LE RECENTI ELEZIONI EUROPEE: PRIME RIFLESSIONI (su L’Azione
del 31.5.2019)
Purtroppo un dato costante delle elezioni europee è un elevato numero di ‘non votanti’. Il partito dell’astensionismo paradossalmente potrebbe aspirare a incarichi di governo, essendo supportato da una percentuale che si avvicina alla maggioranza assoluta. Se si esaminano i dati delle precedenti consultazioni europee, si evidenzia che l’astensionismo ha avuto un trend in aumento: nel 1979 quasi il 14%, nel 1984 il 17%, nel 1989 più del 29%, nel 2004 andò meglio e si astenne meno del 27%, nel 2009 il 33,5%. Nel 2014 si registrò il maggior numero di astenuti, un ’preoccupante’ 41% (ovvero più di 20 milioni di cittadini europei). Per questo motivo il Parlamento europeo si è impegnato in numerose iniziative per sensibilizzare i cittadini sulla necessità di partecipare alle consultazioni elettorali, che peraltro questa volta si sono collocate in un momento molto delicato per il futuro degli organismi comunitari. Queste consultazioni elettorali, infatti, sono state caratterizzate dalla contrapposizione fra un forte fronte euroscettico - che ha ottenuto ottimi risultati soprattutto in Italia, in Francia e in Gran Bretagna – e i tradizionali partiti ‘europeisti’ che, nonostante qualche significativa flessione negativa, nel complesso hanno tenuto. Sull’onda dell’effetto ‘Greta’, si è registrato un significativo successo dei Verdi – secondi in Germania e terzi in Francia - che manifesta una generale maggiore sensibilità per le problematiche ambientali. Il dato sull’astensione, considerato il suo carattere fisiologico, non deve incidere sull’attendibilità della volontà espressa dalle elezioni. Emerge un quadro composito: le esigenze di rinnovamento sono chiamate ora al difficile compito di tradursi in proposte concrete. RR
Purtroppo un dato costante delle elezioni europee è un elevato numero di ‘non votanti’. Il partito dell’astensionismo paradossalmente potrebbe aspirare a incarichi di governo, essendo supportato da una percentuale che si avvicina alla maggioranza assoluta. Se si esaminano i dati delle precedenti consultazioni europee, si evidenzia che l’astensionismo ha avuto un trend in aumento: nel 1979 quasi il 14%, nel 1984 il 17%, nel 1989 più del 29%, nel 2004 andò meglio e si astenne meno del 27%, nel 2009 il 33,5%. Nel 2014 si registrò il maggior numero di astenuti, un ’preoccupante’ 41% (ovvero più di 20 milioni di cittadini europei). Per questo motivo il Parlamento europeo si è impegnato in numerose iniziative per sensibilizzare i cittadini sulla necessità di partecipare alle consultazioni elettorali, che peraltro questa volta si sono collocate in un momento molto delicato per il futuro degli organismi comunitari. Queste consultazioni elettorali, infatti, sono state caratterizzate dalla contrapposizione fra un forte fronte euroscettico - che ha ottenuto ottimi risultati soprattutto in Italia, in Francia e in Gran Bretagna – e i tradizionali partiti ‘europeisti’ che, nonostante qualche significativa flessione negativa, nel complesso hanno tenuto. Sull’onda dell’effetto ‘Greta’, si è registrato un significativo successo dei Verdi – secondi in Germania e terzi in Francia - che manifesta una generale maggiore sensibilità per le problematiche ambientali. Il dato sull’astensione, considerato il suo carattere fisiologico, non deve incidere sull’attendibilità della volontà espressa dalle elezioni. Emerge un quadro composito: le esigenze di rinnovamento sono chiamate ora al difficile compito di tradursi in proposte concrete. RR
L’IMPORTANZA DELLE PROSSIME ELEZIONI EUROPEE (su L’Azione del
24.5.2019)
Il
prossimo appuntamento elettorale europeo avrà un’importanza cruciale per il
futuro dell’Europa, in quanto, nonostante le dichiarazioni e i programmi siano
stati confezionati tenendo conto dell’esigenza di rassicurare gli elettori sulla
soddisfazione delle loro attese, si confronteranno gruppi che possono essere
ricondotti a due linee politiche radicalmente diverse. Preliminarmente si
osserva che è sicuramente un sentimento trasversale comune a movimenti e a partiti
l’esigenza di una profonda riforma delle istituzioni comunitarie, che negli
ultimi anni sono sembrate inadeguate a promuovere una condivisa ripresa economica,
palesando inoltre l’incapacità di svolgere un ruolo politico unico nello
scenario internazionale. In proposito i due schieramenti hanno una diversa
visione dei rimedi da opporre a questo momento di crisi. Lo schieramento definito
‘sovranista’ ed ‘euroscettico’ ritiene che sia necessario che gli Stati riacquistino
in tutto o in parte la quota di sovranità che hanno ceduto aderendo all’Unione.
Al contrario gli ‘europeisti’ affermano che, sulla base delle affinità culturali
e storiche che legano i popoli d’Europa, sia necessario consolidare e implementare
l’Unione Europea, ovvero la struttura sovranazionale che, oltre ad assicurare una
maggiore coesione fra i Paesi europei, è l’unico strumento in grado di
fronteggiare le congiunture economiche e le tempeste geopolitiche mondiali. Pertanto
gli elettori sono chiamati a ponderare con particolare attenzione le loro scelte
politiche, perché queste in concreto avranno un’importanza decisiva sul futuro
del progetto comunitario. RR
È IN ATTO UN CONFLITTO FRA CRISTIANI E MUSULMANI? LE STATISTICHE DICONO DI
NO. (su L’Azione del 17.5.2019)
Le indagini iniziali sui recenti attentati del giorno di Pasqua in Sri
Lanka hanno evidenziato che il gruppo islamico radicale responsabile avrebbe
agito per rappresaglia contro i crimini di stampo islamofobo consumati in Nuova
Zelanda nel marzo scorso. L’ipotizzata connessione ha alimentato la
convinzione che sia in atto una guerra di religione: tuttavia un esame
dei dati statistici contraddice questa congettura. Secondo il National
Consortium for the Study of Terrorism and Responses to Terrorism (START -
Università del Maryland) dal 1970 al 2017 gli attacchi contro i luoghi di culto
sono stati meno del 2% di tutte le iniziative terroristiche nel mondo. Se
consideriamo anche le azioni contro altri obiettivi religiosi, la percentuale
si eleva di un solo punto avvicinandosi al 3%. Si deve altresì rilevare che in
tempi recenti, in particolare tra il 2012 e 2018, la statistica ha subito un
brusco incremento soprattutto a causa dell’uccisione di 311 fedeli sufi
all’interno di una moschea nel 2017. Complessivamente le aggressioni
terroristiche a beni privati sarebbero invece il 24%, agli obiettivi militari
il 15,4%, a pertinenze di polizia il 13,5%, a siti governativi o istituzionali
l’11,4%. Questi dati si riferiscono a modelli globali, e quindi si discostano
dalle varianti regionali di cui sono una media. Va anche considerato che alcune
ostilità contro obiettivi musulmani sono stati commessi da frange islamiste
violente. Pur non ridimensionando la gravità dei delitti perpetrati per motivi
confessionali, dalle articolate statistiche elaborate dal predetto osservatorio
universitario statunitense emerge uno scenario che sembra contraddire che
la violenza terroristica di questo inizio secolo sia il corollario di una
guerra di religione, in particolare fra l’occidente cristiano e fondamenta. RR
ATTENTATI NELLO SRI LANKA: ALCUNE RIFLESSIONI (Su L’Azione del 3.5.2019)
Dopo i gravissimi attentati contro la comunità cristiana nel giorno di Pasqua
nello Sri Lanka, si è riacceso il dibattito fra chi ritiene che sia in atto una
guerra globale fra religioni - in particolare fra Islam e Cristianesimo - e chi
invece minimizza le matrici confessionali. È stato evidenziato che la vita
ordinaria a Ceylon è caratterizzata da una tradizionale pacifica convivenza fra
le diverse comunità (buddhista, indù, cattolica, etc.,). I fatti sembrano
indicare il contrario. L’agenzia missionaria Open Doors colloca lo Sri Lanka
fra i Paesi asiatici nei quali si consumano le maggiori ostilità nei confronti
dei cristiani; questo atteggiamento ha avuto come punta avanzata l’opposizione
delle autorità governative cingalesi (di fede buddhista) nel 2015 alla visita
di Papa Francesco, che aveva il fine di chiedere perdono per le atrocità
commesse dalle potenze coloniali. Circa la matrice degli attentati, anche se
non si deve minimizzare la rivendicazione islamista, non è ragionevole
identificare un’intera religione con le iniziative di un gruppo di criminali
fondamentalisti. Sullo sfondo emerge la difficoltà di parlare di Islam al
singolare. In realtà ci sono ‘tanti Islam’. L’Islam infatti non è una monade
dai tratti definiti. Manca un’autorità capace di esprimere una posizione
ufficiale su ogni questione e convivono in questo cosmo tante confessioni che
assumono posizioni anche divergenti. L’Islam è anche un’ideologia in quanto si
pone come scopo finale la radicale trasformazione delle istituzioni politiche
in senso confessionale perseguendo come progetto l’instaurazione di una
teocrazia incompatibile con istanze democratiche. Le derive terroristiche sono
una sciagurata scorciatoia per raggiungere questa malintesa finalità. RR
….LEGGENDO UN LIBRO……(sulla Giornata del Libro - su L’Azione del
26.4.2019)
Sono tante le ragioni che dimostrano che leggere è importante, e che la
lettura migliora la qualità della vita. Leggere innanzitutto è uno strumento di
conoscenza, e uno stimolo alla riflessione che consente momenti di prezioso
isolamento dai rumori di fondo a cui siamo costantemente esposti. Questo
avviene solo quando abbiamo di fronte un libro cartaceo, perché la
lettura su un pc, su uno smartphone o su un tablet al contrario espone a
distrazioni, come notifiche di vario genere o altre contestuali sollecitazioni. Poi,
il mondo digitale trasmette una arcana necessità di dover fare in fretta, che
uccide gli slanci del pensiero critico. Avere in mano un libro e
sfogliarlo rilassa. Nello stesso tempo si acquisisce la consapevolezza
dell’esistenza di un’altra realtà, nella quale ci si può perdere per ritrovare
se stessi. Il libro con i suoi contenuti comunica un po’ della sua eterna
durata insieme all’illusione che per qualche istante ci si possa
sottrarre all’ordinaria condizione di precaria ed effimera temporaneità. Concentrarsi
sulla completa comprensione della comunicazione che procede da una pagina
scritta fa crescere, aumenta l’elasticità e l’abilità della mente. I
messaggi solo verbali rimangono sulla superficie delle relazioni, non possono penetrarne
l’intimità. er questo insegnare a leggere e a scrivere è una delle
missioni più importanti. Comprendere uno scritto è anche uno strumento che
educa all’ascolto. E per costruire una realtà sociale realmente partecipata
questo è fondamentale. Inoltre leggendo si arricchisce il proprio
vocabolario, e si affinano armi per contrastare la difficoltà di trasmettere le
emozioni e le suggestioni che si desidera che siano condivise. Dice un
proverbio arabo che un libro è un giardino che ci portiamo con noi in tasca.
RR
L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE (su L’Azione del 19.4.2019)
Come è noto il diritto internazionale nella vigenza pratica risente del
peso politico dei Paesi nei confronti dei quali si invoca l’applicazione di
norme o principi. In proposito è paradigmatico il recente caso della diversa
opinione dell’Amministrazione americana nei confronti di due fattispecie dai
caratteri a prima vista analoghi. Segnatamente si tratta dell’annessione delle
alture del Golan da parte di Israele e dell’acquisizione della Crimea da parte
della Russia. Il Segretario di Stato Mike Pompeo, sentito sulla questione nel
corso di un’audizione di fronte al Senato americano, ha affermato che secondo
(non meglio precisati) principi di diritto internazionale, il riconoscimento
della sovranità israeliana sulle Alture del Golan - conquistate
da Israele ai danni della Siria nel 1967 durante la Guerra
dei 6 Giorni - non avrebbe nulla in comune con l'annessione della Crimea
da parte della Russia. Israele avrebbe ottenuto le Alture del Golan
legittimamente perché si sarebbe limitato a difendersi anche attraverso
l’acquisizione del territorio conquistato. Diversamente la Russia non era in
una posizione difensiva: in un momento favorevole avrebbe deciso di strappare
illegittimamente un territorio ad uno Stato che non la minacciava. In relazione
a questo caso e a situazioni simili, senza entrare nel merito delle singole questioni,
ci si potrebbe chiedere se il diritto internazionale da un punto di vista
pratico esista realmente. Non si ritiene di poter negare la vigenza di patti,
di trattati, di accordi. Si vuole semplicemente affermare che spesso nella
pratica l’unico diritto che viene tutelato è quello affermato o millantato
dallo Stato più forte. RR
FLUSSI MIGRATORI E CONVIVENZA INTERCULTURALE (su L’Azione del 12.4,2019)
In uno dei suoi ultimi libri (“Stranieri alle porte”, 2016) il
sociologo Zygmunt Bauman (1925 – 2017), uno dei più autorevoli interpreti dei
nostri tempi, sottolinea l’inquietudine dei Paesi europei in relazione
alle questioni connesse ai flussi migratori, auspicando un approccio ispirato
ad un dialogo in grado di superare diffidenze. L’enorme numero di
rifugiati e richiedenti asilo è un corollario della violenza di alcuni scenari
di guerra, che ha spinto decine di migliaia di persone ad abbandonare le
proprie case aggiungendosi al flusso dei migranti economici, cioè di coloro che
continuano a muoversi spinti dal desiderio di una vita migliore. Questi
fenomeni, anziché costituire oggetto di una problematica da affrontare
globalmente considerando l’umanità unitariamente, hanno creato in occidente una
profonda frattura che ne insidia la stabilità. La demagogia politica,
infatti, rigidamente polarizzata su principi simmetricamente opposti, ovvero
quello dell’accoglienza generalizzata e quello del respingimento
indiscriminato, strumentalizza le possibili derive conseguenti ai due
atteggiamenti, rendendo difficili approcci costruttivi che possano conciliare i
principi di civile solidarietà con i problemi strutturali indotti del
sovraffollamento e della criminalità. Al contrario, la convivenza
interculturale richiede continue negoziazioni ed un’opera di mediazione fra i
vari gruppi etnici, al fine di evitare i conflitti fra le diverse identità. I
mutamenti delle condizioni di vita e i costi sociali non dovrebbero essere tali
da alimentare contrapposizioni fra i cittadini del Paese ospitante e i nuovi
arrivati. Solo tenendo presenti questi presupposti e rinunciando ad alimentare
l’enfasi populista di un facile buonismo o all’opposto quella ad effetto di
un’inconsistente intransigenza, le questioni connesse alla convivenza
multirazziale, seppur non risolte, potranno essere affrontate seriamente.
L’integrazione è un dovere civile, ma ha senso qualora sia reale e non si
esaurisca in affermazioni di facciata da spendere per fini politici o scopi
elettorali. RR
INTERNET È ALLA VIGILIA DI UN CAMBIAMENTO EPOCALE? (su L’Azione del 5.4.2019)
Internet potrebbe essere alla vigilia di un cambiamento epocale in materia
di libertà di pubblicazione online. Il Parlamento Europeo ha
approvato (348 favorevoli, 274 contrari) una direttiva che propone di apportare
modifiche rilevanti alle norme vigenti sul diritto d’autore. In
particolare si persegue l’obiettivo di impedire che vengano illegalmente
caricati contenuti sulle maggiori piattaforme digitali, che saranno
responsabili per i contenuti in questione. Questo in concreto si tradurrà in un
pesante onere per alcuni dei servizi più popolari (presumibilmente YouTube,
Facebook e Google News). Un altro nodo problematico della direttiva è la
previsione che obbliga le piattaforme che pubblicano i cosiddetti ‘snippet’ –
cioè frammenti di contenuti (di solito notizie) a cui sono associati ‘link’ di
approfondimento - a munirsi preventivamente di una licenza rilasciata dal
detentore dei diritti sui contenuti stessi. In virtù di questo disposto il
detentore potrebbe infatti pretendere un compenso. Quanto previsto, oltre a
rendere più gravosa la pubblicazione di notizie, potrebbe in concreto
penalizzare la visibilità dei siti di informazione, poiché servizi come Google
o Facebook potrebbero decidere di non pagare il compenso in determinati casi,
rinunciando alla pubblicazione. I Paesi membri hanno due anni per
implementare questa direttiva, i cui effetti potrebbero andare oltre i confini
europei, data la natura transnazionale del Web e la necessità per le aziende di
settore di elaborare politiche globali. La direttiva è valutata negativamente
dai sostenitori della libera espressione attraverso l’esercizio dei diritti
digitali. RR
IL RAPPORTO ANNUALE SULLA FELICITA’: I PAESI AFRICANI AGLI ULTIMI POSTI (su L’Azione del 29.3.2019)
Anche quest’anno l’Onu in occasione della Giornata Internazionale della
felicità (20 marzo) ha pubblicato l’annuale Rapporto Mondiale sulla Felicità. La
classifica è stata redatta chiedendo ai cittadini di 156 Paesi quanto si
ritenessero felici. Il dato è stato poi integrato con quelli relativi
all’aspettativa di vita, al reddito e all’assistenza sociale. Secondo il
Rapporto i Paesi nei quali è più elevata la qualità della vita sono quelli del
Nord Europa, segnatamente la Finlandia, seguita dalla Norvegia, dalla Danimarca,
dall’Islanda, dalla Svizzera e dai Paesi Bassi. Il primo Paese extraeuropeo
classificato è il Canada, seguito dalla Nuova Zelanda. L’Italia è solo
quarantasettesima. Agli ultimi posti risultano i Paesi africani. È il Sud Sudan
il Paese meno felice. Secondo l’Onu, il 60% dei suoi cittadini vive in
condizioni difficili a causa della povertà diffusa e della sanguinosa guerra
civile. Il Sud Sudan condivide le ultime posizioni della classifica con la
Repubblica Centrafricana: le condizioni di vita dei suoi abitanti sono
compromesse da un lungo conflitto civile, da instabilità politica e da una
diffusa e capillare violenza. Il rapporto precisa che in generale la felicità
mondiale è comunque diminuita negli ultimi anni, mentre aumentano, soprattutto
in Asia e Africa, sentimenti negativi come preoccupazione, tristezza e rabbia.
