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☺ Perchè VOCI FUORI DAL CORO? Generalmente durante la settimana leggo quello che viene pubblicato online in merito ad argomenti di mio interesse, ovvero, in particolare, news, aspetti di geopolitica, rapporti fra mondo occidentale e mondo islamico, novità in ambito culturale e nell'Arte. Alcuni scritti sono particolarmente illuminanti perché diradano le nebbie create dalle tante affermazione arbitrarie che incautamente vengono espresse anche nei media. Sperando di fornire un servizio utile ho pensato di raccogliere ogni settimana su questo blog in una RASSEGNA STAMPA i link degli articoli e dei post per me più significativi. Con gli stessi principi vengono formulati COMMENTI. Ho chiamato queste web-pages VOCI FUORI DAL CORO semplicemente perché oggi chi si esprime in maniera corretta, informata e serena è una voce 'fuori dal coro' delle opinioni affrettate, faziose, demagogiche, disinformate e urlate, ovvero che si impongono per i toni della prevaricazione verbale piuttosto che per i contenuti. Buona Lettura! webmaster - Roberto Rapaccini ☺

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• Il Passato sarà un buon rifugio, ma il Futuro è l'unico posto dove possiamo andare. (Renzo Piano) •

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☺ Perchè VOCI FUORI DAL CORO? Generalmente durante la settimana leggo quello che viene pubblicato online in merito ad argomenti di mio interesse, ovvero, in particolare, news, aspetti di geopolitica, rapporti fra mondo occidentale e mondo islamico, novità in ambito culturale e nell'Arte. Alcuni scritti sono particolarmente illuminanti perché diradano le nebbie create dalle tante affermazione arbitrarie che incautamente vengono espresse anche nei media. Sperando di fornire un servizio utile ho pensato di raccogliere ogni settimana su questo blog in una RASSEGNA STAMPA i link degli articoli e dei post per me più significativi. Con gli stessi principi vengono formulati COMMENTI. Ho chiamato queste web-pages VOCI FUORI DAL CORO semplicemente perché oggi chi si esprime in maniera corretta, informata e serena è una voce 'fuori dal coro' delle opinioni affrettate, faziose, demagogiche, disinformate e urlate, ovvero che si impongono per i toni della prevaricazione verbale piuttosto che per i contenuti. Buona Lettura! webmaster - Roberto Rapaccini ☺

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COMMENTI...FUORI DAL CORO...IV (dal 1 giugno 2019) di Roberto Rapaccini

conoscenza e informazione – il giornalismo, il Politicamente corretto, la cancel culture (1.8.2022)

L’esplorazione delle possibilità di maturare attraverso le potenzialità mediatiche una conoscenza dei fatti e delle questioni politiche, economiche e sociali obiettiva e completa richiede un approfondimento dei rapporti fra giornalismo e ricorso al cosiddetto ‘politicamente corretto’. In proposito per ‘politicamente corretto’ si intende un atteggiamento di supina adesione a principi che hanno una consolidata considerazione in quanto sono arbitrariamente ritenuti un’acquisizione del progresso sociale e culturale. Questa opzione ha come corollario l’opposizione a qualsiasi iniziativa che contrasti o metta in discussione progressi giudicati aprioristicamente incomprimibili. È di facile intuizione che il favore per principi di indimostrata validità non sia compatibile con la libertà di informazione che, al contrario, non deve essere condizionata da idee preconcette e dall’aspirazione ad uniformarsi alle tendenze dominanti. Il giornalismo di informazione dovrebbe infatti individuare i presupposti oggettivi e neutrali delle libere discussioni che si svolgono nell’agorà mediatica, evitando che la trattazione dei temi sia condizionata da verità dogmatiche e intangibili. Questa precisazione non riguarda il giornalismo di opinione che invece manifesta il favore per un punto di vista, che generalmente coincide con ‘la linea editoriale. Qualche esempio senza entrare nel merito delle questioni. Il ‘politicamente corretto’ crea un’ipersensibilità per le problematiche connesse ai fenomeni migratori, che, fino a qualche decennio fa avevano un’importanza marginale, mentre oggi, per il loro impatto sulla società civile, richiedono approfondimenti non contaminati da pregiudizi. Da più di un decennio le società occidentali stanno attraversando una crisi economica che si riflette sulla comunità con possibili fenomeni indotti come la diminuzione delle risorse disponibili a livello individuale e l'aumento della criminalità; come conseguenza di questo clima sociale, si assiste a fenomeni di polarizzazione alimentati dalle fonti mediatiche, che favoriscono atteggiamenti divisivi dell’opinione pubblica anziché promuovere dibattiti costruttivi. I danni causati dalla polarizzazione sono accresciuti dalla tendenza dei lettori ad informarsi solo attraverso fonti che riflettono il loro sistema di credenze. Per esemplificare ulteriormente questo circolo vizioso, sempre in tema di migranti sarebbe opportuno che si superassero posizioni simmetricamente opposte rigidamente radicate su principi antitetici, ovvero quello dell’accoglienza generalizzata – criticato da chi lo giudica il prodotto di un perbenismo alimentato da un moralismo benpensante - e quello del respingimento indiscriminato. Per rendere tutto più complicato, su posizioni radicalmente antitetiche – che ormai contaminano qualsiasi dibattito, dalle politiche di accoglienza o respingimento ai vaccini – si strutturano le divisioni partitiche.  Molti leader occidentali hanno investito su questo tratto della psicologia collettiva e approfittano di questo clima divisivo che impedisce all’opinione pubblica di formarsi liberamente. Queste strategie politiche riscuotono un successo popolare: lungi dall'essere estemporanee, sono espressione di un disegno che pone in diretta correlazione il diffuso malcontento con le derive di posizioni polarizzate. Su una serena formazione del libero pensiero influisce il clima radicalmente polarizzato dei mass media. Per completezza aggiungo che ultimamente sul dibattito sul ‘politicamente corretto’ si è sovrapposto quello sulla ‘cancel culture’, con la quale si intende un atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualche cosa di offensivo o politicamente scorretto e ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento. Per esemplificare la ‘cancel culture’ è stata citata da vari opinionisti per commentare la storia del bacio non consensuale di Biancaneve: il SFGate (che è un importante sito di news di San Francisco) ha pubblicato un articolo con il quale, scrivendo sulla riapertura di Disneyland e sulla nuova attrazione dedicata a Biancaneve, alla fine si criticava il modello rappresentato dall’enfatizzazione positiva del bacio del principe a Biancaneve dormiente, e quindi non consenziente. Il dibattito sulla ‘cancel culture’ influisce sul giornalismo perché in concreto si manifesta anche con una particolare sensibilità sui linguaggi da adottare, sulle parole da evitare e su quelle invece da introdurre nel lessico comune per essere più rispettosi delle cosiddette minoranze e delle persone in generale. Rowan Atkinson, il famoso Mr. Bean, ha affermato che la ‘cancel culture’ è l’equivalente della folla che nel Medioevo era in cerca di gente da bruciare. In altri termini bisogna temere la emergente pratica di mettere a tacere le opinioni impopolari.  RR


CONOSCENZA E INFORMAZIONE - FIGURE RETORICHE CHE TRASFORMANO IL GIORNALISMO DI INFORMAZIONE IN GIORNALISMO DI OPINIONE (29.7.2022)

Esplorando le difficoltà della stampa di produrre un’informazione esaustiva e imparziale, può essere utile una rilettura a distanza di tempo della storica sentenza della Prima Sezione Civile della Cassazione del 18 ottobre 1984 n. 5259 sui limiti al diritto di cronaca, nota enfaticamente come ‘decalogo della Stampa’. La sentenza si proponeva di fornire ai giornalisti alcuni riferimenti giuridici e deontologici finalizzati ad evitare che la pubblicazione di notizie potesse causare a soggetti coinvolti a vario titolo nelle notizie stesse danni non giustificati da un corretto esercizio del diritto di cronaca.  La capacità di informare capillarmente propria dei mezzi radiotelevisivi e digitali e - per quanto concerne le pubblicazioni a mezzo internet - la permanenza della notizia sul web, rendono possibile che un soggetto possa avere una compromissione della propria reputazione per un lungo tempo, anche sulla base di notizie inesatte o comunque irrilevanti, con inevitabili ripercussioni sulla sua vita sociale. Dottrina e Giurisprudenza, affrontando la materia, hanno cercato di individuare il miglior bilanciamento tra il diritto all’onore – inserito nella più ampia categoria dei diritti della personalità – ed il diritto di cronaca, corollario della libertà di stampa di cui all’art. 21 Cost. La Cassazione nella menzionata sentenza precisò che il diritto di critica è legittimamente esercitato solo se viene espresso in forma civile. In proposito, la forma della critica non è civile non soltanto quando è eccedente rispetto allo scopo informativo, o difetta di serenità e di obiettività, o calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ma anche quando non è improntata a leale chiarezza. Il difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista, per sottrarsi alle responsabilità che potrebbero seguire da affermazioni palesemente espresse, ricorre a espedienti subdoli per ingenerare nel lettore convinzioni da lui non esplicitate. Uno di questi espedienti sono i cosiddetti sottointesi sapienti: possono consistere nel racchiudere determinate parole tra virgolette o nel ricorrere a eufemismi allo scopo di far intendere che quanto detto non va interpretato in senso letterale, ma in ben altro modo, o addirittura in senso contrario rispetto al significato apparente della frase. Gli accostamenti suggestionanti consistono invece nell’associare ad uno scritto (anche solo con la vicinanza nella pagina) elementi estranei all’articolo che tuttavia evocano suggestioni denigratorie (ad esempio, affiancando all’articolo la foto di un personaggio di cattiva reputazione che non c’entra con quel contesto; o nel fare affermazioni generali o generiche tipo ‘la corruzione è un vizio diffuso’, inducendo il lettore a collegarle con le persone che si vogliono mettere in cattiva luce). Oppure, per suggestionare il lettore, si può ricorrere ad un tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato nel testo e nei titoli, o all’impiego ‘arbitrario’ di aggettivi e punti esclamativi. Oltre al tono ironico viene censurata la mezza verità: la verità incompleta è equiparata ad una falsità. Analogamente possono essere riportate notizie ‘neutre’ drammatizzandole artificiosamente. Non è raro il caso che si ricorra ad insinuazioni diffamanti mediante l’uso della locuzione ‘non si può escludere che...’ o simili. La sentenza, come si può immaginare, non venne recepita positivamente dal mondo giornalistico, che la considerò una limitazione della libertà di informazione e un attacco alla libertà di stampa. È interessante notare come attraverso queste ‘figure retoriche’ si possa fare giornalismo di opinione – cioè si possano esprimere giudizi di merito e di valore – mentre apparentemente si riferiscono solo fatti, e quindi a prima vista si faccia giornalismo di informazione. RR

 Sezione I civile; sentenza 18 ottobre 1984, n. 5259 (clicca)

 



CONOSCENZA E INFORMAZIONE – 1. Considerazioni Introduttive  (20.7.2022)

Nella classifica annuale - pubblicata a maggio di quest’anno dall’organizzazione francese Reporter senza frontiere - che dovrebbe indicare lo stato del giornalismo mondiale e il suo grado di libertà in 180 Paesi del mondo, l’Italia occupa la 58esima posizione (avendo perso 17 posti rispetto al 2021 e al 2020 quando invece era stabile alla 41esima posizione). L’Italia è stata superata anche da Gambia e dal Suriname. Il World Press Freedom Index viene redatto mediante dati forniti in forma anonima da cronisti. Uno degli elementi che ha inciso maggiormente nel giudizio negativo sulla situazione italiana è stato il ricorso all’autocensura, ovvero più precisamente sarebbe emerso che i giornalisti italiani a volte cedono alla tentazione di autocensurarsi, o per conformarsi alla linea editoriale della propria testata giornalistica, o per evitare una denuncia per diffamazione o altre forme di azione legale, o per paura di rappresaglie da parte di gruppi estremisti o della criminalità organizzata. Viene inoltre criticata nel rapporto la condizione di immobilismo che impedisce l’adozione di riforme legislative mirate alla tutela dell’attività giornalistica. Segnatamente si avverte la necessità di una migliore definizione del reato di diffamazione e di procedimenti che consentano un più rapido accesso dei media ai dati detenuti dallo Stato. La complessità del mondo dell’informazione nazionale non si esaurisce negli esiti e nelle prescrizioni di questo sondaggio. La scarsa considerazione a livello internazionale del giornalismo italiano evidenzia una realtà paradossalmente contraddittoria. Sebbene complessivamente il livello del giornalismo nazionale sia buono con significative punte avanzate rappresentate da cronisti che sono apprezzati esperti della materia di cui si occupano, l’opinione pubblica ha difficoltà ad accedere ad un’informazione obiettiva e non contaminata da valutazioni soggettive, politicamente orientate. Evidentemente il mondo dell’informazione italiano presenta delle criticità che vanno attentamente esplorate. Oggi attraverso un collegamento a Internet, è possibile disporre di una mole illimitata di dati, non raramente contraddittori, definita in termine tecnico una information overloading. La pregressa fatica di cercare notizie è oggi surrogata da quella di selezionare, valutare, filtrare, organizzare dati. In questo nuovo contesto saper leggere non basta, serve un nuovo tipo di competenza – che viene definita alfabetismo digitale – che consiste nella capacità di utilizzare un pc e di navigare in Rete con spirito critico. In occasione della pandemia da Covid 19 e del Conflitto in Ucraina il lettore ha sperimentato la difficoltà di gestire convenientemente un consistente ed eterogeneo flusso di notizie. L’intellettuale elvetico Starobinski ha felicemente enunciato questa realtà dicendo che la Rete, per le sue potenzialità pedagogiche, è al tempo stesso simile a una sintesi fra la biblioteca di Alessandria e la cloaca Massima. La Rete non si è sostituita alla carta stampata, alla radio e alla televisione, ma ha introdotto un nuovo modo di fare informazione, puntando sui tempi che sono sicuramente più brevi della diffusione di news attraverso un quotidiano cartaceo o di quelli imposti dal rispetto dei palinsesti radiotelevisivi (a parte le edizioni straordinarie). La notizia diffusa in Rete paga la sua immediatezza con il suo carattere scarno e superficiale, mentre i mass media tradizionali conservano come prerogativa l’approfondimento, ovvero un modo più meditato e articolato di fare giornalismo. Questa situazione ha trasformato il giornalismo cartaceo, che conserva ancora particolare autorevolezza, in uno strumento di opinione, prevalentemente caratterizzato da articoli ideologicamente orientati che, commentando gli accadimenti, esprimono un punto di vista soggettivo. Questo processo è avvenuto anche all’estero ma con minore intensità. Nella stampa anglosassone da sempre si pone molta attenzione alla separazione delle notizie dalle opinioni e alla facile riconoscibilità del confine fra le due tipologie: un conto è informare i lettori su un fatto, un altro è darne una propria interpretazione e valutazione. Negli ultimi anni i media italiani (quindi non solo i giornali) sono soprattutto fonti di un giornalismo d’opinione, dunque schierato e identitario, con conseguente difficoltà del fruitore di maturare un punto di vista oggettivo. RR  


L'ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA DEI PAESI ISLAMICI (21.7.2022)

Nel mondo islamico c’è una significativa prevalenza di regimi autoritari. Probabilmente nella genesi di questa situazione hanno influito alcuni tratti comuni nella formazione dei relativi Paesi, generalmente nati, con modalità diversificate, dalla fusione di tribù. In proposito, gli Stati islamici fin dalle loro origini non hanno recepito l’esigenza di sviluppare un’organizzazione amministrativa periferica, ma, articolandosi esclusivamente su base tribale, hanno delegato ai clan – la più elementare unità territoriale – la gestione di circoscritti poteri locali. La tribù aveva una specifica autonomia, autosufficienza, un forte legame con il proprio territorio, un’omogeneità interna caratterizzata da propri stili di vita e in alcuni casi da una propria lingua o dialetto. Nella tribù mancava qualsiasi espressione di democrazia diretta o rappresentativa; l’attribuzione delle funzioni apicali avveniva in base a meccanismi dinastici, di anzianità, o a mezzo di criteri di predeterminazione automatica. A questo modello organizzativo erano del tutto estranei strumenti di libera scelta. Gli Stati arabi - che hanno ereditato la cultura giuridica della società tribale - generalmente fin dalle loro origini hanno tenuto in scarsa considerazione i diritti di libertà e di uguaglianza, prerogativa delle democrazie occidentali. L’unico interesse del suddito era che si governasse secondo giustizia, ovvero che venisse dato ad ognuno quanto gli spettasse; questa elementare esigenza di giustizia era alla base dell’ordine sociale. In termini concreti un membro della comunità, poiché poteva aspirare a poteri di governo solo se aveva aspettative fondate su meccanismi dinastici o di predeterminazione, accettava pacificamente la supremazia del capo del clan purché venisse esercitata con equità nei suoi confronti. In termini concreti mentre il concetto di giustizia sostanziale (non ‘formale’) era alla base dell’ordine sociale tribale, era invece in quel contesto del tutto sconosciuta la nozione di libertà intesa come capacità di autodeterminazione. Il governo centrale dello Stati arabo nel demandare alle tribù la gestione del potere locale, ne otteneva come corrispettivo ne fedeltà e sostegno. Il clan tribale da questo punto di vista presenta analogie con il mandamento, che nel gergo mafioso siciliano indica la zona di influenza di una o più famiglie affiliate a Cosa Nostra. Analogamente al capo di un clan tribale, il capo mandamento infatti gestisce il potere locale nell’interesse della Cupola (la struttura centrale di Cosa Nostra). Solo nel corso dei tumulti della Primavera Araba, per la prima volta i popoli arabi hanno richiesto sistemi politici che, oltre a governare con giustizia, assicurassero libertà e democrazia, quasi a reclamare l’avvento di quell’Illuminismo che ha segnato così profondamente l’Occidente e che è mancato nella loro storia. Nella creazione di uno Stato democratico sono prioritari la formazione di un’assemblea costituente e l’indizione di libere elezioni. Tuttavia nel contesto islamico le timide aspirazioni democratiche di alcuni Paesi dopo la Primavera araba sono rimaste intrappolate in un circolo vizioso; le elezioni infatti non sono il momento iniziale di una democrazia ma il punto di arrivo, in quanto il loro valido e libero svolgimento richiede un apparato democratico e una ben formata coscienza civica.  RR


CONSIDERAZIONI SUL DISASTRO DELLA MARMOLADA (5.7.2022)

