potere di libero accesso ad essa. L'altro punto di vista ritiene che l'acqua sia un alimento come gli altri e che, come ogni prodotto, dovrebbe avere un valore di mercatoIn virtù di questo secondo punto di vista sono in atto tentativi per appropriarsi e convertire le risorse idriche in beni privati, al fine di trasformarle a livello globale in uno strumento fonte di accumulo di capitali. Recentemente è circolato in Rete un video nel quale Peter Brabeck, attualmente Presidente onorario della Nestlè, una delle più grandi aziende di prodotti alimentari del mondo, nel corso di un’intervista avrebbe affermato che l’acqua non è un diritto dell’uomo, ma un bene da privatizzare e gestire attraverso le industrie multinazionali. Questa affermazione trarrebbe fondamento dalla considerazione che quello che ci fornisce la natura talvolta non è sotto il pieno controllo dell’uomo, e questo giustificherebbe un’appropriazione privatistica al fine di una ‘gestione responsabile’che ne migliori l’accesso. Secondo questa prospettiva l’acqua dovrebbe cessare di essere un bene liberamente disponibile.  La Nestlé ha tuttavia ribadito di ritenere che l'accesso all'acqua sia un diritto fondamentale dell’uomo, e che l’intervista in questione sarebbe stata estrapolata da un documentario, e, presa fuori contesto, sarebbe stata all’origine di fraintendimenti. Se diamo credito a questo trend, il prossimo passo potrebbe essere il tentativo della privatizzazione dell’aria che respiriamo. RR

SERVE UNA POLIZIA DI FRONTIERA EUROPEA? (su L’Azione del 14.9.2018)
Per fronteggiare l’emergenza ‘migranti’ o forse solo per temporeggiare e tamponare il senso di incapacità nel formulare proposte credibili, sembra che la Commissione Europea abbia l’intenzione di lanciare l’idea di istituire una polizia europea di frontiera, che dovrebbe avere un organico di almeno 10.000 uomini, con non meglio definiti compiti di sorveglianza e possibilità di supportare operazioni di rimpatrio. L’iniziativa avrebbe anche il malcelato fine di sanare la frattura fra i Paesi maggiormente esposti all’emergenza che richiedono una più puntuale solidarietà e un’equa ripartizione di oneri, e quelli che manifestano istanze egoistiche opponendosi aprioristicamente a partecipare a qualsiasi progetto comune. Questa proposta è il topolino che avrebbe partorito la montagna a tre mesi dal Consiglio europeo di giugno ed in vista del vertice dei Capi di Stato e di Governo a Salisburgo. Presumibilmente la guardia europea dei confini dovrebbe essere il braccio operativo di Frontex; l’agenzia UE così si trasformerebbe in un vero e proprio corpo di polizia di frontiera. Di fatto si tratterebbe di ‘comunitarizzare’ l’attività di polizia, sebbene limitatamente al controllo dell'immigrazione. L’idea non è nuova, né sbagliata. Si è parlato spesso infatti di istituire una polizia europea. Tuttavia esistono al momento delle difficoltà ordinamentali: la creazione di un corpo di polizia europeo comporta limitazioni alle sovranità nazionali incompatibili con il contenuto dei Trattati UE. Naturalmente tutto si può fare se esiste una comune e ferma volontà politica dei Paesi Membri. Alla luce di questa ultima considerazione e prendendo atto delle divisioni, questa proposta è pura demagogia. RR

I RECENTI AIUTI DELL’UNIONE EUROPEA ALLA SPAGNA (13.8.2018)
Recentemente l’Unione Europea ha sbloccato 55 milioni di euro in aiuti per gestire l'emergenza migratoria per la Spagna che da gennaio ad oggi ha avuto più sbarchi di Italia e Grecia, dimenticando che i 21mila migranti arrivati nella penisola iberica nei primi sei mesi dell'anno non sono neanche un quarto dei più di 95 mila sbarchi registrati in Italia nel primo semestre del 2016 e in quello del 2017. La determinazione di per sé giusta di supportare la Spagna in concreto si traduce nell'applicazione di un diverso metro di valutazione nei confronti di una medesima emergenza. Purtroppo la scelta comunitaria ha l’apparenza di una provocazione nei confronti dell’Italia che tanto ha fatto in questi anni in materia di accoglienza, ricevendo aiuti insignificanti. Viene il sospetto che questo provvedimento sia strumentale alla realizzazione di un malcelato disegno. L’esecutivo dell’Unione Europea in questi ultimi tempi ha perso prestigio e spessore. Forse la Commissione Europea vuole riacquistare potere penalizzando gli Stati che sono meno disponibili a subire passivamente alcune discutibili opzioni economiche e politiche, e l’anarchia comunitaria in materia di politica estera. Con l’uscita dei Paesi che costituiscono un ostacolo svolgendo  una critica alla politica da ‘gendarme interno’, la Commissione Europea può ripristinare il suo potere fondato sui privilegi su cui si struttura la leadership tedesca e sulla connivente compiacenza di molti Paesi dell’asse nordeuropeo. Si auspica che questa ipotesi sia solo fanta-geopolitica. RR

AFRICA E MIGRANTI (su L’Azione del 27.8.2018)
Quando si valutano globalmente gli effetti dei flussi migratori non si considera che spesso emigrano dal continente africano ragazzi e ragazze che sono ‘la meglio gioventù’, ovvero quelle forze sulle quali il continente africano dovrebbe investire. Questi giovani, che spesso provengono dalla regione del Sahel (cioè dalla fascia sub-sahariana), per raggiungere l’Europa devono affrontare un viaggio complicato e costoso, che richiede disponibilità economica e capacità organizzative. Non è raro che le famiglie investano risparmi e vendano piccole attività per consentire a familiari di intraprendere questa avventura, incoraggiata dal passaparola dei trafficanti, che alimentano il mito di un’Europa opulenta e in grado di garantire un’esistenza meno problematica. In questo modo l’Africa – che ha straordinarie potenzialità e ricchezze – si priva delle sue forse migliori e si avvia verso una lenta agonia. Dalle storie dei migranti economici, che hanno percorso queste rotte disgraziate, emerge che essi prevalentemente non sono disperati che fuggono da carestie, ma sono appartenenti alla classe media, ovvero a quel ceto che può permettersi questa costosa opportunità. Questi giovani anziché costruirsi un futuro nel proprio Paese, vogliono sottrarsi a prospettive condizionate da regimi spietati, corrotti e autoritari, sostenuti dagli interessi delle multinazionali. Le istituzioni dei Paesi africani dovrebbero promuovere una corretta informazione che, oltre a far conoscere i pericoli delle traversate, contrasti le false illusioni e incoraggi i giovani a rimanere. Alcuni Stati come il Senegal, il Mali, il Camerun già lo fanno. RR

IL RECENTE VERTICE EUROPEO SULL’IMMIGRAZIONE (su L’Azione del 20 luglio 2018)
Fino a qualche decennio fa la condizione di povertà e sottosviluppo di quello che veniva definito con un aristocratico distacco il ‘Terzo Mondo’ come se si trattasse di un universo a sé stante, non creava problemi identitari negli europei, in quanto non poteva mettere in crisi la coerenza con i valori umanitari professati dalla spiritualità giudaico - cristiana o da quella laico - illuminista.  L’Africa infatti era un cosmo lontano, sia fisicamente che culturalmente: le differenti condizioni di vita, il benessere dell’occidente contrapposto alla sofferenza di una quotidiana lotta per la sopravvivenza era accettato fatalisticamente, come se fosse una ineludibile conseguenza del carattere aleatorio dei destini umani. Le migrazioni alimentate dal miraggio di un occidente ricco e privo di  problemi hanno creato un corto circuito fra queste due realtà un tempo distanti. Peraltro l’arrivo in Europa di migranti, prevalentemente islamici, si è collocato in un contesto già sofferente per le gravi difficoltà economiche, il degrado sociale, la liquidità politica. In proposito il 28 giugno si è tenuto un vertice dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi UE sull’immigrazione. Come era ampiamente previsto i risultati del summit sono stati deludenti. In generale  le riunioni dei vertici politici dei Paesi UE si concludono solo con dichiarazioni di principio, che nei tavoli tecnici vengono tradotte in soluzioni pratiche, successivamente esaminate ed eventualmente approvate dal Consiglio dei Ministri UE competente. Nel vertice, oltre alle affermazioni che ribadiscono la necessità di un approccio globale - nel quale devono avere un ruolo centrale un coordinato controllo delle frontiere esterne, il rafforzamento di Frontex, gli accordi di cooperazione con i Paesi di provenienza dei migranti - non è emersa la volontà di aggiornare le regole consolidate in materia di asilo. In particolare non sono state previste quote o sanzioni per gli Stati che non accolgono i richiedenti asilo, né sono state fornite indicazioni su possibili modifiche del Regolamento di Dublino. Gli spostamenti dei migranti in un Paese diverso da quello in cui sia stata avanzata  richiesta di asilo – spostamenti che l’Italia avrebbe interesse a incentivare - continuano ad essere considerati contrari ai principi su cui è fondato il sistema europeo di gestione dell’immigrazione. E’ stato inoltre chiarito che lo sforzo condiviso per un’equa redistribuzione dei richiedenti asilo sarà possibile solo su base volontaria. Probabilmente per contenere i flussi migratori sarebbe opportuno cominciare ad intervenire nei processi socioeconomici che li alimentano nei Paesi d’origine.  RR

CALCIO E AFRICA (su L’Azione del 6 luglio 2018)
Il calcio mondiale fin dalla sua nascita è stato  monopolio dei Paesi europei e di quelli sudamericani. Da alcuni anni il calcio professionistico si è diffuso anche in Africa. Calciatori africani, dotati fisicamente e tecnicamente, militano con successo nei campionati europei, mentre le loro nazionali partecipano senza sfigurare a tornei internazionali. Per la fase finale dei Mondiali in Russia si sono qualificate 5 compagini africane; purtroppo nessuna di loro ha superato il primo turno. Il calcio in Africa è uno sport popolare: molti giovani sognano di essere ‘notati’ da un club prestigioso. Purtroppo la loro aspirazione può esporli alle speculazioni di qualche procuratore con pochi scrupoli, che con promesse e per un po’ di soldi li trasferisce in un Paese europeo. In questi casi solo le aspettative di pochi trovano soddisfazione e molti finiscono per dover sperimentare forme alternative di sopravvivenza. In Africa il calcio è legato alle realtà politiche: è forte l’ingerenza dei regimi nelle scelte sportive e spesso i successi delle nazionali sono uno strumento di facile propaganda. Il calcio, come altre discipline sportive, sta diventando uno strumento di omologazione fra tutti i continenti (anche l’Australia e alcune nazionali di Paesi asiatici stanno partecipando al torneo in Russia). La fase finale dei Mondiali, attraverso il supporto pubblicitario che la finanzia, è anche una vetrina per meglio familiarizzare con nazioni poco conosciute, e per contrastare l’etnocentrismo occidentale. Da questo punto di vista una partita di calcio può essere un’esperienza globale, un modo per comprendere il funzionamento interno di società esotiche. RR