In Africa, la nazione più felice è Mauritius, un arcipelago che ha una buona
crescita economia e una discreta stabilità politica. L’Onu, nell’elaborare
questo rapporto annuale, sembra manifestare la stessa sensibilità delle
autorità del Buthan, il primo Paese al mondo che considera fra i principali
obiettivi di governo la ricerca della felicità dei propri abitanti. RR
CINA ED EUROPA (su L’Azione del 22.3.2019)
La necessità di elaborare una posizione comune nei confronti della Cina
costituisce in questo particolare momento un banco di prova per l’Unione
Europea. Poter operare in contesti internazionali come un unico ente
politico - ovvero adottando soluzioni condivise da tutti gli Stati Membri - è
sempre stata la maggiore aspirazione comunitaria. Al contrario, di fronte alla
rapida ascesa della potenza cinese, alla destabilizzazione dei mercati
finanziari, alle tensioni non sempre latenti fra Cina e Stati Uniti, i Paesi
europei finora si sono limitati ad intraprendere iniziative individuali (ovvero
che potessero giovare solo ai propri interessi nazionali), favorendo così le
aspettative globali di Pechino e confermando la difficoltà europea di elaborare
comuni politiche in ambito internazionale. In proposito, è nota la contrarietà
della Francia - che avrà prossimamente accordi bilaterali con i vertici cinesi
- per l’accordo italiano sulle ‘nuove vie della seta’. La Commissione
Europea, al fine di fissare i presupposti per una politica unitaria, il 12
marzo u.s. ha pubblicato una lista di dieci proposte in merito ai rapporti tra
l’Unione Europea e la Cina. Questo documento sarà discusso prossimamente dai
Capi di Stato e di Governo. L’iniziativa della Commissione, anche se non
risolverà le conflittualità e le contraddizioni fra le principali economie
europee, può essere considerata positivamente, in quanto manifesta l’intenzione
dell’esecutivo comunitario di riappropriarsi di una leadership
nell’elaborazione di politiche comuni, negli ultimi tempi sacrificata a
vantaggio di un atteggiamento sterile e remissivo di fronte alle pretese
sovraniste degli Stati Membri. RR
È ovviamente oggetto di acceso dibattito la riforma della scriminante della
legittima difesa. In effetti l’istituto negli ultimi anni non si era dimostrato
adeguato alle esigenze di tutela sociale e, segnatamente, alla funzione di
consentire a chi subiva un’aggressione di potersi legittimamente difendere. La
questione giuridica è molto tecnica, e quindi le valutazioni non dovrebbero
subire le suggestioni e i condizionamenti suggeriti dai propri orientamenti
politici. La norma nella formulazione prevista dal Codice Penale, a garanzia di
eccessi, precisava stretti limiti entro i quali doveva essere contenuta la
reazione di chi subiva l’attacco ad un proprio bene. Tuttavia, a fronte di una
grave recrudescenza della criminalità, i parametri che circoscrivevano la
legittimità della reazione si sono dimostrati inadeguati, perché spesso in
concreto hanno penalizzato l’aggredito. In proposito il punto più controverso
riguardava la proporzionalità fra offesa e difesa (“Non è punibile chi ha
commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un
diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre
che la difesa sia proporzionata all'offesa.” - Art.52 C. P.). A prescindere
dalle preziose e profonde considerazioni svolte in questi anni dalla ‘Dottrina’
sul requisito della proporzionalità, il problema è soprattutto pratico: chi
subisce un’aggressione reagisce e si difende con i mezzi che ha a disposizione.
Un esempio concreto: chi si ritrova in casa un ladro è plausibile che faccia
uso di un’arma se ne dispone, mentre sarebbe penalizzante – se non assurdo –
che l’aggredito, prima di reagire, valuti fin dove la sua reazione sia
legittima. Peraltro sembra un implicito principio di giustizia che chi
aggredisce un bene altrui si esponga alla reazione della vittima; l’aggressore
inoltre non dovrebbe contare sul principio che impone alla vittima di contenere
la sua reazione. La riforma ‘ha semplificato’ la questione abolendo la
proporzionalità. Segnatamente il comma 2 dell’art.52 C. P. nella
nuova formulazione prevede la possibilità di utilizzare un'arma legittimamente
detenuta o altro mezzo idoneo per la difesa della propria o altrui incolumità,
o dei beni propri o altrui. Così la legittimità della difesa sarà sempre
presunta, ovvero sarà sempre ritenuto sussistente il rapporto di
proporzionalità tra offesa e difesa. È ugualmente sempre legittima la difesa di
colui il quale, trovandosi legittimamente nel proprio o altrui domicilio,
agisca per respingere un'intrusione posta in essere con violenza o minaccia.
Ogni istituto giuridico si colora di contenuti al momento della sua
applicazione; la giurisprudenza potrà fornire elementi per eventuali future
precisazioni in sede normativa. L’abolizione della proporzionalità va
coordinata con altri contenuti della riforma riguardanti soprattutto il
mantenimento e le precisazioni in tema di eccesso colposo, di cui si dirà. RR
L’ATTUALE LEADERSHIP POLITICA DEL BRASILE (su L’Azione dell’8.3.2019)
Negli ultimi anni tutti i Paesi dell’America Latina hanno vissuto una
recessione economica, o, nei casi migliori, una crescita lenta, mentre la
società civile, indipendentemente dall’ideologia o dal partito al potere, era
penalizzata da una sistematica corruzione, da una insufficiente sicurezza
interna, da un precario ordine pubblico, da una gestione poco democratica e
illiberale dei pubblici poteri. Queste patologie hanno riguardato anche il
Brasile, massima potenza regionale, emergente a livello internazionale. Anche
il Brasile ha subito una stagnazione economica, mentre la vita pubblica è stata
gravemente colpita dagli scandali che hanno coinvolto gli ex presidenti di
sinistra Lula Da Silva e Dilma Roussef. Questa situazione ha favorito
l’ascesa del leader politico di destra Jair Messias Bolsonaro, Presidente dal I
gennaio 2019. Bolsonaro si ispira a valori cristiani interpretati in maniera
estremamente conservatrice e tradizionale, ed è ritenuto espressione del
movimento politico trasversale ‘Alt Right’. Il movimento ‘Alt Right’, di
origine statunitense, in alternativa alla destra tradizionale propone politiche
radicalmente orientate al nazionalismo, al protezionismo, all’isolazionismo,
all’antisemitismo (o ultra-sionismo, in alcuni casi, in funzione islamofoba),
al negazionismo dell'Olocausto e al populismo di destra, opponendosi al
femminismo, all'immigrazione, alla società multietnica e multirazziale. Le
visioni politiche della compagine governativa, guidata da Bolsonaro, non sono
del tutto omogenee al suo interno, e questo è un elemento che può insidiare la
stabilità della nuova leadership del Paese. RR
INDIPENDENZA E SOVRANITÀ’ (su L’Azione del 1.3.2019)
Le accese discussioni sul futuro dell’Europa - nelle quali sembra difficile
un equilibrato e obiettivo confronto - mi richiamano alla mente un brano di
un’omelia del 1981 di Joseph Ratzinger: “La voce della ragione non è mai così
forte come il grido irrazionale. La morale politica consiste nella resistenza
alla seduzione delle grandi parole. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il
compromesso stesso è la vera morale della politica”. In proposito non mi sembra
ragionevole l’enfatizzazione che si pone sulla correlazione fra il recupero di
una maggiore indipendenza degli Stati dalle politiche economiche dell’Unione
Europea e l’accrescimento delle sovranità nazionali. In un mondo fortemente
globalizzato, nel quale le speculazioni finanziarie e politiche sono pericolose
e imprevedibili, l’Unione Europa e l’appartenenza alla moneta unica
costituiscono un antidoto contro gli esiti di un possibile isolamento nel
contesto geopolitico internazionale. Sono tuttavia sicuramente necessarie
riforme mirate a rendere le istituzioni europee maggiormente adeguate alle
esigenze interne di coesione e di equità fra Stati Membri, e a quelle esterne
di maggior peso politico; queste riforme devono rafforzare la sovranità
nazionale strutturandola come corollario e non antagonista di quella condivisa
in sede comunitaria, che consente di unificare gli sforzi governativi verso
comuni obiettivi globali. Questa opzione strategica richiede il rafforzamento
anziché l’indebolimento degli organismi comunitari. Scriveva Tito Livio:
“Contro individui concordi, anche la potenza dei re s'infrange: ma la discordia
e la sedizione offrono infiniti vantaggi agli avversari.” RR
LE TENSIONI GEOPOLITICHE FRA STATI UNITI E RUSSIA
(10.2.2019)
Com’è noto, la seconda metà del secolo scorso è stata caratterizzata dalla
cosiddetta ‘Guerra Fredda’. L’ordine geopolitico mondiale era strutturato sulla
contrapposizione ideologica e militare fra Usa e Urss: i due Paesi avevano la
leadership rispettivamente del blocco dei Paesi occidentali e di quello
sovietico. La pace mondiale si fondava quindi su un precario equilibrio
bipolare, caratterizzato da una condizione permanente di ostilità reciproche.
Simbolo di questa separazione era il Muro di Berlino, che divideva la città
tedesca in due zone rigidamente sottoposte al controllo delle rispettive
autorità dei due Stati nei quali allora era frammentata la Germania. Con la
caduta del ‘Muro di Berlino’ nel 1989 e con la conseguente dissoluzione
dell’Unione Sovietica, è venuto meno questa bipartizione e gli Usa di fatto
sono diventati l'unica potenza egemone. Nel secolo scorso, già prima della
caduta del ‘muro di Berlino’, dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni
Settanta, si era affermata una politica di distensione caratterizzata da una
convergenza globale di interessi: sembrava che Usa e Urss avessero intrapreso
un convinto dialogo, che poneva le condizioni per la loro coesistenza pacifica
attraverso regole di comune gestione nel governo delle crisi internazionali. In
quel periodo furono numerosi gli incontri fra i leader sovietici e quelli
statunitensi. Più precisamente le due grandi potenze tacitamente accettavano in
linea di massima la divisione mondiale in aree di rispettiva influenza. In
alcuni casi forzavano questa tacita spartizione di potere intervenendo in
conflitti locali; tuttavia evitavano con cura il coinvolgimento in confronti
militari diretti. Con il Trattato del luglio 1968 sulla non proliferazione
degli armamenti nucleari inoltre erano stati oggetto di prudente considerazione
i rischi connessi ad un eventuale guerra atomica. All’inizio di questo nuovo
secolo, il XXI, sono emerse tensioni fra gli Stati Uniti e la Federazione Russa
che ha raccolto l’eredità politica e militare dell’Unione Sovietica. Un recente
fronte si è aperto in Venezuela con il rispettivo sostegno ai due politici
rivali: il leader russo Putin sostiene il presidente Nicolas Maduro, mentre
Trump supporta l’autoproclamato presidente ‘ad interim’ Juam Guaido. In
precedenza un’analoga situazione si era riscontrata in Siria in relazione al
possibile cambio di regime. Come in tempi passati le due superpotenze si
fronteggiano attraverso ‘proxy war’, ovvero guerre ‘per procura’, nelle quali
il loro confronto non è mai diretto ma avviene attraverso figure interposte,
come fazioni o poteri locali. Le attuali conflittualità fra Stati Uniti e
Russia non sono una riproposizione della guerra fredda del secolo scorso. Allora
i contrasti riflettevano anche un’opposta visione ideologica: da una parte i
Paesi comunisti, dall’altra il mondo capitalista. Al contrario attualmente non
sembrano avere un ruolo determinante né le ideologie, né l’aspirazione ad un
ordine mondiale fondato sul primato dello stato di diritto, né strategie
fondate su valori. Le guerre e le tensioni internazionali sono esclusivamente
il risultato delle valutazioni di capi politici, che, giudicando positivamente
interessi egemonici o espansionistici dei propri Paesi, intraprendono
iniziative belliche o semplicemente ostili. Probabilmente
all’interno di questa logica deve essere valutata la sottrazione della Crimea
all’Ucraina voluta dal presidente Vladimir Putin. Ugualmente prioritaria per la
Federazione Russa sembra la creazione di zone cuscinetto per proteggersi dalle
possibili minacce di un occidente ostile e ridurre la vulnerabilità del proprio
territorio. RR
LA GIORNATA DELLA MEMORIA (su L'Azione del 1.2.2019)
Conformemente a quanto previsto dalla Risoluzione dell’Assemblea Generale
dell’ONU n. 60/7 del I novembre, domenica 27 gennaio come ogni anno si è
celebrata la Giornata della Memoria, una ricorrenza internazionale per
ricordare le vittime dell’Olocausto. Inevitabilmente negli anni che verranno il
ricordo della Shoah e la sua valenza di monito per l’umanità sono destinati a
ridimensionarsi. Tra qualche tempo probabilmente non sarà più in vita
nessun testimone sopravvissuto agli orrori dello sterminio nazista, e per le
prossime generazioni il genocidio di almeno 6 milioni di ebrei sarà considerato
con distacco, sarà solo il racconto di un capitolo della storia umana, remoto e
di difficile comprensione, confuso e assimilato alla narrazione di tanti altri
accadimenti. Si tratterà di eventi percepiti con l’indifferenza banale con la
quale l’uomo presente declina il passato, considerato irripetibile solo perché
apparentemente estraneo al progresso della modernità, per definizione immune da
errori. Chi sarà animato da curiosità intellettuale potrà conoscere i
particolari della Shoah sfogliando i libri di Storia o effettuando una mirata
ricerca sul Web. Alcuni avranno dubbi su quanto realmente accaduto. Ma sarà
stato veramente così? È possibile? Auschwitz e Birkenau saranno solo nomi
difficili di località straniere famose per qualcosa. Cicerone nel De oratore
diceva che Historia magistra vitae, la Storia è maestra di vita; più
esattamente la frase completa è Historia vero testis temporum, lux veritatis,
vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis, cioè la storia in verità è testimone
dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera
dell'antichità. Nei tempi che verranno, con riferimento all’Olocausto, la
Storia rischia pericolosamente di cessare di insegnare qualcosa. Forse tutto
questo sta già avvenendo. Forse stiamo già dimenticando. RR
DALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO ALL’ABBATTIMENTO DELLE TORRI GEMELLE (su L’Azione del 25.1.2019)
Nella seconda metà del XX secolo la realtà geopolitica globale era
caratterizzata dalla contrapposizione fra il blocco dei Paesi occidentali e
quello sovietico. Simbolo di questa separazione era il Muro di Berlino,
che divideva la città tedesca in due zone rigidamente sottoposte alle
rispettive autorità dei due Stati nei quali, allora, era frammentata la
Germania. Nel 1989 con la cosiddetta ‘caduta del Muro di Berlino’, si disgregò
il blocco sovietico. Fino ad allora l’ordine mondiale si era retto sul precario
equilibrio bipolare ‘Usa – Urss’. Con la successiva dissoluzione dell’Unione
Sovietica, gli Stati Uniti d’America rimasero di fatto l’unica superpotenza. A
seguito degli attacchi terroristici culminati nell’abbattimento delle Torri
Gemelle avvenuto a New York l’11 settembre 2001, cominciò ad opporsi
all’Occidente un’aggregazione fondamentalista di matrice islamista. Questa
nuova realtà geopolitica, contrapponendosi al mondo occidentale, di fatto
occupò il vuoto lasciato dal crollo dell’Unione Sovietica. Sembrava avverarsi
la profezia del politologo Samuel Huntington, che già nel 1996 aveva scritto
che le fonti di conflitti negli anni futuri non sarebbero state né ideologiche
né economiche, ma si sarebbero generate dalle diverse culture; più precisamente
i confini tra le civiltà sarebbero stati i campi nei quali si sarebbero
consumate le battaglie del futuro. L’attuale contrapposizione dell’Occidente
con il mondo islamico è molto diversa da quella pregressa con il blocco
sovietico. L’attuale blocco occidentale e quello dei Paesi islamici sono
caratterizzati infatti da profonde contraddizioni interne di natura politica e
ideologica, mentre le aree di influenza che nel secolo scorso gravitavano
intorno agli Usa e all’Urss erano monadi fortemente coese. RR
L,’ISLAM È SEMPRE POLITICO (su L’Azione del 18 gennaio 2019)
Spesso al termine Islam viene
associato l’aggettivo ‘politico’. Questo attributo, salvo che si vogliano
enfatizzare aspetti peculiari della religione musulmana, è inutile in quanto
non aggiunge, né qualifica o circoscrive la parola a cui si riferisce. L’Islam
è ‘politico’, in quanto, prima di essere una religione, è un’ideologia.
La fede religiosa infatti può essere vissuta in due modi: o come rapporto
individuale tra l’uomo e il trascendente, o come dimensione afferente la
collettività. In questo secondo caso è uno strumento per l’affermazione
di un assetto sociale ispirato a un’etica confessionale. L’adesione a una fede
religiosa, anche quando rimane confinata nella sfera individuale, ha spesso una
proiezione esterna, in quanto può chiedere al fedele il
proselitismo (l’apostolato per i cristiani), ovvero iniziative finalizzate ad
estendere la condivisione della fede. Come corollario nella società civile
anche in questo caso si diffondono principi di matrice confessionale (ad
esempio, la solidarietà e la fratellanza nel caso del Cristianesimo). Tuttavia
in questa ipotesi la trasformazione della società è solo un effetto del
proselitismo, non il suo obiettivo principale. Quando invece la fede è vissuta
come ideologia, come nel caso dell’Islam, al proselitismo si sostituisce la
militanza, cioè l’impegno collettivo dei fedeli per promuovere con ogni mezzo,
compreso il ricorso alla violenza, l’instaurazione di un ordine sociale nel
quale le leggi civili sono sostituite progressivamente da un ordinamento plasmato
sulla legge divina. Anche nei Paesi a maggioranza islamica che cercano con
apprezzabile intenzione di percorrere la via della democrazia e della laicità
(come la Tunisia), il Corano rimane uno strumento di riferimento
irrinunciabile, in quanto negli ordinamenti di questi Paesi in maniera
esplicita o implicita sono previsti meccanismi istituzionali che in
concreto evitano che la vita civile si articoli in maniera contraddittoria o
semplicemente autonoma dai principi dell’Islam. RR
ISLAM E PRESEPE (su L’Azione del
21 dicembre 2018)
In questi giorni si è discusso
dell’opportunità di evitare di allestire il Presepe in scuole e luoghi pubblici
al fine di non infastidire la sensibilità dei musulmani. In realtà il problema
è raramente posto da islamici, mentre gli esponenti delle relative comunità si
affrettano a precisare di non sentirsi offesi da questa consuetudine. La
questione è spesso sollevata da italiani posseduti dal furore di una
malintesa laicità. È vero, le istituzioni devono essere indipendenti da
qualsiasi influenza ‘confessionale’. Questo tuttavia non significa che le
tradizioni religiose debbano essere vietate, ma che tutti debbano essere messi
nella condizione di professare la propria spiritualità entro i limiti del
rispetto delle leggi dello Stato. Ad esempio, vietare il burka non significa
penalizzare l’Islam, ma dare attuazione ad una norma che vieta il travisamento
senza giustificato motivo. Non mi sembra che l’allestimento di un Presepe possa
violare la laicità degli spazi pubblici. Il Presepe è più di una manifestazione
religiosa. In occidente è diventato un simbolo: con la memoria della Natività
si auspica l’avvento di un’umanità rigenerata. Analogamente le nostre case
spesso sono rallegrate da un ‘albero di Natale’. L’albero di Natale ha origini
pagane (addobbare una pianta era un’usanza nell’Antico Egitto, passata poi ai
Greci e adottata infine dai Celti). Ma noi ‘facciamo l’albero’ semplicemente
perché è una consuetudine. Restando sul terreno religioso, dobbiamo ricordare
che Gesù nell’Islam è considerato un grande profeta, e insieme a Maria, è
oggetto di rispetto. Può oltraggiare un musulmano il ricordo della Sua nascita?
Molti preferiscono ignorare tutto questo asserendo che un illuminato progresso
richieda la cancellazione delle tradizioni culturali e spirituali.