La questione climatica e le calamità correlate a iniziative ed attività del genere umano mi ricordano i contenuti di una brillante conferenza che la studiosa e docente di spiritualità indiana Preethaji tenne all’inizio della pandemia causata dal Covid 19; la registrazione dell’evento è tuttora disponibile su YouTube (https://youtu.be/zAZ8GVDxWnY). Preethaji si chiedeva se il genere umano meritasse l’opportunità di essere custode del creato. Noi uomini abbiamo sempre considerato la Storia dal nostro punto di vista, ovvero in maniera antropocentrica. Se invece fossimo ‘nei panni’ del pianeta, ci renderemmo conto che non siamo protagonisti della Storia, ma solo affidatari della conservazione del creato. Infatti, a prescindere dal dibattito scientifico e filosofico fra i sostenitori delle varie tesi sulle origini della vita - in particolare fra creazionisti, evoluzionisti ed evoluzionisti teisti (che sostengono che Dio, nel realizzare il suo progetto creativo, si sarebbe servito delle leggi della scienza, calibrando su di essa il meccanismo dell’evoluzione) -, la terra in milioni di anni ha affrontato glaciazioni, terremoti, sconvolgimenti, alluvioni, derive di continenti ed altro, per raggiungere condizioni di prezioso equilibrio, ottenute anche scartando qualsiasi possibile turbativa; ad esempio si sono estinti i dinosauri, che erano padroni assoluti del pianeta, ma nello stesso tempo anche presenze troppo invasive ed ingombranti. Il genere umano ha ereditato la terra nelle condizioni migliori, ma per conservare questa posizione di privilegio dovrebbe arrecare qualche beneficio. Diversamente, il genere umano se non è funzionale al sistema o addirittura è un elemento esiziale, rischia di essere ‘scartato’, dice Preethaji. La filosofa indiana, pertanto, già due anni fa, ci aveva invitato ad aprire gli occhi; tuttavia abbiamo continuato a manifestare insensibilità, crudeltà, a causare danni irreparabili all’ambiente per esercitare un maldestro potere sulla natura e sottometterla alla nostra presunta superiorità.  L’uomo pur ergendosi a custode del Pianeta, non smette di inquinare, di distruggere, di uccidere.  Esiste un legame profondo e indissolubile tra il creato e la nostra sopravvivenzaCompromettere i millenari solidi equilibri della natura significa aumentare le probabilità che i cambiamenti ambientali si traducano in calamità. Possiamo sopravvivere solo se evolvendoci saremo in grado di rispettare l’intero ecosistema, tutelando tutti gli esseri viventi, sia del mondo animale che vegetale. Diceva Gandhi: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. RR

MUSULMANI ED EUROPA. LE CONTRADDIZIONI DEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE. Il ridimensionamento dell’espansione demografica islamica. (17.6.2022)

Il tema dell’immigrazione è strettamente connesso al timore di un’inesorabile espansione demografica delle etnie di religione islamica. Alcuni studi avevano in passato diffuso l’idea di un’Europa che presto sarebbe diventata musulmana a seguito dell’alto tasso di natalità delle famiglie islamiche - sempre più numerose a causa dell’incremento dei flussi migratori - che negli anni ’90 era di 7/8 figli (per coppia), mentre quello medio delle famiglie dell’area comunitaria oscillava fra 1.2 /1.3 figli. Questa tesi allarmistica tuttavia nel tempo è stata ridimensionata, perché viziata da un errore all’origine: le proiezioni demografiche infatti erano il risultato di simulazioni basate su un tasso di natalità fisso (quello allora attuale, cioè 7/8 per le coppie musulmane, 1.2/1.3 per quelle ‘europee’). Diversamente in Europa si è progressivamente ridotto il numero di figli per coppia islamica a causa di un declino dovuto soprattutto a due fattori diversi - pianificazioni familiari dovute sia ad una maggiore istruzione, sia a minori possibilità economiche - avvicinandosi alla media europea. RR


MUSULMANI ED EUROPA. LE CONTRADDIZIONI DEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE. LA CONDIZIONE DELLA DONNA. (13.6.2022)

È noto che la donna nei contesti islamici anche europei generalmente vive in una condizione subalterna, che in alcuni tragici casi può assumere derive nefaste con risvolti criminogeni. La condizione femminile è penalizzata dai precetti islamici declinati in modo diverso a seconda delle correnti prevalenti nella realtà locali: è inquietante che questo status di inferiorità sia spesso vissuto con pacifica rassegnazione, cioè sia considerato la conseguenza di una situazione culturale consolidata, ordinaria, inevitabile. Conseguentemente il mondo musulmano – ovvero l’insieme degli Stati nei quali le disposizioni coraniche influenzano con diversa intensità le leggi - ha una potenzialità inesplorata: il contributo positivo che le donne potrebbero fornire alla vita sociale, economica e politica. Paradossalmente, se si esplorano i rapporti di genere nella società araba preislamica (fino al VII sec.), si scopre che il profeta Maometto aveva migliorato la condizione delle donne, prevedendo in loro favore diritti fino a quel momento inesistenti, nell’ambito tuttavia di uno status giuridico minoritario rispetto a quello dell’uomo. In tempi più recenti (fine XVIII/inizio XIX), molte donne musulmane hanno cominciato moderatamente a rivendicare libertà e diritti, dando vita ad un ‘femminismo islamico’, ovvero ad un movimento che si batteva contro i settori più integralisti, utilizzando come arma la necessità di una corretta esegesi del Corano e dei principi etici promossi dalle fonti del diritto islamico; tutto questo avrebbe consentito di approdare ad una sostanziale uguaglianza fra uomo e donna. Parallelamente a questo movimento, in alcuni Paesi a maggioranza islamica in tempi recenti sono state attribuite responsabilità istituzionali apicali a donne, riconoscendone un non comune valore di leadership. Alcuni esempi: Lala Shovkat è stata un importante leader politico in Azerbaigian, Benazir Bhutto, Mame Madior Boye, Tansu Çiller, sono state primo ministro rispettivamente in Pakistan, in Senegal, in Turchia, Kaqusha Jashari ha avuto un importante ruolo nel Kosovo, Megawati Sukarnoputri è un’ex presidente dell’Indonesia. Il Bangladesh è stato il secondo paese al mondo ad avere una donna (la già menzionata Benazir Bhutto) ai vertici dell’esecutivo (il primo Paese è stato l’Inghilterra nel XVI con Maria I ed Elisabetta I). Le donne musulmane europee ‘militanti’ potendo contare su una maggiore libertà hanno creato legami transnazionali mediante reti che si avvalgono delle nuove tecniche di comunicazione e di informazione per far circolare conoscenze, elaborazioni e iniziative. Il movimento delle femministe islamiche europee, qualora si inserisca nella galassia dei movimenti femministi internazionali, potrebbe costituire un prezioso valore aggiunto per la costruzione di un femminismo globale attraverso il suo peculiare contributo. Le rivendicazioni progressiste del movimento infatti non si rivolgono contro l’Islam ma si articolano nel suo ambito. Le donne islamiche infatti non si sentono vittime della religione, ma dell’affermazione di un sistema patriarcale che è il risultato di vicende storiche: sono convinte che l’Islam garantisca loro sufficienti diritti e opportunità. Non sarebbe il Corano ad imporre la sottomissione femminile, ma gli uomini mediante erronee letture e manipolazioni dei testi sacri. Il rapporto con la religione pertanto è ciò che maggiormente differenzia questo movimento rispetto al femminismo occidentale: mentre il femminismo occidentale ha radicate connotazioni laiche, quello islamico svolge la sua funzione progressista senza rinnegare il proprio retaggio confessionale, avvertendo tuttavia la necessità di una ridefinizione di alcuni valori fondanti per liberare l’Islam dalle sovrastrutture che lo hanno allontanato dai contenuti originari. In questo contesto il ritorno all’uso del velo da parte di giovani donne musulmane europee può essere considerato il simbolo di una ritrovata modernità nell’ambito dell’identità femminile islamica. Il cammino dell’emancipazione femminile di giovani donne musulmane che vivono in Europa può esprimersi anche con la rivendicazione del diritto alla libertà di vivere secondo gli usi e costumi occidentali. Purtroppo non è raro che questi tentativi di omologazione vengano interpretati come tradimenti di una malintesa sacralità della cultura di origine ed entrino in rotta di collisione con ambienti familiari fondamentalisti e radicali con esiti drammatici, tra cui l’uccisione per mano dei propri familiari. Questi fatti, anche se sono sempre il prodotto di una follia criminale, evidenziano il fallimento di un processo di integrazione che impone una riflessione libera da idee preconcette, da oziose polarizzazioni, da un moralismo benpensante. RR


MUSULMANI ED EUROPA. LE CONTRADDIZIONI DEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE. PREMESSA. (9.6.2022)

Nell’Europa attuale nuclei di musulmani sempre più consistenti maturano la convinzione di considerare l’Occidente il definitivo teatro della loro esistenza. Questa consapevolezza è relativamente recente: negli anni ’60 e in tempi precedenti gli immigrati arabi tendevano a vivere con disagio la loro ‘diversità’ culturale e religiosa nel contesto europeo allora rigidamente etnocentrico. Cercavano di contrastare il sentimento di precaria estraneità abbandonando spontaneamente l’abitudine di portare indumenti tradizionali per uniformarsi alle consuetudini occidentali anche nel modo di vestire. Paradossalmente, la sopraggiunta maggiore integrazione sociale e il carattere più stabile dell’insediamento nella città europee hanno incoraggiato (fin dagli anni ’70) atteggiamenti opposti, ovvero si è assistito al ritorno all’uso di abbigliamenti tradizionali - come il niqab[i], lo chador[ii], il burqa[iii] e il qamis[iv] - come modalità esteriore per rivendicare l’appartenenza ad una cultura diversa, e per esternare il rifiuto dell’omologazione occidentale. La Francia in questi ultimi anni ha cercato di contrastare queste dinamiche mediante leggi che vietano nelle scuole di indossare veli islamici[v], soprattutto l’hijab[vi], con il dichiarato obiettivo di limitare l’esposizione in pubblico di simboli religiosi e nello stesso tempo perseguire la laicità dei contesti scolastici e formativi. Più in generale nei Paesi europei continuano ad emergere segnali che manifestano una malcelata preoccupazione nei confronti dell’Islam, che viene generalmente ritenuto erroneamente una monade indifferenziata che minaccia l’identità nazionale. Come generico corollario l’immigrazione è considerata un pericolo e non una risorsa. In piena globalizzazione viene auspicato il ripristino delle frontiere, mentre le differenze sono evidenziate in termini negativi. La conoscenza dell’altro, soprattutto se di cultura islamica, si realizza avendo il pregiudizio come parametro di riferimento.  Al fine di evitare conflittualità la convivenza multiculturale con la componente islamica richiederebbe invece negoziazioni che evitino ‘zone d’ombra’. Il concetto di passiva tolleranza - che ha sfumature vagamente discriminatorie in quanto la benevolente accettazione dell’altro spesso presuppone un implicito giudizio di superiorità – dovrebbe essere sostituito con un atteggiamento di attivo riconoscimento della pari dignità dell’altro. Nel ribadire la piena vigenza dei fondamenti sui quali si fonda l’ordinamento giuridico nazionale -  salvo che ci siano oggettive esigenze di aggiornamento – deve essere garantita a tutti gli appartenenti alla comunità a prescindere dalle origini etniche una reale uguaglianza nei casi concreti (ovvero non possono essere considerate diversamente situazioni sostanzialmente uguali come anche in termini simmetricamente opposti non possono essere trattate allo stesso modo situazioni apparentemente uguali ma in concreto diverse). In materia di immigrazione devono essere superate le antitetiche posizioni della demagogia politica rigidamente polarizzata sui principi opposti dell’accoglienza generalizzata o del respingimento indiscriminato, che strumentalizza per fini elettorali le possibili derive conseguenti alla radicalizzazione dei due atteggiamenti.  RR

 



[i]Il niqāb è un velo che copre l'intero corpo della donna, compreso il volto, lasciando scoperti solo gli occhi. 

[ii]Lo chador è un lungo velo nero che ricopre completamente il corpo a esclusione delle mani, dei piedi e del viso. È molto diffuso in Iran.

[iii] Il burka (o burqa) è un abito femminile che copre interamente il corpo, compresa la testa; una fessura, talvolta velata, all’altezza degli occhi permette alla donna di vedere. Il burka è molto diffuso in Afghanistan.

[iv] Il qamis è la tunica maschile. Il djellaba è la tunica munita anche di cappuccio per proteggersi dal sole, diffusa soprattutto nel Maghreb.

[v] Nello spirito di queste disposizioni normative transalpine i veli islamici rappresenterebbero anche uno strumento di differenziazione discriminatoria fra uomini e donne.

[vi] L’hijab è un velo corto femminile, composto di una cuffia che tiene raccolti i capelli e il velo vero e proprio che viene appoggiato su di essa e di solito viene legato sotto il mento, avvolto intorno al collo o lasciato ricadere liberamente sul corpo.


VELO ISLAMICO, IL CRINALE SOTTILE FRA IDENTITÀ E DIRITTO – 2. Velo ISlamico e Corano (25.5.2022)

Com’è noto, recentemente in Afghanistan i Talebani hanno obbligato le presentatrici tv ad andare in onda con il volto coperto. Dopo un timido tentativo di ribellione, le presentatrici tv sono state costrette ad accettare l’imposizione del regime, che all’inizio di maggio, attraverso prescrizioni contenute in un decreto del Ministero della Promozione della Virtù e Prevenzione del Vizio, in applicazioni delle direttive della Sharia, aveva imposto a tutte le donne afghane non troppo anziane o non troppo giovani di indossare in pubblico il burqa, o un abbigliamento che coprisse integralmente il proprio corpo dalla testa ai piedi, compreso il volto (ad eccezione degli occhi) in modo da evitare provocazioni ad uomini che non fossero parenti stretti. Il Decreto precisava l’opportunità che le donne senza importanti mansioni da svolgere in pubblico si trattenessero in casa. Questa imposizione, come già detto, non era stata rispettata nella maggior parte dei programmi televisivi, dove le donne continuavano ad andare in onda con il capo coperto ma con il volto visibile. Il Regime talebano, dopo un’iniziale apparente ‘apertura’, non ha tollerato eccezioni, nemmeno nei confronti delle donne in tv. Per completezza di informazione nella conferenza stampa dell’agosto scorso seguita alla conquista di Kabul, i Talebani cercarono di accreditarsi come un gruppo moderato e aperto, intenzionato anche a garantire il rispetto dei diritti delle donne. Nei mesi successivi tuttavia sono state disposte misure progressivamente più restrittive, soprattutto nel campo dell’istruzione femminile, che inducono a ritenere che questo secondo Regime sia del tutto simile al primo, di impronta rigidamente fondamentalista e durato dal 1996 al 2001. Nel concetto di velo islamico si intendono varie tipologie di abbigliamento femminile adottate nei Paesi islamici conformemente alla vigente tradizione locale. In proposito il Niqab copre tutto il corpo, la testa e il viso, lasciando solo un’apertura per gli occhi; è diffuso principalmente negli Stati del Golfo, soprattutto in Arabia Saudita. In alcuni Paesi europei si ritiene che il Niqab sia in contrasto con le disposizioni di pubblica sicurezza in quanto occulta l’identità di chi lo indossa. L’Hijab è generalmente composta da una o due sciarpe che coprono soltanto la testa e il collo. È il velo meno coprente. Lo Chador è uno scialle che copre tutto il corpo ed è chiuso sul collo. Copre la testa e il corpo, ma lascia la faccia completamente visibile. Generalmente lo Chador è nero ed è particolarmente diffuso in Iran. Il Burqa è un velo che copre in maniera integrale il corpo femminile. Anche gli occhi sono coperti, e le donne che lo indossano possono vedere attraverso una retina. È usato comunemente in Afghanistan e Pakistan. Sotto il primo regime talebano (che ha governato l’Afghanistan dal 1996 al 2001) il suo uso è stato imposto dalla legge. Di solito è di color azzurro. L’Al-Amira solitamente si compone di un copricapo che si stringe alla testa e di una sciarpa a forma di tubo che si avvolge al collo e copre anche parte della testa. Lo Shayla un è velo rettangolare che copre la testa, molto simile all’Hijab. Si può portare in modi diversi, anche se uno dei più comuni è in modo da coprire la testa e parte del collo. È il tipo di velo più diffuso in Italia. Il Khimar è un mantello che copra dalla testa in giù: alcuni modelli arrivano fino a sotto i fianchi, altri fino alle caviglie. In ogni caso lascia scoperti gli occhi e il volto. È diffuso soprattutto in Medio Oriente. Le direttive in materia di abbigliamento femminile si fanno risalire al punto 31 della Sura XXIV “E di’ alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri, solo ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne. E non battano i piedi sì da mostrare gli ornamenti che celano. Tornate pentiti ad Allah tutti quanti, o credenti, affinché possiate prosperare.” Non si parla quindi esplicitamente della copertura del capo o del viso, né di specifiche tipologie di abbigliamento, ma di coprire i propri ornamenti cioè le bellezze femminili, le forme del corpo. Pertanto la prescrizione coranica può essere interpretata come un semplice invito alla modestia nel vestire, ad un atteggiamento pudico e casto. Nel mondo occidentale l’uso del velo da parte di donne islamiche secondo la tradizione culturale e religiosa del Paese di riferimento o provenienza, può essere anche un modo per rivendicare l’appartenenza ad una cultura diversa.  RR

 

Da:      VOCI FUORI DAL CORO

            APPUNTI su ISLAM e MONDO ARABO di Roberto Rapaccini

 

VELO ISLAMICO, IL CRINALE SOTTILE FRA IDENTITÀ E DIRITTO – 1. Premessa: compatibilità con le disposizioni in materia di Pubblica Sicurezza (5.05.2022)

Periodicamente si torna a parlare della compatibilità dell'abbigliamento delle donne musulmane – in particolare del velo islamico integrale - con le leggi vigenti in Italia e, più in generale, in Occidente. Preliminarmente va precisato che la scelta di indossare il niqab (il velo islamico che occulta completamente il volto) o abiti equivalenti invece dell'hijab (che copre solo i capelli) ha un carattere culturale e non religioso. Il Corano infatti invita le donne a vestirsi in modo sobrio e moralmente conveniente: in termini concreti la Sharia imporrebbe solo un generico dovere, che dovrebbe essere liberamente declinato sia mediante la sensibilità individuale, sia considerando le consuetudini locali. Pertanto l'adozione di un abbigliamento che occulta l'identità è esclusivamente il prodotto di un'interpretazione integralista e particolarmente rigorosa di usi erroneamente ritenuti di matrice religiosa. In tempi recenti l'abbigliamento adottato dalle donne musulmane è divenuta anche una modalità attraverso la quale si rivendica l’appartenenza a una cultura diversa da quella occidentale, manifestando il rifiuto di un’omologazione fondata su una malintesa laicità. In Italia si potrebbe prospettare l'incompatibilità del velo islamico ‘integrale’ con le normative vigenti in materia di tutela dell’Ordine e della Pubblica Sicurezza: il velo, oltre ad impedire la riconoscibilità della persona, potrebbe anche consentire l'occultamento di armi, materiale esplodente, oggetti non consentiti.  L'art. 5 della legge 22/5/1975, contenente disposizioni a tutela dell'ordine pubblico, vieta l’uso, 'senza giustificato motivo', di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo che impedisca il riconoscimento della persona in pubblico. La norma citata come corollario pone il seguente quesito: il rispetto di un principio di carattere religioso o culturale può costituire un 'giustificato motivo' per l'adozione di un abbigliamento potenzialmente in contrasto con le esigenze di sicurezza e di ordine pubblico? In passato il Consiglio di Stato ha precisato che la matrice religiosa o culturale consente di indossare in pubblico il velo (CdS 3076/08).  Le esigenze di pubblica sicurezza sarebbero infatti soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni e dall'obbligo per tali persone di sottoporsi all'identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario. Resta fermo che tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi o da parte di specifici ordinamenti possano essere previste, anche in via amministrativa, regole comportamentali diverse e incompatibili con il suddetto utilizzo, purché ovviamente trovino una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di specifiche e settoriali esigenze. Peraltro l’utilizzo del ‘velo che copre il volto’, o, in particolare, l’uso del burqa, non sono diretti ad evitare il riconoscimento, ma sono attuazione di una tradizione. Tuttavia esigenze di sicurezza sopravvenute alla sopracitata pronuncia del Consiglio di Stato e correlate alla montante minaccia terroristica di matrice islamista potrebbero indurre a rivedere detto orientamento giurisprudenziale. RR

 

IL CONFLITTO FRA RUSSIA E UCRAINA: AGGIORNAMENTO DEL 22.03.2022 - PUTIN POTRA’ ESSERE CONDANNATO PER CRIMINI DI GUERRA?