CONSIDERAZIONI SUL ‘CASO’ SAVIANO (24.6.2018)
La polemica sulla  scorta a Saviano, come ormai accade abitualmente, è degenerata in uno scontro fra guelfi e  ghibellini. In concreto la questione specifica si è trasformata in un plebiscito sulla simpatia e sulla stima che si hanno o non si hanno nei confronti del giornalista. In realtà le misure di protezione individuale - come la scorta - vengono attribuite dall’Amministrazione di Pubblica Sicurezza solo in base alla valutazione dell’esistenza di un rischio per l’incolumità personale. Gli elementi dai quali si desume l’esposizione ad una minaccia che giustifichi un dispositivo di protezione devono essere oggettivi, e si evidenziano eventualmente a seguito di un articolato procedimento ‘ad hoc’. Se ricorrono situazioni di urgenza può essere attivata una protezione immediata, che tuttavia successivamente deve essere  ratificata nelle forme ordinarie. Nell’ambito del Ministero dell’Interno, che è il dicastero titolare delle attribuzioni nella materia, l’ufficio competente a gestire questa materia è l’Ucis (Ufficio Centrale Interforze per la Sicurezza personale). L’Ucis è in contatto con le fonti di informazione istituzionali (Aise, Aisi, Forze dell’Ordine, Autorità Provinciali di Sicurezza) per conoscere eventuali presupposti di situazioni personali a rischio. Questi dati, dopo essere stati analizzati, consentono di individuare condizioni personali meritevoli di attenzione, e di pianificare modalità, mezzi e risorse dei relativi eventuali dispositivi di protezione. La valutazione finale spetta ad una commissione centrale composta dal direttore dell’Ucis e dai rappresentanti delle forze di polizia, di Aise e Aisi. La commissione è integrata da un rappresentante del Ministero della Giustizia per le questioni concernenti la protezione dei magistrati. La commissione effettua ricognizioni sulle misure in atto e può disporne la revoca qualora non siano più giustificate. Esistono diversi livelli di protezione: dalla vigilanza (generica, cioè effettuata in maniera mobile e saltuaria, o fissa, cioè attuata mediante un presidio), alla scorta con possibile impiego di auto blindate. Prima dell’istituzione dell’Ucis nel 2002, questi dispositivi dipendevano dalle decisioni dei Comitati Provinciali per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica, presieduti dai rispettivi prefetti, che venivano assunte in base ad informazioni raccolte a livello locale; le decisioni  generalmente dovevano successivamente essere confermate dal Servizio Ordine Pubblico[i] del Dipartimento della Pubblica Sicurezza (in qualche caso dal Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza). Con la nuova procedura le valutazione delle informazioni raccolte sul territorio vengono valutate a livello centrale, e questo consente decisioni uniformi in ambito nazionale. Quindi tornando a Saviano, è fondato presumere che l’attribuzione della scorta al giornalista sia passata per questa procedura. Se da una successiva revisione si evidenzierà il venir meno dei suoi presupposti, saranno prese dagli organi competenti le conseguenti decisioni di revoca. Credo che solo gli organi competenti dispongano degli elementi per decidere. Il dibattito sulla scorta a Saviano in realtà si dovrebbe inserire nel più ampio dibattito sulle misure di protezione individuale disposte in Italia. Rispetto a quasi tutti gli altri Paesi europei il numero delle persone scortate in ambito nazionale è altissimo (diverse centinaia rispetto a qualche decina). In Italia vengono ancora protetti ministri o personaggi politici della ‘Prima Repubblica’. I dispositivi di protezione individuale, oltre ad impegnare ingenti risorse finanziarie, sottraggono migliaia di operatori di polizia alle ordinarie attività di istituto (controllo del territorio, attività di prevenzione generale, etc.). Forse, si dovrebbe guardare oltre la polemica del caso specifico, e individuare criteri più restrittivi e rigorosi per l’attribuzione di questi servizi di protezione, disponendo anche frequenti attività di revisione.  RR 
[i] Dove ho lavorato come funzionario dal 1990 al 2000.

LA DELICATA TUTELA DEI MINORI NON ACCOMPAGNATI (23.6.2018)
Nell’ambito della generale categoria dei migranti che giungono sulle coste italiane, i minori non accompagnati sono oggetto di una protezione che nel 2017 si è concretizzata in una specifica attenzione normativa da parte del legislatore nazionale (L. 47/2017). Più dell’80% dei minori non accompagnati che giungono in Italia ha 16 o 17 anni. Minori particolarmente vulnerabili sono i più piccoli e le ragazze, che sono esposte a sfruttamento e violenza sessuale. Destano particolare allarme quei minori che si allontanano dalle strutture di prima accoglienza rendendosi irreperibili: senza tutela possono essere facilmente vittime di abusi, di schiavitù, di prostituzione. Il minore non accompagnato è il minorenne non avente cittadinanza italiana o dell'Unione Europea che si trova nel territorio italiano privo dell’assistenza dei genitori o di altre persone legalmente responsabili. Per loro è stabilito il divieto assoluto di respingimento alla frontiera: questi minori tuttavia, se ne ricorrono i presupposti, possono essere inseriti nel sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Può essere particolarmente complessa l’identificazione di un minore e, in particolare, stabilire se si tratta realmente di un minore. Per questi fini sono previste procedure e accertamenti di vario genere. In particolare, se permangono dubbi fondati sull'età dichiarata, la procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni può disporre esami socio-sanitari. All'identificazione del minore si procede solo dopo che è gli stata garantita un'immediata assistenza umanitaria. Il rimpatrio o il trasferimento assistito e volontario  può essere disposto quando il ricongiungimento con i suoi familiari nel Paese di origine o in un Paese terzo corrisponde al superiore interesse del minore. Nei casi in cui la legge dispone il divieto di respingimento o di espulsione, è previsto il rilascio di un permesso di soggiorno valido fino al compimento della maggiore età. Questi minori hanno diritto all’istruzione: sarebbe opportuna l’attivazione di misure per favorire l’assolvimento dell’obbligo scolastico anche con l’impiego di mediatori culturali. Agli enti locali è attribuita la sensibilizzazione e la formazione di affidatari, allo scopo di favorire in via prioritaria l'affidamento familiare rispetto al ricovero in una struttura di accoglienza. La normativa vigente attribuisce valore alle sinergie delle  associazioni private con quelle delle istituzioni: il loro lavoro congiunto ha notevoli potenzialità nel trovare le soluzioni migliori. Tuttavia queste intese e le relative iniziative vanno monitorate per verificare il rispetto della piena legalità. Sarebbe auspicabile che questi minori potessero ricevere una formazione e un’istruzione nei Paesi europei per poi tornare nelle loro regioni di origine se si sono ripristinate accettabili condizioni di vita. Nell’intento di rendere immediatamente fruibile un diritto ampiamente riconosciuto anche a livello internazionale, il minore viene iscritto al Servizio Sanitario Nazionale anche nelle more del rilascio del permesso di soggiorno. Sembra riferirsi soprattutto ai migranti minori quanto prescrive la lettera agli Ebrei (13, 2): Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo.  RR

SE SIONISMO DIVENTA SINONIMO DI NAZIONALISMO EBRAICO (18.6.2018)
Dal punto di vista storico con ‘Sionismo’ si intende il movimento nazionalista che si è sviluppato alla fine del XIX secolo su impulso del giornalista e saggista austriacoTheodore Herzl con l’intento di promuovere il ritorno nella ‘terra di Israele’ del popolo ebraico e la conseguente restaurazione della sovranità politica nella patria comune. Il termine ha poi assunto due opposte connotazioni: sionismo può avere carattere neutro quando afferisce al favore per il diritto di autodeterminazione degli Ebrei; assume un valore negativo quando si ritiene che questo diritto debba prevalere su legittime e analoghe aspettative del popolo palestinese. Pertanto l’atteggiamento sionista nella sua duplice valenza è diventato espressione di due approcci antitetici nei confronti della problematica convivenza con i palestinesi. Come soluzione alla controversa questione si continua a sostenere la necessaria costituzione di due Stati realmente indipendenti l’uno dall’altro, come già previsto dagli accordi internazionali la cui road map è sempre di più difficile attuazione. Questa ipotesi sta rischiando di diventare uno slogan astratto, che genera frustrazione per entrambi i partner, Palestinesi ed Ebrei, nel crescente disinteresse della comunità internazionale. Diversamente secondo alcuni analisti, i palestinesi non crederebbero più nella soluzione dei due Stati, ma aspirerebbero a diventare cittadini israeliani a pieno titolo, secondo lo slogan uno Stato unico con pari diritti per tutti enunciato dal diplomatico palestinese Saeb Erekat. RR

RIFORMARE ‘DUBLINO III’ PER UN’EQUA POLITICA DEI FLUSSI MIGRATORI (su L’Azione del 15 giugno 2018)
Per elaborare in ambito europeo un’equa politica dei flussi migratori,  si auspica unanimemente una riforma del Regolamento  ‘Dublino III’, che definisce quale Stato debba farsi carico della richiesta di asilo di un extracomunitario giunto in territorio europeo. Secondo le regole attualmente in vigore questo onere spetta al Paese in cui si accerta che il migrante sia effettivamente arrivato; lo Stato competente a esaminare l’istanza  di protezione internazionale (in genere o Spagna, o Grecia, o Italia, o Ungheria) sarà poi anche quello in cui la persona dovrà restare dopo un’eventuale valutazione positiva della sua istanza. In altri termini in questi casi una persona che entri in Europa non può decidere in quale Stato presentare la richiesta di asilo. L’individuazione dello Stato competente a decidere sulla richiesta avviene anche mediante le informazioni in possesso di Eurodac, una banca centrale in cui sono registrati i dati di chiunque attraversi irregolarmente le frontiere di uno Stato membro o presenti richiesta di protezione internazionale. Questa individuazione presuppone l’identificazione del migrante nel Paese di primo ingresso in territorio comunitario. Nell’ipotesi frequente in cui l’identificazione non sia avvenuta, si potranno ricostruire gli spostamenti del migrante al fine di individuare il Paese di primo ingresso, attraverso biglietti ferroviari, scontrini o documenti simili. C’è un generale accordo sull’incapacità di questa disciplina ad assicurare una protezione equa, efficiente ed efficace; tuttavia nei fatti sembra difficile al momento un accordo sulla sua riforma. RR

L’EURO (5.6.2019)
L’Unione Europea offre molti spunti di riflessione critica sia sul piano politico che su quello macroeconomico. Tuttavia, due argomenti, soprattutto in Italia, sono oggetto di accese controverse opinioni: la gestione dei flussi migratori diretti in Europa e l’introduzione e il mantenimento di una moneta unica. Il debutto dell'Euro sui mercati finanziari risale al 1999, mentre la circolazione monetaria ebbe inizio nel gennaio 2002 nei (dodici) Paesi dell'Unione che per primi adottarono la nuova valuta. L’introduzione della moneta, forse non preceduta dall’istituzione di adeguate strutture di supporto, ha penalizzato alcune economie, quella italiana in particolare. L’Euro è una moneta strutturata su economie solide - come quella tedesca - che hanno bassa disoccupazione è un buon tasso di crescita. Crea pertanto sofferenza in sistemi più deboli come quelli dell’Italia, la Grecia, e della Spagna. In sintesi, la moneta unica rappresenta Paesi in condizioni diverse Questa circostanza ha ingenerato in Italia la tendenza ad attribuire all’Euro ogni tipo di problema strutturale, come la rincorrenti recessione e la forte disoccupazione. Il ritorno alla Lira tuttavia comporterebbe pericolosi dissesti finanziari. Pertanto, a chi auspica l’uscita dalla moneta unica, si contrappone chi teme con oggettivo fondamento che questa circostanza porti ad una massiccia svalutazione e a un impoverimento dei salari. Alcuni economisti sostengono una posizione intermedia: uscire dall’Euro sarebbe uno shock economico, ma superato questo periodo di dissesti, si riacquisterebbero i vantaggi di avere la libertà di attuare politiche più adatte alla nostra economia. Sicuramente l’ingresso nell’Euro ha avviato processi finanziari che non consentono un indolore ritorno al passato. RR

IMMIGRAZIONE, UN DIFFICILE BANCO DI PROVA PER IL NUOVO GOVERNO (3.6.2018)
In questi giorni mi è tornato in mente un articolo del Guardian di qualche tempo fa che evidenziava con cinica ma obiettiva schiettezza le difficoltà dell’Europa di affrontare la crisi legata all’arrivo dei migranti. Se infatti viene intrapresa una politica che sia morale e privilegi esigenze umanitarie di solidarietà, ci si scontra con gli egoismi nazionali e con le difficoltà di ottenere un mandato democratico. Nell’ipotesi simmetricamente opposta invece le politica che si strutturano su esigenze ‘difensive’ della comunità ‘autoctona’ europea sono popolari, ma spesso immorali, inaccettabili e pertanto impraticabili. In altri termini le opzioni politiche in questa materia, prima di essere tecniche, sono di carattere etico. In questo momento, con l’insediamento del nuovo Ministro dell’Interno (e con le sue dichiarazioni di voler intraprendere una linea particolarmente rigorosa) queste considerazioni hanno una peculiare attualità. In relazione all’attuale quadro normativo nazionale vigente, non sarà facile andare oltre i buoni risultati conseguiti dal suo predecessore al dicastero dell’Interno. Il Ministro Minniti in particolare è stato molto attivo sul piano dei rapporti bilaterali con alcuni Paesi delle sponde africane del Mediterraneo, ottenendone la collaborazione nel contrasto dell’immigrazione clandestina. Sul piano normativo il decreto Minniti-Orlando ha accelerato i procedimenti per il riconoscimento della protezione internazionale nei confronti dei destinatari di questo beneficio (di conseguenza anche i casi di esclusione hanno una più sollecita evidenza) e sono stati rafforzati gli strumenti finalizzati al contrasto dell'immigrazione illegale. Potranno essere ulteriormente implementate queste misure senza pregiudizio per coloro che hanno un diritto di protezione (ad esempio, diritto di asilo) secondo i principi del diritto internazionale? Questa è la reale preoccupazione di molti. Sul piano europeo si cercherà di rinegoziare la iniqua distribuzione fra i Paesi Membri degli oneri economici e operativi conseguenti all’accoglimento di immigrati. Il nuovo Ministro dell’Interno potrà avvalersi di uno staff di funzionari - soprattutto della carriera prefettizia e della Polizia di Stato - di riconosciuta oggettiva esperienza e professionalità. Non è un dettaglio di poco conto. RR