RR
IL DIALOGO INTERRELIGIOSO SEMPRE
IN PRIMO PIANO (su L’Azione dell’11.1.2019)
Inizia un nuovo anno e fra i
propositi si continua a parlare dell’irreversibilità del dialogo
interreligioso, in particolare di quello islamo-cristiano. Come è stato
autorevolmente affermato, siamo condannati al dialogo: l’alternativa è la
guerra, che è la conseguenza estrema della deriva fondamentalista che intende
imporre una visione che nega spazio alla convivenza. Il presupposto del dialogo
è un concreto riconoscimento dell’altro, che si fonda su un impegno di
comprensione - che non significa, naturalmente, condivisione - delle qualità
(presunte o reali) dell’interlocutore. La conoscenza postula una testimonianza
di verità, che richiede uno sforzo di umile determinazione per individuare
nell’altro un depositario di valori spirituali, storici e culturali su cui
riflettere obiettivamente, ovvero evitando che subiscano una
marginalizzazione o una penalizzazione a causa di pregiudizi o di un’endemica
preconcetta banalizzazione. In questo processo la propria eventuale Fede e
l’obiettività della Ragione devono sostenere un impegno a promuovere lo
studio teologico aggiornato delle confessioni religiose, dei loro tratti comuni
e delle loro divergenze, allo scopo di formare chiare e illuminate identità,
idonee ad un dialogo costruttivo. Complementare a questo processo è
l’educazione al rispetto della vita altrui, della sua innata dignità e dei
diritti inalienabili e inviolabili come la libertà di coscienza e quella in
materia spirituale. E’ necessario anche evitare le suggestioni del nostro
etnocentrismo, considerando costantemente, come è stato acutamente scritto, che
“…ritenere di non avere pregiudizi è il più comune dei pregiudizi….” (Nicolas
Gomez Davila). RR
AFRICA: ASSISTENZIALISMO O PROGETTI DI SVILUPPO? (su L’Azione del 14.12.2018)
L’attività degli enti che lavorano
nell’ambito della cooperazione per lo sviluppo dei Paesi poveri ha sempre
oscillato fra l’approccio assistenzialista e quello che afferma la
necessità di investimenti atti a favorire politiche di sviluppo. Le due
esigenze - entrambe fondamentali in quanto quella assistenziale contrasta la
povertà mentre l’altra promuove iniziative per il progresso economico - possono
essere armonizzate mediante i progetti di ‘business sociale sostenibile’,
ovvero promuovendo attività che, dopo essere state avviate dalle organizzazioni
non governative, possono essere gestite dalla popolazione locale. Le risorse in
questo modo restano sul territorio; inoltre gli ‘autoctoni’ cessano la loro
dipendenza, cioè smettono di essere solo mano d’opera al servizio di ‘padroni’
stranieri; così vengono responsabilizzati. Pertanto il ‘social business’ indica
un tipo di impresa che ha come obiettivo la massimizzazione delle finalità
sociali del prodotto; in questo contesto il primo vincolo è l’autosufficienza
economica, organizzativa e amministrativa. In termini concreti il vantaggio
sociale prende il posto della massimizzazione del profitto. Queste attività,
che creano un lavoro dignitoso ‘in loco’, possono avere come primo effetto la
permanenza di quei giovani che sarebbero disposti ad affrontare un viaggio
rischioso che in media dura due anni verso l’Occidente, o anche il ritorno
degli espatriati. Un singolare esempio di questo approccio innovativo è l’app.
‘Farmerline’ che offre informazioni su tablet e smartphone ai contadini sul
meteo, come sviluppare nuove tecniche produttive e come commercializzare i
prodotti. RR
GERUSALEMME AL CENTRO DEL CONFLITTO FRA EBREI E PALESTINESI (su L’Azione del 30.11.2018
Il 29 novembre si celebra la
Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese. Il pensiero
corre a Gerusalemme, che sta vivendo tempi difficili. Gerusalemme è la capitale
più emozionante e più carica di significati culturali, storici, e spirituali
che ho avuto il privilegio di conoscere. Era il 1991 e provenivo da Amman, da
un Paese, la Giordania, che in quel periodo era in guerra con Israele.
Attraversato il confine ad Allenby Bridge, allora fronte bellico, dopo le
tensioni del viaggio, giunto a Gerusalemme, mi trovai immerso in un’oasi
di pace e di serenità, e al centro di una memoria evocativa che al mio
sguardo riprendeva improvvisamente vita. Potevo passeggiare liberamente e anche
di sera dal Muro del Pianto al Santo Sepolcro, e da qui alla Spianata delle
Moschee. C’era ancora l’atmosfera della gestione illuminata del sindaco Theodor
Kollek, che nel 1976 ordinò di rimuovere una barriera di pietra che divideva la
città; Teddy Kollek, apprezzato anche dalla comunità palestinese, amava dire
che Gerusalemme è migliore unita piuttosto che divisa. Quel periodo è lontano.
Dopo pochi mesi dal mio soggiorno venne commesso un grave attentato al mercato
della città vecchia, dove io passavo quotidianamente soffermandomi. Per
Gerusalemme, fino ad allora protetta dalla sua sacralità simbolica, iniziò una
sovraesposizione segnata da un’escalation di violenze. Forse la
centralità geopolitica del conflitto fra ebrei e palestinesi è la causa delle
difficoltà a trovare una soluzione pragmatica. L’attenzione mondiale ha infatti
trasformato questo scontro in una contrapposizione simbolica ed identitaria.
RR
ASIA BIBI
E LA LEGGE SULLA BLASFEMIA (su L’Azione del 16 novembre 2018)
Nonostante le pressioni di gruppi
islamisti, Asia Bibi, la contadina pakistana di fede cristiana condannata a
morte per blasfemia nel 2010, è stata graziata e rilasciata dalla Corte Suprema
del Pakistan. Il Presidente della Corte, rassicurato dall’appoggio del Primo
Ministro, non si è fatto condizionare dal leader del partito
fondamentalista di matrice sunnita Tehreek-e-Labbaik, che aveva minacciato disordini
in caso di sua scarcerazione. In Pakistan, per penalizzare la minoranza
cristiana, che conta cinque milioni di fedeli costretti a vivere ai margini
della società, si ricorre ad una iniqua applicazione della legge sulla
blasfemia, introdotta nel corso del processo di islamizzazione imposto dal
regime del Generale Zia ul Huaq (al potere dal 1977 al 1988). In molti
Paesi islamici sono vigenti norme che puniscono la blasfemia, sanzionata con la
pena di morte non solo in Pakistan, ma anche in Afghanistan, in Iran, in
Nigeria, in Arabia Saudita e in Somalia. Il concetto di blasfemia nel mondo
islamico è ampio: per consumare il reato non è necessaria un’espressione
ingiuriosa o un’imprecazione, ma è sufficiente una manifestazione di libero
pensiero. In Pakistan il reato di blasfemia è previsto dal codice penale. La
fattispecie può essere facilmente strumentalizzabile; è arbitrariamente
applicata anche per risolvere questioni personali, dal momento che l’onere
della prova non compete all’accusatore ma all’accusato, che, per non essere
condannato, deve dimostrare l’insussistenza del fatto. Asia Bibi è stata
accusata di aver criticato Maometto. Si deve positivamente constatare che alla
felice conclusione della sua vicenda ha contribuito una mobilitazione internazionale
che si è concretizzata in convinte pressioni politiche e mediatiche.
RR
CRIMINI INFORMATICI, SE LA SCIENZA PREVBALE SULLA POLITICA (su L’Azione del 9.11.2018)
L’edizione annuale che si è svolta
di recente a Roma di CyberTech 2018, il più importante evento europeo sulle
innovazioni tecnologiche informatiche, ha riacceso i riflettori sulla rilevanza
della partnership sinergica fra aziende private e autorità istituzionali e
governative sui temi della cybersicurezza, del cyberwar, del cyberspace. Le
problematiche di sicurezza informatica sono molto più ampie di quelle della
sicurezza tradizionale. Nel 2017 ci sono stati 1127 attacchi gravi,
prevalentemente rivolti verso target economici e statali, che hanno determinato
una spesa totale in investimenti per il contrasto e la prevenzione del
cybercrime superiore a 100 miliardi di dollari. Le minacce informatiche hanno
un impatto crescente su un numero sempre più alto di dispositivi. La lotta al
cybercrime richiede una piattaforma nella quale tutti gli attori si possano
confrontare. In questo contesto la protezione del dominio informatico è un
aspetto fondamentale per garantire l’incolumità delle infrastrutture della
pubblica amministrazione, delle imprese e dei cittadino. Sono oggi le premesse
su cui si radica la crescita economica di un Paese: il cyberspazio e la
cybersecurity hanno una rilevanza strategica per assicurare il massimo livello
di affidabilità del villaggio globale. Con l’evento CyberTech 2018 si è cercato
di sensibilizzare persone ed enti sulla necessità di un approccio congiunto per
elaborare strategie di sviluppo comuni. Forse la scienza e la tecnologia
consentono quella cooperazione multietnica che la politica oggi non appare più
in grado di assicurare. RR
LA SITUAZIONE DEI CRISTIANI IN CINA (Su L’Azione del 26 ottobre 2018)
In ambito geopolitico il potere e
il prestigio della Repubblica Popolare Cinese sono in costante ascesa.
Purtroppo nel Paese non ci sono stati analoghi progressi nel rispetto dei
diritti di libertà, soprattutto di quelli in materia religiosa. Sono numerose e
pressanti le limitazioni e i controlli prescritti a livello amministrativo nei
confronti dei cristiani; queste iniziative di fatto configurano una vera e
propria latente persecuzione. Ad esempio, recentemente è stata disposta la
rimozione delle croci dagli edifici adibiti a luoghi di culto e ordinata la
demolizione di chiese ritenute troppo grandi. Bob Fu, il pastore cino-americano
fondatore e presidente dell’associazione China-Aid - che promuove la libertà
religiosa e fornisce assistenza legale ai Cristiani in Cina - afferma che
queste iniziative normative del governo sono parte di una strategia per ridurre
la presenza religiosa. Tuttavia ottimisticamente Bob Fu precisa che le
persecuzioni dei Cristiani, da quelle in epoca romana a quelle disposte da
Stalin e Mao, hanno sempre sortito l’effetto contrario, cioè hanno rafforzato
la fede radicata nelle coscienze individuali. Come saggiamente notò una
scrittrice olandese alla vigilia del secondo conflitto mondiale (Etty Hillesum,
1913-1943), il dolore della persecuzione (in quel caso nei confronti degli
Ebrei) allarga i nostri orizzonti e ci rende più umani liberandoci dalle
piccolezze e dagli orpelli inutili della vita terrena. Se avviene questo, le
persecuzioni possono aver un amaro e paradossale risvolto positivo. RR
I CRISTIANI IN MEDIO ORIENTE (su L’Azione del 19.10.2018)
I Cristiani stanno
progressivamente riducendo la loro presenza in Medio Oriente, nonostante le
loro profonde radici. Alla fine della Prima Guerra Mondiale essi erano il 20%
della popolazione. Oggi sono soltanto il 4-5%. Le cause di questa
flessione sono i bassi tassi di natalità e l’emigrazione provocata dalle
persecuzioni religiose. La confessione maggiormente diffusa nella regione è quella
dei Cristiani Copti, che in Egitto è il 10% della popolazione. Hanno
scarsissima rilevanza politica e sono stati spesso oggetto di violenze. In Iraq
i Cristiani di confessione caldea prima della caduta di Saddam Hussein erano un
milione e mezzo; oggi sono meno di 500.000. Molti sono fuggiti a seguito dei
disordini che si sono scatenati dopo la morte del dittatore iracheno. In Siria
i cristiani cercano di sopravvivere al conflitto mantenendo una posizione
neutrale pur temendo l’ascesa dei gruppi jihadisti. Le chiese
vengono danneggiate, mentre i fedeli sono destinatari di soprusi e violenze. I
cristiani libanesi sono prevalentemente di confessione maronita che dopo quella
copta è la seconda comunità di Cristiani in Medio Oriente. Statistiche
ufficiose affermano che essi sono circa il 35% della popolazione. Esiste nel
Paese un accordo fra Cristiani, Musulmani Sunniti e Musulmani Sciiti per
un’equa condivisione delle cariche istituzionali. In Giordania il 6% della
popolazione è di professione cattolica e greco ortodossa. Membri della comunità
cristiana siedono in Parlamento e ricoprono cariche istituzionali. In Israele i
Cristiani, soprattutto di etnia araba, sono circa 160.000, ovvero il 2% degli
israeliani. Nella striscia di Gaza i Cristiani, in maggioranza greco-ortodossi,
sono in costante declino da quando Hamas ha preso il potere nel 2007. RR
IL SALAFISMO IN EUROPA (su
L’Azione del 5 ottobre 2018)
Nella deriva fondamentalista e
antioccidentale di alcuni Stati arabi ha avuto un notevole influsso il movimento
sunnita di orientamento salafita, che promuove un ritorno all’Islam delle
origini e il rifiuto di qualsiasi modernità. Questa istanza antimodernista è
emersa nel mondo arabo soprattutto nei momenti di crisi ideologica. Secondo il
Salafismo il buon governo è l’adeguamento della prassi politica e giuridica ai
fondamentali principi della Sharia, che deve regolare ogni comportamento
umano. Viene manifestata una radicale ostilità nei confronti di quei governi
che si allontanano dalla via tracciata dal Corano: non c’è spazio per forme
democratiche di tipo occidentale. Questo atteggiamento è stato recepito nelle
frange estreme degli ambienti fondamentalisti che hanno ritenuto così di avere
un conforto religioso nella pianificazione di azioni violente. I Salafiti in
Europa sono una presenza in crescita, o, in ogni caso, particolarmente
visibile, dal momento che manifestano in maniera palese la volontà di isolarsi
da una società di cui disprezzano i principi etici. I Salafiti europei a fini
di proselitismo hanno sviluppato iniziative per accogliere rifugiati e migranti
economici musulmani che raggiungono l’Europa. Nei Paesi europei la presenza
salafita è correlata alla dimensione della comunità musulmana nazionale. Quindi
le più numerose presenze salafite si riscontrano in Francia, mentre in Belgio,
nei Paesi Bassi, in Spagna e in Germania questo orientamento religioso
musulmano ha avuto recentemente un sensibile incremento. Nel Regno Unito le
correnti fondamentaliste islamiche non sono legate al Salafismo, ma a movimenti
estremisti pakistani e indiani. RR
NESTLE’ E WATERGRABBING (su L’Azione del 28.9.2018)
L’acqua ha un valore di primaria
importanza. Nella storia umana è stata spesso una risorsa contestata alla base
di guerre e conflitti locali. È sorta la questione se si debba
privatizzare la sua ordinaria fornitura. In proposito, alcune ONG
ritengono che l’acqua debba essere un diritto pubblico, ovvero ogni essere
umano dovrebbe avere un potere di libero accesso ad essa. L'altro punto di
vista ritiene che l'acqua sia un alimento come gli altri e che, come ogni
prodotto, dovrebbe avere un valore di mercato. In virtù di questo
secondo punto di vista sono in atto tentativi per appropriarsi e convertire le
risorse idriche in beni privati, al fine di trasformarle a livello globale in
uno strumento fonte di accumulo di capitali. Recentemente è circolato in Rete
un video nel quale Peter Brabeck, attualmente Presidente onorario della Nestlè,
una delle più grandi aziende di prodotti alimentari del mondo, nel corso di un’intervista
avrebbe affermato che l’acqua non è un diritto dell’uomo, ma un bene da
privatizzare e gestire attraverso le industrie multinazionali. Questa
affermazione trarrebbe fondamento dalla considerazione che quello che ci
fornisce la natura talvolta non è sotto il pieno controllo dell’uomo, e questo
giustificherebbe un’appropriazione privatistica al fine di una ‘gestione
responsabile’che ne migliori l’accesso. Secondo questa prospettiva l’acqua
dovrebbe cessare di essere un bene liberamente disponibile. La Nestlé ha
tuttavia ribadito di ritenere che l'accesso all'acqua sia un diritto
fondamentale dell’uomo, e che l’intervista in questione sarebbe stata
estrapolata da un documentario, e, presa fuori contesto, sarebbe stata
all’origine di fraintendimenti. Se diamo credito a questo trend, il
prossimo passo potrebbe essere il tentativo della privatizzazione dell’aria che
respiriamo. RR
SERVE UNA POLIZIA DI FRONTIERA EUROPEA? (su L’Azione del 14.9.2018)
Per fronteggiare l’emergenza
‘migranti’ o forse solo per temporeggiare e tamponare il senso di incapacità
nel formulare proposte credibili, sembra che la Commissione Europea abbia
l’intenzione di lanciare l’idea di istituire una polizia europea di frontiera,
che dovrebbe avere un organico di almeno 10.000 uomini, con non meglio definiti
compiti di sorveglianza e possibilità di supportare operazioni di rimpatrio.
L’iniziativa avrebbe anche il malcelato fine di sanare la frattura fra i Paesi
maggiormente esposti all’emergenza che richiedono una più puntuale solidarietà
e un’equa ripartizione di oneri, e quelli che manifestano istanze egoistiche
opponendosi aprioristicamente a partecipare a qualsiasi progetto comune. Questa
proposta è il topolino che avrebbe partorito la montagna a tre mesi dal
Consiglio europeo di giugno ed in vista del vertice dei Capi di Stato e di
Governo a Salisburgo. Presumibilmente la guardia europea dei confini dovrebbe
essere il braccio operativo di Frontex; l’agenzia UE così si trasformerebbe in
un vero e proprio corpo di polizia di frontiera. Di fatto si tratterebbe di
‘comunitarizzare’ l’attività di polizia, sebbene limitatamente al controllo
dell'immigrazione. L’idea non è nuova, né sbagliata. Si è parlato spesso
infatti di istituire una polizia europea. Tuttavia esistono al momento delle
difficoltà ordinamentali: la creazione di un corpo di polizia europeo comporta
limitazioni alle sovranità nazionali incompatibili con il contenuto dei
Trattati UE. Naturalmente tutto si può fare se esiste una comune e ferma
volontà politica dei Paesi Membri. Alla luce di questa ultima considerazione e
prendendo atto delle divisioni, questa proposta è pura demagogia. RR
I RECENTI AIUTI DELL’UNIONE EUROPEA ALLA SPAGNA (13.8.2018)
Recentemente l’Unione Europea ha
sbloccato 55 milioni di euro in aiuti per gestire l'emergenza migratoria per la
Spagna che da gennaio ad oggi ha avuto più sbarchi di Italia e Grecia,
dimenticando che i 21mila migranti arrivati nella penisola iberica nei primi
sei mesi dell'anno non sono neanche un quarto dei più di 95 mila sbarchi
registrati in Italia nel primo semestre del 2016 e in quello del 2017. La
determinazione di per sé giusta di supportare la Spagna in concreto si traduce
nell'applicazione di un diverso metro di valutazione nei confronti di una
medesima emergenza. Purtroppo la scelta comunitaria ha l’apparenza di una
provocazione nei confronti dell’Italia che tanto ha fatto in questi anni in
materia di accoglienza, ricevendo aiuti insignificanti. Viene il sospetto che questo
provvedimento sia strumentale alla realizzazione di un malcelato disegno.
L’esecutivo dell’Unione Europea in questi ultimi tempi ha perso prestigio e
spessore. Forse la Commissione Europea vuole riacquistare potere penalizzando
gli Stati che sono meno disponibili a subire passivamente alcune discutibili
opzioni economiche e politiche, e l’anarchia comunitaria in materia di politica
estera. Con l’uscita dei Paesi che costituiscono un ostacolo svolgendo
una critica alla politica da ‘gendarme interno’, la Commissione Europea può
ripristinare il suo potere fondato sui privilegi su cui si struttura la
leadership tedesca e sulla connivente compiacenza di molti Paesi dell’asse
nordeuropeo. Si auspica che questa ipotesi sia solo fanta-geopolitica. RR
AFRICA E MIGRANTI (su L’Azione del 27.8.2018)
Quando si valutano globalmente gli
effetti dei flussi migratori non si considera che spesso emigrano dal
continente africano ragazzi e ragazze che sono ‘la meglio gioventù’, ovvero
quelle forze sulle quali il continente africano dovrebbe investire. Questi
giovani, che spesso provengono dalla regione del Sahel (cioè dalla fascia
sub-sahariana), per raggiungere l’Europa devono affrontare un viaggio
complicato e costoso, che richiede disponibilità economica e capacità organizzative.