 Ci sono quattro possibilità per perseguire i crimini di guerra commessi da Putin.

·       Corte Penale internazionale - La Corte Penale internazionale fondata nel 1998 con lo Statuto di Roma è la giurisdizione che ha il potere di indagare e giudicare gravissimi delitti commessi dagli individui (non dagli Stati) e più precisamente: il genocidio, i crimini di guerra, i crimini contro l'umanità e il crimine di aggressione.

·       ONU - Le Nazioni Unite potrebbero trasferire il lavoro di una commissione di inchiesta ad un tribunale internazionale costituito per l’occasione, come fu fatto per le accuse di genocidio in Ruanda e per i crimini commessi nella ex Jugoslavia.

·       Tribunale Internazionale appositamente costituito (modello Norimberga) – Per perseguire Putin potrebbe essere decisa la creazione di un apposito tribunale internazionale su iniziativa di un gruppo di Stati, come quelli della Nato, analogamente a quanto avvenuto per processare i nazisti al termine della Seconda Guerra Mondiale (in base a un accordo tra Usa, Urss e Regno Unito).

·       Tribunali Nazionali - Infine, il presidente russo potrebbe essere giudicato anche nell'ambito degli ordinamenti dei singoli Stati dove esiste una legge nazionale per perseguire i crimini di guerra. Alcuni Stati, come la Germania, hanno già avviato inchieste. Non esistono leggi federali in proposito negli Usa, anche se il Dipartimento della Giustizia ha una sezione che si occupa di crimini come il genocidio, la tortura o il reclutamento di bambini soldato, le mutilazioni genitali femminili.

Il primo problema pratico è la concreta possibilità di celebrare il processo e dare attuazione alla condanna. Questo in linea di massima presuppone che Putin venga destituito e venga estradato, salvo che venga processato in patria. La destituzione di Putin non è un’ipotesi improbabile. C’è molto malcontento interno e una gravissima crisi economica. Gli oligarchi cominciano ad acquisire la consapevolezza che Putin li sta trascinando nel baratro. Inoltre la guerra va male, i rifornimenti per le truppe in Ucraina sono in grave difficoltà. Mi sembra che né la Russia, né gli Usa hanno aderito alla Convenzione istitutiva della Corte Penale Internazionale. Putin potrebbe pertanto essere processato in un Paese individuato dall'ONU o mediante un accordo fra Paesi interessati. Ci sono precedenti importanti. Ad esempio l'ex leader jugoslavo Slobodan Milošević fu processato da un tribunale delle Nazioni Unite all'Aia per crimini commessi nel conflitto che seguì al crollo della Jugoslavia all'inizio degli anni '90. Morì nella sua cella prima che la Corte potesse emettere il verdetto. Il suo alleato serbo-bosniaco Radovan Karadžić e il capo militare serbo-bosniaco, Gen Ratko Mladić, sono stati perseguiti con successo e stanno scontando l'ergastolo. L'ex presidente liberiano Charles Taylor è stato condannato a 50 anni dopo essere stato per aver sponsorizzato atrocità nella vicina Sierra Leone. L'ex dittatore del Ciad Hissène Habré, morto recentemente, è stato il primo ex capo di stato ad essere condannato per crimini contro l'umanità da un tribunale africano. Fu condannato all'ergastolo. Roberto Rapaccini

 

AGGIORNAMENTO DEL 14.03 - NEGOZIATI A GERUSALEMME?

Sembra che ci avviamo verso esiti devastanti: Putin va avanti, si avvicina ai confini della Polonia con il rischio che gli attacchi sconfinino anche accidentalmente nel territorio della Nato con una conseguente letale escalation della guerra. C’è ancora uno spiraglio che alimenta la speranza per una soluzione negoziale del conflitto? Il 12 marzo a fine giornata (alle 23:56) il Jerusalem Post ha pubblicato una notizia, rilanciata successivamente da altre agenzie e testate giornalistiche, spiegando di averla appresa da una ‘fonte diplomatica’ dopo un colloquio telefonico avvenuto tra Zelensky e il primo ministro israeliano Naftali Bennett. La notizia è questa: la Russia avrebbe manifestato disponibilità a tenere negoziati con l'Ucraina a Gerusalemme. Della questione non si parla molto (e questo è un buon segno); ci siamo abituati allo svolgimento di incontri formali fra le due delegazioni (dai quali non sta emergendo nulla di concreto), contestuali a contatti ufficiosi fra Stati a livello governativo con maggiori margini di incidenza. Oggi ad esempio a Roma il consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan, e il Responsabile della Politica Estera del Partito Comunista Cinese Yang Jiechi si incontreranno per discutere di questioni internazionali e regionali, e delle relazioni fra Cina e Stati Uniti. La Cina potrebbe avere un importante ruolo nelle trattative: in proposito il Financial Times ha ipotizzato che la Russia possa aver chiesto alla Cina assistenza militare e soldi per sostenere l’invasione fin dall’inizio. Israele non si è ufficialmente espresso sulle possibili negoziazioni a Gerusalemme. Perché la candidatura di Gerusalemme? La mediazione di Israele è gradita ad entrambe le parti. Gli interessi di Israele e Russia potrebbero convergere nel contenimento delle mire espansionistiche dell’Iran sul Medioriente. Quanto a Zelensky, è di origine ebrea e si affiderebbe alla mediazione di Bennet perché sa che ‘dietro di lui’ ci sono gli Stati Uniti. Pone un’unica condizione: che le trattative siano precedute da un ‘cease-fire’, un cessate il fuoco.  In proposito, può considerarsi seria l’intenzione dei russi di negoziare se nello stesso tempo consumano i peggiori crimini di guerra e non manifestano minimamente l’intenzione di fermarsi? Forse questa spietata e riprovevole strategia paradossalmente confermerebbe l’intenzione di negoziare. Sfuggita la possibilità di una guerra lampo, la Russia, a causa degli effetti delle sanzioni comincia ad essere in grave difficolta ed a rischio di default. Quindi deve realizzare quanti più impressionanti risultati bellici in breve tempo (e cioè prima di essere travolta dalle difficoltà interne) per presentarsi al tavolo delle trattative come una grave minaccia per la pace mondiale ed ottenere in questo modo il consenso sulle sue proposte. Tra l’altro solo da un tavolo negoziale così strutturato Putin potrebbe non rimanere travolto dagli eventi ed avere una via d’uscita che potrebbe consistere anche nella possibilità di rimanere al potere. Il pessimismo della ragione ci dice che è solo un’ipotesi, l’ottimismo della volontà ci dice di crederci. Nel frattempo la tragedia assume contenuti di sempre più drammatica consistenza. RR

 

IL CONFLITTO FRA RUSSIA E UCRAINA - AGGIORNAMENTO DEL 9.3.2022 - PUTIN E ZELENSKY

Le divisioni radicali che sconfinano in inconciliabili polarizzazioni estreme sono ormai una caratteristica ricorrente nell’opinione pubblica italiana. Ci si divide su tutto: fino a ieri ci si accapigliava fra ‘no-vax’ e ‘pro-vax’. Al sopraggiungere dell’emergenza bellica in Ucraina le divisioni vaccinali sono state messe ‘in stand by’ in un angolo remoto dello spazio riservato alle cognizioni recenti e ci si è immersi in più intriganti contrapposizioni strutturate su frettolose affabulazioni geopolitiche. Ad una maggioranza che ha immediatamente condannato l’aggressione di Putin, si è opposta una crescente fazione che, più riflessivamente, ha valutato inopportuno e pericoloso l’invito di Zelensky alla resistenza, eroico solo a prima vista. Personalmente non ho una particolare considerazione per nessuno dei due leader. Indubbiamente Putin è un sanguinario aggressore: anche se le sue pretese territoriali avessero qualche fondamento, sono gravemente inadeguate le modalità violente con le quali sta cercando di realizzarle. Tuttavia non mi piace nemmeno la condotta di Zelensky. Di fatto il suo invito alla resistenza sta causando il massacro degli Ucraini. L’amore per il suo popolo lo dovrebbe spingere a privilegiare soluzioni negoziate che, per il loro esito positivo, richiederebbero un parziale (e non del tutto onorevole) accoglimento delle pretese russe. Inoltre, sembra che in tutti i modi nel suo esclusivo interesse cerchi di coinvolgere nel conflitto i Paesi della Nato, anche se questo possa causare una devastante escalation del conflitto. L’insistenza di Zelensky sulla ‘No Fly Zone’ è in proposito molto significativa.

LA POSSIBILE CONCLUSIONE DELLA GUERRA – Se la logica avesse sempre l’ultima parola, il conflitto fra la Russia e l’Ucraina dovrebbe concludersi in tempi relativamente brevi con una soluzione diplomatica. La fine della guerra conviene sia alla Russia che all’Ucraina. Se il conflitto continuasse infatti la Russia rischierebbe che le operazioni in Ucraina si trasformino in un nuovo ‘Afghanistan’. Inoltre presto i militari russi, lontani dalle famiglie e stanziati in terra straniera, sarebbero destinatari di un logoramento fisico e psichico che li renderebbe sempre più esposti alle azioni nemiche di guerriglia.  In Russia continuerebbe a crescere il malcontento popolare, ora già elevato, per i disagi causati da un repentino peggioramento delle condizioni economiche individuali e per la perdita di un benessere solo da qualche decennio acquisito. A questo quadro poco confortante deve aggiungersi che al massimo entro due anni le sanzioni determinerebbero il default della Russia. In ultimo solo attraverso una soluzione diplomatica Putin potrebbe assicurarsi ‘una via d’uscita’ dal tunnel nel quale è entrato con questa scellerata avventura bellica. L’Ucraina invece con la fine del conflitto porrebbe termine a questo drammatico massacro di civili e alla distruzione del Paese. Naturalmente l’esito positivo delle negoziazioni presuppone reciproche concessioni. Per quanto riguarda gli aspetti territoriali il trattato di pace potrebbe consistere nella spartizione dell’Ucraina in modo tale che cedendo alla Russia il Donbass si ricreerebbe quel ‘cuscinetto’ di distanza dall’Europa caro al leader russo, mentre l’Ucraina rimanente, ridimensionata, potrebbe tornare a perseguire le sue aspirazioni europee. In vista degli accordi si alterneranno comportamenti contraddittori, minacce, iniziative ambigue, perché ognuno cercherà di ‘alzare la posta’ cioè di crearsi un margine più favorevole prima di intraprendere i negoziati. Anche altri Stati coinvolti negli accordi, ad esempio come mediatori, cercheranno di ottenere dei vantaggi (potrebbero essere la Turchia, la Cina, etc.). Dopo gli accordi le relazioni geopolitiche si assesteranno su nuovi equilibri. RR

 

IL CONFLITTO IN UCRAINA – AGGIORNAMENTO DEL 7.03.2022 - POSSIBILI SCENARI FINALI

Uno stimato ed esperto giornalista della BBC, James Landale, ha ipotizzato cinque scenari futuri come possibili esiti del conflitto in atto fra Russia e Ucraina.

Primo Scenario: guerra breve - La Russia al fine di una rapida soluzione del conflitto intensificherebbe le operazioni belliche, supportate da incessanti bombardamenti e da mirati cyber-attacchi per minare il funzionamento delle strutture istituzionali, e facilitate dall’acquisizione del pieno controllo delle fonti energetiche (dighe e centrali nucleari). Kiev cadrebbe in pochi giorni. Questa soluzione avrebbe un altissimo costo in termini di perdita di vite umane. Il governo di Zelensky verrebbe rimpiazzato da un regime ‘fantoccio’ filorusso. Zelensky, esposto anche al rischio di essere assassinato, nella migliore delle ipotesi sarebbe destituito ed esiliato. L’Ucraina diventerebbe un’altra ‘Bielorussia’, cioè uno Stato totalmente asservito alla Russia. Il Paese in queste condizioni diventerebbe nell’immediato futuro politicamente instabile ed esposto a insurrezioni e devastanti forma di guerra civile.

Secondo Scenario: guerra lunga – Il conflitto si radica, si cronicizza, non emerge la possibilità di soluzioni a breve termine. L’esercito ucraino risulterebbe fortemente supportato dalle azioni di guerriglia dei civili che fiaccherebbero anche moralmente le forze russe, che non potrebbero più conseguire risultati apprezzabili in relazione alle risorse umane e ai mezzi impiegati. Il controllo che le truppe russe riuscirebbero ad avere su alcune regioni o siti sarebbe reso precario dalle azioni di guerriglia. L'Occidente potrebbe continuare a fornire armi allungando ulteriormente i tempi del conflitto. La resistenza ucraina potrebbe rivelarsi particolarmente tenace. Nel frattempo negli anni del conflitto una nuova leadership potrebbe insediarsi a Mosca. Non si può nemmeno escludere la possibilità che, nonostante l'apparente sproporzione di forze fra i due Paesi, i militari russi logorati dagli eventi bellici debbano lasciare l'Ucraina dopo demoralizzanti sconfitte, analogamente a quanto avvenuto in passato in Afghanistan.

Terzo scenario: estensione del conflitto oltre i confini ucraini – Putin, come è stato più volte detto, potrebbe subire la tentazione imperialista di trasformare la Russia in una aggiornata versione dell’URSS. Per far questo le sue ambizioni non si fermerebbero all’Ucraina, ma riguarderebbero, ad esempio, anche la Moldavia e/o la Georgia. Queste due repubbliche sono nella NATO, e quindi la loro aggressione causerebbe l’ingresso nel conflitto degli altri Paesi dell’Alleanza, non essendo più sufficiente ‘armare’ i popoli minacciati. Considerato che la guerra in Ucraina non sta andando bene, secondo logica Putin non dovrebbe aprire nuovi fronti. È difficile prevedere cosa potrebbe accadere successivamente. Indubbiamente un elemento di imprevedibile pericolo può essere rappresentato dal fatto che Putin possa sentire minacciata la sua leadership dall’evolversi degli eventi.

Quarto scenario: la soluzione diplomatica – È la soluzione maggiormente auspicabile. Tuttavia le trattative formalmente in atto non sembrano avere prospettive di successo; sembrano infatti iniziative fittizie e di ‘facciata’. Sicuramente sono molto più importanti i contatti informali fra capi di Stato, gli incontri fra diverse missioni diplomatiche, il coinvolgimento dell’Onu. Un primo risultato dell’attività diplomatica è l’attivazione di corridoi umanitari con contestuali ‘cessate il fuoco’ per permettere l’evacuazione dei civili. Gli accordi per avere successo devono garantire sufficientemente l’Ucraina e devono possibilmente prevedere una ‘via d’uscita’ per Putin, il cui destino sembra indissolubilmente legato alle sorti del conflitto. Sulle decisioni di Putin di intraprendere la via diplomatica potrebbe incidere anche il peso dell’opposizione interna, che continua a crescere nonostante le misure repressive, impressionata per il ritorno nelle bare dei soldati russi deceduti in guerra. Gli accordi potrebbero consistere nella spartizione dell’Ucraina in modo tale che si ricrei quel ‘cuscinetto’ di distanza dall’Europa caro al leader russo, mentre l’Ucraina rimanente, ridimensionata potrebbe tornare a perseguire le sue aspirazioni europee.

Quinto scenario: la caduta di Putin – In maniera circostanziata il professore di studi strategici militari del King's College di Londra sir Lawrence Freedman prevede una possibilità che al momento potrebbe sembrare improbabile per l’apparente solidità al potere di Putin. Il malcontento popolare represso con sempre maggiore difficoltà dal Cremlino, dovuto alle perdite di vite umane, alle sconfitte militari, all’isolamento internazionale, alla perdita del benessere, potrebbe portare ad una destituzione di Putin. Oligarchi russi, fino a ieri fedeli al leader, colpiti dalle sanzioni a causa delle sue scelte potrebbero essere il motore dei cambiamenti. RR

 

LA GUERRA RUSSIA – UCRAINA: AGGIORNAMANTO DEL 5.3.2022

CREARE UNA NO FLY ZONE?

La ‘No-Fly Zone’ consiste in un’area nella quale viene interdetto il volo. La ‘No-Fly Zone’ può essere dichiarata sia da singoli governi sia da organizzazioni internazionali (Nato, Onu, Unione Europea, etc.). Ordinariamente questa misura è usata per contrastare il sorvolo degli aerei nemici su un determinato territorio: in concreto quindi non è un’azione difensiva, ma opera come uno strumento offensivo. La creazione di una ‘No-Fly Zone’ infatti richiede l’attivazione di attività di pattugliamento e, in caso di violazione dello spazio aereo, l’irrogazione di misure repressive che possono arrivare fino all’abbattimento del velivolo nemico. Il pattugliamento aereo va integrato con dispositivi che assicurino anche il controllo terrestre dell’area, al fine di evitare attacchi da terra che possano compromettere la sicurezza aerea. Nel caso dell’Ucraina quindi l’imposizione di una ‘no-fly zone’ richiederebbe l’impiego di Forze militari Nato per neutralizzare l’artiglieria russa già presente sul territorio ucraino. Di fatto l’istituzione di una ‘no-fly zone’ equivarrebbe quindi all’ingresso della Nato nel conflitto, e questa possibilità al momento non appare opportuna né prudente perché comporterebbe un pericoloso allargamento della guerra. Per questo motivo non si è dato seguito alla richiesta di Zelensky circa l’attivazione di detto dispositivo.