IMMIGRAZIONE, UN DIFFICILE BANCO DI PROVA PER IL NUOVO GOVERNO (4.6.2018)
In questi giorni mi è tornato in mente un articolo del Guardian di qualche tempo fa che evidenziava con cinica ma obiettiva schiettezza le difficoltà dell’Europa di affrontare la crisi legata all’arrivo dei migranti. Se infatti viene intrapresa una politica che sia morale e privilegi esigenze umanitarie di solidarietà, ci si scontra con gli egoismi nazionali e con le difficoltà di ottenere un mandato democratico. Nell’ipotesi simmetricamente opposta invece le politiche che si strutturano su esigenze ‘difensive’ della comunità ‘autoctona’ europea sono popolari, ma  spesso immorali, inaccettabili e pertanto impraticabili. In altri termini le opzioni politiche in questa materia, prima di essere tecniche, sono di carattere etico. In questo momento, con l’insediamento del nuovo Ministro dell’Interno (e con le sue dichiarazioni di voler intraprendere una linea particolarmente rigorosa) queste considerazioni hanno una peculiare attualità.  In relazione all’attuale quadro normativo nazionale vigente, non sarà facile andare oltre i buoni risultati conseguiti dal suo predecessore al dicastero dell’Interno. Il Ministro Minniti in particolare è stato molto attivo sul piano dei rapporti bilaterali con alcuni Paesi delle sponde africane del Mediterraneo, ottenendone la collaborazione nel contrasto dell’immigrazione clandestina. Sul piano normativo il decreto Minniti-Orlando ha accelerato i procedimenti per il riconoscimento della protezione internazionale nei confronti dei destinatari di questo beneficio (di conseguenza anche i casi di esclusione hanno una più sollecita evidenza) e sono stati rafforzati gli strumenti finalizzati al contrasto dell'immigrazione illegale. Potranno essere ulteriormente implementate queste misure senza pregiudizio per coloro che hanno un diritto di protezione (ad esempio, diritto di asilo) secondo i principi del diritto internazionale? Questa è la reale preoccupazione di molti. Sul piano europeo si cercherà di rinegoziare la iniqua distribuzione fra i Paesi Membri degli oneri  economici e operativi conseguenti all’accoglimento di immigrati. Il nuovo Ministro dell’Interno potrà avvalersi di uno staff di funzionari - soprattutto della carriera prefettizia e della Polizia di Stato - di riconosciuta oggettiva esperienza e professionalità. Non è un dettaglio di poco conto. RR

UNIONE EUROPEA E NUOVO GOVERNO ITALIANO (su L’Azione dell’8 giugno)
I rapporti fra l’Italia e Unione Europea sono stati al centro dell’attenzione nella formazione del governo. Sarebbe opportuno considerare questa materia evitando strumentalizzazioni. Molte aspettative comunitarie sono rimaste deluse. Si suggerisce di rinegoziare i Trattati. Premesso che per Trattati si dovrebbero intendere i soli accordi istitutivi dell’Unione Europea come modificati e integrati nel corso degli anni, la complessa architettura comunitaria sulla quale si strutturano i meccanismi decisionali non evidenzia particolari limiti. Rinegoziare un Trattato coinvolge tutti i Paesi membri: arrivare a modifiche condivise è un obiettivo estremamente difficile. Le circostanze che hanno ostacolato il progetto di Costituzione Europea abbandonato nel 2007 sono molto indicative. Se si vuole dare maggiore risalto alle aspettative dell’Italia, è sufficiente che sia più incisiva la presenza nazionale (dagli esperti tecnici ai vertici politici ministeriali) nelle procedure di formazione della volontà comunitaria. Se il quadro normativo costituisce un limite, si dovranno utilizzare gli strumenti per la sua modifica. Queste considerazioni presuppongono la volontà di rimanere nell’Unione, conformemente a quanto emerge dai sondaggi, dai quali si evince che una larga maggioranza degli italiani è a favore della permanenza. La critica ‘all’Europa’ richiede un più forte impegno in questo ambito. Il Ministero delle Politiche Comunitarie può avere un ruolo fondamentale: averlo affidato al prof. Savona - che ha una conoscenza critica del sistema comunitario e a livello internazionale gode di considerazione a prescindere dalla condivisibilità delle posizioni espresse come studioso e non come politico, è una scelta coerente verso l’obiettivo di un maggior credito dell’Italia in sede europea. RR

LA FORMAZIONE DEL NUOVO GOVERNO: IL QUADRO NORMATIVO (30.5.2018)
Per deformazione professionale credo che le questioni che riguardano le istituzioni debbano essere chiarite facendo riferimento all’ordinamento giuridico vigente e poi, dopo essere state collocate nel giusto contesto normativo, possano essere affrontate sotto il profilo politico, sociale ed economico. In proposito, l’ormai notissimo art. 92 della Cost. - che prevede che il Presidente della Repubblica nomini il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri - dovrebbe essere messo in relazione con l’art. 89 Cost. che in concreto stabilisce l’irresponsabilità politica del Capo dello Stato nell’esercizio delle sue funzioni (“Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità). In forza della predetta irresponsabilità politica la portata del potere di nomina dei ministri (o di rigetto della nomina) del Capo dello Stato, in assenza di indicazioni, di fatto sembrerebbe rimessa esclusivamente alle sue prudenti valutazioni (a parte le ipotesi estreme e di ‘impeachment’). Per circostanziare il contenuto della discrezionalità del Capo dello Stato nell’ipotesi in questione si deve tenere presente che questo potere è conferito con l’obiettivo di arrivare alla nomina di un governo che ottenga la fiducia del Parlamento (art. 94 Cost.). E’ stato autorevolmente osservato che “la predisposizione della lista dei ministri da parte del Presidente del Consiglio incaricato costituisce una proposta vincolante per il Capo dello Stato, il quale non potrebbe rifiutare alcuna nomina, se non nel caso estremo di un soggetto palesemente privo dei requisiti giuridicamente richiesti per ricoprire l'ufficio”. Ciò premesso, considerato che il coordinato disposto di queste norme ha l’obiettivo di formalizzare una procedura propedeutica alla formazione di un governo che abbia la fiducia dei cittadini, suscita perplessità che alla proposta di una lista di ministri che presumibilmente avrebbe avuto la fiducia del Parlamento sia stato ipotizzato di opporne un'altra che probabilmente non avrà la fiducia del Parlamento.  Ognuno  può valutare la situazione politicamente come meglio crede, ma questo è il quadro normativo vigente che è sullo sfondo della questione. RR

LA FORMAZIONE DEL NUOVO GOVERNO (28.5.2018)
Non seguo molto la politica italiana e sono in genere anche poco informato in materia. Lo stallo sulla formazione del Governo è sicuramente molto grave e pericoloso: forse è necessario fare un po’ di ordine sulla questione partendo dall’interpretazione delle norme. I giornali difettano spesso di obiettività e non forniscono un’informazione completa che consenta ad ognuno un’opinione serena e circostanziata. Premetto che sono un europeista anche per trascorsi professionali, ma sono pure fermamente convinto che vada sempre rispettata la volontà della maggioranza. L’art. 92 della Costituzione prevede che il Governo della Repubblica sia composto dal Presidente del Consiglio e dai Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i Ministri. Quindi il Presidente del Consiglio propone, il Presidente della Repubblica nomina. Questo significa che, anche se è la persona incaricata di formare il nuovo governo che presenta i nomi dei futuri ministri, è il Presidente della Repubblica a nominarli. Dal punto di vista strettamente costituzionale, Mattarella pertanto ha esercitato una sua facoltà,  decidendo di non nominare il prof. Savona; in proposito la Costituzione non precisa i criteri di discrezionalità su cui si fonderebbe questo tipo di decisione. Secondo alcuni  costituzionalisti l’opposizione ad una nomina avverrebbe con il fine di garantire il bene dell’Italia, dell’unità nazionale, degli italiani. Ma è possibile che certe valutazioni entrino così’ nel merito come è avvenuto per il ministro ‘in pectore’ dell’economia? Il prof. Savona – si può non essere d’accordo con il suo punto di vista (io in particolare comprendo le sue perplessità sull’attuale assetto comunitario, ma sarei più cauto sui drastici rimedi da applicare) - riflette l’opinione della maggioranza degli elettori italiani emerso dalle consultazioni elettorali anche se va precisato che un aperto antieuropeismo non era presente nei programmi dei partiti o movimenti, ma è stato solo un tema dibattuto in sede pre-elettorale. La valutazione sull’opportunità politica della nomina di un ministro sarebbe più logico e democratico se competesse al Parlamento - organo garante della volontà popolare - in sede di discussione per la concessione della ‘fiducia’. Se così non fosse, l’assenso del Presidente della Repubblica sulle proposte di nomina dei ministri e la fiducia del Parlamento sarebbero fondate sugli stessi criteri e sarebbero un doppione l’uno dell’altra: conseguentemente per la fiducia ad un Governo potrebbe essere sufficiente il solo assenso del Capo dello Stato. Al contrario, per non togliere al Parlamento le sue prerogative sovrane, è fondato ritenere che le valutazioni del Capo dello Stato non possano sconfinare in un giudizio di opportunità politica, che è invece di competenza del solo Parlamento in sede di fiducia. In proposito potrebbe essere utile in futuro prevedere quanto avviene nell’analoga circostanza della fiducia alla commissione in sede europea: ogni commissario designato è invitato a comparire dinanzi al Parlamento europeo (in commissione); con audizioni i singoli commissari sono valutati, sono ascoltati, e possono essere chieste informazioni pertinenti ai fini dell'adozione della decisione sulle attitudini a svolgere i compiti assegnati. Segue una procedura di formalizzazione del parere con le conseguenze del caso: il Parlamento non può sfiduciare singolarmente i commissari ma ha il potere di sfiduciare l’intera Commissione, costringendo il presidente a ripresentare una nuova rosa di nomi. In genere quando un commissario viene ritenuto inadatto dal Parlamento, si cerca un modo di persuadere lo Stato membro che lo ha presentato a sceglierne un altro. Un’ultima considerazione: se la nomina al prof. Savona, studioso di riconosciuto spessore, fosse stata un atto anti-europeo, il rifiuto potrebbe essere interpretato come un atto compiacente ad un Europa a trazione tedesca. L’Unione europea resta un’opportunità preziosa, ma allo stato attuale non funziona: potrebbe essere necessaria una ricognizione sui trattati e una riforma dei regolamenti di attuazione. È indubbio l’influsso negativo e pericoloso delle istanze egemoniche tedesche sull’Europa. Pretese non nuove nella storia: un tempo si fondavano sul potere militare, oggi sfruttano un’applicazione personalistica delle regole dell’economia. RR