Non è raro che le famiglie investano risparmi e vendano piccole attività per
consentire a familiari di intraprendere questa avventura, incoraggiata dal
passaparola dei trafficanti, che alimentano il mito di un’Europa opulenta e in
grado di garantire un’esistenza meno problematica. In questo modo l’Africa –
che ha straordinarie potenzialità e ricchezze – si priva delle sue forse
migliori e si avvia verso una lenta agonia. Dalle storie dei migranti
economici, che hanno percorso queste rotte disgraziate, emerge che essi
prevalentemente non sono disperati che fuggono da carestie, ma sono
appartenenti alla classe media, ovvero a quel ceto che può permettersi questa
costosa opportunità. Questi giovani anziché costruirsi un futuro nel proprio
Paese, vogliono sottrarsi a prospettive condizionate da regimi spietati,
corrotti e autoritari, sostenuti dagli interessi delle multinazionali. Le
istituzioni dei Paesi africani dovrebbero promuovere una corretta informazione
che, oltre a far conoscere i pericoli delle traversate, contrasti le false
illusioni e incoraggi i giovani a rimanere. Alcuni Stati come il Senegal, il
Mali, il Camerun già lo fanno. RR
IL RECENTE VERTICE EUROPEO
SULL’IMMIGRAZIONE (su L’Azione del 20 luglio 2018)
Fino a qualche decennio fa la
condizione di povertà e sottosviluppo di quello che veniva definito con un
aristocratico distacco il ‘Terzo Mondo’ come se si trattasse di un universo a
sé stante, non creava problemi identitari negli europei, in quanto non poteva
mettere in crisi la coerenza con i valori umanitari professati dalla
spiritualità giudaico - cristiana o da quella laico - illuminista.
L’Africa infatti era un cosmo lontano, sia fisicamente che culturalmente:
le differenti condizioni di vita, il benessere dell’occidente contrapposto alla
sofferenza di una quotidiana lotta per la sopravvivenza era accettato
fatalisticamente, come se fosse una ineludibile conseguenza del carattere
aleatorio dei destini umani. Le migrazioni alimentate dal miraggio di un
occidente ricco e privo di problemi hanno creato un corto circuito fra
queste due realtà un tempo distanti. Peraltro l’arrivo in Europa di migranti,
prevalentemente islamici, si è collocato in un contesto già sofferente per le
gravi difficoltà economiche, il degrado sociale, la liquidità politica. In
proposito il 28 giugno si è tenuto un vertice dei Capi di Stato e di Governo
dei Paesi UE sull’immigrazione. Come era ampiamente previsto i risultati del
summit sono stati deludenti. In generale le riunioni dei vertici politici
dei Paesi UE si concludono solo con dichiarazioni di principio, che nei tavoli
tecnici vengono tradotte in soluzioni pratiche, successivamente esaminate ed
eventualmente approvate dal Consiglio dei Ministri UE competente. Nel vertice, oltre
alle affermazioni che ribadiscono la necessità di un approccio globale - nel
quale devono avere un ruolo centrale un coordinato controllo delle frontiere
esterne, il rafforzamento di Frontex, gli accordi di cooperazione con i Paesi
di provenienza dei migranti - non è emersa la volontà di aggiornare le regole
consolidate in materia di asilo. In particolare non sono state previste quote o
sanzioni per gli Stati che non accolgono i richiedenti asilo, né sono state
fornite indicazioni su possibili modifiche del Regolamento di Dublino. Gli
spostamenti dei migranti in un Paese diverso da quello in cui sia stata
avanzata richiesta di asilo – spostamenti che l’Italia avrebbe interesse
a incentivare - continuano ad essere considerati contrari ai principi su cui è
fondato il sistema europeo di gestione dell’immigrazione. E’ stato inoltre
chiarito che lo sforzo condiviso per un’equa redistribuzione dei richiedenti
asilo sarà possibile solo su base volontaria. Probabilmente per contenere i
flussi migratori sarebbe opportuno cominciare ad intervenire nei processi
socioeconomici che li alimentano nei Paesi d’origine. RR
CALCIO E AFRICA (su L’Azione del 6 luglio
2018)
Il calcio mondiale fin dalla sua nascita è
stato monopolio dei Paesi europei e di quelli sudamericani. Da alcuni
anni il calcio professionistico si è diffuso anche in Africa. Calciatori
africani, dotati fisicamente e tecnicamente, militano con successo nei
campionati europei, mentre le loro nazionali partecipano senza sfigurare a
tornei internazionali. Per la fase finale dei Mondiali in Russia si sono
qualificate 5 compagini africane; purtroppo nessuna di loro ha superato il
primo turno. Il calcio in Africa è uno sport popolare: molti giovani sognano di
essere ‘notati’ da un club prestigioso. Purtroppo la loro aspirazione può
esporli alle speculazioni di qualche procuratore con pochi scrupoli, che con
promesse e per un po’ di soldi li trasferisce in un Paese europeo. In questi
casi solo le aspettative di pochi trovano soddisfazione e molti finiscono per
dover sperimentare forme alternative di sopravvivenza. In Africa il calcio è
legato alle realtà politiche: è forte l’ingerenza dei regimi nelle scelte
sportive e spesso i successi delle nazionali sono uno strumento di facile
propaganda. Il calcio, come altre discipline sportive, sta diventando uno strumento di
omologazione fra tutti i continenti (anche l’Australia e alcune nazionali di
Paesi asiatici stanno partecipando al torneo in Russia). La fase finale dei
Mondiali, attraverso il supporto pubblicitario che la finanzia, è anche una
vetrina per meglio familiarizzare con nazioni poco conosciute, e per
contrastare l’etnocentrismo occidentale. Da questo punto di vista una partita
di calcio può essere un’esperienza globale, un modo per comprendere il funzionamento
interno di società esotiche. RR
CONSIDERAZIONI SUL ‘CASO’ SAVIANO (24.6.2018)
La polemica sulla scorta a
Saviano, come ormai accade abitualmente, è degenerata in uno scontro fra guelfi
e ghibellini. In concreto la questione specifica si è trasformata in un
plebiscito sulla simpatia e sulla stima che si hanno o non si hanno nei
confronti del giornalista. In realtà le misure di protezione individuale - come
la scorta - vengono attribuite dall’Amministrazione di Pubblica Sicurezza solo
in base alla valutazione dell’esistenza di un rischio per l’incolumità
personale. Gli elementi dai quali si desume l’esposizione ad una minaccia che
giustifichi un dispositivo di protezione devono essere oggettivi, e si
evidenziano eventualmente a seguito di un articolato procedimento ‘ad hoc’. Se
ricorrono situazioni di urgenza può essere attivata una protezione immediata,
che tuttavia successivamente deve essere ratificata nelle forme
ordinarie. Nell’ambito del Ministero dell’Interno, che è il dicastero titolare
delle attribuzioni nella materia, l’ufficio competente a gestire questa materia
è l’Ucis (Ufficio Centrale Interforze per la Sicurezza personale). L’Ucis è in
contatto con le fonti di informazione istituzionali (Aise, Aisi, Forze
dell’Ordine, Autorità Provinciali di Sicurezza) per conoscere eventuali
presupposti di situazioni personali a rischio. Questi dati, dopo essere stati
analizzati, consentono di individuare condizioni personali meritevoli di
attenzione, e di pianificare modalità, mezzi e risorse dei relativi eventuali
dispositivi di protezione. La valutazione finale spetta ad una commissione
centrale composta dal direttore dell’Ucis e dai rappresentanti delle forze di
polizia, di Aise e Aisi. La commissione è integrata da un rappresentante del
Ministero della Giustizia per le questioni concernenti la protezione dei
magistrati. La commissione effettua ricognizioni sulle misure in atto e può
disporne la revoca qualora non siano più giustificate. Esistono diversi livelli
di protezione: dalla vigilanza (generica, cioè effettuata in maniera mobile e
saltuaria, o fissa, cioè attuata mediante un presidio), alla scorta con
possibile impiego di auto blindate. Prima dell’istituzione dell’Ucis nel 2002,
questi dispositivi dipendevano dalle decisioni dei Comitati Provinciali
per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica, presieduti dai rispettivi prefetti, che
venivano assunte in base ad informazioni raccolte a livello locale; le
decisioni generalmente dovevano successivamente essere confermate dal
Servizio Ordine Pubblico[i] del Dipartimento della Pubblica Sicurezza (in
qualche caso dal Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza). Con la nuova
procedura le valutazione delle informazioni raccolte sul territorio vengono
valutate a livello centrale, e questo consente decisioni uniformi in ambito
nazionale. Quindi tornando a Saviano, è fondato presumere che l’attribuzione
della scorta al giornalista sia passata per questa procedura. Se da una
successiva revisione si evidenzierà il venir meno dei suoi presupposti, saranno
prese dagli organi competenti le conseguenti decisioni di revoca. Credo che
solo gli organi competenti dispongano degli elementi per decidere. Il dibattito
sulla scorta a Saviano in realtà si dovrebbe inserire nel più ampio dibattito
sulle misure di protezione individuale disposte in Italia. Rispetto a quasi
tutti gli altri Paesi europei il numero delle persone scortate in ambito
nazionale è altissimo (diverse centinaia rispetto a qualche decina). In Italia
vengono ancora protetti ministri o personaggi politici della ‘Prima
Repubblica’. I dispositivi di protezione individuale, oltre ad impegnare
ingenti risorse finanziarie, sottraggono migliaia di operatori di polizia alle
ordinarie attività di istituto (controllo del territorio, attività di
prevenzione generale, etc.). Forse, si dovrebbe guardare oltre la polemica del
caso specifico, e individuare criteri più restrittivi e rigorosi per
l’attribuzione di questi servizi di protezione, disponendo anche frequenti
attività di revisione. RR
[i] Dove ho lavorato come
funzionario dal 1990 al 2000.
LA DELICATA TUTELA DEI MINORI NON ACCOMPAGNATI (23.6.2018)
Nell’ambito della generale
categoria dei migranti che giungono sulle coste italiane, i minori non
accompagnati sono oggetto di una protezione che nel 2017 si è concretizzata in
una specifica attenzione normativa da parte del legislatore nazionale (L.
47/2017). Più dell’80% dei minori non accompagnati che giungono in Italia
ha 16 o 17 anni. Minori particolarmente vulnerabili sono i più piccoli e le
ragazze, che sono esposte a sfruttamento e violenza sessuale. Destano
particolare allarme quei minori che si allontanano dalle strutture di prima
accoglienza rendendosi irreperibili: senza tutela possono essere facilmente
vittime di abusi, di schiavitù, di prostituzione. Il minore non
accompagnato è il minorenne non avente cittadinanza italiana o
dell'Unione Europea che si trova nel territorio italiano privo dell’assistenza
dei genitori o di altre persone legalmente responsabili. Per loro è stabilito
il divieto assoluto di respingimento alla frontiera: questi minori tuttavia, se
ne ricorrono i presupposti, possono essere inseriti nel sistema di
protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Può essere particolarmente
complessa l’identificazione di un minore e, in particolare, stabilire se si
tratta realmente di un minore. Per questi fini sono previste procedure e
accertamenti di vario genere. In particolare, se permangono dubbi fondati
sull'età dichiarata, la procura della Repubblica presso il tribunale per i
minorenni può disporre esami socio-sanitari. All'identificazione del
minore si procede solo dopo che è gli stata garantita un'immediata
assistenza umanitaria. Il rimpatrio o il trasferimento assistito e
volontario può essere disposto quando il ricongiungimento con i suoi
familiari nel Paese di origine o in un Paese terzo corrisponde
al superiore interesse del minore. Nei casi in cui la legge dispone il
divieto di respingimento o di espulsione, è previsto il rilascio di un permesso
di soggiorno valido fino al compimento della maggiore età. Questi minori hanno
diritto all’istruzione: sarebbe opportuna l’attivazione di misure per
favorire l’assolvimento dell’obbligo scolastico anche con l’impiego di
mediatori culturali. Agli enti locali è attribuita la sensibilizzazione e la
formazione di affidatari, allo scopo di favorire in via prioritaria
l'affidamento familiare rispetto al ricovero in una struttura di
accoglienza. La normativa vigente attribuisce valore alle sinergie delle
associazioni private con quelle delle istituzioni: il loro lavoro
congiunto ha notevoli potenzialità nel trovare le soluzioni migliori. Tuttavia
queste intese e le relative iniziative vanno monitorate per verificare il
rispetto della piena legalità. Sarebbe auspicabile che questi minori potessero
ricevere una formazione e un’istruzione nei Paesi europei per poi tornare nelle
loro regioni di origine se si sono ripristinate accettabili condizioni di vita.
Nell’intento di rendere immediatamente fruibile un diritto ampiamente
riconosciuto anche a livello internazionale, il minore viene iscritto al
Servizio Sanitario Nazionale anche nelle more del rilascio del permesso di
soggiorno. Sembra riferirsi soprattutto ai migranti minori quanto prescrive la
lettera agli Ebrei (13, 2): Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola,
hanno accolto degli angeli senza saperlo. RR
SE
SIONISMO DIVENTA SINONIMO DI NAZIONALISMO EBRAICO (18.6.2018)
Dal punto di vista storico con
‘Sionismo’ si intende il movimento nazionalista che si è sviluppato alla fine
del XIX secolo su impulso del giornalista e saggista austriacoTheodore Herzl
con l’intento di promuovere il ritorno nella ‘terra di Israele’ del popolo
ebraico e la conseguente restaurazione della sovranità politica nella patria
comune. Il termine ha poi assunto due opposte connotazioni: sionismo può avere
carattere neutro quando afferisce al favore per il diritto di
autodeterminazione degli Ebrei; assume un valore negativo quando si ritiene che
questo diritto debba prevalere su legittime e analoghe aspettative del popolo
palestinese. Pertanto l’atteggiamento sionista nella sua duplice valenza è
diventato espressione di due approcci antitetici nei confronti della
problematica convivenza con i palestinesi. Come soluzione alla controversa
questione si continua a sostenere la necessaria costituzione di due Stati
realmente indipendenti l’uno dall’altro, come già previsto dagli accordi
internazionali la cui road map è sempre di più difficile
attuazione. Questa ipotesi sta rischiando di diventare uno slogan astratto, che
genera frustrazione per entrambi i partner, Palestinesi ed Ebrei, nel crescente
disinteresse della comunità internazionale. Diversamente secondo alcuni
analisti, i palestinesi non crederebbero più nella soluzione dei due Stati, ma
aspirerebbero a diventare cittadini israeliani a pieno titolo, secondo lo
slogan uno Stato unico con pari diritti per tutti enunciato
dal diplomatico palestinese Saeb Erekat. RR
RIFORMARE ‘DUBLINO III’ PER UN’EQUA POLITICA DEI FLUSSI MIGRATORI (su L’Azione del 15 giugno 2018)
Per elaborare in ambito europeo
un’equa politica dei flussi migratori, si auspica unanimemente una
riforma del Regolamento ‘Dublino III’, che definisce quale Stato
debba farsi carico della richiesta di asilo di un extracomunitario giunto in
territorio europeo. Secondo le regole attualmente in vigore questo onere
spetta al Paese in cui si accerta che il migrante sia effettivamente arrivato;
lo Stato competente a esaminare l’istanza di protezione
internazionale (in genere o Spagna, o Grecia, o Italia, o Ungheria) sarà poi
anche quello in cui la persona dovrà restare dopo un’eventuale
valutazione positiva della sua istanza. In altri termini in questi casi una
persona che entri in Europa non può decidere in quale Stato
presentare la richiesta di asilo. L’individuazione dello Stato competente
a decidere sulla richiesta avviene anche mediante le informazioni in possesso
di Eurodac, una banca centrale in cui sono registrati i dati di
chiunque attraversi irregolarmente le frontiere di uno Stato membro o
presenti richiesta di protezione internazionale. Questa individuazione
presuppone l’identificazione del migrante nel Paese di primo ingresso in
territorio comunitario. Nell’ipotesi frequente in cui l’identificazione non sia
avvenuta, si potranno ricostruire gli spostamenti del migrante al fine di
individuare il Paese di primo ingresso, attraverso biglietti ferroviari,
scontrini o documenti simili. C’è un generale accordo sull’incapacità di questa
disciplina ad assicurare una protezione equa, efficiente ed efficace; tuttavia
nei fatti sembra difficile al momento un accordo sulla sua riforma. RR
L’EURO (5.6.2019)
L’Unione Europea offre molti
spunti di riflessione critica sia sul piano politico che su quello
macroeconomico. Tuttavia, due argomenti, soprattutto in Italia, sono oggetto di
accese controverse opinioni: la gestione dei flussi migratori diretti in Europa
e l’introduzione e il mantenimento di una moneta unica. Il debutto dell'Euro
sui mercati finanziari risale al 1999, mentre la circolazione monetaria ebbe
inizio nel gennaio 2002 nei (dodici) Paesi dell'Unione che per primi adottarono
la nuova valuta. L’introduzione della moneta, forse non preceduta
dall’istituzione di adeguate strutture di supporto, ha penalizzato alcune
economie, quella italiana in particolare. L’Euro è una moneta strutturata su
economie solide - come quella tedesca - che hanno bassa disoccupazione è un
buon tasso di crescita. Crea pertanto sofferenza in sistemi più deboli come
quelli dell’Italia, la Grecia, e della Spagna. In sintesi, la moneta unica
rappresenta Paesi in condizioni diverse Questa circostanza ha ingenerato in
Italia la tendenza ad attribuire all’Euro ogni tipo di problema strutturale,
come la rincorrenti recessione e la forte disoccupazione. Il ritorno alla Lira
tuttavia comporterebbe pericolosi dissesti finanziari. Pertanto, a chi auspica
l’uscita dalla moneta unica, si contrappone chi teme con oggettivo fondamento
che questa circostanza porti ad una massiccia svalutazione e a un impoverimento
dei salari. Alcuni economisti sostengono una posizione intermedia: uscire
dall’Euro sarebbe uno shock economico, ma superato questo periodo di dissesti,
si riacquisterebbero i vantaggi di avere la libertà di attuare politiche più
adatte alla nostra economia. Sicuramente l’ingresso nell’Euro ha avviato
processi finanziari che non consentono un indolore ritorno al passato. RR
IMMIGRAZIONE, UN DIFFICILE BANCO
DI PROVA PER IL NUOVO GOVERNO (3.6.2018)
In questi giorni mi è tornato in
mente un articolo del Guardian di qualche tempo fa che evidenziava con cinica
ma obiettiva schiettezza le difficoltà dell’Europa di affrontare la crisi
legata all’arrivo dei migranti. Se infatti viene intrapresa una politica che
sia morale e privilegi esigenze umanitarie di solidarietà, ci si scontra con
gli egoismi nazionali e con le difficoltà di ottenere un mandato
democratico. Nell’ipotesi simmetricamente opposta invece le politica che si
strutturano su esigenze ‘difensive’ della comunità ‘autoctona’ europea sono
popolari, ma spesso immorali, inaccettabili e pertanto impraticabili. In altri
termini le opzioni politiche in questa materia, prima di essere tecniche, sono
di carattere etico. In questo momento, con l’insediamento del nuovo Ministro
dell’Interno (e con le sue dichiarazioni di voler intraprendere una linea
particolarmente rigorosa) queste considerazioni hanno una peculiare attualità.