LE SORTI DELLA CULTURA RUSSA – L’isolamento della Russia e la sua estromissione dai contesti internazionali subiscono la tentazione di estendersi anche a circuiti culturali come testimoniano alcuni controversi casi di cronaca. Le manifestazioni d’arte e di cultura universalmente celebrate e il pensiero che le veicola travalicano i confini nazionali di provenienza per appartenere a tutti. Sono pertanto inopportune e talvolta controproducenti eventuali forme di censura nei confronti del patrimonio culturale russo o riguardanti eventi ad esso correlati; analogamente ‘avere la nazionalità russa’ trovandosi in un Paese occidentale di per sé non può costituire fonte di discriminazione o di riprovazione, né generare ‘complessi di colpa’, salvo che si accompagni ad un attivo e manifesto sostegno dell’attuale regime russo. Tutto questo infatti non ha nulla a che vedere con il conflitto in atto. Se poi vogliamo entrare nei dettagli non dobbiamo dimenticare che Dostoevskij per il suo dissenso verso il regime zarista fu esiliato quattro anni in Siberia. RR

 

LA GUERRA RUSSIA-UCRAINA – AGGIORNAMENTO DEL 2.03.2022

Le trattative – La loro evoluzione conferma che non hanno nessuna prospettiva di successo. Le negoziazioni presuppongono reciproche concessioni che in questo momento sono del tutto improbabili. Zelensky, dopo l’iniziale disponibilità ad un accordo, ha cambiato strategia essendo riuscito a motivare fortemente gli Ucraini alla resistenza; peraltro il morale degli Ucraini è decisamente alto, essendo alimentato dai successi sul campo. Zelensky inoltre si è ormai apertamente dichiarato filoeuropeo e a questo fa riscontro il pieno appoggio dell’Occidente. Quindi non ha nessuna remora nei confronti della opzione strategica della guerriglia. Allo stesso modo Putin con l’aggressione all’Ucraina ha imboccato una via senza ritorno. Le trattative quindi forse continueranno ma solo come ‘operazione di facciata’.

Le evoluzioni del conflitto – La guerra si sta trasformando in guerriglia e questo è un grosso vantaggio per l’Ucraina, come già dimostrano le ingenti perdite di uomini e mezzi della Russia di molto maggiori di quelle dell’Ucraina. In genere la guerriglia radicalizza e cronicizza il conflitto. L’isolamento internazionale della Russia tuttavia è destinato a causare molti problemi interni, dal dissenso popolare (già significativo) alla scarsità di beni. Questo potrebbe anche causare una qualche forma di ritiro russo in un futuro non prossimo. Sarà importante in proposito il comportamento della Cina: neutralità o soccorso alla Russia (compromettendo affari in atto con l’Ucraina)? Al momento non sembra che il conflitto sia destinato ad allargarsi (AL MOMENTO…)

Situazione interna della Russia – Forse l’aspetto risolutivo della questione rifletterà le evoluzioni interne della Russia in materia di dissenso popolare (fortemente crescente) e di fratture nella compagine governativa. Indubbiamente Putin vive un momento di difficoltà, ma questo al momento polarizza le posizioni e rende tutto pericolosamente incerto.

L’opzione nucleare – È un pericolo sempre presente nell’ordinario ma nello specifico va ridimensionato. Per l’attivazione di una risposta nucleare russa formalmente non basta la follia di una persona, ma è necessario l’accordo di tre persone: Putin, il ministro della difesa, il capo di Stato Maggiore.

Anche se le prospettive non sono così catastrofiche al momento, nel frattempo ci sono centinaia di morti e migliaia di profughi…e già questa è una catastrofe e il nostro fallimento conclamato. RR

 

LA GUERRA UCRAINA RUSSIA – AGGIORNAMENTO DEL 28.2.2022 - LE TRATTATIVE

È evidente che queste trattative erano fin dall’inizio un bluff (non uso a caso questa parola visto che nel gioco del poker il bluff viene definito: “... rilancio non giustificato dal possesso di una combinazione vincente, fatto allo scopo di far credere agli avversari di avere un punto alto e indurli a rinunciare al gioco…”), un’operazione di facciata. Non si tratta e nello stesso tempo si intensificano i bombardamenti nel territorio della controparte; anzi generalmente nei contesti internazionali le trattative sono precedute da un ‘cease fire’, un cessate il fuoco…

Poi mi chiedo perché la delegazione russa inviata a trattare non è stata guidata dal ministro degli esteri russo Lavrov, che gode anche di grande credito e stima a livello internazionale. Le ipotesi sono due:

o il ministro Lavrov è in disaccordo con Putin;

o si è inviata una delegazione di secondo piano perché non potesse prendere direttamente decisioni che impegnassero il Paese, ma esprimesse riserve su ogni questione in modo tale da sottoporre tutto a Putin in un secondo momento per la decisione finale; in concreto quindi le trattative avrebbero così solo un effetto dilatorio. RR

 

LA GUERRA RUSSIA E UCRAINA – AGGIORNAMENTO DEL 26.2,2022

Le decodifiche politiche o geoeconomiche sono sforzi interpretativi plausibili, ma forse c’è un’altra realtà da considerare. Ci sono tanti segni (l’isolamento interno, le manie, etc.) che dimostrano che c’è qualcosa di inusuale nei comportamenti di Putin da un po' di mesi. Putin è sempre stato in passato un cinico, freddo, attento calcolatore, ora gestisce la situazione in maniera azzardata come un giocatore di poker. La minaccia nucleare è del tutto gratuita, la paura dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato o in UE non ha nessun fondamento (si entra nella NATO con l’unanimità dei Paesi membri), mentre un ingresso nella UE presuppone lunghe procedure. In realtà anche chi parla di costituzione di un esercito europeo per fronteggiare questo tipo di crisi dice cose inesatte. Un esercito presuppone l’esistenza di una politica estera comune e coerente; poi ci sono le difficoltà al momento insormontabili poste dai trattati UE nell’attuale formulazione. Se fallisce la soluzione diplomatica, si spera in una possibile soluzione ‘interna’ che però non sia pericolosa nelle immediate evoluzioni per noi occidentali…

Ci sono altri elementi da considerare

·       I russi prendono le distanze da Putin. Ormai si sentono ‘occidentali’ e stanno perdendo le posizioni di benessere acquisite negli ultimi anni

·       Il governo russo non è compatto nel sostenere Putin

·       La Cina che ha importanti interessi in Ucraina ha preso le distanze dal conflitto

·       L’Ucraina con la sua resistenza sta diventando un nuovo Afghanistan per la Russia

RR

 

MAROCCO: PARADIGMA DEL MONDO ARABO. RIFLESSIONI CON DAG TESSORE (27.12.2021)

Dag Tessore è uno stimato saggista e traduttore, tra le lingue da lui conosciute, oltre all’italiano, all’inglese ed al francese, ci sono l’arabo e il cinese, nonché il greco antico e moderno, il latino e il sanscrito. Dopo essersi formato accademicamente in linguistica comparata e filosofia del linguaggio, ha cominciato ad occuparsi – diventandone un fine e profondo conoscitore – di spiritualità cristiana e islamica, nonché di religioni e di culture orientali, sia come saggista che come traduttore, pubblicando in diversi Paesi numerosi ed apprezzati testi. Ha insegnato Islamismo e Giudaismo presso l’Istituto di Scienze Politiche di Pescara. Ha viaggiato a lungo in Paesi arabi, dove ha approfondito la conoscenza della lingua araba e della cultura islamica. Oggi vive in Marocco.

Indagini svolte da alcuni istituti di ricerca hanno evidenziato che nel mondo arabo – in particolare nei Paesi ‘MENA’ (Middle East and North Africa) – sono in aumento cauti atteggiamenti di indifferentismo religioso. Secondo la sua esperienza questo fenomeno riguarda anche il Marocco? Si può certamente parlare di indifferentismo religioso che tocca una parte di marocchini. Ma bisogna ben intendersi sul significato di ‘indifferentismo’. Diversamente da quanto accade in Europa con il Cristianesimo, la stragrande maggioranza dei marocchini si sente fortemente legata all’appartenenza islamica: è molto diffuso l’atteggiamento di apprezzamento e amore per il Corano e per la figura di Maometto; inoltre l’Islam è percepito come parte integrante della cultura tradizionale del Marocco. Tuttavia, un numero consistente di marocchini guarda con diffidenza il mondo dell’Islam politico nonché tutto quell’insieme di regole e leggi che caratterizzano l’Islam legalistico, e da questo punto di vista il loro atteggiamento può essere considerato critico o indifferentista.

Lei è un profondo e acuto studioso della spiritualità islamica: in generale l’atteggiamento cautamente critico nei confronti della religione, riscontrato recentemente nel mondo arabo, riguarda l’Islam globalmente considerato o è solo indice di una non condivisione delle modalità di professione della fede (ovvero è manifestazione di riserve nei confronti di un’adesione esteriore di tipo legalistico)? Esistono diversi gradi. Marocchini che disapprovano in toto l’Islam e si considerano atei sono probabilmente pochissimi, e in ogni caso il peso della condanna sociale (e in parte anche legale) è talmente grande che difficilmente queste posizioni estreme si manifestano alla luce del giorno (diversamente, ancora una volta, da quanto accade in Europa). L’atteggiamento critico o indifferentista si mostra invece soprattutto nello scegliere una modalità piuttosto che un’altra di vivere l’Islam. Ma questo, a stretto rigore, non è indifferentismo: è una scelta consapevole di vivere l’Islam secondo quella modalità che si ritiene più giusta e più conforme al Corano.

Si dice che nelle teocrazie non ci sia spazio per la laicità. L’indifferentismo religioso è probabilmente un precursore di laicità. Cosa pensa in proposito con specifico riferimento alla realtà marocchina? Penso che la laicità, così come è vissuta in Europa e particolarmente in Francia, avrà molta difficoltà ad attecchire in Marocco. L’Islam è percepito qui come l’anima stessa dell’identità culturale marocchina, della sua storia e della sua tradizione.
Va anche considerato che sta crescendo molto un atteggiamento critico verso l’Europa, guardata con sempre meno stima e ammirazione. Pertanto l’identità islamica assume anche la funzione di opposizione al modello europeo, la cui laicità è qui percepita spesso come mancanza di amore e fierezza per la propria identità culturale.

La popolazione marocchina è composta principalmente da due gruppi etno-linguistici: i Berberi e gli Arabi. Le due etnie si sono mescolate fra loro e reciprocamente integrate, o la comunità berbera mantiene dei tratti distintivi? Durante le fulminee guerre di conquista condotte dai primi califfi dell’Islam nel VII secolo, il paese che resistette con più accanimento contro l’invasione araba fu proprio il mondo berbero (Algeria e Marocco), guidato da figure ‘eroiche’ come la celebre regina berbera Kahina. E per secoli le dinastie regnanti islamiche in Marocco saranno impegnate a neutralizzare le molte sacche di autonomia e resistenza dei Berberi, arroccati sulle loro aspre montagne dell’Atlante. Ancor oggi, dopo circa 1300 anni, l’identità berbera è chiaramente definita e distinta dall’elemento arabo e, diversamente da quanto accaduto nella maggior parte dei paesi conquistati dagli arabi, la lingua autoctona – il berbero – è rimasta prevalente ed è tuttora parlata da circa una metà dei marocchini.

Vi sono autonome comunità berbere? Hanno limitate forme di autonomia? Oggi non esistono forme di autonomia amministrativa o giuridica dei Berberi. Bisogna infatti tener conto del fatto che, almeno fino a tempi recentissimi, tutta la classe dirigente e colta era di etnia araba. E gli arabi hanno mantenuto per secoli un atteggiamento di superiorità nei confronti dei Berberi – siamo noi che abbiamo portato loro la lingua araba, la cultura e, soprattutto, la religione islamica -, atteggiamento che continua a serpeggiare diffusamente. In Algeria (l’unico altro paese con forte presenza berbera) la frattura è arrivata al punto che molti Berberi hanno abbracciato il Cristianesimo, sentito come la loro religione precedente all’islamizzazione forzata.

In Marocco è presente anche una consistente minoranza ebraica, credo la più numerosa nel mondo arabo. È integrata da un punto di vista politico e sociale? La religione è motivo di ‘frizione’?
Per secoli vi era una fortissima presenza ebraica in Marocco, perfettamente integrata nel tessuto sociale – parlavano berbero e vivevano come tutti gli altri – pur nella netta distinzione religiosa, quasi sempre però vissuta con ammirevole rispetto reciproco.
Dopo la creazione dello Stato di Israele, tuttavia, e il conseguente diffondersi di una forte ostilità degli arabi verso gli ebrei, continuare a vivere in Marocco diventava sempre più difficile e penoso, per cui la maggior parte degli ebrei berberi marocchini decise di emigrare in Israele (o in Europa).Oggi direi che il peso dell’odio reciproco tra ebrei e musulmani e della questione palestinese rende tuttora difficile una serena convivenza dei marocchini con i pochi ebrei rimasti, anche se la situazione qui è verosimilmente migliore che in molti altri paesi islamici.
Da qualche mese il Marocco è uno dei pochi paesi islamici del mondo che ha riconosciuto lo Stato d’Israele, ha istituito rapporti diplomatici bilaterali e ha dato il via a voli aerei diretti. Ma l’iniziativa non pare molto gradita a quella larga fetta di popolazione più religiosa.

È presente in Marocco una comunità cristiana? Se sì, che consistenza ha? Che rapporti ha con le istituzioni politiche e religiose del Paese? La presenza cristiana è rigorosamente limitata agli stranieri residenti in Marocco. Ufficialmente non esistono marocchini cristiani (e ciò è anzi addirittura vietato per legge), anche se da diversi siti internet è facile vedere che alcune migliaia di marocchini hanno abbracciato – segretamente – il Cristianesimo. Esistono chiese cattoliche, protestanti e ortodosse, ma poche, e solo nelle grandi città, ed è consentito l’accesso solo agli stranieri. Indubbiamente vi è una certa diffusa ostilità della popolazione e delle autorità marocchine verso il Cristianesimo, di cui si teme soprattutto il proselitismo, ai danni dell’identità culturale, nazionale e religiosa del Marocco.

Esistono frange fondamentaliste? Il fondamentalismo in Marocco assume due forme: da una parte vi sono gruppi segreti che intendono rovesciare la monarchia e istituire un regime islamico e che, durante l’apogeo dell’Isis in Siria, fornirono migliaia di jihadisti. Questi gruppi sono assolutamente illegali e combattuti con durezza dal governo, al punto che la loro presenza è praticamente impercettibile vivendo in Marocco. Poi invece esiste un largo strato della popolazione che condivide abbastanza gli ideali integristi – e quindi si augurerebbe la piena applicazione della Shari’a – ma che esteriormente non fa nulla di illegale: queste persone sono sovente riconoscibili dall’abbigliamento (niqab per le donne, baffi tagliati, barba lunga, tunica fin sotto il ginocchio per gli uomini) e costituiscono quello zoccolo duro dell’Islam, segretamente ostile alla monarchia regnante.

Ci sono nuclei di confessione sciita? Lo Sciismo è praticamente assente in Marocco, sia per motivi storici, sia perché da decenni è legato al fondamentalismo iraniano, a cui il Regno del Marocco guarda con preoccupazione, come a tutti i movimenti fondamentalisti islamici.

Il vento della Primavera araba non ha soffiato in Marocco grazie alle politiche illuminate delle istituzioni politico-religiose. Limitate e contenute proteste ci sono state nel 2011-2012. Mi sembra che nel complesso la monarchia goda di un adeguato consenso. Quali sono i fattori che concorrono a questa situazione di coesione sociale, politica e istituzionale? Negli ultimi decenni la monarchia è riuscita tutto sommato a governare discretamente il paese e a rendere la figura del re rispettata, popolare e amata. Direi che ciò si può spiegare con tre fattori fondamentali della politica marocchina. In primo luogo il re, pur mantenendo un potere quasi assoluto, ha concesso nel 2011 notevoli nuove libertà politiche, soddisfacendo almeno parzialmente le aspirazioni democratiche del paese. Inoltre egli lascia al popolo una grande libertà nei loro affari personali e commerciali: non esistono qui tutte quelle dettagliatissime e capillari regole e restrizioni europee sulla dimensione dei tavoli nei ristoranti, sugli scontrini, sull’igiene nei mercati, sui prodotti venduti dai pizzicagnoli, ecc. Infine la monarchia ha sempre rispettato e favorito la dimensione islamica della società marocchina. Questi tre fattori sono, a mio parere, quelli che spiegano meglio la stabilità sociale e politica del Marocco.

La situazione politica si mantiene attualmente tranquilla? Ci sono istanze di maggiore libertà e democrazia? In questo ultimo anno la situazione è cambiata notevolmente a motivo della politica sulla Covid. Qui, diversamente che in Europa, un largo strato della popolazione non ritiene la Covid particolarmente grave e pericoloso e percepisce quindi le pesanti politiche di restrizioni come una inutile e indebita oppressione, dannosissima per l’economia e per la vita quotidiana della gente. Quando poi a metà ottobre 2021 il governo ha imposto qui il Green Pass come in Europa, il malcontento è esploso in maniera allarmante. Vi è stata un’opposizione fortissima, che ha portato a una generale e unanime disobbedienza. Quantunque la legge preveda che non si può accedere a nessuna struttura pubblica o privata (compreso l’ufficio postale, un bar o un taxi) senza Green Pass, nessuno in tutto il paese applica questa norma. E proprio da quando è uscita la nuova legge sull’obbligo del pass vaccinale, la popolazione, che era arrivata al 60% circa di vaccinazione a due dosi anti-Covid, ha smesso quasi completamente di vaccinarsi. Si è arrivati quindi in questi mesi a un fortissimo malcontento nei confronti del governo e anche del re.

Si auspica una laicizzazione delle istituzioni o il loro carattere confessionale si considera una condizione imprescindibile? Proprio in questi mesi, a motivo delle politiche sulla vaccinazione obbligatoria, assolutamente invise alla stragrande maggioranza della popolazione, stanno aumentando moltissimo le proteste. Addirittura, una nota deputata ha detto ultimamente, seguita poi da molti altri, che il Marocco sta diventando una dittatura e che bisogna lottare in ogni modo per scongiurare questa deriva. L’elemento confessionale e religioso, ben lungi dall’essere percepito come un ostacolo alla democrazia, è anzi visto attualmente come il fattore essenziale per preservare le libertà civili che invece paiono venire minacciate proprio dal modello europeo ritenuto qui da molti inaccettabilmente antidemocratico proprio per le sue politiche sulla vaccinazione obbligatoria.

A parte le attuali limitazioni dovute alla Covid, il Marocco è sempre stato una meta turistica molto frequentata dagli Europei. Oltre alle indubbie bellezze naturali e storico-artistiche ci sono altri fattori che hanno favorito queste opzioni turistiche? Il turismo è stato favorito in Marocco anche certamente dalla sua notevole stabilità politica, a differenza degli altri paesi del Maghreb e del Medio Oriente. Inoltre fino a tempi recentissimi è stata praticata una politica tesa a favorire gli investimenti stranieri e in generale rapporti commerciali e diplomatici fruttuosi con l’Europa.