L’EMERGENZA TERRORISTICA NELL’EUROPA DEL XXI SECOLO (Roberto Rapaccini – Intervento al Seminario TERRORISMO DI MATRICE ISLAMICA, ASPETTI SOCIALI, POLITICI E OPERATIVI  - Terni, 2 dicembre 2017)
Per poter meglio comprendere il mio approccio a questa problematica preciso che sono stato funzionario delle Relazioni Internazionali nel Dipartimento di PS del Ministero dell’Interno. Ho svolto le funzioni di capo delegazione italiano presso l’UE per la cooperazione di polizia e di esperto per la Commissione Europea – Direzione Generale Giustizia Affari Interni (poi DG Giustizia, Libertà e Sicurezza), occupandomi dei dossier 'Terrorismo', 'Traffico illecito di armi', e di questioni di sicurezza e di ordine pubblico. Inoltre sono stato docente per gli aspetti operativi del diritto comunitario in materia di sicurezza. Gli ultimi lustri del XX secolo e l’inizio del XXI sono stati caratterizzati da grandi cambiamenti. Con la caduta del muro di Berlino (1989) e la conseguente disgregazione del blocco sovietico, è venuto meno l'antagonista per il quale era stata costituita l'Alleanza Atlantica. Fino a quando la realtà politica mondiale si era retta sul precario equilibrio Usa-Urss (l’Europa occidentale era saldamente integrata nel fronte americano), era in atto una sorta di bilanciamento tra le due potenze fondato su un ordine bipolare caratterizzato da uno stato permanente di ostilità reciproche. La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha rotto questo equilibrio, creando un'egemonia degli Usa rimasta di fatto l'unica reale superpotenza. L'Islam era un mondo a sé stante, di cui si accettava la diversità culturale come un fatto naturale. l'Etnocentrismo occidentale relegava l'universo arabo-islamico alla periferia del mondo. La rilevanza geopolitica degli Stati arabi era limitata ad aspetti economici e finanziari. La contrapposizione fra il mondo islamico fondamentalista e l’Occidente ha sostituito il vuoto creato dal crollo dell’Unione Sovietica, poiché l’Islam non è soltanto una religione, ma è anche un’ideologia politica. Da questa contrapposizione si sono poi sviluppati la deriva jihadista e il terrorismo di matrice islamica. A tutto questo si è aggiunta la difficile individuazione di una strategia efficace per il contrasto della pressione dei flussi migratori provenienti dall’Africa settentrionale.  Queste contingenze sono fonti di emergenze che mettono a dura prova la coesione dell’Europa. La convivenza nei Paesi occidentali con fedeli islamici è resa problematica dall’insorgenza di un pregiudizio che considera ogni musulmano un potenziale terrorista. A poco più d’una settimana dai fatti di Parigi del  novembre 2015 numerose comunità islamiche hanno manifestato in diverse piazze italiane per condannare la strage. Il nome delle manifestazioni, Not in my name, deriva da una campagna lanciata dai musulmani dopo l'attentato alla redazione del settimanale francese Charlie Hebdo (gennaio 2015)Not in my name equivale a dire il mio Islam non è questo. Il XXI secolo è iniziato con il grave attentato di matrice islamica alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. La strumentalizzazione mediatica unita a qualche latente tentazione islamofoba con un po' di approssimazione ha trasformato vicende che avvengono nelle nostre realtà urbane, nelle quali sono coinvolti elementi provenienti da Paesi islamici, in casi paradigmatici di una manifesta conflittualità fra la cultura islamica e quella occidentale, supportando così la tesi di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà. Le Comunità Islamiche in Occidente hanno subito  un’evoluzione. Mentre negli anni ’60 i musulmani immigrati nei Paesi europei cerca­vano di integrarsi abbandonando l’abitudine di por­tare indumenti tradizionali, attualmente il ritorno all’uso del niqab, dello chador, del burqa e del qamis (la tunica maschile) non trova fondamento nell’adempimento di un dovere religioso, ma è un mezzo per rivendicare l’appartenenza a una cultura diversa e per manifestare il rifiuto dell’omologazione occidentale. Nei giovani islamici che vivono in occidente confliggono due esigenze. Da una parte la volontà di affermare l’originalità della propria individualità. Dall'altra si evidenzia la necessità di conformarsi ai canoni della società per esigenze autoconservative  e di integrazione. Questo comportamento di ritorno alle tradizioni sembrerebbe il prodotto di un conflitto generazionale, analogamente a quello che accade nelle famiglie occidentali quando i genitori non comprendono le condotte dei figli a causa di differenti abitudini ed esperienze, o di una diversa formazione culturale o religiosa. Con ‘Primavera araba’ si intende un termine di origine giornalistica utilizzato per lo più dai media occidentali per indicare una serie di proteste ed agitazioni cominciate tra la fine del 2010 e l'inizio del 2011. I Paesi maggiormente coinvolti dalle sommosse sono stati la Siria, la Libia, l'Egitto, la Tunisia, lo Yemen, l'Algeria, l'Iraq, il Bahrein, la Giordania e il Gibuti, mentre ci sono stati moti minori in Mauritania, in Arabia Saudita, in Oman, in Sudan, in Somalia, in Marocco e in Kuwait. La Primavera Araba ha avuto moventi laici, che possono essere riassunti nel diffuso malessere per una società non democratica, caratterizzata da un’inaccettabile diseguaglianza nella distribuzione delle ricchezze. Le richieste di libertà non potevano avere come modello le democrazie occidentali considerate corrotte, ma i valori dell’Islam ristabiliti nella purezza originaria. Così la Primavera Araba, pur essendosi originata da istanze laiche, è approdata a esiti fondamentalisti. Secondo il politologo S. Huntington è in atto uno scontro di civiltà. Alleanze e conflitti internazionali seguono le linee sviluppo delle grandi culture del pianeta; i conflitti non sono quindi di matrice ideologica o economica, ma hanno origine in differenti identità culturali e religiose. Oggi, conclusa la Guerra fredda, gli esseri umani non si definiscono più in base all'ideologia o al sistema economico in cui operano, ma cercano di definire la loro identità in base alla propria lingua e religione, alle proprie tradizioni e costumi. Di conseguenza la politica mondiale si sta riconfigurando secondo schemi culturali. Peraltro l’Islam non è solo una religione, ma anche un’ideologia, ovvero una realtà geopolitica. La tesi dello scontro di civiltà applicata al confronto Islam-Occidente  presenta alcuni punti deboli. Innanzitutto l’Islam non è una monade unitaria ma un universo disomogeneo. Oltre alla scissione fra Sunniti e Sciiti è caratterizzato da correnti spesso in contrasto fra di loro; la Moschea di Al Azhar che è la sede della prestigiosa e autorevole  omonima Università, pur rappresentando il vertice del pensiero giuridico e teologico islamico sunnita, non è un'autorità sovraordinata e quindi non esprime posizioni ufficiali. La Lega Araba inoltre non ha mai svolto una vera leadership. Gli autori di atti criminali di matrice jihadista non sono espressione di un fronte unico contrapposto all'Occidente, ma o fanno parte di specifiche organizzazioni terroristiche - che peraltro non sempre condividono una medesima strategia -, o sono individui isolati che subiscono l’efficacia suggestionante della propaganda mediatica fondamentalista (i così detti cani sciolti lupi solitari). Le caratteristiche dei così detti cani sciolti confutano la tesi dello scontro di civiltà. Infatti se i conflitti fossero strutturali, questi individui non dovrebbero essere espressione di fenomeni isolati, ma dovrebbero essere esponenti di una realtà unitaria. Invece, o sono soggetti isolati, o sono appartenenti ad articolazioni di organizzazioni terroristiche determinate, autonome e indipendenti fra di loro; le loro motivazioni sono radicate nelle condizioni o nelle vicende personali, mentre la matrice ideologica rimane sullo sfondo. In particolare a proposito di cani sciolti o lupi solitari recentemente si è negata la loro effettiva esistenza; si tratterebbe infatti di potenziali terroristi che si attivano subendo la suggestione di una propaganda mirata. Rientrerebbero pertanto in un progetto strategico essendo parte di una rete virtuale. Dall'esame delle loro personalità è emerso che questi individui spesso sono condizionati da gravi problemi che li confinano ai margini della comunità, o sono vittime del disorientamento causato dalla mancanza di valori di riferimento. Pertanto utili strumenti di prevenzione avanzata nei loro confronti, accanto all'azione dell'intelligence, sono le politiche di integrazione, che dovrebbero neutralizzare il loro risentimento verso una società che sentono ostile o nei confronti della quale si sentono inadeguati. Con i fatti dell’11.9.2001 il terrorismo jihadista compie un’evoluzione e diviene una minaccia per il mondo occidentale. Il terrorismo jihadista è di matrice religiosa, ovvero è una forma malintesa di militanza confessionale. La fede vissuta come ideologia richiede un impegno collettivo finalizzato a cambiare con ogni mezzo le strutture della società. Il terrorismo è una 'scorciatoia' diretta a questo fine. Conseguentemente gruppi jihadisti si strutturano per promuovere con ogni mezzo l’instaurazione di un ordine sociale nel quale le leggi civili sono sostituite da un sistema giuridico plasmato sulla legge divina (la Sharia). Il Terrorismo religioso ha sempre carattere radicale, non ammette alternative alla prevalenza dell’assetto socio-politico che costituisce un corollario del credo religioso. In sintesi il terrorismo di matrice islamica consiste nell’uso della  violenza e della minaccia per instaurare un ordine ispirato ai precetti del Corano. È in atto una guerra asimmetrica: il terrorismo ha l’obiettivo di trasformare tutti i momenti di ordinaria serenità in occasioni di paura e sofferenza. Il terrorismo di matrice islamica ha delle specifiche caratteristiche. Ricorre agli attentati suicidi. Tutti sono indiscriminatamente possibili obiettivi. Pertanto la sua finalità è quella di creare un senso generale di insicurezza  e paura. per questo differisce da altre forme di terrorismo, come, ad esempio, quello chirurgico dell’Eta quando l’organizzazione era in attività. Per il contrasto della minaccia di matrice islamica non è sufficiente la coordinata risposta operativa degli apparati di intelligence e di sicurezza. La prevenzione infatti deve cessare di essere delegata  esclusivamente alle Forze di Polizia. Pertanto la prevenzione deve divenire parte della cultura collettiva, come avviene nella realtà israeliana. E’ necessario che l’Occidente ritrovi solidarietà e coesione sui valori fondanti. In conclusione un cenno sui rapporti fra multiculturalismo e flussi migratori. Come si dirà più ampiamente nella successiva relazione, si è spesso affermato che gli attentati jihadisti siano supportati da una visione radicale dell'Islam. Questa tesi viene comunemente sintetizzata con l'espressione radicalizzazione dell'islamismo. Dall'esame delle personalità degli autori delle stragi jihadiste si rileva che essi spesso sono anche ‘occidentali’ che hanno  gravi problemi personali, che li confinano ai margini della società. Questa condizione, caratterizzata anche da un vuoto ideologico, produce  una visione relativistica in un contesto di diffuso nichilismo, radicalizzando un atteggiamento critico nei confronti della società. Diversamente l'Islam nella sua interpretazione fondamentalista offre un modello che, seppur discutibile, si basa su valori definiti e solidi, e che pertanto possono esercitare una qualche seduzione su chi è alla ricerca di una identità definita per arginare il proprio senso di inadeguatezza. Questa contestazione radicale della nostra società può essere descritta come islamizzazione del radicalismo, in parziale contrapposizione alla già sopra menzionata  radicalizzazione dell'islamismo. In altri termini la penetrazione della cultura islamica fondamentalista non è il risultato di una preordinata aggressione esterna, ma è la conseguenza anche di suggestioni che occupano il vuoto etico di una civiltà in decadenza. Si ricorre spesso al concetto di tolleranza. Paradossalmente la tolleranza ha delle sfumature vagamente discriminatorie. Nella pratica infatti dietro la benevolente accettazione dell’altro si cela un implicito giudizio di superiorità, di diffidenza, o addirittura di biasimo o di condanna. La convivenza dovrebbe invece essere strutturata sul riconoscimento della pari dignità dell’altro. Segnatamente in materia di immigrazione la demagogia politica, rigidamente polarizzata sui principi simmetricamente opposti dell’accoglienza generalizzata o del respingimento indiscriminato, strumentalizza le possibili derive conseguenti ai due atteggiamenti, rendendo difficili approcci costruttivi che possano conciliare i principi di civile solidarietà, con i problemi di sovraffollamento e di criminalità indotta.  L’integrazione è un dovere civile, ma ha senso qualora sia reale e non si esaurisca in affermazioni di facciata da spendere per fini politici o elettorali. I mutamenti delle condizioni di vita e i costi sociali che richiede la dimensione multiculturale devono essere tali da non alimentare una contrapposizione fra i cittadini del Paese ospitante e i nuovi arrivati. Solo tenendo presenti questi presupposti e rinunciando ad alimentare l’enfasi populista di un facile buonismo o all’opposto quella ad effetto di un’inconsistente intransigenza, le questioni connesse alla convivenza multirazziale, seppur non risolte, potranno essere affrontate seriamente. Due citazioni significative. La prima: "Si dice che al mondo ci sia tanta religione per far sì che gli uomini si odino, ma non abbastanza perché gli uomini si amino.” (dal film Angel Heart di Alan Parker). La seconda: “Alleandosi a un potere politico, la religione aumenta il suo potere su alcuni uomini, ma perde la speranza di regnare su tutti” (Alexis de Tocqueville). Grazie per la vostra qualificata attenzione!  RR