In relazione all’attuale quadro normativo nazionale vigente, non sarà facile
andare oltre i buoni risultati conseguiti dal suo predecessore al dicastero
dell’Interno. Il Ministro Minniti in particolare è stato molto attivo sul piano
dei rapporti bilaterali con alcuni Paesi delle sponde africane del
Mediterraneo, ottenendone la collaborazione nel contrasto dell’immigrazione
clandestina. Sul piano normativo il decreto Minniti-Orlando ha accelerato i
procedimenti per il riconoscimento della protezione internazionale nei
confronti dei destinatari di questo beneficio (di conseguenza anche i casi di
esclusione hanno una più sollecita evidenza) e sono stati rafforzati gli
strumenti finalizzati al contrasto dell'immigrazione illegale. Potranno essere
ulteriormente implementate queste misure senza pregiudizio per coloro che hanno
un diritto di protezione (ad esempio, diritto di asilo) secondo i principi del
diritto internazionale? Questa è la reale preoccupazione di molti. Sul piano
europeo si cercherà di rinegoziare la iniqua distribuzione fra i Paesi Membri
degli oneri economici e operativi conseguenti all’accoglimento di immigrati. Il
nuovo Ministro dell’Interno potrà avvalersi di uno staff di funzionari -
soprattutto della carriera prefettizia e della Polizia di Stato - di
riconosciuta oggettiva esperienza e professionalità. Non è un dettaglio di poco
conto. RR
IMMIGRAZIONE, UN DIFFICILE BANCO DI PROVA PER IL NUOVO GOVERNO (4.6.2018)
In questi giorni mi è tornato in
mente un articolo del Guardian di qualche tempo fa che evidenziava con cinica
ma obiettiva schiettezza le difficoltà dell’Europa di affrontare la crisi
legata all’arrivo dei migranti. Se infatti viene intrapresa una politica che
sia morale e privilegi esigenze umanitarie di solidarietà, ci si scontra con
gli egoismi nazionali e con le difficoltà di ottenere un mandato democratico.
Nell’ipotesi simmetricamente opposta invece le politiche che si strutturano su
esigenze ‘difensive’ della comunità ‘autoctona’ europea sono popolari, ma
spesso immorali, inaccettabili e pertanto impraticabili. In altri termini
le opzioni politiche in questa materia, prima di essere tecniche, sono di
carattere etico. In questo momento, con l’insediamento del nuovo Ministro
dell’Interno (e con le sue dichiarazioni di voler intraprendere una linea
particolarmente rigorosa) queste considerazioni hanno una peculiare attualità.
In relazione all’attuale quadro normativo nazionale vigente, non sarà facile
andare oltre i buoni risultati conseguiti dal suo predecessore al dicastero
dell’Interno. Il Ministro Minniti in particolare è stato molto attivo sul piano
dei rapporti bilaterali con alcuni Paesi delle sponde africane del
Mediterraneo, ottenendone la collaborazione nel contrasto dell’immigrazione
clandestina. Sul piano normativo il decreto Minniti-Orlando ha accelerato
i procedimenti per il riconoscimento della protezione internazionale nei
confronti dei destinatari di questo beneficio (di conseguenza anche i casi di
esclusione hanno una più sollecita evidenza) e sono stati rafforzati gli
strumenti finalizzati al contrasto dell'immigrazione illegale. Potranno essere
ulteriormente implementate queste misure senza pregiudizio per coloro che hanno
un diritto di protezione (ad esempio, diritto di asilo) secondo i principi del
diritto internazionale? Questa è la reale preoccupazione di molti. Sul piano
europeo si cercherà di rinegoziare la iniqua distribuzione fra i Paesi Membri
degli oneri economici e operativi conseguenti all’accoglimento di
immigrati. Il nuovo Ministro dell’Interno potrà avvalersi di uno staff di
funzionari - soprattutto della carriera prefettizia e della Polizia di Stato -
di riconosciuta oggettiva esperienza e professionalità. Non è un dettaglio di
poco conto. RR
UNIONE EUROPEA E NUOVO GOVERNO ITALIANO (su L’Azione dell’8 giugno)
I rapporti fra l’Italia e Unione
Europea sono stati al centro dell’attenzione nella formazione del governo.
Sarebbe opportuno considerare questa materia evitando strumentalizzazioni.
Molte aspettative comunitarie sono rimaste deluse. Si suggerisce di rinegoziare
i Trattati. Premesso che per Trattati si dovrebbero intendere i soli accordi
istitutivi dell’Unione Europea come modificati e integrati nel corso degli anni,
la complessa architettura comunitaria sulla quale si strutturano i meccanismi
decisionali non evidenzia particolari limiti. Rinegoziare un Trattato coinvolge
tutti i Paesi membri: arrivare a modifiche condivise è un obiettivo
estremamente difficile. Le circostanze che hanno ostacolato il progetto di
Costituzione Europea abbandonato nel 2007 sono molto indicative. Se si vuole
dare maggiore risalto alle aspettative dell’Italia, è sufficiente che sia più
incisiva la presenza nazionale (dagli esperti tecnici ai vertici politici
ministeriali) nelle procedure di formazione della volontà comunitaria. Se il
quadro normativo costituisce un limite, si dovranno utilizzare gli strumenti
per la sua modifica. Queste considerazioni presuppongono la volontà di rimanere
nell’Unione, conformemente a quanto emerge dai sondaggi, dai quali si evince
che una larga maggioranza degli italiani è a favore della permanenza. La
critica ‘all’Europa’ richiede un più forte impegno in questo ambito. Il
Ministero delle Politiche Comunitarie può avere un ruolo fondamentale: averlo
affidato al prof. Savona - che ha una conoscenza critica del sistema
comunitario e a livello internazionale gode di considerazione a prescindere
dalla condivisibilità delle posizioni espresse come studioso e non come
politico, è una scelta coerente verso l’obiettivo di un maggior credito
dell’Italia in sede europea. RR
LA FORMAZIONE DEL NUOVO GOVERNO: IL QUADRO NORMATIVO (30.5.2018)
Per deformazione professionale
credo che le questioni che riguardano le istituzioni debbano essere chiarite
facendo riferimento all’ordinamento giuridico vigente e poi, dopo essere state
collocate nel giusto contesto normativo, possano essere affrontate sotto il
profilo politico, sociale ed economico. In proposito, l’ormai notissimo art. 92
della Cost. - che prevede che il Presidente della Repubblica nomini il
Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri -
dovrebbe essere messo in relazione con l’art. 89 Cost. che in concreto
stabilisce l’irresponsabilità politica del Capo dello Stato nell’esercizio
delle sue funzioni (“Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se
non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la
responsabilità). In forza della predetta irresponsabilità politica la portata
del potere di nomina dei ministri (o di rigetto della nomina) del Capo dello
Stato, in assenza di indicazioni, di fatto sembrerebbe rimessa esclusivamente
alle sue prudenti valutazioni (a parte le ipotesi estreme e di ‘impeachment’).
Per circostanziare il contenuto della discrezionalità del Capo dello Stato
nell’ipotesi in questione si deve tenere presente che questo potere è conferito
con l’obiettivo di arrivare alla nomina di un governo che ottenga la fiducia
del Parlamento (art. 94 Cost.). E’ stato autorevolmente osservato che “la
predisposizione della lista dei ministri da parte del Presidente del Consiglio
incaricato costituisce una proposta vincolante per il Capo dello Stato, il
quale non potrebbe rifiutare alcuna nomina, se non nel caso estremo di un
soggetto palesemente privo dei requisiti giuridicamente richiesti per ricoprire
l'ufficio”. Ciò premesso, considerato che il coordinato disposto di queste
norme ha l’obiettivo di formalizzare una procedura propedeutica alla formazione
di un governo che abbia la fiducia dei cittadini, suscita perplessità che alla
proposta di una lista di ministri che presumibilmente avrebbe avuto la fiducia
del Parlamento sia stato ipotizzato di opporne un'altra che probabilmente non
avrà la fiducia del Parlamento. Ognuno può valutare la
situazione politicamente come meglio crede, ma questo è il quadro normativo
vigente che è sullo sfondo della questione. RR
LA FORMAZIONE DEL NUOVO GOVERNO
(28.5.2018)
Non seguo molto la politica
italiana e sono in genere anche poco informato in materia. Lo stallo sulla
formazione del Governo è sicuramente molto grave e pericoloso: forse è
necessario fare un po’ di ordine sulla questione partendo dall’interpretazione
delle norme. I giornali difettano spesso di obiettività e non forniscono
un’informazione completa che consenta ad ognuno un’opinione serena e
circostanziata. Premetto che sono un europeista anche per trascorsi
professionali, ma sono pure fermamente convinto che vada sempre rispettata la
volontà della maggioranza. L’art. 92 della Costituzione prevede che il
Governo della Repubblica sia composto dal Presidente del Consiglio e dai
Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente
della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i
Ministri. Quindi il Presidente del Consiglio propone, il Presidente della
Repubblica nomina. Questo significa che, anche se è la persona
incaricata di formare il nuovo governo che presenta i nomi dei futuri ministri,
è il Presidente della Repubblica a nominarli. Dal punto di vista
strettamente costituzionale, Mattarella pertanto ha esercitato una sua
facoltà, decidendo di non nominare il prof. Savona; in proposito la
Costituzione non precisa i criteri di discrezionalità su cui si fonderebbe
questo tipo di decisione. Secondo alcuni costituzionalisti l’opposizione
ad una nomina avverrebbe con il fine di garantire il bene
dell’Italia, dell’unità nazionale, degli italiani. Ma è possibile che
certe valutazioni entrino così’ nel merito come è avvenuto per il ministro ‘in
pectore’ dell’economia? Il prof. Savona – si può non essere d’accordo con il
suo punto di vista (io in particolare comprendo le sue perplessità
sull’attuale assetto comunitario, ma sarei più cauto sui drastici rimedi da
applicare) - riflette l’opinione della maggioranza degli elettori italiani
emerso dalle consultazioni elettorali anche se va precisato che un aperto
antieuropeismo non era presente nei programmi dei partiti o
movimenti, ma è stato solo un tema dibattuto in sede pre-elettorale.
La valutazione sull’opportunità politica della nomina di un ministro
sarebbe più logico e democratico se competesse al Parlamento
- organo garante della volontà popolare - in sede di discussione
per la concessione della ‘fiducia’. Se così non fosse, l’assenso del
Presidente della Repubblica sulle proposte di nomina dei ministri e la fiducia
del Parlamento sarebbero fondate sugli stessi criteri e sarebbero un doppione
l’uno dell’altra: conseguentemente per la fiducia ad un Governo potrebbe essere
sufficiente il solo assenso del Capo dello Stato. Al contrario, per non
togliere al Parlamento le sue prerogative sovrane, è fondato ritenere che le
valutazioni del Capo dello Stato non possano sconfinare in un giudizio di
opportunità politica, che è invece di competenza del solo Parlamento in sede di
fiducia. In proposito potrebbe essere utile in futuro
prevedere quanto avviene nell’analoga circostanza della fiducia alla
commissione in sede europea: ogni commissario designato è invitato a
comparire dinanzi al Parlamento europeo (in commissione); con audizioni i
singoli commissari sono valutati, sono ascoltati, e possono essere chieste
informazioni pertinenti ai fini dell'adozione della decisione sulle attitudini
a svolgere i compiti assegnati. Segue una procedura di formalizzazione del
parere con le conseguenze del caso: il Parlamento non può sfiduciare
singolarmente i commissari ma ha il potere di sfiduciare l’intera Commissione,
costringendo il presidente a ripresentare una nuova rosa di nomi. In genere
quando un commissario viene ritenuto inadatto dal Parlamento, si cerca un modo
di persuadere lo Stato membro che lo ha presentato a sceglierne un altro.
Un’ultima considerazione: se la nomina al prof. Savona, studioso di
riconosciuto spessore, fosse stata un atto anti-europeo, il rifiuto potrebbe
essere interpretato come un atto compiacente ad un Europa a trazione tedesca.
L’Unione europea resta un’opportunità preziosa, ma allo stato attuale non funziona:
potrebbe essere necessaria una ricognizione sui trattati e una riforma dei
regolamenti di attuazione. È indubbio l’influsso negativo e pericoloso delle
istanze egemoniche tedesche sull’Europa. Pretese non nuove nella storia: un
tempo si fondavano sul potere militare, oggi sfruttano un’applicazione
personalistica delle regole dell’economia. RR
L’EMERGENZA
TERRORISTICA NELL’EUROPA DEL XXI SECOLO (Roberto Rapaccini –
Intervento al Seminario TERRORISMO DI MATRICE ISLAMICA, ASPETTI SOCIALI,
POLITICI E OPERATIVI - Terni, 2 dicembre 2017)
Per poter meglio comprendere il
mio approccio a questa problematica preciso che sono stato funzionario delle
Relazioni Internazionali nel Dipartimento di PS del Ministero dell’Interno. Ho
svolto le funzioni di capo delegazione italiano presso l’UE per la cooperazione
di polizia e di esperto per la Commissione Europea – Direzione Generale
Giustizia Affari Interni (poi DG Giustizia, Libertà e Sicurezza), occupandomi
dei dossier 'Terrorismo', 'Traffico illecito di armi', e di questioni di
sicurezza e di ordine pubblico. Inoltre sono stato docente per gli aspetti
operativi del diritto comunitario in materia di sicurezza. Gli ultimi
lustri del XX secolo e l’inizio del XXI sono stati caratterizzati da grandi
cambiamenti. Con la caduta del muro di Berlino (1989) e la conseguente
disgregazione del blocco sovietico, è venuto meno l'antagonista per il quale
era stata costituita l'Alleanza Atlantica. Fino a quando la realtà politica
mondiale si era retta sul precario equilibrio Usa-Urss (l’Europa occidentale
era saldamente integrata nel fronte americano), era in atto una sorta di
bilanciamento tra le due potenze fondato su un ordine bipolare caratterizzato
da uno stato permanente di ostilità reciproche. La dissoluzione dell’Unione
Sovietica ha rotto questo equilibrio, creando un'egemonia degli Usa rimasta di
fatto l'unica reale superpotenza. L'Islam era un mondo a sé stante, di cui si
accettava la diversità culturale come un fatto naturale. l'Etnocentrismo
occidentale relegava l'universo arabo-islamico alla periferia del mondo. La
rilevanza geopolitica degli Stati arabi era limitata ad aspetti economici e
finanziari. La contrapposizione fra il mondo islamico fondamentalista e
l’Occidente ha sostituito il vuoto creato dal crollo dell’Unione Sovietica,
poiché l’Islam non è soltanto una religione, ma è anche un’ideologia politica.
Da questa contrapposizione si sono poi sviluppati la deriva jihadista e
il terrorismo di matrice islamica. A tutto questo si è aggiunta la difficile
individuazione di una strategia efficace per il contrasto della pressione dei
flussi migratori provenienti dall’Africa settentrionale. Queste
contingenze sono fonti di emergenze che mettono a dura prova la coesione
dell’Europa. La convivenza nei Paesi occidentali con fedeli islamici è
resa problematica dall’insorgenza di un pregiudizio che considera ogni
musulmano un potenziale terrorista. A poco più d’una settimana dai fatti
di Parigi del novembre 2015 numerose comunità islamiche hanno manifestato
in diverse piazze italiane per condannare la strage. Il nome delle
manifestazioni, Not in my name, deriva da una campagna lanciata dai
musulmani dopo l'attentato alla redazione del settimanale francese Charlie Hebdo (gennaio 2015): Not in my name equivale
a dire il mio Islam non è questo. Il XXI secolo è iniziato con il grave
attentato di matrice islamica alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. La
strumentalizzazione mediatica unita a qualche latente tentazione islamofoba con
un po' di approssimazione ha trasformato vicende che avvengono nelle nostre
realtà urbane, nelle quali sono coinvolti elementi provenienti da Paesi
islamici, in casi paradigmatici di una manifesta conflittualità fra la cultura
islamica e quella occidentale, supportando così la tesi di Samuel Huntington sullo scontro
di civiltà. Le Comunità Islamiche in Occidente hanno subito
un’evoluzione. Mentre negli anni ’60 i musulmani immigrati nei Paesi
europei cercavano di integrarsi abbandonando l’abitudine di portare indumenti
tradizionali, attualmente il ritorno all’uso del niqab, dello chador,
del burqa e del qamis (la tunica maschile)
non trova fondamento nell’adempimento di un dovere religioso, ma è un mezzo per
rivendicare l’appartenenza a una cultura diversa e per manifestare il rifiuto
dell’omologazione occidentale. Nei giovani islamici che vivono in occidente
confliggono due esigenze. Da una parte la volontà di affermare l’originalità
della propria individualità. Dall'altra si evidenzia la necessità di
conformarsi ai canoni della società per esigenze autoconservative e
di integrazione. Questo comportamento di ritorno alle tradizioni sembrerebbe il
prodotto di un conflitto generazionale, analogamente a quello che accade nelle
famiglie occidentali quando i genitori non comprendono le condotte dei figli a
causa di differenti abitudini ed esperienze, o di una diversa formazione
culturale o religiosa. Con ‘Primavera araba’ si intende un termine di
origine giornalistica utilizzato per lo più dai media occidentali per indicare
una serie di proteste ed agitazioni cominciate tra la fine del 2010 e
l'inizio del 2011. I Paesi maggiormente coinvolti dalle sommosse sono
stati la Siria, la Libia, l'Egitto, la Tunisia, lo Yemen,
l'Algeria, l'Iraq, il Bahrein, la Giordania e il Gibuti,
mentre ci sono stati moti minori in Mauritania, in Arabia Saudita,
in Oman, in Sudan, in Somalia, in Marocco e
in Kuwait. La Primavera Araba ha avuto moventi laici, che possono
essere riassunti nel diffuso malessere per una società non democratica, caratterizzata
da un’inaccettabile diseguaglianza nella distribuzione delle ricchezze. Le
richieste di libertà non potevano avere come modello le democrazie occidentali
considerate corrotte, ma i valori dell’Islam ristabiliti nella purezza
originaria. Così la Primavera Araba, pur essendosi originata da istanze laiche,
è approdata a esiti fondamentalisti. Secondo il politologo S. Huntington è in
atto uno scontro di civiltà. Alleanze e conflitti internazionali seguono
le linee sviluppo delle grandi culture del pianeta; i conflitti non sono quindi
di matrice ideologica o economica, ma hanno origine in differenti identità
culturali e religiose. Oggi, conclusa la Guerra fredda, gli esseri umani
non si definiscono più in base all'ideologia o al sistema economico in cui
operano, ma cercano di definire la loro identità in base alla propria lingua e
religione, alle proprie tradizioni e costumi. Di conseguenza la politica
mondiale si sta riconfigurando secondo schemi culturali. Peraltro l’Islam non è
solo una religione, ma anche un’ideologia, ovvero una realtà geopolitica. La
tesi dello scontro di civiltà applicata al confronto Islam-Occidente
presenta alcuni punti deboli. Innanzitutto l’Islam non è una monade
unitaria ma un universo disomogeneo. Oltre alla scissione fra Sunniti e Sciiti
è caratterizzato da correnti spesso in contrasto fra di loro; la Moschea di Al
Azhar che è la sede della prestigiosa e autorevole omonima
Università, pur rappresentando il vertice del
pensiero giuridico e teologico islamico sunnita, non è
un'autorità sovraordinata e quindi non esprime posizioni ufficiali. La Lega
Araba inoltre non ha mai svolto una vera leadership. Gli
autori di atti criminali di matrice jihadista non sono
espressione di un fronte unico contrapposto all'Occidente, ma o fanno parte di
specifiche organizzazioni terroristiche - che peraltro non sempre condividono
una medesima strategia -, o sono individui isolati che subiscono l’efficacia
suggestionante della propaganda mediatica fondamentalista (i così detti cani
sciolti o lupi solitari). Le caratteristiche dei così detti
cani sciolti confutano la tesi dello scontro di civiltà. Infatti se i conflitti
fossero strutturali, questi individui non dovrebbero essere espressione di
fenomeni isolati, ma dovrebbero essere esponenti di una realtà unitaria.