In termini generali qual è il sentimento della popolazione nei confronti dell’Occidente? Sempre in termini generali nei confronti dell’Occidente c’è un atteggiamento diverso da quello che si riscontra negli altri Paesi del Maghreb o c’è omogeneità? Generalmente l’atteggiamento della popolazione marocchina verso gli stranieri è positivo, e questo ovviamente è di beneficio al turismo. Il fatto che molti marocchini abbiano vissuto in Europa o abbiano parte della famiglia residente in Europa, nonché il carattere tendenzialmente moderato e tollerante dell’Islam marocchino, sono fattori che hanno permesso una serena crescita del turismo, arrestata poi brutalmente con l’arrivo del Covid e delle relative restrizioni e chiusure.

C’è qualche altro aspetto della realtà marocchina che ritiene interessante segnalare?
Ritengo utile, per il futuro dell’Islam e dei rapporti interreligiosi, prendere atto delle peculiarità dell’Islam marocchino che, almeno potenzialmente e nelle linee generali, più che una scelta ideologica esclusivista, si presenta come una ‘tradizione’ specificamente marocchina, cioè un attaccamento ai propri valori storici e culturali, nella consapevolezza che gli altri popoli hanno altri valori e altre religioni, altrettanto rispettabili.

Grazie a queste riflessioni abbiamo ora un’immagine del Marocco, che, oltre ad essere veritiera, è filtrata dalla autorevole sensibilità intellettuale del prof. Dag Tessore. Risulta confermato che il Marocco nel mondo arabo per alcuni tratti peculiari può essere considerato una realtà avanzata. RR   

 

IL MONDO ARABO VERSO L'INDIFFERENTISMO RELIGIOSO? (2.12.2021)

La laicità dello Stato è una delle più significative conquiste delle democrazie moderne. La separazione fra la sfera politica e quella religiosa in concreto tutela la libertà di religione, compresa la visione atea o semplicemente agnostica, in quanto ha come corollario un atteggiamento di equidistanza dei pubblici poteri da convinzioni religiose, spirituali e filosofiche. La secolarizzazione dello Stato nella realtà si declina variamente, ma tutte le modalità possono essere ricondotte in linea di massima a due modelli, ovvero ad una rigida separazione tra lo Stato e le confessioni religiose, oppure ad un ‘favor’ o attenzione accordata ad una determinata confessione (generalmente in relazione alla sua maggiore diffusione) senza tuttavia creare reali discriminazioni. Naturalmente il proselitismo religioso – cioè la propaganda della propria fede compresa quella ateistica e agnostica (art.19 Costituzione italiana) – è consentito, ma è confinato nella sfera delle relazioni private, spesso individuali, e deve mantenersi estraneo ad attività riconducibili a pubblici poteri. Il concetto di laicità è sconosciuto alla cultura islamica ed è spesso confuso con la nozione di ateismo. Negli Stati Islamici si attribuisce rilievo all’esistenza di una sola religione, l’Islam: non essere musulmano pertanto equivale a non essere un credente. Non è ammessa una terza possibilità, ovvero essere fedele di un altro credo religioso. Per questo motivo il termine ‘infedele’, originariamente riservato a politeisti e pagani, nel mondo arabo comunemente è stato esteso anche agli altri monoteisti. La mancata conoscenza del concetto di laicità può essere anche una conseguenza dell’assenza, nella storia dei popoli arabi, di un movimento analogo all’Illuminismo, che in Occidente ha enfatizzato i diritti di libertà, affermando la necessità che essi si strutturino in maniera affrancata da schemi prestabiliti. L’Islam è una religione con un’indubbia matrice politica e ideologica, in quanto postula l’affermazione di un assetto sociale ispirato a un’impronta confessionale. L’assenza di un pluralismo religioso nel mondo arabo è anche una diretta conseguenza della più generale mancanza di libertà religiosa tipica dei regimi teocratici. In essi infatti la libertà religiosa può essere un pericoloso strumento di potenziale eversione; non c’è spazio per forme di legittimità democratica di tipo occidentale in quanto l’unica legittimità viene dal letterale rispetto della legge coranica. Quando la fede è vissuta come ideologia il proselitismo è surrogato dalla militanza, cioè dall’impegno collettivo dei fedeli per promuovere con ogni mezzo l’instaurazione di un ordine sociale nel quale le leggi civili sono progressivamente sostituite da un ordinamento plasmato sulla legge divina. Anche nei Paesi a maggioranza islamica che cercano di percorrere la via della democrazia e della laicità (come la Tunisia), il Corano rimane un riferimento irrinunciabile, in quanto in questi ordinamenti in maniera esplicita o implicita sono previsti meccanismi istituzionali che in concreto evitano che la vita civile si articoli in maniera contraddittoria o semplicemente autonoma dai principi dell’Islam. In questi ultimi anni secondo un’indagine svolta dall’istituto di ricerca Arab Barometer [1] nel mondo arabo si sta assistendo ad un aumento, ancora molto contenuto, di atteggiamenti di indifferentismo religioso, che si concreta in un cauto atteggiamento critico nei confronti dell’Islam e nella non condivisione di un’adesione esteriore di tipo legalistico. Secondo Arab Barometer la frangia di arabi che si dichiarano ‘non religiosi’ è ancora molto esigua, ma in ripresa. Dal 2013 al 2019 sarebbe passata dall’8% al 13%. Il dato è particolarmente significativo se si considera che si colloca in anni di ‘risveglio islamico’. In dettaglio l’incremento di questo atteggiamento che può preludere alla diffusione di una moderata laicità ma in crescita, si è registrato in Tunisia (dal 16% al 35%), in Libia (dall’11% al 25%), in Algeria (dall’ 8% al 13%), in Marocco (dal 4% al 12%), in Egitto (dal 3 al 12%). Il dato non specifica quale fede sia in diminuzione, ma, considerata l’esigua presenza di Cristiani o di fedeli di altre religioni in questi Paesi, si può fondatamente desumere che il dato si riferisca all’Islam. Gli studiosi non concordano nell’individuazione delle cause; peraltro le realtà politiche dei Paesi arabi in cui si è registrato questo dato differiscono molto fra di loro. Sembra che la deriva terroristica di matrice islamica sia estranea all’incremento del fenomeno, mentre assumerebbero particolare rilievo motivazioni personali che originano da crisi religiose individuali. Questi dati anche nelle motivazioni personali che li originano indubbiamente avvicinano il mondo arabo alle realtà occidentali. RR

 

[1] Arab Barometer è un network politicamente neutro che svolge ricerche e sondaggi per monitorare le variazioni politiche e sociali in Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente (i cosiddetti Paesi compresi nell’acronimo MENA – Middle East and North Africa – cioè Algeria, Arabia Saudita, Bahrain, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran, Iraq, Israele, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Marocco, Oman, Qatar, Siria, Cisgiordania, Tunisia, e Yemen). È il più grande archivio di dati pubblicamente disponibili sugli orientamenti dell’opinione pubblica nel mondo arabo. Il progetto è governato da un comitato direttivo che include accademici e ricercatori dei Paesi MENA e degli Stati Uniti.

 

ARTE E SOCIOLOGIA (13.10.2021)

Nell’ultima edizione da poco conclusa del Festival della Sociologia di Narni si è consolidata l’intima relazione fra Scienze Sociali e Arte. In proposito nel quadro degli eventi della manifestazione l’Arte Contemporanea è stata presente (e lo sarà fino al 15 ottobre) con un’esposizione di opere sul tema ‘Oltre i naufragi’, all’interno del complesso monumentale di San Domenico – Auditorium Bortolotti di Narni. Curatrice della mostra è l’esperta Mariacristina Angeli, che si è avvalsa della prestigiosa direzione artistica di Mauro Pulcinella e della preziosa e insostituibile collaborazione di Ugo Antinori. L’evento, magistralmente allestito, rende evidenti i legami fra Sociologia e Arte. L’Arte con la capacità di ridurre la complessità delle contingenze del presente alla sintesi unitaria ed ermetica di un pensiero complesso esibisce il suo tratto sociologico; in maniera simmetricamente analoga la Sociologia nell’intento di esplorare e di dare ordine logico e analitico alla realtà si avvale dell’astrazione sistematica che impiega l’Arte per attingere valori dalla coscienza collettiva comune. Nella mostra ‘Oltre i naufragi’ la difficile coesistenza fra le installazioni e i tradizionali ‘quadri’ (le installazioni adottano generalmente un linguaggio che emoziona in maniera coinvolgente, mentre il quadro ostenta un aristocratico distacco fisico dal fruitore) è felicemente risolta attraverso la creazione di atmosfere mediante ambienti nei quali confluiscono energie che descrivono suggestive esperienze esistenziali. In alcuni casi si celebra la solitudine della presenza di un’assenza; in altri il tentativo di dare ordine ad un flusso di fotogrammi nei quali si perde l’unicità degli istanti.  Lo sguardo ha anche la possibilità di indugiare sui tratti malinconici del dinamismo perverso e inconsistente di un paesaggio marino nel quale si consumano drammatici naufragi. C’è pure la memoria di anni felici di cui restano tracce attraverso forme geometricamente ridotte a un inquieto schema minimale; o l’allusione alla vitalità tragicamente pietrificata di una donna araba. C’è il lutto che affonda l’esistenza nel mistero del tempo, mentre appare la metafora teneramente drammatica di un cuore trafitto dalle api. Per citare solo alcuni momenti di un viaggio all’interno della mostra, unica nella sua suggestiva bellezza e tutta da scolpire nel cuore e nella memoria, che inizia e si perde nell’infinito. RR

 

LE VIOLENZE A ROMA E LA DEMOCRAZIA (11.10.2021)

I toni duri e aggressivi della manifestazione No Vax e No Green Pass a Roma nel pomeriggio di sabato scorso – che ha avuto un epilogo nel quale le tensioni fra manifestanti e forze di polizia sono degenerate in pericolose e non consentite derive incluso l’attacco alla sede della CGIL – sotto il profilo dell’ordine e della sicurezza pubblica sono segnali che vanno considerati con molta attenzione. Infatti nel nucleo dei contestatori No Vax, politicizzato in maniera fortemente polarizzata da elementi dell’estremismo di destra, sono confluite varie componenti del radicalismo violento di natura fascista e pericolose per la democrazia. La gestione di questa situazione da parte delle istituzioni competenti è molto delicata e impegnativa, perché la necessaria fermezza va coniugata con cautela e prudenza. Se si deve reagire con fermezza a qualsiasi aggressione o condotta che non rispetti le dinamiche del dialogo democratico come presupposto per esprimere il proprio pensiero, si deve altresì evitare che le provocazioni possano degenerare nelle premesse di uno scontro diffuso o, peggio, in atti di natura terroristica. RR

 

ANGELA MERKEL NON SARÀ PIÙ LA CANCELLIERA DOPO 16 ANNI (23.9.2021)

Le elezioni federali che si svolgono in Germania hanno sempre un’importanza che va oltre i confini nazionali soprattutto per l’influenza indiretta che esercitano sulle opzioni politiche ed economiche dell’Unione Europea. Quelle che si svolgeranno il 26 settembre prossimo per il rinnovo del Bundestag (il Parlamento federale tedesco) dovrebbe coincidere con il ritiro dalla vita politica di Angela Merkel dopo 16 anni dal suo primo mandato di cancelliere (precisamente dal 22 novembre 2005). Le vicende biografiche di Angela delineano un personaggio complesso, controverso, di non facile lettura. Per alcuni biografi dietro una prevalente matrice neoliberista si celerebbero tiepide suggestioni marxiste, retaggio dei suoi incarichi politici giovanili nella DDR. Con un ossimoro Angela Merkel è stata anche definita una socialdemocratica conservatrice, una progressista amante dell’austerità, una razionalista con mentalità scientifica – in relazione alla sua laurea in fisica e al dottorato in chimica – influenzata da un’educazione religiosa (il padre era un pastore protestante). Probabilmente queste ambiguità ideologiche hanno fondamento anche nella diversa sorte delle due Germanie. Infatti Angela Merkel (Kasner era il suo vero cognome, Merkel lo acquisì dal primo marito) nacque ad Amburgo, nella Germania Ovest; ma dopo la sua nascita i Kasner si stabilirono nella piccola cittadina di Templin, nella Germania Orientale: il padre, che, come già detto, era un pastore protestante soprannominato il ministro rosso per la decisione dell’insolito trasferimento (la madre invece era un’insegnante di inglese) riteneva che questo cambiamento di sede gli avrebbe consentito di ottenere incarichi di rilievo nella Chiesa Luterana, rimasta attiva anche nell’est dopo la divisione postbellica della Germania. Le buone relazioni con il Partito comunista consentirono alla sua famiglia qualche piccolo privilegio: i ‘Kasner’ avevano due auto, potevano recarsi senza difficoltà nell’ovest e ricevere soldi dai parenti rimasti ad Amburgo. L’attivismo politico di Angela ai tempi dell’università suscitò i sospetti del regime. Una sua biografa riferisce l’esistenza di un documento della Stasi – il Ministero per la Sicurezza della Repubblica Democratica Tedesca – dal quale si evince un interesse per quella brillante ragazza critica nei confronti dello Stato. Negli anni che precedettero la caduta del muro (1989) Angela Merkel fu a Berlino est, dove lavorava come chimico nell’Accademia delle Scienze. La riunificazione della Germania offrì a molti tedeschi orientali l’opportunità di ottenere posizioni di primo piano nelle istituzioni pubbliche. Angela poteva contare su spiccate qualità politiche e su significative esperienze pregresse, felicemente coniugate con il suo status di ‘rifugiata’ proveniente dall’est (così la definì la rivista Time, quando nel 2005 la nominò ‘personaggio dell’anno’). Nella Germania unita Angela Merkel fu presto nominata portavoce del movimento Risveglio Democratico, che dopo pochi mesi divenne un partito prevalentemente impegnato a sensibilizzare i cittadini tedeschi sull’importanza della riunificazione. Nel 1990 Angela Merkel fu eletta deputata in Parlamento come esponente del CDU (l’Unione Cristiano Democratica aveva infatti assorbito Risveglio Democratico). Helmut Kohl, primo cancelliere della Germania Unita, che la apprezzava molto, la nominò nel 1991 ministro per le Donne e i Giovani, e nel 1994 ministro dell’Ambiente e per la sicurezza dei reattori nucleari. Nel 1998, quando il governo fu sconfitto alle elezioni e il CDU fu colpito da uno scandalo finanziario che travolse lo stesso Kohl, Angela Merkel, nominata segretario generale del CDU, avvio una ricostruzione del partito, ponendo le premesse per l’estromissione, senza scrupoli, dei personaggi coinvolti, compreso il suo mentore (il cancelliere Kohl).I consensi manifestati dagli elettori furono la premessa della sua rapida ascesa politica che le consentì nel novembre 2005 l’attribuzione del Cancellierato, che si protrasse per quattro mandati consecutivi. La sconfitta elettorale del CDU nel 2018 unita alla crescita dei partiti antieuropeisti, di quelli populisti e di estrema destra indussero la cancelliera Merkel ad annunciare il suo ritiro al termine del mandato. Angela Merkel, essendo al vertice politico dello Stato che ha costantemente avuto il maggiore peso nelle opzioni strategiche dell’Unione Europea soprattutto in ambito economico, ha compiuto scelte che, pur non raramente giudicate dai Paesi europei in maniera difforme, sono sempre sembrate finalizzate all’interesse comune. Le si deve riconoscere il merito di aver tenuto unita e compatta l’Europa nonostante in questi ultimi anni siano cresciute le pressioni antieuropee esercitate da movimenti e da partiti mossi da egoistiche istanze nazionaliste di matrice populista. In piena crisi da Coronavirus, Angela Merkel ha avuto il coraggio di rimettere in discussione i dogmi soprattutto tedeschi in materia di aprioristico contenimento del debito comune, consentendo all’Europa di dotarsi di fondi (noti come Recovery Fund) per affrontare le congiunture negative di carattere socio-economico degli Stati Membri colpiti dalla pandemia. Ha insistito inoltre per una soluzione condivisa e negoziata degli effetti conseguenti alla Brexit nonostante le difficoltà della trattativa che in alcuni frangenti sembravano insormontabili. Nell’estate del 2015 Angela Merkel ha deciso di accogliere un elevato numero di rifugiati, prevalentemente siriani, provenienti dal Medio Oriente; il governo tedesco avviò un consistente programma di integrazione. Tale decisione cambiò l’approccio dell’Europa nella gestione del fenomeno migratorio. Queste specifiche prese di posizione dimostrano che Angela Merkel, senza farsi condizionare da ideologie o da idee preconcette, ha sempre avuto la sensibilità e l’intuito nell’individuare le battaglie nelle quali era necessario il massimo impegno per il raggiungimento di soluzioni concertate nell’interesse di tutti. RR 

 

UNIONE EUROPEA - VERSO UN ESERCITO COMUNE? (6.9.2021)

La politica di sicurezza e di difesa comune dovrebbe consentire all'Unione Europea di svolgere un ruolo significativo nelle operazioni di mantenimento della pace, nella prevenzione dei conflitti, nel rafforzamento della sicurezza globale. L’Unione nella gestione di crisi internazionali può attualmente contare solo su risorse civili e militari prestate dai Paesi Membri. I recenti eventi in Afghanistan correlati al repentino disimpegno militare statunitense impongono all’Europa una riconsiderazione delle sue possibilità concrete di affermarsi come attore geopolitico. L’Alto Rappresentante UE per la Politica Estera ha dichiarato che si sta valutando la possibilità di istituire una forza militare comune, in altri termini un esercito europeo. Le forze armate sono uno strumento utile nella prospettiva di dare seguito concreto a puntuali opzioni politiche. Pertanto un esercito comune non potrà aggiungere potenzialità ad un’Europa che persista nell’incapacità di esprimere una propria politica estera caratterizzata da linee strategiche comuni. RR

 

CONTRO LE MAFIE, PER UNA SOCIETÀ DELLA CORRESPONSABILITÀ (Menti in Fuga, 22.08.2021)

Il contrasto delle mafie, oltre all’impegno dei magistrati, delle Forze dell’Ordine, delle istituzioni politiche e amministrative, delle componenti sociali e dei cittadini sensibili alla convenienza della legalità, richiede la destinazione di risorse ad iniziative per la corretta formazione dei giovani. Solo con l’imprescindibile contributo dei giovani è possibile consolidare i presupposti su cui strutturare una società della corresponsabilità, nella quale la consapevolezza dell’importanza del proprio impegno possa sostituire l’indifferenza nei confronti delle derive mafiose. Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha recentemente affermato che la tirannide delle mafie si sconfigge anche smascherando l’ipocrisia di chi dovrebbe combatterle e scoraggiando le menzogne di chi continua a girarsi dall’altra parte. Una società della corresponsabilità è terreno fertile per un impegno etico determinato e costante, ed è antidoto contro reazioni effimere, fluttuanti ed emotive. RR