È TRAMONTATO IL SOGNO EUROPEO? (su L’Azione del 26 giugno 2018)
Lo scenario italiano segnato dai consensi ottenuti da forze politiche che hanno manifestato in alcune occasioni scetticismo nei confronti del progetto europeo, ha riacceso il dibattito sull’attuale stato dell’Unione. Non è in discussione l’idea di un’Europa unita: sarebbe un oggettivo vantaggio l’esistenza di un soggetto istituzionale europeo unico fondato su un reale e reciproco sostegno, centro di attribuzione di comuni linee politiche ed economiche, in grado di promuovere il benessere di tutti i cittadini. Si dubita invece dell’adeguatezza dell’attuale assetto ordinamentale comunitario. La tenuta dell’unità fra i Paesi membri è stata compromessa da un progressivo allargamento da 15 a 28 Stati, intrapreso con troppa disinvoltura e soprattutto senza verificare se i Paesi candidati disponessero dei presupposti per la loro integrazione: i nuovi Stati membri spesso infatti hanno manifestato un'assenza di cultura della solidarietà. L’economia dei Paesi membri ha subìto il danno di spinte deflazionistiche causate dalle scelte finanziarie imposte dalla Germania nel suo egoistico interesse. L'introduzione della moneta unica non preceduta dalla creazione delle necessarie sovrastrutture ha penalizzato i sistemi economici meno solidi. Deve essere ripristinata la pienezza delle funzioni di governo della Commissione Europea, che nel tempo anziché promuovere solide linee unitarie si è trasformata in uno sterile e burocratico esecutivo concentrato sul controllo degli Stati membri. Vi è stata inoltre totale incapacità di elaborare soluzioni condivise per gestire e contrastare i flussi migratori. Anche se il sogno europeo non è tramontato, è indubbiamente necessaria una rinegoziazione dei Trattati alla luce delle aspettative deluse. RR

CHIAMATA ALLE ARMI…INFORMATICHE (su L’Azione del 18 maggio 2018) 
Per una perversa congettura secondo cui lo sviluppo dell’industria bellica nazionale può esercitare  ripercussioni positive sull’economia, il settore produttivo legato alle attività militari di difesa ha sempre goduto di privilegi presumibilmente alimentati anche da pressioni lobbistiche, che si attivano per favorire l’acquisto da parte dello Stato di armi costose non raramente destinatarie di insostenibili spese di manutenzione, scelte secondo tipologie indicate dalle aziende produttrici piuttosto che in base alle esigenze di sicurezza. Nonostante l’ingente impegno finanziario l’Italia è impreparata da un punto di vista logistico a fronteggiare le minacce emergenti. In proposito è opportuno distinguere la security dalla safety. Per security si intendono i servizi di sicurezza attuati dalle forze dell’ordine; il concetto di safety riguarda invece le misure e i dispositivi di carattere strutturale a tutela dell’incolumità delle persone. Per prevenire attacchi terroristici sul territorio e on-line disponiamo di una security di alto profilo, mentre per quanto riguarda la safety non abbiamo bisogno di  carri armati, cacciabombardieri e portaerei, ma di investimenti mirati alla cyber-difesa, che consentano quindi di contrastare attacchi informatici che potrebbero anche mettere fuori uso le armi tradizionali. Come è stato autorevolmente osservato da uno storico britannico della prima metà del XX sec. riprendendo una frase dell’intellettuale francese G. Clemenceau, la guerra è una cosa troppo seria per essere affidata solo a militari e politici. RR

LA CRISI DEL MULTICULTURALISMO (2.5.2018)
Un saggio dell’intellettuale britannico di origine pakistana Kenan Malik qualche anno fa ha sollevato un interessante dibattito sul multiculturalismo. Una politica è multiculturale quando all’interno di uno stesso Paese si attribuisce particolare spazio alle identità culturali e linguistiche di altre componenti etniche. Su questo tema si sono solitamente contrapposte due posizioni: da una parte si considera il multiculturalismo un potenziale attacco all’identità nazionale, dall’altra si afferma l’opportunità di salvaguardare le diversità che possono costituire elementi di  reciproco arricchimento. In Europa in questi ultimi anni il dibattito su questo tema si è intensificato con l’affermarsi dell’emergenza terroristica di matrice islamica e con l’incremento dei flussi migratori dal nord-Africa. Così il multiculturalismo si è inserito nel più ampio dibattito sui rapporti fra Islam e Occidente. Le derive del multiculturalismo possono in questo modo diventare un’espressione dello ‘scontro di civiltà’ ipotizzato da Samuel Huntington nel suo celebre libro[1], dal momento che in questa prospettiva le aperture multiculturali potrebbero alimentare la minaccia di un’islamizzazione della civiltà occidentale, con  il rischio di dare spazio a movimenti e associazioni islamiche violente o semplicemente ambigue o passive nei confronti dell’estremismo jihadista.  Un atteggiamento di rispetto e protezione delle istanze multiculturali porta inevitabilmente a collocare i diversi gruppi etnici in specifici ambiti anche normativamente circoscritti da limiti fisici e virtuali. Da questo punto di vista il relativismo multiculturale è in antitesi con la visione illuministica che auspica una società cosmopolita nella quale ogni differenza fra individui è bandita per affermare la pari dignità di tutti. La visione universalistica dell’illuminismo, contrapposta al relativismo multiculturale, presuppone valori condivisi come l’inviolabilità della persona, l’attribuzione ad ognuno degli stessi diritti e libertà, la parità dei sessi: il riconoscimento di questi principi diviene pertanto la condizione perché un gruppo etnico possa aspirare alla completa integrazione in una società occidentale. Questa constatazione può portare a conseguenze paradossali. Il riconoscimento della piena legittimità di altre culture, quasi sempre animato da nobili intenzioni, può diventare infatti uno strumento potenzialmente conservatore e antiprogressista, dal momento che alcune culture sono agli antipodi degli ideali di uguaglianza e di libertà di derivazione illuminista su cui si strutturano le società occidentali. In questo quadro si colloca la recente presentazione in Belgio del Partito Islamico, che ha tra gli obiettivi l’introduzione in Europa della Sharia. Pur partendo dal presupposto che tutte le culture hanno pari dignità, le politiche di integrazione - che mirano all’edificazione di una comune società di uguali - possono essere in antitesi con i modelli multietnici, nei quali invece la comunità è staticamente frammentata in distinti sistemi che conservano integralmente i principi e le regole su cui si fondano e che potrebbero anche causare il proliferare di sfere di arretratezza o che ripudiano la democrazia. Il relativismo multiculturale può portare a casi estremi come, ad esempio, il delitto d’onore consumato ai danni di quelle figlie che si sono sentimentalmente unite con un ‘infedele’: per i musulmani la sua uccisione è un atto dovuto, mentre è un omicidio nelle società ispirate a valori liberali. Autonomi sistemi  culturali spesso coesistano pacificamente e si tollerano perché raramente entrano in relazione fra di loro. La più nota esemplificazione di società multiculturale è quella britannica.  In essa tuttavia esiste una cultura egemone, quella di cui è espressione la società inglese, mentre i valori e le regole degli altri gruppi etnici possono avere riconoscimento solo se non confliggno con le norme dell’ordinamento giuridico dello Stato. Nella pratica quindi è difficilmente ipotizzabile un multiculturalismo ‘integrale’, ovvero un sistema nel quale tutte le culture che obbediscono a regole diverse convivano senza compromessi o reciproche concessioni o rinunce, e nello stesso tempo non entrino in situazioni conflittuali. La libertà di parola, la libertà di fede, la democrazia, lo Stato di diritto, diritti uguali per tutti indipendentemente dall’etnia, dal genere o dall’orientamento sessuale definiscono la società occidentale; non è possibile che culture differenti vivano vite separate, l’una dall’altra, e indipendenti dalla cultura che è espressione della maggioranza. Queste considerazioni hanno spinto recentemente molti intellettuali a prendere atto amaramente del fallimento della multi etnicità. Tuttavia i processi identitari hanno natura dinamica; se si i gruppi etnici sono disponibili al confronto e al dialogo, si possono evitare le cristallizzazioni che costringono il pluralismo a ghettizzare chi è intollerante con i tolleranti. RR
[1] ‘Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale’ di Samuel P. Huntington.

LA VISITA DEL CARDINALE TAURAN IN ARABIA SAUDITA (26.4.2018)
Nei giorni scorsi il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, è stato in visita in Arabia Sauditi: ha avuto incontri con i vertici istituzionali del Paese e con il re Salman bin Abdulaziz. L’evento ha un grande significato storico che tuttavia non va enfatizzato eccessivamente. Sicuramente sulla base dell’instaurazione di queste nuove relazioni diplomatiche, il Vaticano potrà porre le premesse per ottenere un miglioramento delle condizioni delle comunità cattoliche in terra saudita. Per l’Arabia Saudita l’incontro con i vertici politici del mondo cattolico inaugura un cambiamento epocale: l’iniziativa rientra tuttavia nella più generale strategia del leader saudita di ‘normalizzare’ il Paese, sia nelle questioni interne che in quelle di politica estera, intrapresa con lo scopo di un pieno inserimento della maggiore nazione del Golfo nella comunità internazionale. Ma per cambiare non basta modificare l’ordinamento giuridico: è necessario che si consolidi una nuova cultura sociale, politica e religiosa. Un banale esempio. Ora le donne in Arabia Saudita possono liberamente circolare in bicicletta (fino a qualche settimana fa non era consentito), ma vengono ancora ‘fermate’ dai poliziotti che non si sono abituati all’innovazione. Il fronte musulmano non è unitario e quindi questa eventuale e presunta normalizzazione di rapporti fra Islam e Cattolici impegnerebbe solo il Regno saudita. Da sempre l’Arabia Saudita, finora con successo, cerca di accreditarsi come il Paese leader del mondo islamico sunnita, mentre l’Iran mantiene solidamente la leadership sciita. In proposito, Salman bin Abdulaziz ha intrapreso anche una politica di ‘disgelo’ con lo Stato ebraico, in contrapposizione ai sempre più delicati rapporti fra Iran e Israele. Da queste premesse si comprende come gli incontri in questione fra lo Stato Città del Vaticano e Regno dell’Arabia Saudita siano solo  iniziative politiche, pur sempre di grande importanza ma non suscettibili al momento di incidere sui generali rapporti religiosi fra Islam e Cristiani. RR

RIFLESSIONI SULLA TRATTATIVA STATO – MAFIA (24 aprile 2018)
In questi giorni a seguito dell’attesa sentenza sulla trattativa Stato - mafia si è parlato molto di questo argomento. Sicuramente l’espressione ‘Trattativa Stato – mafia’ è una sintesi verbale molto infelice, perché evoca l’immagine di una nazione interamente asservita alle consorterie mafiose. Non è così: le componenti che hanno sbagliato non rappresentano tutto il Paese, che fra i più valorosi eroi ha avuto magistrati come Antonino Scopelliti, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Rosario Livatino, o appartenenti alle forze dell’ordine come Carlo Alberto Dalla Chiesa, Ninni Cassarà, Boris Giuliano e Emanuele Basile, o uomini come Peppino Impastato e Libero Grassi.  Lo Stato accusato della presunta trattativa con la mafia è lo stesso che con tenacia ha combattuto, catturato, processato e condannato Riina, Bagarella, Brusca e tanti altri criminali. Tornando a considerazioni più specifiche sulla cosiddetta ‘Trattativa Stato - mafia’ sarebbe opportuno evitare che questa odiosa espressione accomuni sotto uno stesso denominatore posizioni processuali molto diverse. Prima di esporre alcune riflessioni che prescindono dalla conoscenza delle motivazioni della sentenza, vorrei che fosse chiaro il mio punto di vista:
-         la mafia è il peggiore cancro della società italiana;
-         non mi piace chi minimizza il fenomeno dicendo che la mafia non esiste: anche se molto provata dai colpi dello Stato per la definitiva sconfitta delle organizzazioni mafiose c’è ancora molto lavoro giudiziario,  ‘culturale’ e politico da fare;
-         non credo alle mitizzazioni edulcoranti del ‘codice d’onore’ mafioso: forse è esistito in passato, ma stento a credere che abbia una morale o abbia un minimo di umanità o dei riferimenti etici chi ha barbaramente decretato la morte di un adolescente sciogliendolo nell’acido nel tentativo di far tacere suo padre divenuto collaboratore di giustizia;
-        penso che l’applicazione dei rigori del 41 bis debba rientrare nelle legittime prerogative dello Stato.
Premesso tutto questo è opportuno operare delle precisazioni, innanzitutto sulla posizione dei giudici, sia inquirenti che giudicanti, impegnati in questo procedimento giudiziario: i magistrati hanno sicuramente fatto molto bene e con perizia e  coraggio il loro dovere, che tuttavia è agevolato dall’esistenza di chiari e oggettivi parametri di riferimento, ovvero la tassativa applicazione delle norme giuridiche. Mi spiego meglio: se una condotta oltrepassa la linea del lecito va sanzionata, altrimenti è espressione di legittima libertà. Per un appartenente alle forze dell’ordine l’adempimento del dovere, soprattutto in certe posizioni di vertice, può richiedere valutazioni più complesse. Per essere ‘nel giusto’ non basta rispettare la legge. Spesso appartenenti alle forze dell’ordine e tanti magistrati sono ‘in trincea’ nel combattere le derive criminali; questo significa che devono compiere delicate valutazioni nel perseguire come obiettivo quello di evitare il male peggiore:  a tale scopo possono essere necessarie anche iniziative extra ordinem, contatti ‘pericolosi’ e ‘sospetti’, comportamenti non ortodossi. Con questo non ritengo che sia da scusare qualsiasi condotta di rappresentanti dello Stato quando sia legittimata dal fine: le norme vanno sempre osservate e  chi sbaglia deve pagare per i suoi errori. Tuttavia non è giusto che si attribuiscano patenti di mafioso o di criminale a chi, pur sbagliando, ha agito in buona fede o ha ritenuto di fare il meglio nell’interesse della comunità. Pertanto la pubblica opinione dovrebbe sottilmente tenere presenti queste circostanze evitando l’attribuzione temeraria di etichette infamanti. Naturalmente nessuna pietà ‘giudiziaria’ per chi è realmente colluso  o connivente con la mafia. In termini estremamente sintetici credo che chi sia stato condannato in questa pronuncia giudiziaria, pur avendo violato norme giuridiche e perciò meritevole di sanzione, non necessariamente ha intrattenuto pericolose relazioni con persone di dubbia onestà o mafiosi in mala fede. Chi invece lo ha fatto è giusto che sia condannato con durezza anche per questo. RR