Invece, o sono soggetti isolati, o sono appartenenti ad articolazioni di
organizzazioni terroristiche determinate, autonome e indipendenti fra di loro;
le loro motivazioni sono radicate nelle condizioni o nelle vicende personali,
mentre la matrice ideologica rimane sullo sfondo. In particolare a proposito
di cani sciolti o lupi solitari recentemente
si è negata la loro effettiva esistenza; si tratterebbe infatti di potenziali
terroristi che si attivano subendo la suggestione di una propaganda mirata.
Rientrerebbero pertanto in un progetto strategico essendo parte di una rete
virtuale. Dall'esame delle loro personalità è emerso che questi individui
spesso sono condizionati da gravi problemi che li confinano ai margini della
comunità, o sono vittime del disorientamento causato dalla mancanza di valori
di riferimento. Pertanto utili strumenti di prevenzione avanzata nei loro
confronti, accanto all'azione dell'intelligence, sono le politiche di
integrazione, che dovrebbero neutralizzare il loro risentimento verso una
società che sentono ostile o nei confronti della quale si sentono inadeguati.
Con i fatti dell’11.9.2001 il terrorismo jihadista compie
un’evoluzione e diviene una minaccia per il mondo occidentale. Il
terrorismo jihadista è di matrice religiosa, ovvero è una
forma malintesa di militanza confessionale. La fede vissuta come ideologia
richiede un impegno collettivo finalizzato a cambiare con ogni mezzo le
strutture della società. Il terrorismo è una 'scorciatoia' diretta a questo
fine. Conseguentemente gruppi jihadisti si strutturano per
promuovere con ogni mezzo l’instaurazione di un ordine sociale nel quale le
leggi civili sono sostituite da un sistema giuridico plasmato sulla legge
divina (la Sharia). Il Terrorismo religioso ha sempre
carattere radicale, non ammette alternative alla prevalenza dell’assetto
socio-politico che costituisce un corollario del credo religioso. In sintesi il
terrorismo di matrice islamica consiste nell’uso della violenza e della
minaccia per instaurare un ordine ispirato ai precetti del Corano. È in atto
una guerra asimmetrica: il terrorismo ha l’obiettivo di trasformare tutti i
momenti di ordinaria serenità in occasioni di paura e sofferenza. Il terrorismo
di matrice islamica ha delle specifiche caratteristiche. Ricorre agli attentati
suicidi. Tutti sono indiscriminatamente possibili obiettivi. Pertanto la sua
finalità è quella di creare un senso generale di insicurezza e paura. per
questo differisce da altre forme di terrorismo, come, ad esempio, quello
chirurgico dell’Eta quando l’organizzazione era in attività. Per il contrasto
della minaccia di matrice islamica non è sufficiente la coordinata risposta
operativa degli apparati di intelligence e di sicurezza. La
prevenzione infatti deve cessare di essere delegata esclusivamente alle
Forze di Polizia. Pertanto la prevenzione deve divenire parte della cultura
collettiva, come avviene nella realtà israeliana. E’ necessario che l’Occidente
ritrovi solidarietà e coesione sui valori fondanti. In conclusione un cenno sui
rapporti fra multiculturalismo e flussi migratori. Come si dirà più
ampiamente nella successiva relazione, si è spesso affermato che gli
attentati jihadisti siano supportati da una visione radicale
dell'Islam. Questa tesi viene comunemente sintetizzata con l'espressione radicalizzazione
dell'islamismo. Dall'esame delle personalità degli autori delle stragi jihadiste si
rileva che essi spesso sono anche ‘occidentali’ che hanno gravi problemi
personali, che li confinano ai margini della società. Questa condizione,
caratterizzata anche da un vuoto ideologico, produce una visione
relativistica in un contesto di diffuso nichilismo, radicalizzando un
atteggiamento critico nei confronti della società. Diversamente l'Islam nella
sua interpretazione fondamentalista offre un modello che, seppur discutibile,
si basa su valori definiti e solidi, e che pertanto possono esercitare una
qualche seduzione su chi è alla ricerca di una identità definita per arginare
il proprio senso di inadeguatezza. Questa contestazione radicale della nostra
società può essere descritta come islamizzazione del radicalismo, in
parziale contrapposizione alla già sopra menzionata radicalizzazione
dell'islamismo. In altri termini la penetrazione della cultura
islamica fondamentalista non è il risultato di una preordinata aggressione
esterna, ma è la conseguenza anche di suggestioni che occupano il vuoto etico
di una civiltà in decadenza. Si ricorre spesso al concetto di tolleranza.
Paradossalmente la tolleranza ha delle sfumature vagamente discriminatorie.
Nella pratica infatti dietro la benevolente accettazione dell’altro si cela un
implicito giudizio di superiorità, di diffidenza, o addirittura di biasimo o di
condanna. La convivenza dovrebbe invece essere strutturata sul riconoscimento
della pari dignità dell’altro. Segnatamente in materia di immigrazione la
demagogia politica, rigidamente polarizzata sui principi simmetricamente
opposti dell’accoglienza generalizzata o del respingimento indiscriminato,
strumentalizza le possibili derive conseguenti ai due atteggiamenti, rendendo
difficili approcci costruttivi che possano conciliare i principi di civile
solidarietà, con i problemi di sovraffollamento e di criminalità indotta.
L’integrazione è un dovere civile, ma ha senso qualora sia reale e non si
esaurisca in affermazioni di facciata da spendere per fini politici o
elettorali. I mutamenti delle condizioni di vita e i costi sociali che richiede
la dimensione multiculturale devono essere tali da non alimentare una
contrapposizione fra i cittadini del Paese ospitante e i nuovi arrivati. Solo
tenendo presenti questi presupposti e rinunciando ad alimentare l’enfasi
populista di un facile buonismo o all’opposto quella ad effetto di
un’inconsistente intransigenza, le questioni connesse alla convivenza
multirazziale, seppur non risolte, potranno essere affrontate
seriamente. Due citazioni significative. La prima: "Si dice che al
mondo ci sia tanta religione per far sì che gli uomini si odino, ma non
abbastanza perché gli uomini si amino.” (dal film Angel Heart di Alan
Parker). La seconda: “Alleandosi a un potere politico,
la religione aumenta il suo potere su alcuni uomini, ma perde
la speranza di regnare su tutti” (Alexis de Tocqueville).
Grazie per la vostra qualificata attenzione! RR
È TRAMONTATO IL SOGNO EUROPEO? (su L’Azione del 26 giugno 2018)
Lo scenario italiano segnato dai
consensi ottenuti da forze politiche che hanno manifestato in alcune occasioni
scetticismo nei confronti del progetto europeo, ha riacceso il dibattito
sull’attuale stato dell’Unione. Non è in discussione l’idea di un’Europa unita:
sarebbe un oggettivo vantaggio l’esistenza di un soggetto istituzionale europeo
unico fondato su un reale e reciproco sostegno, centro di attribuzione di
comuni linee politiche ed economiche, in grado di promuovere il benessere di
tutti i cittadini. Si dubita invece dell’adeguatezza dell’attuale assetto
ordinamentale comunitario. La tenuta dell’unità fra i Paesi membri è stata
compromessa da un progressivo allargamento da 15 a 28 Stati, intrapreso con
troppa disinvoltura e soprattutto senza verificare se i Paesi candidati
disponessero dei presupposti per la loro integrazione: i nuovi Stati membri
spesso infatti hanno manifestato un'assenza di cultura della solidarietà.
L’economia dei Paesi membri ha subìto il danno di spinte deflazionistiche
causate dalle scelte finanziarie imposte dalla Germania nel suo egoistico
interesse. L'introduzione della moneta unica non preceduta dalla creazione
delle necessarie sovrastrutture ha penalizzato i sistemi economici meno solidi.
Deve essere ripristinata la pienezza delle funzioni di governo della
Commissione Europea, che nel tempo anziché promuovere solide linee unitarie si
è trasformata in uno sterile e burocratico esecutivo concentrato sul controllo
degli Stati membri. Vi è stata inoltre totale incapacità di elaborare soluzioni
condivise per gestire e contrastare i flussi migratori. Anche se il sogno
europeo non è tramontato, è indubbiamente necessaria una rinegoziazione dei
Trattati alla luce delle aspettative deluse. RR
CHIAMATA ALLE ARMI…INFORMATICHE (su L’Azione del 18 maggio 2018)
Per una perversa congettura
secondo cui lo sviluppo dell’industria bellica nazionale può esercitare
ripercussioni positive sull’economia, il settore produttivo legato alle
attività militari di difesa ha sempre goduto di privilegi presumibilmente
alimentati anche da pressioni lobbistiche, che si attivano per favorire
l’acquisto da parte dello Stato di armi costose non raramente destinatarie di
insostenibili spese di manutenzione, scelte secondo tipologie indicate dalle
aziende produttrici piuttosto che in base alle esigenze di sicurezza.
Nonostante l’ingente impegno finanziario l’Italia è impreparata da un punto di
vista logistico a fronteggiare le minacce emergenti. In proposito è opportuno
distinguere la security dalla safety. Per security si
intendono i servizi di sicurezza attuati dalle forze dell’ordine; il concetto
di safety riguarda invece le misure e i dispositivi di
carattere strutturale a tutela dell’incolumità delle persone. Per prevenire
attacchi terroristici sul territorio e on-line disponiamo di
una security di alto profilo, mentre per quanto riguarda
la safety non abbiamo bisogno di carri armati,
cacciabombardieri e portaerei, ma di investimenti mirati alla cyber-difesa,
che consentano quindi di contrastare attacchi informatici che potrebbero anche
mettere fuori uso le armi tradizionali. Come
è stato autorevolmente osservato da uno storico britannico della prima metà del
XX sec. riprendendo una frase dell’intellettuale francese G. Clemenceau, la
guerra è una cosa troppo seria per essere affidata solo a militari e politici.
RR
LA CRISI DEL
MULTICULTURALISMO (2.5.2018)
Un saggio dell’intellettuale
britannico di origine pakistana Kenan Malik qualche anno fa ha sollevato un
interessante dibattito sul multiculturalismo. Una politica è multiculturale
quando all’interno di uno stesso Paese si attribuisce particolare spazio alle
identità culturali e linguistiche di altre componenti etniche. Su questo tema
si sono solitamente contrapposte due posizioni: da una parte si considera il
multiculturalismo un potenziale attacco all’identità nazionale, dall’altra si
afferma l’opportunità di salvaguardare le diversità che possono costituire
elementi di reciproco arricchimento. In Europa in questi ultimi anni il
dibattito su questo tema si è intensificato con l’affermarsi dell’emergenza
terroristica di matrice islamica e con l’incremento dei flussi migratori dal
nord-Africa. Così il multiculturalismo si è inserito nel più ampio dibattito
sui rapporti fra Islam e Occidente. Le derive del multiculturalismo possono in
questo modo diventare un’espressione dello ‘scontro di civiltà’ ipotizzato da
Samuel Huntington nel suo celebre libro[1], dal momento che in questa
prospettiva le aperture multiculturali potrebbero alimentare la minaccia di
un’islamizzazione della civiltà occidentale, con il rischio di dare
spazio a movimenti e associazioni islamiche violente o semplicemente ambigue o
passive nei confronti dell’estremismo jihadista. Un
atteggiamento di rispetto e protezione delle istanze multiculturali porta
inevitabilmente a collocare i diversi gruppi etnici in specifici ambiti anche
normativamente circoscritti da limiti fisici e virtuali. Da questo punto di
vista il relativismo multiculturale è in antitesi con la visione illuministica
che auspica una società cosmopolita nella quale ogni differenza fra individui è
bandita per affermare la pari dignità di tutti. La visione universalistica
dell’illuminismo, contrapposta al relativismo multiculturale, presuppone valori
condivisi come l’inviolabilità della persona, l’attribuzione ad ognuno degli
stessi diritti e libertà, la parità dei sessi: il riconoscimento di questi principi
diviene pertanto la condizione perché un gruppo etnico possa aspirare alla
completa integrazione in una società occidentale. Questa constatazione può
portare a conseguenze paradossali. Il riconoscimento della piena legittimità di
altre culture, quasi sempre animato da nobili intenzioni, può diventare infatti
uno strumento potenzialmente conservatore e antiprogressista, dal momento che
alcune culture sono agli antipodi degli ideali di uguaglianza e di libertà di
derivazione illuminista su cui si strutturano le società occidentali. In questo
quadro si colloca la recente presentazione in Belgio del Partito Islamico, che
ha tra gli obiettivi l’introduzione in Europa della Sharia. Pur partendo dal
presupposto che tutte le culture hanno pari dignità, le politiche di
integrazione - che mirano all’edificazione di una comune società di uguali -
possono essere in antitesi con i modelli multietnici, nei quali invece la
comunità è staticamente frammentata in distinti sistemi che conservano
integralmente i principi e le regole su cui si fondano e che potrebbero anche
causare il proliferare di sfere di arretratezza o che ripudiano la democrazia.
Il relativismo multiculturale può portare a casi estremi come, ad esempio, il
delitto d’onore consumato ai danni di quelle figlie che si sono
sentimentalmente unite con un ‘infedele’: per i musulmani la sua uccisione
è un atto dovuto, mentre è un omicidio nelle società ispirate a valori
liberali. Autonomi sistemi culturali spesso coesistano pacificamente
e si tollerano perché raramente entrano in relazione fra di loro. La più nota
esemplificazione di società multiculturale è quella britannica. In essa
tuttavia esiste una cultura egemone, quella di cui è espressione la società
inglese, mentre i valori e le regole degli altri gruppi etnici possono avere
riconoscimento solo se non confliggno con le norme dell’ordinamento giuridico
dello Stato. Nella pratica quindi è difficilmente ipotizzabile un
multiculturalismo ‘integrale’, ovvero un sistema nel quale tutte le culture che
obbediscono a regole diverse convivano senza compromessi o reciproche
concessioni o rinunce, e nello stesso tempo non entrino in situazioni
conflittuali. La libertà di parola, la libertà di fede, la democrazia, lo Stato
di diritto, diritti uguali per tutti indipendentemente dall’etnia, dal genere o
dall’orientamento sessuale definiscono la società occidentale; non è possibile
che culture differenti vivano vite separate, l’una dall’altra, e indipendenti
dalla cultura che è espressione della maggioranza. Queste considerazioni hanno
spinto recentemente molti intellettuali a prendere atto amaramente del
fallimento della multi etnicità. Tuttavia i processi identitari hanno natura
dinamica; se si i gruppi etnici sono disponibili al confronto e al dialogo, si
possono evitare le cristallizzazioni che costringono il pluralismo a
ghettizzare chi è intollerante con i tolleranti. RR
[1] ‘Lo scontro delle civiltà
e il nuovo ordine mondiale’ di Samuel P. Huntington.
LA VISITA DEL CARDINALE TAURAN IN
ARABIA SAUDITA (26.4.2018)
Nei giorni scorsi il cardinale
Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo
Interreligioso, è stato in visita in Arabia Sauditi: ha avuto incontri con i
vertici istituzionali del Paese e con il re Salman bin Abdulaziz. L’evento ha
un grande significato storico che tuttavia non va enfatizzato eccessivamente.
Sicuramente sulla base dell’instaurazione di queste nuove relazioni
diplomatiche, il Vaticano potrà porre le premesse per ottenere un miglioramento
delle condizioni delle comunità cattoliche in terra saudita. Per l’Arabia
Saudita l’incontro con i vertici politici del mondo cattolico inaugura un
cambiamento epocale: l’iniziativa rientra tuttavia nella più generale strategia
del leader saudita di ‘normalizzare’ il Paese, sia nelle
questioni interne che in quelle di politica estera, intrapresa con lo scopo di
un pieno inserimento della maggiore nazione del Golfo nella comunità
internazionale. Ma per cambiare non basta modificare l’ordinamento giuridico: è
necessario che si consolidi una nuova cultura sociale, politica e religiosa. Un
banale esempio. Ora le donne in Arabia Saudita possono liberamente circolare in
bicicletta (fino a qualche settimana fa non era consentito), ma vengono ancora
‘fermate’ dai poliziotti che non si sono abituati all’innovazione. Il fronte
musulmano non è unitario e quindi questa eventuale e presunta normalizzazione
di rapporti fra Islam e Cattolici impegnerebbe solo il Regno saudita. Da sempre
l’Arabia Saudita, finora con successo, cerca di accreditarsi come il
Paese leader del mondo islamico sunnita, mentre l’Iran
mantiene solidamente la leadership sciita. In proposito,
Salman bin Abdulaziz ha intrapreso anche una politica di ‘disgelo’ con lo Stato
ebraico, in contrapposizione ai sempre più delicati rapporti fra Iran e
Israele. Da queste premesse si comprende come gli incontri in questione fra lo
Stato Città del Vaticano e Regno dell’Arabia Saudita siano solo
iniziative politiche, pur sempre di grande importanza ma non suscettibili
al momento di incidere sui generali rapporti religiosi fra Islam e Cristiani.
RR
RIFLESSIONI SULLA TRATTATIVA STATO
– MAFIA (24 aprile 2018)
In questi giorni a seguito
dell’attesa sentenza sulla trattativa Stato - mafia si è parlato molto di
questo argomento. Sicuramente l’espressione ‘Trattativa Stato – mafia’ è una
sintesi verbale molto infelice, perché evoca l’immagine di una nazione
interamente asservita alle consorterie mafiose. Non è così: le componenti che
hanno sbagliato non rappresentano tutto il Paese, che fra i più valorosi eroi
ha avuto magistrati come Antonino Scopelliti, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone,
Paolo Borsellino e Rosario Livatino, o appartenenti alle forze dell’ordine come
Carlo Alberto Dalla Chiesa, Ninni Cassarà, Boris Giuliano e Emanuele Basile, o
uomini come Peppino Impastato e Libero Grassi. Lo Stato accusato della
presunta trattativa con la mafia è lo stesso che con tenacia ha combattuto,
catturato, processato e condannato Riina, Bagarella, Brusca e tanti altri
criminali. Tornando a considerazioni più specifiche sulla cosiddetta
‘Trattativa Stato - mafia’ sarebbe opportuno evitare che questa odiosa
espressione accomuni sotto uno stesso denominatore posizioni processuali molto
diverse. Prima di esporre alcune riflessioni che prescindono dalla conoscenza delle
motivazioni della sentenza, vorrei che fosse chiaro il mio punto di vista:
- la
mafia è il peggiore cancro della società italiana;
- non
mi piace chi minimizza il fenomeno dicendo che la mafia non esiste: anche se
molto provata dai colpi dello Stato per la definitiva sconfitta delle
organizzazioni mafiose c’è ancora molto lavoro giudiziario, ‘culturale’ e
politico da fare;
- non
credo alle mitizzazioni edulcoranti del ‘codice d’onore’ mafioso: forse è
esistito in passato, ma stento a credere che abbia una morale o abbia un minimo
di umanità o dei riferimenti etici chi ha barbaramente decretato la morte di un
adolescente sciogliendolo nell’acido nel tentativo di far tacere suo padre
divenuto collaboratore di giustizia;
-
penso che l’applicazione dei rigori del 41 bis debba rientrare
nelle legittime prerogative dello Stato.