 

IL LENTO DECLINO DEL LIBANO (Menti in Fuga, 20.8.2021)

Nel mondo arabo circola questa storiella. Dio, quando creò il Libano, decise di dotarlo di bellissime montagne, di spiagge meravigliose, di fresche sorgenti di acqua, di terreni fertili, di abitanti operosi, intelligenti, creativi, attraenti. In concreto il Creatore voleva fare del ‘Paese dei cedri’ una specie di Eden. Poi, riflettendo, concluse che il Paradiso non poteva esistere in terra. E allora…diede al Libano i popoli confinanti. Uscendo dalla metafora, il Libano in passato, tra gli anni ’50 e ’60 – era un’isola felice: era al centro di importanti interessi finanziari e geopolitici, che prosperavano anche grazie ad un contesto multiculturale e multietnico di provata tolleranza. Poi è iniziato il coinvolgimento della realtà libanese nelle tensioni mediorientali alimentate dai Paesi vicini. Il Libano è diventato teatro di scontri, di violenze, di avventure belliche, che hanno determinato una grave instabilità politica correlata ad una fragilità strutturale. In particolare, a seguito di crescenti tensioni, nel 1975 scoppiò una grave guerra civile che durò fino al 1990, e si concluse con la vigenza delle poco precedenti intese di Taif (22 ottobre 1989). Il conflitto fu caratterizzato da numerosi contendenti e da alleanze molto fluide e variabili; fu alimentato anche da fattori esterni, ossia dall’intervento indiretto di altri Stati con propri specifici interessi (in particolare della Siria e di Israele), e precipitò il Paese in una drammatica crisi economica tuttora in atto. Nel contesto arabo il Libano è un Paese atipico. Ripercorrendo la sua storia dal mandato francese ad oggi, appare evidente come le sue vicende, sia quelle interne che quelle internazionali, siano strettamente correlate al suo composito impianto confessionale. Il Libano è governato da una ‘democrazia confessionale’, ovvero il suo assetto istituzionale risente dell’attitudine delle comunità religiose ad avere una definita e stabile rappresentatività a livello politico – istituzionale. Raggiunta l’indipendenza nel 1943, uno dei principali problemi fu infatti quello di rispettare un’equa ripartizione di poteri fra le principali comunità. Venne raggiunta un’intesa mai formalizzata fra cristiani-maroniti e islamici-sunniti: la comunità cristiana accettava la definizione del Libano come ‘Stato arabo’ (il Libano fa parte della Lega araba), mentre l’attribuzione di poteri politici fra le comunità sarebbe avvenuta tenendo conto degli esiti del censimento del 1932 svolto durante il mandato francese (e che contò solo i cittadini libanesi residenti in Libano, escludendo i libanesi emigrati e i residenti non libanesi). La predetta intesa, rivista e modificata nel 1989 dai già menzionati Accordi di Taif (che hanno anche istituito la parità parlamentare tra cristiani e musulmani), prevedeva che il Presidente della Repubblica sarebbe stato un maronita, il Primo Ministro un sunnita, il Presidente dell’Assemblea Nazionale uno sciita, il vice Presidente del Parlamento un greco ortodosso. Pressioni panarabe ostacolarono il rispetto di questo assetto: il Libano si colloca in un contesto, quello mediorientale, a forte prevalenza arabo-musulmana. Successivamente al 1932 non sono stati eseguiti altri censimenti ufficiali. Probabilmente da allora sono cambiati i rapporti numerici e quindi ‘di forza’ fra le varie confessioni religiose. In proposito un elemento destabilizzante è stato il considerevole afflusso di profughi palestinesi. Questa presenza ha determinato un aumento della consistenza della comunità musulmana, che pertanto cominciò a sentirsi ‘di fatto’ sottorappresentata; in maniera simmetricamente opposta la componente cristiano-maronita temeva di perdere l’ufficialità della sua prevalenza demografica. Nel 1992 si svolsero libere elezioni che ebbero come esito una forte affermazione degli Hezbollah, e quindi della fazione musulmana-sciita (questo esito fu confermato anche da successivi appuntamenti elettorali). Questa situazione politica creò i presupposti per forti tensioni e scontri, anche con il vicino Israele, che nel 2006 presero la forma di un vero e proprio conflitto (dal 12 luglio al 4 agosto 2006). Anche le vicende della Siria hanno causato pericolose ripercussioni interne. Un motivo di elevata instabilità del Libano è il peso istituzionale di Hezbollah, il movimento fondamentalista islamico di fede sciita, alleato dell’Iran e nemico giurato di Israele. Gli Hezbollah, pur strutturati come un partito politico, sono dotati di un’ala militare molto attiva, che ha spinto alcuni Stati occidentali e organizzazioni internazionali a considerare ‘terroristica’ la loro matrice. Hezbollah si costituì nel 1982 con il dichiarato obiettivo strategico di contrastare con ogni mezzo l’ingerenza israeliana; mediante solidi mezzi finanziari e valendosi di una collaudata base politica e militare, nei momenti di particolare difficoltà del Paese hanno avuto una brillante capacità di dare massima visibilità alla loro vocazione assistenzialistica, riuscendo così ad accreditarsi come unico concreto punto di riferimento per il popolo libanese nei momenti di crisi, continuando nello stesso tempo tuttavia ad essere la punta avanzata degli interessi dell’Iran in questa regione. Com’è noto il 4 agosto dello scorso anno Beirut è stata dilaniata da violentissime esplosioni, la cui micidiale onda d’urto ha distrutto il porto e buona parte della città. Nell’immediatezza del fatto è sembrato evidente che l’evento fosse imputabile a negligenze e incuria nella gestione di un deposito nel quale era stoccato materiale ad alto rischio (in particolare una quantità ingente di nitrato di ammonio, sostanza utilizzata prevalentemente per produrre fertilizzanti). Nello stesso tempo, nell’ipotesi di concause dolose, sono apparse subito improbabili rivendicazioni attendibili, considerata la indiscriminata gravità dell’atto. Qualora fosse stato un attentato, infatti, non ci si attendeva che qualcuno avesse il coraggio di rivendicarne la paternità. In termini simmetricamente opposti la realtà dell’attentato sarebbe stata difficilmente ammissibile da chi lo avesse subito: sarebbe stato un grave riconoscimento di vulnerabilità. La detonazione ha avuto una forza pari a un ventesimo di quella della bomba di Hiroshima, causando un terremoto di magnitudo superiore a 3. I morti furono più di duecento, mentre settemila furono i feriti. Dopo un anno non c’è ancora chiarezza; il procedere delle indagini è fortemente ostacolato. L’esplosione e gli episodi di malgoverno e malagiustizia che impediscono di individuare e punire i responsabili, sono una metafora della condizione confusa, di crisi economica e politica, ed in balìa degli eventi, in cui versa il Libano. La crisi socio-economica si declina in specifiche gravi emergenze – come l’attuale carenza di carburante che minaccia la fornitura di servizi sanitari e idrici essenziali – che espongono la popolazione al rischio di inaccettabili catastrofi umanitarie. Negli ultimi due anni il costo degli alimenti è aumentato del 700%, mentre gli stipendi sono bloccati ai valori di prima della crisi. Il sistema di condivisione pluralista dei poteri si è degradato, ed è ormai inesorabilmente controllato da signori della guerra, autocrati e militari. Un numero crescente di libanesi deve affrontare povertà, standard di vita sempre più bassi, una limitazione dei diritti personali. La partecipazione alla vita politica è solo virtuale, mentre chi ha poteri di governo consolida la sua posizione con metodi dispotici, rifiutando riforme e condannando il Paese ad un lento declino. Il 60% dei libanesi vive in condizioni di povertà (il Paese si avvicina così al 70% che è la media dei cittadini del mondo arabo che sono poveri o esposti alla povertà secondo i dati delle Nazioni Unite). Chi ha disponibilità economica e/o possiede un passaporto straniero (sono una esigua minoranza) abbandona il Paese. La situazione del Libano è grave anche sotto un altro punto di vista: è definitivamente archiviata la convinzione-illusione che il Libano, grazie al suo carattere multiculturale e multietnico, stesse individuando con successo una via araba alla democrazia mediante la costituzione di una ‘società del vivere insieme’, come felicemente definiva questa prospettiva l’intellettuale arabo Samir Frangieh. RR

 

LA TURCHIA DI IERI PER COMPRENDERE LA TURCHIA DI OGGI (8.8.2021)

La Turchia ha un’importanza centrale nei precari equilibri della regione mediorientale. Il suo ruolo non sempre chiaro è il corollario di un quesito di fondo: la Turchia conserva ancora qualche retaggio del suo passato laico o la scelta islamica, seguita all’ascesa di Erdogan, ha innescato un processo di islamizzazione irreversibile?  È un’appendice dell’Occidente in Asia o è la punta avanzata dell’Oriente in Europa?  È un pezzo di Medio Oriente in Occidente o un pezzo di Occidente in Medio Oriente? Probabilmente tutte queste opzioni hanno un fondo di verità in quanto questo Paese è il diretto erede dell’Impero Ottomano, che realizzò una sintesi fra la realtà balcanica europea e la civiltà anatolica.  Sul Bosforo c’è un ponte lungo più di un chilometro, che unisce non solo due parti distanti della città, ma due continenti, Asia ed Europa. Questo ponte è il simbolo di quella doppia anima che pone spesso la Turchia al centro di delicate questioni geopolitiche, che si ripercuotono sulle sue vicende nazionali.   La natura ambigua del Paese, oltre che attraverso la sua collocazione geografica, può essere compresa ripercorrendo la sua storia nel XX secolo, nel quale, attraverso colpi di Stato e rivolte, si sono alternate istanze di radicale laicizzazione, di cui i militari sono stati i maggiori garanti, a un periodico riemergere di un’anima conservatrice fondamentalista che promuoveva processi di islamizzazione.  Nel Novecento la storia turca si è articolata attraverso queste tappe fondamentali.  Nel 1923 Mustafà Kemal Ataturk, divenuto leader del Partito Popolare Repubblicano, dopo aver deposto il sultano Maometto IV fondò la Repubblica turca sulle ceneri dell’Impero Ottomano e ne divenne il primo presidente.  Kemal Ataturk è considerato il padre della Turchia moderna: avviò una capillare modernizzazione del Paese coniugando uno spiccato nazionalismo con una radicale laicizzazione.  Venne abolito il califfato, vennero chiuse le scuole coraniche e soppressi i tribunali religiosi, venne esteso il diritto di voto alle donne, furono introdotti codici e una legislazione di ispirazione europea, venne affiancato l’uso dei caratteri occidentali a quello dell’alfabeto arabo.  Ataturk morì nel 1938, ma il processo di avvicinamento culturale e politico all’Occidente continuò con i governi che seguirono.  Nel 1945 la Turchia divenne membro dell’ONU. Nel 1952 entrò a far parte della NATO e durante la guerra fredda fu un fedele alleato degli Stati Uniti. Tuttavia i governi laici che si alternarono dovettero più volte fronteggiare i movimenti islamisti che rivendicavano un ruolo maggiore nelle vicende del Paese.   Già allora affioravano quelle contraddizioni che sono particolarmente evidenti nella realtà turca attuale.  Nelle situazioni di maggiore conflittualità a tutela delle istanze laiche intervenne l’esercito. In particolare, per porre fine a un periodo di tumulti, nel 1980 il generale Evren prese il potere con un colpo di Stato, probabilmente con la complicità del governo USA che voleva contrastare lo sviluppo dei movimenti popolari di sinistra.  La dittatura militare durò due anni, nel corso dei quali venne modificata la Costituzione e nella sostanza ci si allontanò dallo spirito riformista kemalista.  Il generale Kenan Evren avviò un processo di «normalizzazione» della società turca, nella quale si realizzò una sintesi fra un nazionalismo acceso e il conservatorismo dei fondamentalisti nel quadro di un sistema ispirato a princìpi neoliberisti.  Ristabilito l’ordine e ribadito il carattere laico della Turchia, i militari, come già era avvenuto nel 1960 e nel 1970, rinunciarono al potere politico e nel giro di due anni riconsegnarono il Paese nelle mani dei civili.  Furono convocate libere elezioni democratiche.  Evren lasciò l’esercito e venne eletto dal Parlamento Presidente della Repubblica, rimanendo in carica fino al 1989.  Nel 2002 si impadronì del potere l’AKP, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, filomusulmano e conservatore, che si era potenziato nel quadro della tradizione dell’Islàm politico virando verso un modello di democrazia conservatrice.  Il suo leader e fondatore Recep Tayyip Erdogan divenne primo ministro: ebbe inizio un lungo periodo molto controverso che dura ancora oggi.   Come e a tutti noto, lo scopo della NATO fu la creazione, al termine della Seconda Guerra Mondiale, di un’alleanza militare a carattere difensivo, che venne istituita in relazione alle insorgenti tensioni fra il mondo occidentale e il fronte costituito dall’Unione Sovietica e i suoi Stati satelliti.  Con la caduta del muro di Berlino e la conseguente disgregazione del blocco sovietico è venuto meno l’antagonista per il quale era stata costituita l’Alleanza Atlantica.  Fino a quando la realtà politica mondiale si era retta sull’equilibrio USA-URSS, era in atto una sorta di bilanciamento tra le due potenze fondato su un ordine bipolare, caratterizzato da una situazione di permanente contrapposizione e di ostilità reciproche.  La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha rotto questo equilibrio, creando di fatto un’egemonia degli USA rimasti l’unica reale superpotenza. L’attuale contrapposizione fra il mondo islamico fondamentalista e l’Occidente di fatto ha sostituito il vuoto creato dal crollo dell’Unione Sovietica, dal momento che l’Islàm non è soltanto una religione, ma rappresenta anche una realtà geopolitica.  L’esistenza della NATO, che è nata nel contesto della contrapposizione USA-URSS, potrebbe trovare una rinnovata giustificazione della sua esistenza nell’àmbito del confronto fra Europa e radicalismo di matrice islamista.  In relazione a questo possibile nuovo ruolo della NATO, la presenza dello Stato turco all’interno del Patto Atlantico potrebbe assumere un peculiare diverso significato strategico. Mentre al momento dell’adesione al Patto, la posizione della Turchia era di provata vicinanza politica agli Stati occidentali, l’attuale processo interno di neo islamizzazione rende incerta la sua affidabilità.  Gli USA, per frenare la «proiezione» mediorientale di Ankara, hanno sempre ritenuto di vitale importanza mantenere salde le relazioni fra il Paese turco e l’Occidente; in proposito la NATO è lo strumento più adeguato a conseguire questo fine.  Dopo le tensioni che seguirono l’abbattimento di un velivolo sovietico avvenuto nel novembre 2015 ad opera di due F16 Turchi, la NATO, dopo essersi subito dichiarata dalla parte della Turchia, si è frettolosamente impegnata ad aumentare la capacità di difesa dello spazio aereo turco da potenziali minacce russe.  In Turchia, già prima del fallito golpe del luglio del 2016, si stava affermando in maniera inquietante una linea autoritaria che aveva determinato un preoccupante arretramento nella tutela dei diritti di libertà.  Con il pretesto di proteggere la sicurezza nazionale e negando di interferire con la libertà di stampa, furono sottoposti a misure restrittive della libertà personale numerosi giornalisti.  Questi eventi rendono fondato chiedersi se la Turchia si identifichi con la politica di Erdogan, che attraverso un processo a lungo termine sta trasformando l’identità geopolitica del Paese, o sia rimasta integra la sua l’aspirazione laica e filo-occidentale di origine kemalista.   La Turchia di Erdogan sembra avere l’ambizione di tornare a essere una grande potenza regionale, un’aggiornata versione del neo califfato, cercando di acquisire, in concorrenza con le monarchie saudite, un’incontrastata egemonia nell’area mediorientale e nell’àmbito dell’Islàm sunnita.  La pregressa disgregazione dell’Unione Sovietica consentirebbe inoltre il ripristino degli antichi collegamenti con i popoli di lingua turca dell’Asia centrale: conseguentemente la Turchia potrebbe coltivare l’ambizione di diventare punto ideale di riferimento geopolitico per uno spazio che va dalla Mongolia al Corno d’Africa.   Nel mese di marzo del 2016 è stato concluso un accordo fra la Turchia e l’Unione Europea al fine di fronteggiare la pressione migratoria diretta in Europa, che si era concentrata sulla Grecia dopo la chiusura della rotta balcanica.  L’accordo iniziale prevedeva che i migranti irregolari in viaggio dalla Turchia verso la Grecia fossero accolti dalla Turchia.  Per ogni profugo in possesso dei requisiti per richiedere asilo ospitato in Turchia, un altro, sempre in possesso dei requisiti per il diritto d’asilo, sarebbe stato destinato dalla Turchia all’Unione Europea fino a un massimo di 72.000 individui, con priorità per quei migranti che non avessero tentato di entrare nel territorio in modo irregolare.  I profughi destinati ai Paesi dell’Unione Europea successivamente sarebbero stati ridistribuiti in base a una ripartizione per quote.  In pratica l’Europa di fatto ‘delegava’ alla Turchia la gestione del problema ‘immigrazione’, compensandola con un finanziamento consistente ed altre agevolazioni.  Fin dall’inizio sono stati sollevati dubbi sulla tenuta dell’accordo: la scarsa esperienza del governo turco in materia di politiche di asilo e di flussi migratori alimentava qualche dubbio sui risultati a lungo termine dell’intesa.   L’accordo avrebbe dovuto avere quindi l’effetto di alleggerire la pressione dei profughi sulla Grecia, che avrebbe rimandato gli «irregolari» in Turchia in attesa dell’esito della loro richiesta di asilo.  Per l’Italia si sarebbero potute aprire prospettive non rassicuranti in quanto le difficoltà create dal filtro turco avrebbero potuto spingere parte dei migranti a privilegiare la rotta mediterranea.  L’accordo presentava il limite di essere definito in termini astratti, senza prevedere vincoli pratici di attuazione e garanzie di natura umanitaria.  Nel frattempo l’istanza turca di rilancio dei negoziati con Bruxelles per il suo ingresso «in Europa» già allora non sembrava avere particolari possibilità di successo, in quanto la svolta repressiva del dissenso interno e la scarsa tutela dei diritti di libertà dei cittadini non soddisfaceva i criteri per l’adesione.  L’accordo in materia di immigrazione, oltre a perplessità operative, ha suscitato fin dall’inizio molte critiche da un punto di vista etico: l’Unione europea, infatti, privilegiando la tutela delle proprie frontiere dietro il pagamento di un’ingente somma economica, si sgravava della gestione di tutte le problematiche - comprese quelle umanitarie - correlate alla questione dei profughi.  Con la cospicua somma promessa alla Turchia l’Europa avrebbe potuto affrontare in proprio l’emergenza con esiti meno incerti di quelli che prospettava l’affidamento al della questione governo di Ankara.   La sera del 15 luglio 2016 una parte dell’esercito turco tentò di impadronirsi del potere e di destituire il presidente Erdogan. Il colpo di Stato fallì dopo qualche ora di scontri e di incertezze.  Il presidente turco nell’immediatezza cercò di fuggire dal Paese con un aereo privato, e, mediante messaggi inviati via smarthphone all’emittente televisiva CNN Turkey, che li diramò, invitò la popolazione a scendere in piazza per manifestare pubblicamente il sostegno al governo.  Avendo acquisito la certezza del fallimento dell’insurrezione, Erdogan tornò a Istanbul.  Gli scontri proseguirono fino all’alba, soprattutto ad Ankara, nelle adiacenze del palazzo presidenziale.  Alla fine si registrò un bilancio particolarmente pesante: fra militari, poliziotti e civili più di 260 persone hanno perso la vita, mentre almeno 1.500 militari sono stati arrestati.  Dopo aver ripreso il controllo del Paese, Erdogan ha immediatamente dato inizio a una massiccia e capillare epurazione degli ufficiali golpisti.  Nei giorni successivi la destituzione dalle funzioni è stata estesa ad altri militari, a poliziotti, a giornalisti, a docenti e insegnanti, e a chiunque altro avesse manifestato in passato critiche o anche solo una tiepida opposizione nei confronti del regime.  L’iniziativa golpista ha avuto come reazione manifestazioni popolari a sostegno del leader turco, che ne hanno ulteriormente legittimato il suo potere.  Erdogan attribuì a Fetullah Gulen la responsabilità di aver organizzato l’insurrezione dalla sua dimora negli Stati Uniti, nella quale si era autoesiliato dopo alcuni attriti con Erdogan. L’imam turco Fetullah Gulen, che ha negato fermamente ogni addebito, è l’ideologo e il leader del movimento politico di ispirazione islamista ‘Hizmet’.  Nei mesi precedenti il tentato golpe era cresciuta l’opposizione interna: Erdogan per mantenere il controllo dello Stato era ricorso all’adozione di misure che, motivate da esigenze di sicurezza, avevano inciso negativamente in maniera consistente sulla vita democratica.  È legittimo chiedersi se questi moti insurrezionali furono un reale tentato ‘golpe’ o il pretesto per una svolta autoritaria.   La Turchia resta destinataria di un duplice attacco, sia da parte del PKK, sia da parte del radicalismo jihadista nonostante le sue spregiudicate relazioni con l’ISIS.  Da un punto di vista internazionale il Paese è in una situazione di isolamento. Non ha alleati nel mondo arabo, essendo espressione di un islamismo dai tratti ambigui e palesemente animato solo da una volontà egemonica, quella di prevalere sugli altri Stati musulmani.  Il regime turco sta cercando di uscire da questa condizione di isolamento attraverso alcuni tentativi di normalizzazione dei rapporti bilaterali con alcuni Stati; sembra anche avviato un timido e prudente processo di pacificazione con Israele.  Sono incerti e fluttuanti i contatti con l’Unione Europea, motivati solo dalla convenienza reciproca, come è provato dall’accordo sui migranti.  L’ipotesi di una possibile adesione al consesso europeo sembra definitivamente tramontata, in quanto la nazione turca non soddisfa gli standard richiesti per l’ammissione.  Il PKK, che da più di tre decenni combatte con ogni mezzo per l’autonomia curda, anche in assenza di specifiche rivendicazioni viene individuato come il primo responsabile di qualsiasi fatto criminoso eversivo.  La Turchia al suo interno è profondamente divisa: c’è una borghesia urbana – costituita dalle classi benestanti e dagli studenti impegnati politicamente – che, seppur non omogenea, è unita nel contrapporsi ai conservatori islamici che sostengono il presidente Erdogan, sempre più autoritario e repressivo nei confronti della libertà di opinione.  Le sorti future del Paese dipendono sempre più da quale delle due anime a lungo termine prevarrà sull’altra.    RR 