GAZA, TERRA DI TUTTI E DI NESSUNO (su L’Azione del 27 aprile)
Recentemente Gaza è stata teatro di proteste represse con violenza dall’esercito israeliano. Dopo la Prima Guerra Mondiale Gaza divenne oggetto del mandato britannico insieme alla Palestina. Nel ‘48 con la Cisgiordania passò sotto l’amministrazione egiziana per poi tornare israeliana con la guerra dei sei giorni nel ‘67. Con il Trattato di pace del ‘79 con l’Egitto gli israeliani restituirono il Sinai ma non Gaza, essendo ivi cominciati gli insediamenti coloniali. Con le intese di Oslo del ’93 Israele riconobbe a Gaza il diritto di autogovernarsi: il leader palestinese Arafat stabilì in Gaza City il centro politico della regione. Nel 2005 Israele decise l’evacuazione degli ebrei dalla Striscia di Gaza; ne mantenne il controllo dei confini marittimi. L’economia della Striscia da allora è condizionata dal blocco israeliano delle sue frontiere terrestri e marittime. Nel 2006 esponenti politici legati ad Hamas vinsero le elezioni palestinesi e si insediarono a Gaza. L’ascesa di Hamas forse fu favorita anche dai servizi di sicurezza israeliani che avevano intuito che il fondamentalista Hamas, per le sue posizioni radicali, sarebbe entrato in contrasto con il laico e moderato Al Fatah. Gli israeliani non avevano previsto che Hamas sarebbe diventata una grave minaccia. A seguito della politica dell’attuale governo israeliano sono ripresi gli scontri a Gaza. Le voci critiche ‘interne’ sulla repressione militare fanno ritenere che queste iniziative non corrispondano alle scelte della nazione israeliana ma abbiano il loro fondamento nelle opzioni di un governo che sta riportando il Paese nell’isolamento politico mentre sarebbe maturo il suo pieno ingresso nella comunità internazionale. RR

SALONE DEL LIBRO DI TORINO: LIBRI E WEB (su L’Azione del 20 aprile 2018)
Con l’avvento della era digitale siamo passati dalla necessità di ricercare  informazioni attraverso libri e media tradizionali ad un sovraccarico cognitivo, cioè ad un  eccesso di conoscenze che richiede una capacità opposta, quella di orientarci nell’abbondanza di nozioni, non sempre corrette. In proposito, un intellettuale elvetico per descrivere la Rete ha usato una felice metafora: ha paragonato il Web ad una sintesi fra la biblioteca di Alessandria e la Cloaca Massima. Il flusso di notizie che indiscriminatamente ci sommerge assomiglia anche al moto anarchico delle onde dell’oceano, che rendono difficoltoso un approdo sicuro non per la mancanza di forze che ci sospingano, ma per il loro eccesso. Questo nebbioso contesto è un terreno fertile per fake news, banalizzazioni, e apologie varie che alimentano odio, violenza e pregiudizi. Internet ci da l’illusione che non serva leggere e sapere: c’è Google e Wikipedia che in pochi istanti forniscono risposte. L’antitodo a queste derive è una cultura che sia ancorata a riferimenti oggettivi, che possono essere forniti solo dai libri, i cui contenuti hanno autori sempre individuabili, e un editore  che garantisce per le implicazioni soprattutto giuridiche della  pubblicazione.  Senza rinunciare agli indubbi vantaggi del Web, il libro deve tornare ad essere l’elemento centrale della costruzione della cultura contemporanea: peraltro pubblicare un libro è un’operazione  complessa che richiede studio, impegno e riflessione. L’abitudine alla lettura è importante fin dall’infanzia. Un proverbio dice: un bambino che legge sarà un uomo che pensa. RR

LA STRISCIA DI GAZA, TERRA DI TUTTI E DI NESSUNO (9 aprile 2018)
Da anni e in particolare in questi giorni la Striscia di Gaza è drammaticamente al centro della crisi mediorientale. Negli ultimi mesi Gaza è stata teatro di proteste represse con grave violenza dall’esercito israeliano. Il 6 aprile u.s. 8 manifestanti sono stati uccisi, mentre almeno un migliaio sono stati feriti. L’esercito israeliano ha giustificato la sua sproporzionata reazione affermando di aver sparato solo contro quei manifestanti (che non avevano armi) che cercavano di attraversare il confine fra la Striscia e il resto del territorio israeliano. Analogamente, nonostante le condanne e le critiche internazionali, il governo israeliano ha difeso la condotta dell’esercito, sostenendo che i militari hanno difeso la sicurezza dei confini. Queste giustificazioni sono state ritenute mendaci dall’Autorità Palestinese. Il presidente palestinese Abbas ha chiesto che il rappresentante della Palestina all’ONU, quelli dei Paesi della Lega Araba, quello dell’Unione Europea intraprendano iniziative per fermare le violenze  israeliane. La Striscia di Gaza è una piccola frazione di territorio della Palestina (di circa 360 kmq con una popolazione di meno di 2 milioni di abitanti di etnia araba[i]). Una premessa terminologica convenzionale: uso il termine ‘arabo’ come sinonimo di ‘palestinese’; i Palestinesi infatti non hanno una specifica connotazione etnica, ma sono il popolo di lingua e cultura araba, e di religione musulmana, che vive in  Palestina. Nel XIV secolo la regione di Gaza cadde sotto l’influenza dell’Impero Ottomano integrando la cosiddetta Grande Siria insieme all’attuale Siria e a buona parte del Libano. Dopo la Prima Guerra Mondiale Gaza divenne destinataria del mandato britannico insieme alla Palestina. Successivamente alla guerra arabo-israeliana del 1948[ii]la Cisgiordania e Gaza, grazie al supporto militare di alcuni Paesi arabi solidali nel tentativo di ostacolare la nascita dello Stato d'Israele, passarono sotto l’amministrazione egiziana per poi tornare ad essere territori israeliani a seguito della guerra dei sei giorni del 1967. Con il Trattato di pace del 1979 con l’Egitto, a seguito degli accordi di Camp David, gli israeliani restituirono il Sinai all’Egitto ma non i territori di Gaza, essendo cominciati nel frattempo gli insediamenti coloniali in quella zona. Dopo le intese di Oslo del ’93, Israele riconobbe a Gaza il diritto di autogovernarsi: le forze militari israeliane si ritirarono, mentre il leader dell’Autorità Palestinese Yasser Arafat stabilì in Gaza City il centro politico della regione. Seguirono negoziazioni per definire più chiaramente lo status permanente di questa area, che avrebbe dovuto seguire le sorti della West Bank[iii]. Queste intese si interruppero nel 2000 con la Prima Intifada. Dopo la morte di Arafat e l’elezione di Mahmoud Abbas, capo di Al Fatah[iv], come presidente della Palestina, la situazione sembrava avviata verso una stabile normalizzazione ed emersero prospettive di pacificazione fra le due etnie, quella araba e quella ebrea. Nel 2005 Israele decise unilateralmente l’evacuazione della popolazione israeliana dalla Striscia; ne mantenne tuttavia il controllo del traffico marittimo e dei confini; in proposito l’economia della Striscia da allora è fortemente condizionata dal blocco israeliano delle sue frontiere terrestri e marittime. Nel 2006 esponenti politici legati ad Hamas[v] vinsero le elezioni palestinesi e inviarono rappresentanti a Gaza, che poterono insediarsi nelle istituzioni governative e militari. Gaza divenne una delle principali basi operative di Hamas anche per iniziative terroristiche. Gli equilibri instabili fra Al Fatah e Hamas crearono contrasti fra i due movimenti, che sfociarono anche in scontri violenti. In effetti l’ascesa di Hamas qualche decennio prima probabilmente fu favorita anche dai servizi di sicurezza israeliani, che avevano intuito che Hamas, movimento fondamentalista sunnita, per le sue posizioni radicali prima o poi sarebbe entrato in collisione con il più laico e moderato Al Fatah, e questo avrebbe indebolito la società palestinese. Tuttavia gli israeliani forse non avevano previsto che Hamas sarebbe diventata una delle più gravi minacce per Israele. Nel 2011 Hamas e Al Fatah si accordano per unificare le sorti di Gaza a quelle di tutta la Cisgiordania. Dal 2012 fu ribadito il controllo dell’Autorità Palestinese sulla Striscia e sulla West Bank. A seguito della politica dell’attuale governo israeliano, che si concreta in ingerenze e interferenze nell’amministrazione palestinese di Gaza che causano situazioni conflittuali  con la comunità araba, sono iniziati gli scontri che in questi giorni hanno avuto una grave recrudescenza. Le voci critiche all’interno del Paese e il dibattito sugli organi di stampa (su Haaretz in particolare) inducono a ritenere che queste iniziative violente, che in qualche modo vanno correlate alla deportazione di migliaia di africani, non corrispondano alle scelte politiche della nazione israeliana, ma abbiano la loro paternità nelle opzioni politiche di un governo, il più di destra nei settant’anni di storia di Israele, che sta riportando il Paese in una condizione di isolamento internazionale mentre sarebbe maturo e legittimo il suo pieno ingresso nella comunità internazionale. RR


[i] La maggior parte della popolazione è composta da rifugiati fuggiti dalle loro case durante la prima guerra arabo-palestinese del 1948 e dai loro discendenti.

[ii]Il conflitto fu caratterizzata dallo scontro fra la componente ebraica e quella araba insediate in Palestina.

[iii]Cioè la Cisgiordania detta West Bank poiché è situata sulla riva occidentale del fiume Giordano.

[iv] Al Fatah è il movimento di liberazione palestinese.

[v] Hamas è il movimento di resistenza islamica, braccio operativo dei Fratelli Musulmani per contrastare Israele. Hamas non ha un esercito vero e proprio nella Striscia di Gaza, ma possiede un’ala militare, le brigate 'Izz al-Din al-Qassam.