Premesso tutto questo è opportuno
operare delle precisazioni, innanzitutto sulla posizione dei giudici, sia
inquirenti che giudicanti, impegnati in questo procedimento giudiziario: i
magistrati hanno sicuramente fatto molto bene e con perizia e coraggio il
loro dovere, che tuttavia è agevolato dall’esistenza di chiari e oggettivi
parametri di riferimento, ovvero la tassativa applicazione delle norme
giuridiche. Mi spiego meglio: se una condotta oltrepassa la linea del lecito va
sanzionata, altrimenti è espressione di legittima libertà. Per un appartenente
alle forze dell’ordine l’adempimento del dovere, soprattutto in certe posizioni
di vertice, può richiedere valutazioni più complesse. Per essere ‘nel giusto’
non basta rispettare la legge. Spesso appartenenti alle forze dell’ordine e
tanti magistrati sono ‘in trincea’ nel combattere le derive criminali; questo
significa che devono compiere delicate valutazioni nel perseguire come
obiettivo quello di evitare il male peggiore: a tale scopo possono essere
necessarie anche iniziative extra ordinem, contatti
‘pericolosi’ e ‘sospetti’, comportamenti non ortodossi. Con questo non ritengo
che sia da scusare qualsiasi condotta di rappresentanti dello Stato quando sia
legittimata dal fine: le norme vanno sempre osservate e chi sbaglia deve
pagare per i suoi errori. Tuttavia non è giusto che si attribuiscano patenti di
mafioso o di criminale a chi, pur sbagliando, ha agito in buona fede o ha
ritenuto di fare il meglio nell’interesse della comunità. Pertanto la pubblica
opinione dovrebbe sottilmente tenere presenti queste circostanze evitando
l’attribuzione temeraria di etichette infamanti. Naturalmente nessuna pietà
‘giudiziaria’ per chi è realmente colluso o connivente con la mafia. In
termini estremamente sintetici credo che chi sia stato condannato in questa
pronuncia giudiziaria, pur avendo violato norme giuridiche e perciò meritevole
di sanzione, non necessariamente ha intrattenuto pericolose relazioni con
persone di dubbia onestà o mafiosi in mala fede. Chi invece lo ha fatto è
giusto che sia condannato con durezza anche per questo. RR
GAZA, TERRA DI TUTTI E DI NESSUNO (su L’Azione del 27 aprile)
Recentemente Gaza è stata teatro di proteste
represse con violenza dall’esercito israeliano. Dopo la Prima
Guerra Mondiale Gaza divenne oggetto del mandato britannico insieme alla
Palestina. Nel ‘48 con la Cisgiordania passò sotto l’amministrazione
egiziana per poi tornare israeliana con la guerra dei sei giorni nel ‘67. Con
il Trattato di pace del ‘79 con l’Egitto gli israeliani restituirono il Sinai
ma non Gaza, essendo ivi cominciati gli insediamenti coloniali. Con le intese
di Oslo del ’93 Israele riconobbe a Gaza il diritto di autogovernarsi:
il leader palestinese Arafat stabilì in Gaza City il centro
politico della regione. Nel 2005 Israele decise l’evacuazione degli ebrei
dalla Striscia di Gaza; ne mantenne il controllo dei confini marittimi.
L’economia della Striscia da allora è condizionata dal blocco israeliano delle
sue frontiere terrestri e marittime. Nel 2006 esponenti politici legati ad
Hamas vinsero le elezioni palestinesi e si insediarono a Gaza. L’ascesa di
Hamas forse fu favorita anche dai servizi di sicurezza israeliani che avevano
intuito che il fondamentalista Hamas, per le sue posizioni radicali, sarebbe
entrato in contrasto con il laico e moderato Al Fatah. Gli israeliani non
avevano previsto che Hamas sarebbe diventata una grave minaccia. A seguito della politica dell’attuale governo israeliano sono
ripresi gli scontri a Gaza. Le voci critiche ‘interne’ sulla
repressione militare fanno ritenere che queste iniziative non corrispondano
alle scelte della nazione israeliana ma abbiano il loro fondamento nelle
opzioni di un governo che sta riportando il Paese nell’isolamento politico
mentre sarebbe maturo il suo pieno ingresso nella comunità internazionale. RR
SALONE DEL LIBRO DI TORINO: LIBRI
E WEB (su L’Azione del 20 aprile 2018)
Con l’avvento della era digitale
siamo passati dalla necessità di ricercare informazioni attraverso libri
e media tradizionali ad un sovraccarico cognitivo, cioè ad
un eccesso di conoscenze che richiede una capacità opposta, quella di
orientarci nell’abbondanza di nozioni, non sempre corrette. In proposito, un
intellettuale elvetico per descrivere la Rete ha usato una felice metafora: ha
paragonato il Web ad una sintesi fra la biblioteca di Alessandria e la Cloaca
Massima. Il flusso di notizie che indiscriminatamente ci sommerge assomiglia
anche al moto anarchico delle onde dell’oceano, che rendono difficoltoso un
approdo sicuro non per la mancanza di forze che ci sospingano, ma per il loro
eccesso. Questo nebbioso contesto è un terreno fertile per fake news,
banalizzazioni, e apologie varie che alimentano odio, violenza e pregiudizi.
Internet ci da l’illusione che non serva leggere e sapere: c’è Google e Wikipedia che
in pochi istanti forniscono risposte. L’antitodo a queste derive è una cultura
che sia ancorata a riferimenti oggettivi, che possono essere forniti solo dai
libri, i cui contenuti hanno autori sempre individuabili, e un editore
che garantisce per le implicazioni soprattutto giuridiche della
pubblicazione. Senza rinunciare agli indubbi vantaggi del Web, il libro
deve tornare ad essere l’elemento centrale della costruzione della cultura
contemporanea: peraltro pubblicare un libro è un’operazione complessa che
richiede studio, impegno e riflessione. L’abitudine alla lettura è importante
fin dall’infanzia. Un proverbio dice: un bambino che legge sarà un uomo che
pensa. RR
LA STRISCIA DI GAZA, TERRA DI TUTTI E DI NESSUNO (9 aprile 2018)
Da anni e in particolare in questi
giorni la Striscia di Gaza è drammaticamente al centro della crisi
mediorientale. Negli ultimi mesi Gaza è stata teatro di
proteste represse con grave violenza dall’esercito israeliano. Il 6 aprile u.s.
8 manifestanti sono stati uccisi, mentre almeno un migliaio sono stati feriti.
L’esercito israeliano ha giustificato la sua sproporzionata reazione affermando
di aver sparato solo contro quei manifestanti (che non avevano armi) che
cercavano di attraversare il confine fra la Striscia e il resto del territorio
israeliano. Analogamente, nonostante le condanne e le critiche
internazionali, il governo israeliano ha difeso la condotta dell’esercito,
sostenendo che i militari hanno difeso la sicurezza dei confini. Queste
giustificazioni sono state ritenute mendaci dall’Autorità Palestinese. Il
presidente palestinese Abbas ha chiesto che il rappresentante della
Palestina all’ONU, quelli dei Paesi della Lega Araba, quello dell’Unione
Europea intraprendano iniziative per fermare le violenze israeliane.
La Striscia di Gaza è una piccola frazione di territorio della Palestina (di
circa 360 kmq con una popolazione di meno di 2 milioni di abitanti di etnia
araba[i]). Una premessa terminologica convenzionale: uso il termine ‘arabo’
come sinonimo di ‘palestinese’; i Palestinesi infatti non hanno una specifica
connotazione etnica, ma sono il popolo di lingua e cultura araba, e di
religione musulmana, che vive in Palestina. Nel XIV secolo la
regione di Gaza cadde sotto l’influenza dell’Impero Ottomano integrando la
cosiddetta Grande Siria insieme all’attuale Siria e a buona parte del Libano.
Dopo la Prima Guerra Mondiale Gaza divenne destinataria del mandato britannico
insieme alla Palestina. Successivamente alla guerra arabo-israeliana del
1948[ii]la Cisgiordania e Gaza, grazie al supporto militare di alcuni Paesi
arabi solidali nel tentativo di ostacolare la nascita dello Stato
d'Israele, passarono sotto l’amministrazione egiziana per poi tornare ad essere
territori israeliani a seguito della guerra dei sei giorni del 1967. Con il
Trattato di pace del 1979 con l’Egitto, a seguito degli accordi di Camp David,
gli israeliani restituirono il Sinai all’Egitto ma non i territori di Gaza,
essendo cominciati nel frattempo gli insediamenti coloniali in quella zona.
Dopo le intese di Oslo del ’93, Israele riconobbe a Gaza il diritto di
autogovernarsi: le forze militari israeliane si ritirarono, mentre il leader
dell’Autorità Palestinese Yasser Arafat stabilì in Gaza City il centro politico
della regione. Seguirono negoziazioni per definire più chiaramente lo status permanente
di questa area, che avrebbe dovuto seguire le sorti della West Bank[iii].
Queste intese si interruppero nel 2000 con la Prima Intifada. Dopo la morte di
Arafat e l’elezione di Mahmoud Abbas, capo di Al Fatah[iv], come presidente
della Palestina, la situazione sembrava avviata verso una stabile
normalizzazione ed emersero prospettive di pacificazione fra le due etnie,
quella araba e quella ebrea. Nel 2005 Israele decise unilateralmente
l’evacuazione della popolazione israeliana dalla Striscia; ne mantenne tuttavia
il controllo del traffico marittimo e dei confini; in proposito l’economia
della Striscia da allora è fortemente condizionata dal blocco israeliano delle
sue frontiere terrestri e marittime. Nel 2006 esponenti politici legati ad
Hamas[v] vinsero le elezioni palestinesi e inviarono rappresentanti a
Gaza, che poterono insediarsi nelle istituzioni governative e militari. Gaza
divenne una delle principali basi operative di Hamas anche per iniziative
terroristiche. Gli equilibri instabili fra Al Fatah e Hamas crearono contrasti
fra i due movimenti, che sfociarono anche in scontri violenti. In effetti
l’ascesa di Hamas qualche decennio prima probabilmente fu favorita anche dai
servizi di sicurezza israeliani, che avevano intuito che Hamas, movimento
fondamentalista sunnita, per le sue posizioni radicali prima o poi sarebbe
entrato in collisione con il più laico e moderato Al Fatah, e questo avrebbe
indebolito la società palestinese. Tuttavia gli israeliani forse non avevano
previsto che Hamas sarebbe diventata una delle più gravi minacce per Israele. Nel 2011 Hamas e Al Fatah si accordano per unificare le sorti di
Gaza a quelle di tutta la Cisgiordania. Dal 2012 fu ribadito il controllo
dell’Autorità Palestinese sulla Striscia e sulla West Bank. A seguito della
politica dell’attuale governo israeliano, che si concreta in ingerenze e
interferenze nell’amministrazione palestinese di Gaza che causano situazioni
conflittuali con la comunità araba, sono iniziati gli scontri che in
questi giorni hanno avuto una grave recrudescenza. Le voci critiche
all’interno del Paese e il dibattito sugli organi di stampa (su Haaretz in
particolare) inducono a ritenere che queste iniziative violente, che in qualche
modo vanno correlate alla deportazione di migliaia di africani, non
corrispondano alle scelte politiche della nazione israeliana, ma abbiano la
loro paternità nelle opzioni politiche di un governo, il più di destra nei
settant’anni di storia di Israele, che sta riportando il Paese in una
condizione di isolamento internazionale mentre sarebbe maturo e legittimo il
suo pieno ingresso nella comunità internazionale. RR
[i] La maggior parte della
popolazione è composta da rifugiati fuggiti dalle loro case durante la prima
guerra arabo-palestinese del 1948 e dai loro discendenti.
[ii]Il conflitto fu caratterizzata
dallo scontro fra la componente ebraica e quella araba insediate
in Palestina.
[iii]Cioè la Cisgiordania detta
West Bank poiché è situata sulla riva occidentale del fiume Giordano.
[iv] Al Fatah è il
movimento di liberazione palestinese.
[v] Hamas è il movimento
di resistenza islamica, braccio operativo dei Fratelli Musulmani per
contrastare Israele. Hamas non ha un esercito vero e proprio nella
Striscia di Gaza, ma possiede un’ala militare, le brigate 'Izz al-Din al-Qassam.
L’INCIDENTE TRANSFRONTALIERO A
BARDONECCHIA FRA ITALIA E FRANCIA (5 aprile 2018)
Com’è noto, il 30 marzo u.s.
cinque agenti doganali francesi, impegnati nell’inseguimento di un presunto
trafficante di droga, hanno fatto irruzione in un locale della stazione di
Bardonecchia utilizzato a scopi umanitari dalla ong Rainbow4Africa, In
proposito a livello politico con molta enfasi e probabilmente con qualche
intento speculativo si è ritenuto che sia stata consumata una grave violazione
della sovranità territoriale italiana da parte di operatori doganali
transalpini. La condotta degli operatori francesi potrebbe non essere stata del
tutto ortodossa o pienamente rispettosa del quadro normativo internazionale
vigente, ma non sembrano tuttavia esserci i presupposti per sollevare
un caso diplomatico. Questo tipo di inseguimento transfrontaliero infatti è
previsto dalla Convenzione di Schengen che con l’art. 41 autorizza gli agenti
di uno Stato contraente che nel proprio Paese inseguono una persona colta in flagranza
di uno dei reati specificamente indicati nel trattato a continuare
l'inseguimento nel territorio di un altro Stato contraente confinante senza
l’autorizzazione preventiva dello Stato ‘invaso’ qualora non sia possibile per
motivi di urgenza. Queste disposizioni sono integrate da accordi
bilaterali tra Italia e Francia – come quello di Chambery del 1997 in materia
di collaborazione doganale e di polizia, o quello per l’esecuzione di
operazioni congiunte del 2012 - o da trattati che prevedono forme di cooperazione
rafforzata fra più governi come quello di Prun del 2005. Specifiche intese
riguardano la delicata tratta ferroviaria fra Modane (il primo comune francese
oltre il confine) e Bardonecchia. Vanno sicuramente accertate le modalità
esecutive dell’operazione per verificarne la piena legalità; eventuali
violazioni di specifiche norme possono rilevare sul piano sanzionatorio (ad
esempio, come abuso in atti d’ufficio o violazione di domicilio), ma lo
sconfinamenti di operatori in sé considerato in questi casi è del tutto
consentito. Il reale problema riguarda invece la legittimità dell’introduzione
nei locali dell’associazione Rainbow4Africa, poiché lo stesso articolo 41
dell’accordo di Schengen vieta in questi casi l’ingresso nei domicili e nei
luoghi non accessibili al pubblico. In proposito, i locali violati della
stazione di Bardonecchia, attualmente in uso all’ong, sono di proprietà del
comune e in passato, in base ad un accordo del 1963, erano stati messi a
disposizione della polizia francese: da questa pregressa circostanza si sarebbe
originato l’equivoco che avrebbe giustificato l’irruzione degli agenti doganali
francesi. La tesi del malinteso in realtà non è molto convincente visto che a
marzo vi era stato uno scambio epistolare tra Ferrovie dello Stato italiane
e Dogane francesi, da cui emergeva chiaramente come queste ultime fossero al
corrente che i locali della stazione di Bardonecchia, precedentemente
accessibili ai loro agenti, non lo erano più, essendo attualmente occupati da
una organizzazione non governativa a scopo umanitario. Peraltro, proprio
per discutere la questione, i due Paesi avevano convenuto di incontrarsi
a livello tecnico presso la Prefettura di Torino a metà aprile. Probabilmente
non è un caso che la questione apparentemente di carattere squisitamente
tecnico si sia tradotta in un contrasto che coinvolge i migranti, ovvero
una materia spesso frutto di malintesi mossi da intenti egoistici nazionali.
Quanto avvenuto richiede un formale chiarimento fra i due Paesi ed è forse l’occasione
per concordare un comune approccio in tema di accoglimento o di respingimento
di migranti secondo i casi, per una comune politica nel quadro della buona
collaborazione fra le due polizie nazionali. RR
I CONTRASTI NELLA GALASSIA FONDAMENTALISTA AFGHANA (3 aprile 2018)
Mujaheddin, Talebani e militanti
dell’Isis hanno un’importanza centrale nelle recenti vicende dell’Afghanistan.
I Mujaheddin sono guerriglieri islamici attivi nell’Asia centrale: durante la
guerra russo-afghana, sostenuti da Stati Uniti, Pakistan e Arabia
Saudita, contrastarono l’intervento militare sovietico a sostegno del governo
progressista afghano. I Talebani, vincitori nel 1995-6 della guerra civile
successiva al ritiro russo, conquistarono il potere imponendo un regime
teocratico fondato sulla rigida applicazione del Corano; destituiti da una
coalizione occidentale per aver supportato Al Qaeda continuarono ad operare
nella clandestinità anche per contrastare l’ascesa dello Stato Islamico. Lo
Stato Islamico, inizialmente lontano dai principali centri abitati afghani,
progressivamente aumentò la sua influenza nel Paese. Emersero seri motivi
di contrasto fra Talebani e Isis. Il traffico di droga, con il
quale i Talebani finanziavano l’acquisto di armi, attirò l’interesse
dell’Isis che maturò l’obiettivo di acquisirne il monopolio. Lo
Stato Islamico inoltre si attivò per fare proselitismo per reclutare militanti
talebani, allettandoli con un migliore compenso economico. Ulteriore causa di
divisione fu l’obiettivo strategico correlato all’imposizione della Sharia.