 

RIFLESSIONI SU ISLAM POLITICO E CRISTIANESIMO (27.7.2021)

Con il termine Islam politico si evidenzia l’attitudine della religione islamica ad estendere l’applicazione dei propri principi alla vita sociale e politica oltre a guidare l’esistenza individuale e personale dei singoli fedeli. In relazione alle frizioni fra l’Islam politico e l’Occidente può essere utile ricordare alcuni punti di contatto e di distanza fra la religione musulmana e quella cristiana. Deve essere premesso che nell’Islam convivono tante confessioni che assumono posizioni divergenti fra di loro, a partire dalla principale ripartizione fra Sciiti e Sunniti. I Sunniti sono il 90/80 % circa dei musulmani mentre il rimanente 10/20 % è di professione sciita e si trova prevalentemente in Iran. Nell’Islam, soprattutto di professione sciita, manca inoltre un’autorità capace di esprimere una posizione ufficiale su ogni specifica questione.

In proposito l’imam, pur avendo una leadership spirituale, non è un chierico, né è destinatario di una designazione ufficiale, ma acquisisce questo titolo per attribuzione da parte della comunità o per auto-proclamazione. Più in dettaglio l’imam è un musulmano che, essendo particolarmente esperto nelle prescrizioni formali relative alle preghiere collettive, si pone davanti ai fedeli guidando l’orazione. Nell’Islam sciita il titolo di imam ha un significato religioso e politico di maggior rilievo: gli imam sono considerati i successori legittimi di Maometto, sono ispirati da Dio e hanno l’autorità e la conoscenza per fornire commenti e interpretazioni del Corano.

Islam e Cristianesimo spesso vengono messi sullo stesso piano come se si trattasse di due religioni che, pur nelle evidenti differenze, possano essere ritenute caratterizzate da un’omogeneità di fondo. Diversamente, l’Islam, oltre ad essere una religione, ha anche i tratti dell’ideologia in quanto la sua espansione postula l’instaurazione di istituzioni ispirate ad un’etica confessionale. In particolare all’affermazione dell’Islam spesso seguono esiti politici; un chiaro esempio di questo è la rivoluzione khomeinista in Iran nel 1978–1979, che portò all’instaurazione di un regime teocratico. La militanza islamica si è non raramente concretizzata nella partecipazione collettiva ad iniziative per promuovere con ogni mezzo un ordine sociale nel quale le leggi civili fossero sostituite da un ordinamento plasmato sulla legge divina. Le frange fondamentaliste e radicali non hanno abbandonato questo approccio. Le azioni terroristiche di matrice islamista possono essere ritenute una degenerazione di questo atteggiamento: il ricorso alla violenza e alla minaccia può essere infatti considerato una scorciatoia per l’avvento di una società ispirata ai precetti del Corano. L’adesione al Cristianesimo e le relative attività di proselitismo invece rimangono generalmente confinate nella sfera individuale. Anche la Fede cristiana richiede ai fedeli iniziative per estendere la condivisione del proprio modello di vita e dei principi su cui si fonda, ma queste iniziative tuttavia si esauriscono nell’ambito di un rapporto personale.

Nell’Islam, poiché si attribuisce valore legale ad una sola religione, la laicità – che ha come corollario la possibilità di praticare di altri culti - è reputata una forma perseguibile di ateismo. Dal difetto di laicità, di cui è corollario l’assenza di chiari confini fra religione e politica, deriva come conseguenza l’instaurazione, nel mondo islamico, di regimi governativi di impronta teocratica. Anche nei Paesi arabi che hanno cercato di percorrere la via della democrazia e della laicità (come ad esempio la Tunisia), il Corano rimane sempre uno strumento di riferimento irrinunciabile: nei loro ordinamenti in maniera esplicita o implicita sono previsti meccanismi giuridici e istituzionali che in concreto evitano che la vita civile si articoli in maniera contraddittoria o semplicemente autonoma rispetto ai contenuti della dottrina islamica.

Il 4 febbraio 2019 Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmed Al-Tayeb, hanno firmato ad Abu Dhabi una dichiarazione comune che costituisce un’importante storica tappa nel dialogo tra cristiani e musulmani. Il documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune richiama l’attenzione sulla necessità di promuovere una cultura del dialogo, della reciproca conoscenza, della collaborazione comune per porre fine a qualsiasi forma di violenza di matrice confessionale e a derive belliche e terroristiche. Le religioni non devono sollecitare sentimenti di odio, di ostilità, di estremismo, né invitare alla violenza.  La dichiarazione qualifica la libertà di religione come diritto di ogni persona, condannando qualsiasi costrizione e discriminazione. Si percepisce la necessità che la tolleranza verso le altre fedi prevalga su qualsiasi impulso contrario. La tolleranza non è passiva sopportazione ma riconoscimento della pari dignità dell’altro.

Gesù è una figura importante anche nel mondo islamico. Naturalmente non gli si attribuisce la centralità che ha nel Cristianesimo; tuttavia i musulmani credono che Gesù – Isa in arabo – sia stato un grande profeta. Fra Cristiani e Musulmani c’è un pieno accordo anche sulla venerazione della Vergine Maria, che è ritenuta nel Corano una donna eccezionalmente pura e santa, madre del grande profeta Gesù.  I musulmani naturalmente rifiutano la divinità di Cristo e quindi non ammettono la maternità soprannaturale di Maria. Alcuni fedeli cristiani affermano che in Egitto, a El-Zeitoun, alla periferia del Cairo, la Madonna sarebbe apparsa sul tetto di una chiesa copta. Il luogo attualmente è visitato anche da migliaia di musulmani. Più in generale milioni di Islamici anche dall’Iran si recano in pellegrinaggio presso santuari mariani come Fatima in Portogallo, Harissa in Libano, e in altri luoghi di culto in Siria oltre che in Egitto. Ai pellegrinaggi islamici partecipano generalmente donne musulmane che chiedono grazie. In Libano nel 2010 la solennità mariana dell’Annunciazione del Signore è stata proclamata festa nazionale. L’iniziativa è stata adottata dal Governo nella convinzione che una celebrazione comune potesse accrescere l’intesa tra cristiani e musulmani.

In estrema sintesi il Cristianesimo sembra maggiormente impermeabile alle influenze politiche.  In proposito Benedetto XVI nella sua esortazione apostolica per il Medio Oriente ha affermato che “la sana laicità…significa liberare la religione dal peso della politica e arricchire la politica con gli apporti della religione, mantenendo la necessaria distanza, la chiara distinzione e l’indispensabile collaborazione tra le due. Nessuna società può svilupparsi in maniera sana senza affermare il reciproco rispetto tra politica e religione, evitando la tentazione costante della commistione o dell’opposizione". RR

 

GERUSALEMME: EBREI, PALESTINESI e L'ASSENZA DELLA POLITICA INTERNAZIONALE (7.7.2021) 

Gerusalemme continua ad occupare una posizione centrale nel conflitto fra Israele e Palestina. Peraltro la città è considerata come capitale dei propri territori sia dagli Ebrei che dai Palestinesi. Gli Ebrei argomentano le loro pretese ricordando che Gerusalemme, oltre ad essere stata la più importante città dell’antico Regno di Giuda, era la sede del Tempio Santo, uno dei luoghi maggiormente sacri per l’Ebraismo. I Palestinesi rivendicano invece di aver abitato Gerusalemme in maniera esclusiva per secoli. Oggetto di controversie è soprattutto la parte orientale della città, nella quale sono ubicati il Muro del Pianto, la Moschea di Al-Aqsa, la Basilica del Santo Sepolcro, ovvero alcuni fra i principali luoghi di culto delle tre religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo, Islam). Prendendo atto del carattere irrisolto delle controversie su questa città ‘santa’, le organizzazioni internazionali e la maggior parte dei Paesi occidentali hanno aperto le proprie rappresentanze diplomatiche a Tel Aviv, considerandola effettiva capitale di Israele. Nemmeno con gli accordi di Oslo del 1993 – che hanno istituito un’Autorità palestinese con il compito di governare con una limitata autonomia alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza – è stata raggiunta un’intesa sullo status di Gerusalemme. Nel mese di maggio di quest’anno Gerusalemme è stata afflitta da gravi disordini che si sono successivamente estesi in altre zone sensibili del Paese. L’opinione pubblica filogovernativa ha cercato di minimizzare gli scontri, accreditando, come motivazione dei contrasti, dispute di carattere meramente immobiliare. Le ostilità sono infatti seguite a provvedimenti giudiziari di sfratto di cui sono stati destinatari nuclei familiari palestinesi che, fuggiti o cacciati dalle loro case di Gerusalemme Ovest, si erano trasferiti a Gerusalemme Est (in particolare nel quartiere di Sheikh Jarrah), cioè nella parte della città passata sotto il controllo giordano alla conclusione del conflitto arabo-israeliano nel 1949; infatti con il relativo armistizio si stabilì che ad Israele sarebbe spettata la parte ovest di Gerusalemme (con conseguente diaspora dei Palestinesi), mentre la Giordania – che durante la guerra aveva occupato parte di Gerusalemme e dell’odierna Cisgiordania – avrebbe assunto il controllo della parte est della città, nella quale conseguentemente affluirono molti profughi palestinesi ai quali le autorità giordane occupanti assegnarono gli immobili abbandonati dagli Ebrei migrati a Gerusalemme Ovest, cioè nella zona sotto il controllo israeliano. La situazione cambiò nel 1967 alla fine della Guerra dei sei giorni: Israele estese la sua sovranità anche su Gerusalemme Est e considerò quindi illegittimi i provvedimenti adottati dalle autorità giordane durante la loro occupazione, tra i quali le assegnazioni di abitazioni ai palestinesi. Pertanto, dopo più di 160 anni di pacifico possesso, le case assegnate e abitate dai Palestinesi a Gerusalemme Est sono state reclamate in sede giudiziaria da israeliani che hanno affermato di esserne i proprietari prima dell’occupazione giordana del 1948. La questione va oltre la disputa legale ed assume contenuti discriminatori in quanto lo stesso analogo diritto non viene riconosciuto ai Palestinesi che a seguito della guerra del 1948 hanno abbandonato immobili a Gerusalemme Ovest, assegnati successivamente a famiglie israeliane. La repressione della polizia israeliana nei confronti delle turbative del maggio scorso - in particolare di quelle sulla Spianata delle Moschee – è stata di eccezionale durezza. Anche se il conflitto si è poi esteso in altre aree del Paese il problema principale è quello di definire lo status di Gerusalemme: a chi appartiene la città? Di chi sono le abitazioni? Le possibili diverse risposte a queste domande evidenziano che Gerusalemme è una città che può essere narrata in maniera completamente diversa in relazione a differenti orientamenti politici e religiosi. Gerusalemme ha quasi un milione di abitanti di cui trecentomila palestinesi che non sono semplici immigrati ma sono nati in quella terra. La loro protesta è correlata al convincimento di non poter vivere la loro città. In sintesi, alle pretese dei coloni ebrei che rivendicano la proprietà di case risalente a prima della costituzione dello Stato di Israele si oppongono i Palestinesi che affermano che i loro diritti sulle abitazioni abbandonate si fondano su legittimi provvedimenti di assegnazione. Il contenzioso si è radicalizzato su posizioni ideologiche e confessionali di difficile composizione. Non è corretto ritenere che gli scontri siano il corollario di un conflitto frontale fra le due etnie, quella ebrea e quella arabo-palestinese, in quanto molti ebrei condannano e si dissociano dalla politica israeliana di occupazione coloniale. Questa recrudescenza di violenze e di ostilità si colloca in un momento in cui la rilevanza della questione palestinese non è più al centro degli equilibri geopolitici mondiali. I Paesi arabi in generale – e alcune monarchie del Golfo in particolare – cercano di prendere le distanze dalla questione palestinese, sulla quale rispetto al passato si esprimono in termini estremamente cauti per non compromettere le aspirazioni ad una moderata normalizzazione dei rapporti con Israele. La punta avanzata di questo atteggiamento sono gli Accordi di Abramo, una dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Stati Uniti, raggiunta il 13 agosto 2020, che ha prospettato una prima cauta normalizzazione delle relazioni fra Israele e i menzionati Paesi arabi. Queste novità si collocano in un momento in cui la destra israeliana sta attraversando un momento di crisi, causato principalmente dal venir meno del precedente deciso sostegno americano, non confermato dalla nuova presidenza statunitense. Attualmente nessuna compagine politica dispone di una base elettorale sufficientemente solida per poter governare con un apprezzabile consenso. Purtroppo permane l’incapacità di individuare valide soluzioni condivise della questione palestinese. Anche la leadership palestinese sta evidenziando gravi criticità. La sua credibilità come interlocutore politico è compromessa dalle note e condizionanti divisioni interne e dall’incapacità di gestire il braccio armato ‘Hamas’. Sembra definitivamente tramontata la prospettiva dell’istituzione di due Stati liberi e indipendenti, di cui uno palestinese. Né Ebrei né Palestinesi ci credono. Anzi questa ipotesi sembra essere divenuta solo un alibi per non esplorare altre vie o altri possibili compromessi. La difficoltà a trovare soluzioni alle criticità di Gerusalemme probabilmente risente degli esiti della Guerra dei sei giorni’: la vittoria militare di Israele in questo conflitto fu acutamente definita ‘maledetta’ in un saggio del 2017 dello scrittore e giornalista israeliano Aharon Bregman. Nell’occasione, com’è noto, Israele occupò la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza (fino a quel momento territori egiziani), la Cisgiordania e Gerusalemme Est (appartenenti alla Giordania), e le ‘siriane’ alture del Golan. Ne seguirono le gravi turbolenze relative alla gestione della condizione giuridica dei territori occupati, correlate alla riluttanza del governo israeliano a restituire i territori conquistati e causate dalla politica di insediamento coloniale. Come ha precisato Bregman, gli esiti della Guerra dei sei giorni furono un punto di svolta nella percezione della questione palestinese: gli israeliani da vittime accerchiate da minacciose potenze arabe si rivelarono potenti occupanti. L’istintiva simpatia del mondo occidentale cessò di essere unilateralmente dalla parte degli israeliani, bersaglio della criminale e folle violenza nazista, e di un ricorrente antisemitismo, e cominciò a spostarsi verso le nuove vittime, cioè i palestinesi penalizzati da una iniqua politica di occupazione militare. Questo è l’amaro presupposto della drammatica e complessa situazione attuale. L’emergenza terroristica di matrice jihadista di questi ultimi anni ha fatto però perdere alla questione palestinese la sua centralità nella geopolitica mondiale. A questo si aggiunge un nuovo atteggiamento di molti stati arabi che, pur rimanendo ideologicamente contrapposti all’Occidente, sono sempre più interessati ad essere protagonisti dell’economia globale. Conseguentemente molti Stati arabi tendono a considerare i problematici precari equilibri mediorientali questioni interne di Israele, evitando così che le vicende palestinesi possano interferire con le loro caute ‘aperture’ verso Israele e verso il mondo occidentale. In questa prospettiva possono essere considerati gli Accordi di Abramo, che, a seguito dell’intesa raggiunta il 13 agosto 2020, si sono conclusi con una dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Stati Uniti, che ha prospettato una prima e moderata normalizzazione delle relazioni fra Israele e i menzionati Paesi arabi. Le violenze del maggio scorso potrebbero quindi essere anche un inconsapevole disperato tentativo di porre il Medioriente di nuovo al centro dell’attenzione mondiale, al fine di ripristinare le condizioni per uno sforzo dei maggiori protagonisti degli equilibri internazionali per la ricerca di compromessi che siano la premessa di un futuro di pace. In proposito Gerusalemme potrebbe assumere la natura neutra di luogo franco nel quale ebrei, arabi e cristiani possano avere pari diritti in una condizione di reciproca tolleranza e di reciproco riconoscimento. RR