L’INCIDENTE TRANSFRONTALIERO A BARDONECCHIA FRA ITALIA E FRANCIA (5 aprile 2018)
Com’è noto, il 30 marzo u.s. cinque agenti doganali francesi, impegnati nell’inseguimento di un presunto trafficante di droga, hanno fatto irruzione in un locale della stazione di Bardonecchia utilizzato a scopi umanitari dalla ong Rainbow4Africa, In proposito a livello politico con molta enfasi e probabilmente con qualche intento speculativo si è ritenuto che sia stata consumata una grave violazione della sovranità territoriale italiana da parte di operatori doganali transalpini. La condotta degli operatori francesi potrebbe non essere stata del tutto ortodossa o pienamente rispettosa del quadro normativo internazionale vigente, ma non sembrano tuttavia esserci i presupposti per  sollevare un caso diplomatico. Questo tipo di inseguimento transfrontaliero infatti è previsto dalla Convenzione di Schengen che con l’art. 41 autorizza gli agenti di uno Stato contraente che nel proprio Paese inseguono una persona colta in flagranza di uno dei reati specificamente indicati nel trattato a continuare l'inseguimento nel territorio di un altro Stato contraente confinante senza l’autorizzazione preventiva dello Stato ‘invaso’ qualora non sia possibile per motivi  di urgenza. Queste disposizioni sono integrate da accordi bilaterali tra Italia e Francia – come quello di Chambery del 1997 in materia di collaborazione doganale e di polizia, o quello per l’esecuzione di operazioni congiunte del 2012 - o da trattati che prevedono forme di cooperazione rafforzata fra più governi come quello di Prun del 2005. Specifiche intese riguardano la delicata tratta ferroviaria fra Modane (il primo comune francese oltre il confine) e Bardonecchia. Vanno sicuramente accertate le modalità esecutive dell’operazione per verificarne la piena legalità; eventuali violazioni di specifiche norme possono rilevare sul piano sanzionatorio (ad esempio, come abuso in atti d’ufficio o violazione di domicilio), ma lo sconfinamenti di operatori in sé considerato in questi casi è del tutto consentito. Il reale problema riguarda invece la legittimità dell’introduzione nei locali dell’associazione Rainbow4Africa, poiché lo stesso articolo 41 dell’accordo di Schengen vieta in questi casi l’ingresso nei domicili e nei luoghi non accessibili al pubblico. In proposito, i locali violati della stazione di Bardonecchia, attualmente in uso all’ong, sono di proprietà del comune e in passato, in base ad un accordo del 1963, erano stati messi a disposizione della polizia francese: da questa pregressa circostanza si sarebbe originato l’equivoco che avrebbe giustificato l’irruzione degli agenti doganali francesi. La tesi del malinteso in realtà non è molto convincente visto che a marzo vi era stato uno scambio epistolare tra Ferrovie dello Stato italiane e Dogane francesi, da cui emergeva chiaramente come queste ultime fossero al corrente che i locali della stazione di Bardonecchia, precedentemente accessibili ai loro agenti, non lo erano più, essendo attualmente occupati da una organizzazione non governativa a scopo umanitario. Peraltro, proprio per discutere la questione, i due Paesi avevano convenuto di incontrarsi  a livello tecnico presso la Prefettura di Torino a metà aprile. Probabilmente non è un caso che la questione apparentemente di carattere squisitamente tecnico si sia tradotta in  un contrasto che coinvolge i migranti, ovvero una materia spesso frutto di malintesi mossi da intenti egoistici nazionali. Quanto avvenuto richiede un formale chiarimento fra i due Paesi ed è forse l’occasione per concordare un comune approccio in tema di accoglimento o di respingimento di migranti secondo i casi, per una comune politica nel quadro della buona collaborazione fra le due polizie nazionali. RR

I CONTRASTI NELLA GALASSIA FONDAMENTALISTA AFGHANA (3 aprile 2018)
Mujaheddin, Talebani e militanti dell’Isis hanno un’importanza centrale nelle recenti vicende dell’Afghanistan. I Mujaheddin sono guerriglieri islamici attivi nell’Asia centrale: durante la guerra russo-afghana, sostenuti  da Stati Uniti, Pakistan e Arabia Saudita, contrastarono l’intervento militare sovietico a sostegno del governo progressista afghano. I Talebani, vincitori nel 1995-6 della guerra civile successiva al ritiro russo, conquistarono il potere imponendo un regime teocratico fondato sulla rigida applicazione del Corano; destituiti da una coalizione occidentale per aver supportato Al Qaeda continuarono ad operare nella clandestinità anche per contrastare l’ascesa dello Stato Islamico. Lo Stato Islamico, inizialmente lontano dai principali centri abitati afghani, progressivamente aumentò la sua influenza nel Paese. Emersero seri motivi di contrasto fra Talebani e Isis. Il  traffico di droga, con il quale  i Talebani finanziavano l’acquisto di armi, attirò l’interesse dell’Isis che maturò  l’obiettivo di acquisirne il monopolio. Lo Stato Islamico inoltre si attivò per fare proselitismo per reclutare militanti talebani, allettandoli con un migliore compenso economico. Ulteriore causa di divisione fu l’obiettivo strategico correlato all’imposizione della Sharia. I Talebani essendo nazionalisti limitavano la loro attenzione alle  sole vicende afghane; lo Stato Islamico coltivava invece un’ambizione globale, la vocazione di estendere l’influenza jihadista quanto più possibile. I contrasti fra gli islamisti in Afghanistan provano che l’Islam, oltre ad essere una religione, è un’ideologia politica.  RR

AFRICA, LA CRESCENTE ISLAMIZZAZIONE E LA PRESENZA CRISTIANA (30 marzo 2018)
L’islamizzazione  del continente africano è in costante aumento. Per contrastare questo processo è necessario conoscerne le cause. Innanzitutto il proselitismo islamico, che spesso procede parallelamente all’espansione fondamentalista, è facilitato dai matrimoni misti fra musulmani e cristiane, a seguito dei quali le donne non solo abbandonano la loro fede ma non possono nemmeno condizionare l’educazione religiosa dei figli. Inoltre alcuni Stati musulmani del medio e vicino oriente mettono a disposizione di studenti africani borse di studio che consentono ai più meritevoli di recarsi in nazioni arabe per una formazione professionale, che ha sempre anche una marcata impronta confessionale. I giovani che possono avvalersi di queste opportunità spesso si convertono all'Islam: al loro ritorno questi neoislamici sono destinati a integrare la futura classe dirigente dei rispettivi Paesi di provenienza. A questo quadro si aggiungono le iniziative dell’Arabia Saudita, che finanzia la costruzione di moschee e fornisce sostegno economico a chi voglia intraprendere un’attività professionale. La monarchia saudita approfitta di queste attività per diffondere il pensiero islamico, che è anche un’ideologia politica e uno stile di vita esteriore. L’Occidente deve evitare che un tale contesto possa essere terreno fertile per lo sviluppo di frange fondamentaliste. In proposito il primo obiettivo da perseguire è favorire in ogni modo il mantenimento del carattere laico delle istituzioni dei Paesi africani. Questo fine può essere conseguito anche con il generoso contributo delle missioni religiose, che possono contenere le derive jihadiste non solo promuovendo l’evangelizzazione  attraverso le attività di formazione spirituale e di solidarietà sociale, ma anche promuovendo ogni mezzo che supporti la comprensione interreligiosa.  Pertanto, nonostante le manifestazioni di ostilità e l’aggressività del radicalismo islamista contro i cristiani, le missioni generalmente esprimono una considerazione positiva dell’Islam al fine di non compromettere qualsiasi possibile forma di dialogo. Analogamente le missioni in Africa svolgono iniziative assistenziali contro la miseria e contro le malattie nei confronti della popolazione a prescindere dalle scelte religiose individuali: i missionari così non solo non enfatizzano, ma minimizzano le cause dell’odio nei loro confronti, che spesso hanno la loro fonte nella predicazione violenta degli estremisti islamici, ed evitano così di creare i presupposti per una guerra di religione lasciandosi coinvolgere in essa. Paradigmatica della situazione dei cristiani in Africa è la loro condizione in Nigeria; qui sono minacciati non solo dal fondamentalismo islamista e dalle derive terroristiche di Boko Haram, ma anche dagli scontri etnico-tribali, dagli incerti equilibri di potere, dalle ingiustizie e dalle violenze. I cristiani sono inoltre  discriminati in tutti gli aspetti della vita quotidiana.  A proposito delle missioni cristiane, mi viene in mente una frase dello scrittore bengalese Tagore:  “Sognai, e vidi che la vita è gioia; mi destai, e vidi che la vita è servizio. Servii, e vidi che nel servire c’è gioia”. Ci deve anche motivare verso il bene e l’altruismo la constatazione che quello facciamo per noi muore con noi, mentre quello che facciamo per gli altri sopravvive alla nostra morte. RR

LINEE GENERALI DI INTERVENTO PER UNA MAGGIORE   EFFICIENZA DELLA SICUREZZA LOCALE (1.4.2018)
1.     Premessa
La parola ‘welfare’, ormai ampiamente entrata nel linguaggio comune, significa in lingua inglese ‘benessere’; un benessere convenzionalmente considerato da un punto di vista economico e sociale. In realtà una componente imprescindibile del benessere è la sicurezza dei cittadini: ridurre nella vita reale l’esposizione a pericoli o a danni si traduce infatti in una migliore qualità di vita. Il carattere composito e multietnico della nostra società richiede un’azione attenta ed equilibrata di tutti gli operatori delle istituzioni coinvolte al fine di predisporre le necessarie misure preventive sia in senso generale (cioè nei confronti di tutti) che con specifico riferimento ai soggetti e agli ambienti che richiedono una particolare attenzione, senza preclusioni di carattere politico, ideologico, sociale, etnico e religioso.

2.     La situazione locale in generale
Gli enti locali, essendo esponenziali degli interessi della comunità stanziata in un  territorio, tra le proprie prerogative devono garantire un adeguato livello di sicurezza nei limiti della loro competenza. Da un punto di vista ordinamentale questa attribuzione in via primaria compete alle Autorità Provinciali di Pubblica Sicurezza: in base alla legge 121/81 nel capoluogo di pertinenza il questore ha la responsabilità e il coordinamento tecnico-operativo dei servizi di ordine e sicurezza pubblica; il prefetto ne ha invece la responsabilità generale.  Le  forze dell’ordine - soprattutto Polizia di Stato e Carabinieri - assicurano un controllo coordinato del territorio mediante un piano predisposto dalla Questura e dal Comando Provinciale dell’Arma dei Carabinieri. Questo sistema favorisce un’azione sinergica, razionalizzando e ottimizzando i compiti delle Forze dell’Ordine. Nonostante questo quadro normativo che concentra nelle istituzioni statali le attribuzioni in materia di ordine e sicurezza pubblica, gli enti locali non devono sentirsi esonerati e deresponsabilizzati, ma devono impegnarsi a supportare l’azione delle istituzioni competenti in via principale. Affrontando questi temi si deve prendere atto delle peculiarità che negli ultimi anni hanno trasformato la nostra società in una realtà multietnica: questa contingenza richiede l’adozione di tutte le predisposizioni perché i processi di integrazione siano strutturati in  maniera tale che la componente immigrata possa essere una risorsa e non costituire un elemento di frattura sociale e di eversione dell’ordine. Spesso infatti deprecabili conflittualità e degenerazioni che a prima vista sembrano  motivate da pregiudizi xenofobi, non raramente evidenziano una diversa genesi, ovvero sono originati da fenomeni che possono essere definiti di razzismo di ritorno. In altri termini chi vive in condizioni di reale disagio diventa intollerante nei confronti di chi gode di ingiustificati  privilegi, di un’immotivata ipertutela, o fruisce di risorse solo perché appartenente a una componente sociale aprioristicamente considerata debole, come quella pertinente alla condizione di immigrato. In questo scenario i programmi e i provvedimenti delle autorità locali prendendo atto del nuovo assetto devono  privilegiare le priorità dello Stato e della comunità dei cittadini. La sicurezza a livello periferico è un progetto aperto in quanto si tratta di un tema non esplorato in tutte le sue potenzialità: ogni possibile iniziativa non deve essere bloccata da situazioni istituzionali consolidate, la cui attualità va verificata per rendere il sistema adeguato alla esigenze di ordine e sicurezza emergenti. Naturalmente gli enti locali possono solo aderire al quadro normativo vigente e subirne i limiti. Il cambiamento compete agli organi istituzionali centrali.

3.     La situazione locale in particolare
La sicurezza urbana può essere definita come quella parte della sicurezza pubblica diretta a prevenire fenomeni d’illegalità concentrati nel territorio comunale e che riguardano la sicurezza della città, l’ordinata convivenza, l’ambiente e la qualità della vita. Come è stato precisato in precedenza, in linea generale la sicurezza  urbana, essendo parte della sicurezza pubblica, rientra nelle competenze dello Stato: le tassative attribuzioni del Sindaco in materia sono infatti esercitate prevalentemente come ufficiale di governo. Questa cornice normativa non preclude alle istituzioni locali iniziative a sostegno della legalità. In  particolare possono essere adottate a livello urbano azioni per contrastare il senso di diffusa insicurezza; o per prevenire le situazioni di offesa alla pubblica decenza (come la prostituzione su strada o l'accattonaggio molesto), o per contrastare il degrado che favorisce l'insorgere di fenomeni criminosi quali lo spaccio di stupefacenti; possono essere combattute anche le ipotesi di violenza legate all'abuso di alcool e il danneggiamento al patrimonio pubblico e privato, comprese le condotte che ne impediscono la fruibilità. Queste funzioni devono realizzarsi attraverso un contributo organico della Polizia Municipale[1] a sostegno del personale delle forze di polizia: una cooperazione non più limitata come in passato a specifiche operazioni ma prevista più ampiamente nel rispetto delle direttive di coordinamento impartite dal Ministro dell’Interno. Su questa base vanno considerate tutte le specifiche forme di collaborazione per un ottimale  controllo del territorio. Ad esempio, l’esperienza della polizia di prossimità può essere allargata al vigile di quartiere; può inoltre essere incrementata la videosorveglianza e la pubblica illuminazione. La presenza straniera correlata a condizioni di disagio ed emarginazione può essere terreno fertile di illegalità. La presenza degli stranieri è destinata a consolidarsi e ad incrementarsi. Gli interventi e le politiche di governo locale pertanto dovranno avere natura strutturale uscendo dalla fase emergenziale. Va considerata l’eventualità di evitare o contrastare la creazione o il  mantenimento di quartieri destinati ad ospitare comunità ad elevata presenza di etnie extraeuropee: queste aree potrebbero diventare zone ‘franche’ di difficile controllo. Le politiche di accoglimento devono presupporre la legalità delle condotte dei destinatari e la loro disponibilità all’inserimento lavorativo nel tessuto sociale. Non deve esistere una preconcetta ostilità nei confronti degli immigrati, ma la volontà di reprimere con decisione chi delinque, sia esso italiano o straniero. Chi delinque è principalmente un individuo che si pone al di fuori del sistema, diventando irrilevante la sua etnia. RR



[1] In alcuni casi sarà necessario che gli operatori abbiano la qualifica di agenti di pubblica sicurezza.