I Talebani essendo nazionalisti limitavano la loro attenzione
alle sole vicende afghane; lo Stato Islamico coltivava invece
un’ambizione globale, la vocazione di estendere l’influenza jihadista quanto
più possibile. I contrasti fra gli islamisti in Afghanistan provano che
l’Islam, oltre ad essere una religione, è un’ideologia politica. RR
AFRICA, LA CRESCENTE ISLAMIZZAZIONE E LA PRESENZA CRISTIANA (30 marzo 2018)
L’islamizzazione del
continente africano è in costante aumento. Per contrastare questo processo è
necessario conoscerne le cause. Innanzitutto il proselitismo islamico, che
spesso procede parallelamente all’espansione fondamentalista, è facilitato dai
matrimoni misti fra musulmani e cristiane, a seguito dei quali le donne non
solo abbandonano la loro fede ma non possono nemmeno condizionare l’educazione
religiosa dei figli. Inoltre alcuni Stati musulmani del medio e vicino oriente
mettono a disposizione di studenti africani borse di studio che consentono ai
più meritevoli di recarsi in nazioni arabe per una formazione professionale,
che ha sempre anche una marcata impronta confessionale. I giovani che possono
avvalersi di queste opportunità spesso si convertono all'Islam: al loro ritorno
questi neoislamici sono destinati a integrare la futura classe dirigente dei
rispettivi Paesi di provenienza. A questo quadro si aggiungono le
iniziative dell’Arabia Saudita, che finanzia la costruzione di moschee e
fornisce sostegno economico a chi voglia intraprendere un’attività
professionale. La monarchia saudita approfitta di queste attività per
diffondere il pensiero islamico, che è anche un’ideologia politica e uno stile
di vita esteriore. L’Occidente deve evitare che un tale contesto possa essere
terreno fertile per lo sviluppo di frange fondamentaliste. In proposito il
primo obiettivo da perseguire è favorire in ogni modo il mantenimento del
carattere laico delle istituzioni dei Paesi africani. Questo fine può essere
conseguito anche con il generoso contributo delle missioni religiose, che possono
contenere le derive jihadiste non solo promuovendo
l’evangelizzazione attraverso le attività di formazione spirituale e
di solidarietà sociale, ma anche promuovendo ogni mezzo che supporti la
comprensione interreligiosa. Pertanto, nonostante le manifestazioni
di ostilità e l’aggressività del radicalismo islamista contro i cristiani, le
missioni generalmente esprimono una considerazione positiva dell’Islam al fine
di non compromettere qualsiasi possibile forma di dialogo. Analogamente le
missioni in Africa svolgono iniziative assistenziali contro la miseria e contro
le malattie nei confronti della popolazione a prescindere dalle scelte
religiose individuali: i missionari così non solo non enfatizzano, ma
minimizzano le cause dell’odio nei loro confronti, che spesso hanno la loro
fonte nella predicazione violenta degli estremisti islamici, ed evitano così di
creare i presupposti per una guerra di religione lasciandosi coinvolgere in
essa. Paradigmatica della situazione dei cristiani in Africa è la loro
condizione in Nigeria; qui sono minacciati non solo dal fondamentalismo
islamista e dalle derive terroristiche di Boko Haram, ma anche dagli scontri
etnico-tribali, dagli incerti equilibri di potere, dalle ingiustizie e dalle
violenze. I cristiani sono inoltre discriminati in tutti gli aspetti
della vita quotidiana. A proposito delle missioni cristiane, mi
viene in mente una frase dello scrittore bengalese Tagore: “Sognai,
e vidi che la vita è gioia; mi destai, e vidi che la vita è servizio. Servii, e
vidi che nel servire c’è gioia”. Ci deve anche motivare verso il bene e
l’altruismo la constatazione che quello facciamo per noi muore con noi, mentre
quello che facciamo per gli altri sopravvive alla nostra morte. RR
LINEE GENERALI DI INTERVENTO PER UNA MAGGIORE EFFICIENZA DELLA SICUREZZA LOCALE (1.4.2018)
1. Premessa
La parola ‘welfare’, ormai
ampiamente entrata nel linguaggio comune, significa in lingua inglese
‘benessere’; un benessere convenzionalmente considerato da un punto di vista
economico e sociale. In realtà una componente imprescindibile del benessere è
la sicurezza dei cittadini: ridurre nella vita reale l’esposizione a pericoli o
a danni si traduce infatti in una migliore qualità di vita. Il carattere
composito e multietnico della nostra società richiede un’azione attenta ed
equilibrata di tutti gli operatori delle istituzioni coinvolte al fine di
predisporre le necessarie misure preventive sia in senso generale (cioè nei
confronti di tutti) che con specifico riferimento ai soggetti e agli ambienti
che richiedono una particolare attenzione, senza preclusioni di carattere
politico, ideologico, sociale, etnico e religioso.
2. La
situazione locale in generale
Gli enti locali, essendo
esponenziali degli interessi della comunità stanziata in un territorio,
tra le proprie prerogative devono garantire un adeguato livello di sicurezza
nei limiti della loro competenza. Da un punto di vista ordinamentale questa
attribuzione in via primaria compete alle Autorità Provinciali di Pubblica
Sicurezza: in base alla legge 121/81 nel capoluogo di pertinenza il questore ha
la responsabilità e il coordinamento tecnico-operativo dei servizi di ordine e
sicurezza pubblica; il prefetto ne ha invece la responsabilità
generale. Le forze dell’ordine - soprattutto Polizia di Stato
e Carabinieri - assicurano un controllo coordinato del territorio mediante un
piano predisposto dalla Questura e dal Comando Provinciale dell’Arma dei
Carabinieri. Questo sistema favorisce un’azione sinergica, razionalizzando e
ottimizzando i compiti delle Forze dell’Ordine. Nonostante questo quadro
normativo che concentra nelle istituzioni statali le attribuzioni in materia di
ordine e sicurezza pubblica, gli enti locali non devono sentirsi esonerati e
deresponsabilizzati, ma devono impegnarsi a supportare l’azione delle
istituzioni competenti in via principale. Affrontando questi temi si deve
prendere atto delle peculiarità che negli ultimi anni hanno trasformato la
nostra società in una realtà multietnica: questa contingenza richiede l’adozione
di tutte le predisposizioni perché i processi di integrazione siano strutturati
in maniera tale che la componente immigrata possa essere una risorsa e
non costituire un elemento di frattura sociale e di eversione dell’ordine.
Spesso infatti deprecabili conflittualità e degenerazioni che a prima vista
sembrano motivate da pregiudizi xenofobi, non raramente evidenziano una
diversa genesi, ovvero sono originati da fenomeni che possono essere definiti
di razzismo di ritorno. In altri termini chi vive in condizioni di
reale disagio diventa intollerante nei confronti di chi gode di
ingiustificati privilegi, di un’immotivata ipertutela, o fruisce di
risorse solo perché appartenente a una componente sociale aprioristicamente
considerata debole, come quella pertinente alla condizione di
immigrato. In questo scenario i programmi e i provvedimenti delle autorità
locali prendendo atto del nuovo assetto devono privilegiare le priorità
dello Stato e della comunità dei cittadini. La sicurezza a livello periferico è
un progetto aperto in quanto si tratta di un tema non esplorato in tutte le sue
potenzialità: ogni possibile iniziativa non deve essere bloccata da situazioni
istituzionali consolidate, la cui attualità va verificata per rendere il
sistema adeguato alla esigenze di ordine e sicurezza emergenti. Naturalmente
gli enti locali possono solo aderire al quadro normativo vigente e subirne i
limiti. Il cambiamento compete agli organi istituzionali centrali.
3. La
situazione locale in particolare
La sicurezza urbana può essere
definita come quella parte della sicurezza pubblica diretta a prevenire
fenomeni d’illegalità concentrati nel territorio comunale e che riguardano la
sicurezza della città, l’ordinata convivenza, l’ambiente e la qualità della
vita. Come è stato precisato in precedenza, in linea generale la
sicurezza urbana, essendo parte della sicurezza pubblica, rientra nelle
competenze dello Stato: le tassative attribuzioni del Sindaco in materia sono
infatti esercitate prevalentemente come ufficiale di governo. Questa cornice
normativa non preclude alle istituzioni locali iniziative a sostegno della
legalità. In particolare possono essere adottate a livello urbano azioni
per contrastare il senso di diffusa insicurezza; o per prevenire le situazioni
di offesa alla pubblica decenza (come la prostituzione su strada o
l'accattonaggio molesto), o per contrastare il degrado che favorisce
l'insorgere di fenomeni criminosi quali lo spaccio di stupefacenti; possono
essere combattute anche le ipotesi di violenza legate all'abuso di alcool e il
danneggiamento al patrimonio pubblico e privato, comprese le condotte che ne
impediscono la fruibilità. Queste funzioni devono realizzarsi attraverso un
contributo organico della Polizia Municipale[1] a sostegno del personale
delle forze di polizia: una cooperazione non più limitata come in passato a
specifiche operazioni ma prevista più ampiamente nel rispetto delle direttive
di coordinamento impartite dal Ministro dell’Interno. Su questa base vanno
considerate tutte le specifiche forme di collaborazione per un ottimale
controllo del territorio. Ad esempio, l’esperienza della polizia di prossimità
può essere allargata al vigile di quartiere; può inoltre essere
incrementata la videosorveglianza e la pubblica illuminazione. La presenza
straniera correlata a condizioni di disagio ed emarginazione può essere terreno
fertile di illegalità. La presenza degli stranieri è destinata a consolidarsi e
ad incrementarsi. Gli interventi e le politiche di governo locale pertanto
dovranno avere natura strutturale uscendo dalla fase emergenziale. Va
considerata l’eventualità di evitare o contrastare la creazione o il
mantenimento di quartieri destinati ad ospitare comunità ad elevata presenza di
etnie extraeuropee: queste aree potrebbero diventare zone ‘franche’ di
difficile controllo. Le politiche di accoglimento devono presupporre la
legalità delle condotte dei destinatari e la loro disponibilità all’inserimento
lavorativo nel tessuto sociale. Non deve esistere una preconcetta ostilità nei confronti
degli immigrati, ma la volontà di reprimere con decisione chi delinque, sia
esso italiano o straniero. Chi delinque è principalmente un individuo che
si pone al di fuori del sistema, diventando irrilevante la sua etnia. RR
[1] In alcuni casi sarà
necessario che gli operatori abbiano la qualifica di agenti di pubblica
sicurezza.
IL COLPO DI CODA DELL’ISIS (24
marzo 2018)
Il 23 marzo un franco-marocchino
simpatizzante dello Stato Islamico, già noto alle forze di sicurezza francesi,
ha ucciso tre persone in diverse azioni criminose perpetrate a
Carcassonne e a Trebes, due città vicine nel sud della Francia. Il
terrorista è stato successivamente eliminato dalle ‘teste di cuoio’
francesi. L’attentato evidenzia che l’Isis, sebbene sia stato quasi
definitivamente sconfitto sul piano militare, ha ancora le potenzialità per
perpetrare atti terroristici anche se in misura ridotta rispetto al
passato. Come ha acutamente notato un apprezzato analista italiano, “l’Isis non
è morto, ha solo cambiato pelle”. Questo attentato, come analoghe recenti
iniziative, è stato commesso da un ‘lupo solitario’. Con questa definizione ci
si riferisce a soggetti che, pur non essendo incardinati nell’organico di un
gruppo terroristico, si attivano subendo l’efficacia suggestionante del
proselitismo jihadista. Questa realtà di fatto sembra il risultato di una
precisa strategia: lo Stato Islamico valendosi della multimedialità della Rete
alimenta una propaganda che induce soggetti che hanno subito un processo
di radicalizzazione a passare da una fase dormiente all’operatività. I lupi
solitari si distinguono in due tipologie: quelli che hanno avuto uno specifico
addestramento - che pertanto hanno grandi capacità offensive - e quelli non
addestrati. In futuro il radicalismo islamico potrà avvalersi soprattutto
di ‘lupi solitari’: sembra improbabile che possano essere perpetrati attentati
che richiedono organizzazione e professionalità dal momento che lo Stato
Islamico non dispone più dei campi di addestramento in Iraq e in Siria. RR
ITALIA, STATO ETICO E DEMOCRAZIA (17
marzo 2018)
A prescindere dalle valutazioni
relative alle proprie specifiche simpatie politiche, dalle recenti
consultazioni elettorali italiane è emersa una realtà oggettivamente
estremamente frammentata e composita, caratterizzata dalle difficoltà
individuali di riconoscersi in comuni valori collettivi. La situazione
nazionale non è isolata e peculiare, ma si inserisce nella più ampia crisi
causata dalla perdita degli ideali che in passato hanno alimentato la civiltà
occidentale. Stiamo vivendo quello che alcuni hanno definito ‘l’ordine mondiale
post-occidentale’. Ha contribuito all’attuale disgregazione morale un liberismo
sfrenato che ha permesso l’assoluta prevalenza di interessi e vantaggi particolari,
e che ha consentito speculazioni economiche e finanziarie prodromi di una
insostenibile ingiustizia nella distribuzione delle ricchezze. Anche la perdita
di influenza e di controllo sul resto del mondo con effetti indotti come
l’incapacità di gestire i flussi migratori è il risultato di un sistema
disarmonico ed eticamente anarchico. In concreto, dopo il crollo del comunismo
in Urss e negli Stati satelliti, anche l’Occidente ha subito una disfatta,
integrata dall’oblio della propria coscienza, cioè dallo smarrimento di una
comune cultura e di un condiviso patrimonio di idee pur nel rispetto delle
diversità regionali. La civiltà occidentale si è trasformata in un’entità
disorganica e disomogenea. La globalizzazione ha contribuito alla sostituzione dei
principi morali con prassi imposte da egoismi nazionali e transnazionali.
Tornando alla situazione italiana, che è corollario di questo più ampio quadro
mondiale, nell’attuale clima di incertezza e confusione si avverte la necessità
di una rifondazione etica. Questa considerazione deve essere valutata con le
dovute cautele, in quanto una rifondazione morale richiederebbe un apparato
statale di tipo etico che generalmente si riscontra nei regimi autoritari, dal
momento che in questa tipologia ordinamentale viene privilegiata l’imposizione
di tutto ciò che è ritenuto conveniente prescindendo dagli orientamenti e dalle
idee dei cittadini, che sono considerati soggetti da educare, piuttosto che
individui da ascoltare. Lo Stato infatti è giudice assoluto di ciò che è bene e
male per il singolo e per la collettività, mentre la condotta del singolo è
lecita solo se preordinata al bene comune. Da questo punto di vista lo Stato
‘etico’ sarebbe da contrapporre allo Stato liberale, che è invece garante dei
diritti di libertà dei cittadini, che al contrario, nei limiti delle norme
dell’ordinamento giuridico, sono messi nella condizione di scegliere la
condotta che desiderano o che valutano più opportuna. Da queste premesse
sembrerebbe dunque impossibile conciliare uno Stato ad impronta etica con la
democrazia. Esiste un modo per armonizzare i due termini. Questa armonizzazione
può avvenire qualora la scelta di comprimere il contenuto delle libertà
individuali per privilegiare il ritenuto bene collettivo trovi fondamento in
una scelta dei cittadini compiuta attraverso i meccanismi elettorali.
Probabilmente la rapida e completa realizzazione del bene comune impone anche
la modifica dei meccanismi istituzionali, che dovranno rafforzare i poteri
della maggioranza al potere. In termini concreti la rifondazione etica del
nostro Paese sembra una necessità indifferibile. Tuttavia i meccanismi per
garantirla devono essere valutati con molta prudenza e cautela. RR
IL POPULISMO EUROPEO (7.3.2018)
Negli ultimi tempi si è assistito
alla rapida ascesa di talune formazioni europee (per citarne alcune: il Partito
per la Libertà nei Paesi Bassi, il Front National in Francia, Alternative für
Deutschland in Germania, il Partito dei Cittadini Insoddisfatti nella
Repubblica Ceca, Diritto e Giustizia in Polonia, il Partito della Libertà in
Austria, l’Unione Civica Ungherese in Ungheria, il Partito per l'Indipendenza
del Regno Unito in Uk, il Movimento 5 Stelle e la Lega in Italia) la cui
linea politica viene liquidata considerandola espressione di demagogia e
populismo. La questione è un po’ più complessa e articolata, anche se questa
matrice ideologica è sicuramente presente. La demagogia è generalmente
definita come la capacità di irretire i cittadini con sottili inganni,
manipolazioni, promesse irrealizzabili. Era già nota nell’Antica Grecia, ed era
considerata una degenerazione della democrazia: per Aristotele conduceva
all’oligarchia o alla tirannide. Il populismo, che ha molti punti in comune con
la demagogia, cavalca l’onda del malcontento e della sfiducia verso le
istituzioni che sono emanazione di una indefinita casta dominante al potere; si
cerca così di favorire un ricambio politico. Come la demagogia, il
populismo si alimenta della disinformazione, dell’emotività, dell’ignoranza,
della banalizzazione. Si avvale inoltre ampiamente delle potenzialità
mediatiche. In relazione alle menzionate emergenti realtà politiche europee il
giudizio sul populismo deve essere considerato in maniera più articolata; in
base ad alcuni elementi anche il suo carattere negativo tende ad essere
stemperato. Il populismo esprimerebbe infatti innanzitutto una particolare
sensibilità dei leader alle istanze delle masse. In concreto,
questi movimenti assicurano che le esigenze del gruppo sociale di cui si fanno
garanti saranno sempre valutati prevalenti in una ipotetica comparazione
di interessi concorrenti. Un esempio. Il noto slogan di alcuni gruppi politici
nazionali ‘….prima gli italiani….’, indica che il favore per chi è cittadino
italiano deve essere una direttiva inderogabile nelle opzioni economiche e
sociali a prescindere inopinatamente dal merito concreto delle specifiche
questioni. Questi movimenti cercano di stabilire un diretto rapporto senza la
mediazione di enti e associazioni fra i vertici e la base, con l’obiettivo di
sanare il distacco fra politica e società civile. Il popolo è considerato
unitariamente, senza divisioni di classe e di ceto, e unitariamente deve essere
rappresentato; è contrapposto ad una imprecisata casta egemone al potere
corrotta, che deve essere smascherata, emarginata, rovesciata. È frequente il
ricorso a toni aggressivi: è ben noto che il risentimento e l’odio tendano ad
unire le masse, a creare aggregazione e coesione. I movimenti populisti in
genere non hanno specifici programmi o una collocazione formale ‘a destra’ o ‘a
sinistra’ma si ispirano a principi massimalisti, ad un generico estremismo
velleitario; pertanto possono legarsi volubilmente a qualsiasi ideologia. I
leader populisti si proclamano emanazione dell’antipolitica. Più precisamente
non rifiutano la politica ma solo i partiti tradizionali, proponendosi come gli
unici possibili destinatari di un mandato del popolo. Il rifiuto della
dialettica politica tradizionale porta alla fiducia negli esperti e nei
tecnici, cioè in una tecnocrazia che supporti l’azione pubblica. Il sistema
democratico tradizionale è oggetto di attacco e discredito perché si ritiene
che i meccanismi di partecipazione siano insufficienti e inadeguati a rappresentare
il popolo. Ma, il concetto di popolo non è facilmente definibile: pertanto,
come notò acutamente Umberto Eco per individuarne la volontà si deve
ricorre ad un’immagine virtuale. RR
SIRIA, IL COINVOLGIMENTO INTERNAZIONALE E I GRUPPI RIBELLI (5/3/2018)
Nella crisi siriana il sostegno
straniero ha giocato un ruolo fondamentale. La principale componente
internazionale della guerra fin dall’inizio è stata lo scontro tra il mondo
sunnita e quello sciita attraverso i rispettivi centri di riferimento, Teheran e
Riyadh. Per motivi politici e confessionali infatti si schierarono dalla parte
del governo siriano (espressione di una minoranza alawita e quindi
appartenente al mondo sciita) l’Iran e l’Iraq, nonché l’ambigua milizia armata
libanese sciita degli Hezbollah. Gli Stati a maggioranza sunnita, tra cui
Turchia, Qatar e Arabia Saudita, sostenevano invece i ribelli anti-governativi.
Dal 2016 le truppe turche in prossimità dei confini hanno avviato diverse
operazioni contro lo Stato islamico e soprattutto contro i gruppi curdi, i
nemici di sempre, supportati dagli Stati Uniti. La Russia è entrata in
conflitto nel 2015 ed è stata la principale e decisiva alleata del governo di
Assad. Gli Stati Uniti, che dal 2014 guidano la coalizione internazionale
contro lo Stato Islamico, sostengono i gruppi anti-Assad anche con il supporto
delle iniziative della CIA; vogliono inoltre impedire che la Russia diventi
l’artefice di una completa vittoria militare di Assad. L'ex presidente Barack
Obama aveva avvertito che l'uso di armi chimiche sarebbe stato il presupposto
per un serio intervento militare; con questa motivazione nell'aprile 2017 gli
Stati Uniti hanno compiuto la loro prima azione bellica. Pertanto, attraverso i
rispettivi alleati, Mosca e Washington sono indirettamente in guerra in Siria.
Al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, Russia e Cina hanno ripetutamente posto il
veto a risoluzioni proposte da Paesi Occidentali sulla crisi siriana. Israele,
che teme le spinte espansionistiche dell’Iran, ha effettuato più volte incursioni
aeree in territorio siriano - subendo anche l’abbattimento di un bombardiere -
per impedire la costruzione di strutture militari iraniane e per limitare la
presenza degli Hezbollah. Oltre ai già menzionati Hezbollah, combattono dalla
parte dei ribelli il Fronte Al Nustra, legato ad Al Qaeda fino al 2016, e le
Forze Democratiche Siriane (SDF), un’alleanza multietnica e multireligiosa di
milizie prevalentemente curde, legata alle Unità di Protezione del popolo curdo
(YPG). RR