IL COLPO DI CODA DELL’ISIS (24 marzo 2018)
Il 23 marzo un franco-marocchino simpatizzante dello Stato Islamico, già noto alle forze di sicurezza francesi, ha ucciso tre persone in diverse azioni criminose perpetrate a Carcassonne  e a Trebes, due città vicine nel sud della Francia. Il terrorista è stato successivamente eliminato dalle ‘teste di cuoio’ francesi. L’attentato evidenzia che l’Isis, sebbene sia stato quasi definitivamente sconfitto sul piano militare, ha ancora le potenzialità per perpetrare  atti terroristici anche se in misura ridotta rispetto al passato. Come ha acutamente notato un apprezzato analista italiano, “l’Isis non è morto, ha solo cambiato pelle”. Questo attentato, come analoghe recenti iniziative, è stato commesso da un ‘lupo solitario’. Con questa definizione ci si riferisce a soggetti che, pur non essendo incardinati nell’organico di un gruppo terroristico, si attivano subendo l’efficacia suggestionante del proselitismo jihadista. Questa realtà di fatto sembra il risultato di una precisa strategia: lo Stato Islamico valendosi della multimedialità della Rete alimenta una  propaganda che induce soggetti che hanno subito un processo di radicalizzazione a passare da una fase dormiente all’operatività. I lupi solitari si distinguono in due tipologie: quelli che hanno avuto uno specifico addestramento - che pertanto hanno grandi capacità offensive - e quelli non addestrati. In futuro il radicalismo islamico  potrà avvalersi soprattutto di ‘lupi solitari’: sembra improbabile che possano essere perpetrati attentati che richiedono organizzazione e professionalità dal momento che lo Stato Islamico non dispone più dei campi di addestramento in Iraq e in Siria. RR

ITALIA, STATO ETICO E DEMOCRAZIA (17 marzo 2018)
A prescindere dalle valutazioni relative alle proprie specifiche simpatie politiche, dalle recenti consultazioni elettorali italiane è emersa una realtà oggettivamente estremamente frammentata e composita, caratterizzata dalle difficoltà individuali di riconoscersi in comuni valori collettivi. La situazione nazionale non è isolata e peculiare, ma si inserisce nella più ampia crisi causata dalla perdita degli ideali che in passato hanno alimentato la civiltà occidentale. Stiamo vivendo quello che alcuni hanno definito ‘l’ordine mondiale post-occidentale’. Ha contribuito all’attuale disgregazione morale un liberismo sfrenato che ha permesso l’assoluta prevalenza di interessi e vantaggi particolari, e che ha consentito speculazioni economiche e finanziarie prodromi di una insostenibile ingiustizia nella distribuzione delle ricchezze. Anche la perdita di influenza e di controllo sul resto del mondo con effetti indotti come l’incapacità di gestire i flussi migratori è il risultato di un sistema disarmonico ed eticamente anarchico. In concreto, dopo il crollo del comunismo in Urss e negli Stati satelliti, anche l’Occidente ha subito una disfatta, integrata dall’oblio della propria coscienza, cioè dallo smarrimento di una comune cultura e di un condiviso patrimonio di idee pur nel rispetto delle diversità regionali. La civiltà occidentale si è trasformata in un’entità disorganica e disomogenea. La globalizzazione ha contribuito alla sostituzione dei principi morali con prassi imposte da egoismi nazionali e transnazionali. Tornando alla situazione italiana, che è corollario di questo più ampio quadro mondiale, nell’attuale clima di incertezza e confusione si avverte la necessità di una rifondazione etica. Questa considerazione deve essere valutata con le dovute cautele, in quanto una rifondazione morale richiederebbe un apparato statale di tipo etico che generalmente si riscontra nei regimi autoritari, dal momento che in questa tipologia ordinamentale viene privilegiata l’imposizione di tutto ciò che è ritenuto conveniente prescindendo dagli orientamenti e dalle idee dei cittadini, che sono considerati soggetti da educare, piuttosto che individui da ascoltare. Lo Stato infatti è giudice assoluto di ciò che è bene e male per il singolo e per la collettività, mentre la condotta del singolo è lecita solo se preordinata al bene comune. Da questo punto di vista lo Stato ‘etico’ sarebbe da contrapporre allo Stato liberale, che è invece garante dei diritti di libertà dei cittadini, che al contrario, nei limiti delle norme dell’ordinamento giuridico, sono messi nella condizione di scegliere la condotta che desiderano o che valutano più opportuna. Da queste premesse sembrerebbe dunque impossibile conciliare uno Stato ad impronta etica con la democrazia. Esiste un modo per armonizzare i due termini. Questa armonizzazione può avvenire qualora la scelta di comprimere il contenuto delle libertà individuali per privilegiare il ritenuto bene collettivo trovi fondamento in una scelta dei cittadini compiuta attraverso i meccanismi elettorali. Probabilmente la rapida e completa realizzazione del bene comune impone anche la modifica dei meccanismi istituzionali, che dovranno rafforzare i poteri della maggioranza al potere. In termini concreti la rifondazione etica del nostro Paese sembra una necessità indifferibile. Tuttavia i meccanismi per garantirla devono essere valutati con molta prudenza e cautela. RR 

IL POPULISMO EUROPEO (7.3.2018)
Negli ultimi tempi si è assistito alla rapida ascesa di talune formazioni europee (per citarne alcune: il Partito per la Libertà nei Paesi Bassi, il Front National in Francia, Alternative für Deutschland in Germania, il Partito dei Cittadini Insoddisfatti nella Repubblica Ceca, Diritto e Giustizia in Polonia, il Partito della Libertà in Austria, l’Unione Civica Ungherese in Ungheria, il Partito per l'Indipendenza del Regno Unito in Uk, il Movimento 5 Stelle e la Lega in Italia) la cui linea politica viene liquidata considerandola espressione di demagogia e populismo. La questione è un po’ più complessa e articolata, anche se questa matrice ideologica è sicuramente presente. La demagogia è generalmente  definita come la capacità di irretire i cittadini con sottili inganni, manipolazioni, promesse irrealizzabili. Era già nota nell’Antica Grecia, ed era considerata una degenerazione della democrazia: per Aristotele conduceva all’oligarchia o alla tirannide. Il populismo, che ha molti punti in comune con la demagogia, cavalca l’onda del malcontento e della sfiducia verso le istituzioni che sono emanazione di una indefinita casta dominante al potere; si cerca  così di favorire un ricambio politico. Come la demagogia, il populismo si alimenta della disinformazione, dell’emotività, dell’ignoranza, della banalizzazione. Si avvale inoltre ampiamente delle potenzialità mediatiche. In relazione alle menzionate emergenti realtà politiche europee il giudizio sul populismo deve essere considerato in maniera più articolata; in base ad alcuni elementi anche il suo carattere negativo tende ad essere stemperato. Il populismo esprimerebbe infatti innanzitutto una particolare sensibilità  dei leader alle istanze delle masse. In concreto, questi movimenti assicurano che le esigenze del gruppo sociale di cui si fanno garanti saranno sempre  valutati prevalenti in una ipotetica comparazione di interessi concorrenti. Un esempio. Il noto slogan di alcuni gruppi politici nazionali ‘….prima gli italiani….’, indica che il favore per chi è cittadino italiano deve essere una direttiva inderogabile nelle opzioni economiche e sociali a prescindere inopinatamente dal merito concreto delle specifiche questioni. Questi movimenti cercano di stabilire un diretto rapporto senza la mediazione di enti e associazioni fra i vertici e la base, con l’obiettivo di sanare il distacco fra politica e società civile. Il popolo è considerato unitariamente, senza divisioni di classe e di ceto, e unitariamente deve essere rappresentato; è contrapposto ad una imprecisata casta egemone al potere corrotta, che deve essere smascherata, emarginata, rovesciata. È frequente il ricorso a toni aggressivi: è ben noto che il risentimento e l’odio tendano ad unire le masse, a creare aggregazione e coesione. I movimenti populisti in genere non hanno specifici programmi o una collocazione formale ‘a destra’ o ‘a sinistra’ma si ispirano a principi massimalisti, ad un generico estremismo velleitario; pertanto possono legarsi volubilmente a qualsiasi ideologia. I leader populisti si proclamano emanazione dell’antipolitica. Più precisamente non rifiutano la politica ma solo i partiti tradizionali, proponendosi come gli unici possibili destinatari di un mandato del popolo. Il rifiuto della dialettica politica tradizionale porta alla fiducia negli esperti e nei tecnici, cioè in una tecnocrazia che supporti l’azione pubblica. Il sistema democratico tradizionale è oggetto di attacco e discredito perché si ritiene che i meccanismi di partecipazione siano insufficienti e inadeguati a rappresentare il popolo. Ma, il concetto di popolo non è facilmente definibile: pertanto, come notò acutamente  Umberto Eco per individuarne la volontà si deve ricorre ad un’immagine virtuale. RR

SIRIA, IL COINVOLGIMENTO INTERNAZIONALE E I GRUPPI RIBELLI (5/3/2018)
Nella crisi siriana il sostegno straniero ha giocato un ruolo fondamentale. La principale componente internazionale della guerra fin dall’inizio è stata lo scontro tra il mondo sunnita e quello sciita attraverso i rispettivi centri di riferimento, Teheran e Riyadh. Per motivi politici e confessionali infatti si schierarono dalla parte del governo siriano (espressione di una minoranza alawita e quindi appartenente al mondo sciita) l’Iran e l’Iraq, nonché l’ambigua milizia armata libanese sciita degli Hezbollah. Gli Stati a maggioranza sunnita, tra cui Turchia, Qatar e Arabia Saudita, sostenevano invece i ribelli anti-governativi. Dal 2016 le truppe turche in prossimità dei confini hanno avviato diverse operazioni contro lo Stato islamico e soprattutto contro i gruppi curdi, i nemici di sempre, supportati dagli Stati Uniti. La Russia è entrata in conflitto nel 2015 ed è stata la principale e decisiva alleata del governo di Assad. Gli Stati Uniti, che dal 2014 guidano la coalizione internazionale contro lo Stato Islamico, sostengono i gruppi anti-Assad anche con il supporto delle iniziative della CIA; vogliono inoltre impedire che la Russia diventi l’artefice di una completa vittoria militare di Assad. L'ex presidente Barack Obama aveva avvertito che l'uso di armi chimiche sarebbe stato il presupposto per un serio intervento militare; con questa motivazione nell'aprile 2017 gli Stati Uniti hanno compiuto la loro prima azione bellica. Pertanto, attraverso i rispettivi alleati, Mosca e Washington sono indirettamente in guerra in Siria. Al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, Russia e Cina hanno ripetutamente posto il veto a risoluzioni proposte da Paesi Occidentali sulla crisi siriana. Israele, che teme le spinte espansionistiche dell’Iran, ha effettuato più volte incursioni aeree in territorio siriano - subendo anche l’abbattimento di un bombardiere - per impedire la costruzione di strutture militari iraniane e per limitare la presenza degli Hezbollah. Oltre ai già menzionati Hezbollah, combattono dalla parte dei ribelli il Fronte Al Nustra, legato ad Al Qaeda fino al 2016, e le Forze Democratiche Siriane (SDF), un’alleanza multietnica e multireligiosa di milizie prevalentemente curde, legata alle Unità di Protezione del popolo curdo (YPG). RR