 

L’ORIGINE DEGLI ATTUALI SCONTRI FRA PALESTINESI ED ISRAELIANI (27.5.2021)

Gerusalemme è al centro del conflitto fra Israele e Palestina in quanto la città per ragioni diverse è considerata come capitale del proprio Stato sia dai palestinesi sia dagli israeliani[i]. Nemmeno gli accordi di Oslo del1993[ii] contengono un’intesa sullo status di Gerusalemme. Le cause dei gravi scontri che dal mese di maggio dalla città santa si sono progressivamente estesi in molte zone sensibili del Paese tendono ad essere minimizzate dall’opinione pubblica filogovernativa, che cerca di ricondurre i contrasti a dispute di carattere meramente immobiliare. Le turbative infatti sono seguite ai provvedimenti giudiziari di sfratto di cui sono stati destinatari i nuclei familiari palestinesi che, fuggiti o cacciati dalle loro case a Gerusalemme Ovest, si erano trasferiti a Gerusalemme Est (in particolare nel quartiere di Sheikh Jarrah), passata sotto il controllo giordano a seguito del conflitto del 1948[iii]. Le autorità giordane di Gerusalemme Est infatti assegnarono a questi profughi palestinesi, che quindi ne entrarono legittimamente in possesso, gli immobili abbandonati dagli israeliani che erano invece migrati a Gerusalemme Ovest, cioè nella zona ‘israeliana’. Dopo più di 160 anni di pacifico possesso, queste abitazioni sono state rivendicate in sede giudiziale da israeliani che affermano di essere stati i legittimi proprietari prima dell’occupazione giordana del 1948. Israele infatti, avendo a seguito della guerra dei sei giorni del 1967 esteso la sua sovranità anche su Gerusalemme Est, non riconosce i precedenti provvedimenti delle autorità giordane di assegnazione degli immobili ai palestinesi, alimentando così le rivendicazioni degli israeliani precedenti proprietari. La questione va oltre la disputa legale in quanto lo stesso diritto non viene riconosciuto ai Palestinesi che a seguito della guerra del 1948 hanno abbandonato immobili a Gerusalemme ovest assegnati successivamente a famiglie israeliane. Questa disputa quindi manifesta un atteggiamento discriminatorio, ed è considerata dai Palestinesi un’intollerabile provocazione. RR

 

[i] Gli Ebrei ritengono che Gerusalemme debba essere la capitale di Israele perché oltre ad essere la più importante città dell’antico Regno di Giuda era sede del Tempio Santo, il luogo più sacro per l’Ebraismo. I Palestinesi rivendicano invece di aver abitato Gerusalemme in maniera esclusiva per secoli. Oggetto di controversie è in particolare la parte orientale di Gerusalemme - unilateralmente annessa da Israele nel 1967 dopo la guerra dei sei giorni - nella quale sono ubicati alcuni dei luoghi considerati santi dalle tre religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo, Islam), quali il Muro del Pianto, la moschea al-Aqsa, la basilica del Santo Sepolcro. Prendendo atto della natura irrisolta del contrasto, le organizzazioni internazionali e la maggior parte dei Paesi Membri dell’Onu hanno aperto le loro rappresentanze diplomatiche a Tel Aviv, ritenendo questa città la reale capitale di Israele. Ironia della sorte uno dei significati della parola Gerusalemme è città della pace.

 

[ii] Con gli accordi di Oslo è stata istituita un'Autorità palestinese con il compito di governare con una limitata autonomia alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza; e stato inoltre riconosciuto l'OLP come partner di Israele nei negoziati sulle questioni in sospeso. Gli accordi di Oslo non hanno creato uno Stato palestinese.

 

[iii] L’armistizio con il quale nel 1949 si concluse la prima guerra arabo-israeliana stabilì che ad Israele spettasse la parte ovest di Gerusalemme, mentre la Giordania, che durante la guerra aveva occupato parte di Gerusalemme e dell’odierna Cisgiordania, mantenesse il controllo della parte est della città, quella palestinese, tuttora è abitata in prevalenza da arabi. La situazione è cambiata nel 1967, al termine della ‘Guerra dei sei giorni’: Israele conquistò diversi territori fra cui Gerusalemme est, di cui tutt’oggi mantiene il controllo militare assieme ad un’ampia zona di quartieri limitrofi.

 

 

 

GLI SCONTRI DI GERUSALEMME (13-5-2021)

I gravi fatti di Gerusalemme purtroppo non erano imprevedibili, ma questo non significa che ci si debba rassegnare all’impossibilità di un futuro di pace per la capitale della spiritualità monoteista. La repressione della polizia israeliana nei confronti delle rivendicazioni palestinesi, in particolare sulla Spianata delle Moschee, è stata di eccezionale e inaccettabile durezza. Anche se gli scontri attuali riguardano pure altre aree del Paese il problema centrale è Gerusalemme: di chi è la città? Di chi sono le case, si chiede la brillante giornalista–analista Paola Caridi, esperta di Medioriente? Gerusalemme è una città che può essere narrata in maniera completamente diversa. Ha un milione di abitanti di cui 300.000 palestinesi, che non sono semplici immigrati ma sono nati in quella terra. La loro protesta è correlata all’impossibilità di vivere la loro città. D’altra parte i coloni ebrei rivendicano la proprietà di case risalente a prima della costituzione dello Stato di Israele. Ma i Palestinesi, come profughi, erano stati legittimi assegnatari di quelle case. Si comprende come la questione originariamente non era solo politica.  Ora il contenzioso si è radicalizzato su posizioni ideologiche e confessionali di difficile composizione. È anche sbagliato considerare questo uno scontro un conflitto fra ebrei e palestinesi, perché molti ebrei condannano e si dissociano dalla politica ‘dei coloni’.  La recrudescenza di questi scontri si colloca anche in un momento di crisi di rilevanza della questione palestinese, non più al centro degli equilibri geopolitici mondiali. I Paesi arabi in generale, alcune monarchie del Golfo in particolare, cercano di prendere le distanze dalla questione palestinese, sulla quale rispetto al passato si esprimono in termini estremamente cauti, ed esplorano le possibilità di una normalizzazione dei rapporti con Israele. Gli accordi di Abramo sono la punta avanzata di questa istanza. La destra israeliana in questo momento è estremamente debole, non potendo più contare su un deciso sostegno americano; non ha una base elettorale sufficientemente solida per governare ed è incapace di considerare soluzioni alternative alla vessazione ed alla repressione dei palestinesi. Anche la leadership palestinese ha le sue gravi colpe. Con le sue divisioni ha dimostrato l’incapacità di gestire il braccio armato ‘Hamas’ e di accreditarsi come credibile e forte interlocutore politico, concentrandosi esclusivamente nella lotta ad Israele con tutti i mezzi. Ormai nessuna delle due parti crede nella possibilità di due Stati liberi e indipendenti, di cui uno palestinese. Anzi questa prospettiva sembra essere un alibi per non esplorare altre vie. Ritorna l’attualità del saggio (2017) di Aharon Bregman, scrittore e giornalista israeliano, nel quale la brillante vittoria militare di Israele nella decisiva ‘Guerra dei Sei Giorni’ del 1967 venne acutamente definita ‘maledetta’. A seguito degli esiti del conflitto Israele, com’è noto, occupò la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza, fino a quel momento territori egiziani, la Cisgiordania e Gerusalemme Est appartenenti alla Giordania, le ‘siriane’ alture del Golan. Ne seguirono le gravi turbolenze relative alla gestione e alla condizione giuridica dei territori occupati, e quelle causate dalla riluttanza di Israele alla restituzione dei territori conquistati e dalla politica di insediamento coloniale. Come precisa Bregman, gli esiti della Guerra dei Sei Giorni furono un punto di svolta nella percezione della principale questione mediorientale: gli israeliani da vittime accerchiate da minacciose potenze arabe si mostrarono potenti occupanti. Conseguentemente quei drammatici eventi rivelarono che Israele era un ‘Golia’ piuttosto più che un piccolo ‘Davide’: la diffusa istintiva simpatia di parte del mondo occidentale cessò di essere saldamente dalla parte degli israeliani, vittime dell’olocausto nazista e di uno strisciante e mai sopito ricorrente antisemitismo, e cominciò a spostarsi verso le nuove vittime, ovvero gli arabi, principalmente i palestinesi, che avevano subito l’occupazione militare. Per questo il trionfo del 1967 finì per trasformarsi per Israele in una ‘vittoria maledetta’. La storia successiva è la sequenza di tante opportunità per risolvere questo drammatico conflitto, sprecate a causa della rigidità dei governi israeliani e a causa delle divisioni fra i palestinesi, guidati da una leadership politica litigiosa e poco lungimirante. Tutto questo ha portato alla situazione attuale. Sullo sfondo, come già detto, la questione israelo-palestinese ha perso la sua centralità nella geopolitica internazionale. Forse dietro questa recrudescenza c’è un inconsapevole disperato tentativo di porre il Medioriente di nuovo al centro dell’attenzione mondiale.  RR

 

LAICITA’ E INDIFFERENTISMO RELIGIOSO NEL MONDO ARABO (27.4.2021)

Una delle più importanti conquiste delle democrazie moderne è la laicità dello Stato. Come diretto corollario, le iniziative finalizzate al proselitismo spirituale – e quindi anche quelle strumentali all’avvicinamento e alla conversione ad una fede religiosa – sono confinate nella sfera delle relazioni private, spesso individuali, e sono estranee ad attività riconducibili a pubblici poteri. Nel decreto del Concilio Vaticano II ‘Apostolicam Actuositatem’ (sull’apostolato dei laici), la Chiesa Cattolica, consapevole della secolarizzazione in atto e di un diffuso anticlericalismo che ostacolava l’accesso dei religiosi in molti contesti della società civile, invitava i laici a diffondere anche con l’esempio il messaggio cristiano negli ambiti nei quali si svolgeva la loro ordinaria attività (in questo modo si sarebbe realizzata la cosiddetta vocazione alla Santità dei laici). Peraltro fra i doveri dei cristiani che derivano dal battesimo, c’è la partecipazione alla missione della Chiesa. Il concetto di laicità è estraneo alla cultura islamica ed è spesso confuso con la nozione di ateismo. Negli Stati Islamici si attribuisce un particolare rilievo solo all’esistenza di una sola religione, l’Islam: non essere musulmano equivale a non essere un credente. Non è ammessa una terza possibilità, ovvero essere fedele di un altro credo religioso. Per questo motivo il termine ‘infedele’, originariamente riservato a politeisti e pagani, nell’uso comune nel mondo arabo è stato esteso anche agli altri monoteisti. La mancata conoscenza del concetto di laicità può essere anche una conseguenza della mancanza, nella storia dei popoli arabi, di un movimento analogo all'Illuminismo, che in Occidente ha enfatizzato i diritti di libertà, affermando la necessità che essi si strutturino in maniera affrancata da schemi prestabiliti. L’Islam è una religione con un’indubbia matrice fortemente politica e ideologica, in quanto postula l’affermazione di un assetto sociale ispirato a un’etica confessionale. L’assenza di un pluralismo religioso nel mondo arabo è anche una diretta conseguenza della più generale mancanza di libertà religiosa tipica dei regimi teocratici. In essi la libertà religiosa può essere un pericoloso strumento di potenziale eversione; non c’è spazio per forme di legittimità democratica di tipo occidentale in quanto l’unica legittimità viene dal letterale rispetto della legge coranica. Quando la fede è vissuta come ideologia il proselitismo è surrogato dalla militanza, cioè dall’impegno collettivo dei fedeli per promuovere con ogni mezzo l’instaurazione di un ordine sociale nel quale le leggi civili sono progressivamente sostituite da un ordinamento plasmato sulla legge divina. Anche nei Paesi a maggioranza islamica che cercano di percorrere la via della democrazia e della laicità (come la Tunisia), il Corano rimane un riferimento irrinunciabile, in quanto in questi ordinamenti in maniera esplicita o implicita sono previsti meccanismi istituzionali che in concreto evitano che la vita civile si articoli in maniera contraddittoria o semplicemente autonoma dai principi dell’Islam. In questi ultimi anni, secondo un’indagine svolta dall’istituto di ricerca Arab Barometer, si assiste nel mondo arabo ad un aumento, ancora molto contenuto, di atteggiamenti di indifferentismo religioso: molti i giovani, probabilmente spinti da un desiderio di autenticità, manifestano un limitato orientamento di critica al complesso oggettivo e formale della dottrina religiosa, e di rifiuto di un’adesione esteriore di tipo legalistico. Arab Barometer è un network politicamente neutro che svolge ricerche e sondaggi per monitorare le variazioni politiche e sociali in Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente (i cosiddetti Paesi compresi nell’acronimo MENA – Middle East and North Africa - cioè Algeria, Arabia Saudita, Bahrain, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran, Iraq, Israele, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Marocco, Oman, Qatar, Siria, Cisgiordania, Tunisia, e Yemen). È il più grande archivio di dati pubblicamente disponibili sugli orientamenti dell’opinione pubblica nel mondo arabo. Il progetto è governato da un comitato direttivo che include accademici e ricercatori dei Paesi MENA e degli Stati Uniti. Secondo Arab Barometer la frangia di arabi che si dichiarano ‘non religiosi’, è ancora molto esigua, dal 2013 al 2019 è passata dall’8% al 13%. Il dato è particolarmente significativo se si considera che si colloca in anni di ‘risveglio islamico’. In dettaglio l'avanzata maggiore di questo atteggiamento che può contribuire all’introduzione di una moderata laicità, si è registrata in Tunisia (dal 16% al 35%), seguita da quella in Libia (dall'11% al 25%), in Algeria (dall' 8% al 13%), in Marocco (dal 4% al 12%), in Egitto (dal 3 al 12%). Il dato non specifica quale fede sia in diminuzione, ma, considerata l’esigua presenza di Cristiani o di fedeli di altre religioni in questi Paesi, si può fondatamente desumere che il dato si riferisca all’Islam. Gli studiosi non concordano nell’individuazione delle cause; peraltro le realtà politiche dei Paesi arabi in cui si è registrato questo dato differiscono molto fra di loro. Sembra che la deriva terroristica di matrice islamica sia estranea all’incremento del fenomeno, mentre assumerebbero particolare rilievo motivazioni personali che originano da crisi religiose individuali. Questi dati anche nelle motivazioni indubbiamente avvicinano il mondo arabo alle realtà occidentali.  RR

 

‘Tutto è accaduto in un giorno normale’ (Dal Bollettino Parrocchiale di Labro, Pasqua 2021 - Giornata del Malato, 11.02.2021)

Prima di ammalarmi un po' di anni fa, conducevo una vita abbastanza brillante, arricchita da molti interessi, artistici, culturali, sportivi. Non avevo ancora conosciuto il dolore, la sofferenza, la stanchezza fisica e morale.  Senza nessun preavviso, gli esiti delle complicazioni autoimmuni di una banale influenza hanno cambiato radicalmente la mia esistenza in poche ore. Ho perso l’autonomia nei movimenti, in alcuni momenti della giornata la mia respirazione deve essere assistita, mi nutro artificialmente. Queste gravi disabilità postume mi hanno imposto di riorganizzare la mia esistenza, con l’illusoria sensazione che si trattasse di una situazione provvisoria e che ieri sarebbe tornato a essere oggi. Dopo anni non mi sono ancora adattato a questa condizione e probabilmente mai mi adeguerò.  Tutto iniziò banalmente. Avevo da giorni una noiosa influenza, ma alcuni impegni, che facevano parte della mia routine di lavoro, mi avevano impedito di curarmi. Quando decisi di prendermi qualche giorno per debellare quell’apparente banale male di stagione, era troppo tardi. Microscopici golia indisturbati avevano cominciato a fare breccia nel mio sistema nervoso centrale. Ai primi malori mia moglie, medico neurologo, comprese che era necessario un controllo al Pronto Soccorso: ero sicuro che si sarebbe trattato di una formalità.  Quell’imprevisto sarebbe stata un’occasione per un check up che rimandavo da troppo tempo.  Mentre scendevo le scale del giardino di casa, vacillavo, ma non pensavo che avrei rivisto le mie cose, il verde di quelle piante familiari, i miei libri, i miei gatti, dopo più di due anni.  Ero sicuro che al Pronto Soccorso tutto sarebbe andato senza problemi; alla fine quella mattina sarebbe stata piacevole. Avrei incontrato ex-compagni di scuola, amici, colleghi di Cristina, persone che non rivedevo dalla mia adolescenza. Avrei raccontato qualcosa della mia vita da zingaro di lusso, episodi di una professione non molto usuale, che non avrei mai previsto da ragazzo, poiché i miei interessi allora si rivolgevano ad altri settori, scientifici, artistici, letterari, ma non certo istituzionali.  Non avrebbero compreso molto della mia professione, perché mi sarei limitato a qualche flash.  Probabilmente per molti quello che avevo costruito non era niente di eccezionale, ma non per me, che, nonostante un proficuo e brillante corso scolastico e universitario, ero un giovane come tanti altri, destinato a un buon impiego nella propria città, e a parlare di domenica, senza esserne parte, dei gossip della vita locale.  Dopo una breve visita in ospedale, un salto al bar per fare colazione, sarei tornato a casa, e, se fosse stato necessario, avrei curato quei fastidiosi ma non allarmanti disturbi con qualche terapia.  Nella mia vita avevo avuto numerose contrarietà. Si erano alternati alti e bassi ma alla fine ogni potenziale problema si era risolto, e spesso da contingenze negative si erano originati esiti positivi. Omnia in bonum era il mio motto.  Pertanto avevo maturato un ottimismo religioso che sfumava in una laica incoscienza. La prima visita fu tranquillizzante; quei disturbi sembravano i sintomi di un’aggressiva labirintite. Mia moglie non era convinta di quella frettolosa diagnosi e ritenne necessario richiedere una risonanza magnetica nucleare urgente. Questo esame si svolse in circostanze drammatiche, perché ebbi un grave malore. L’esito fu altrettanto tragico: il mio encefalo presentava vaste aree profondamente infiammate. Dagli sguardi che Cristina si scambiava con i suoi colleghi capivo che la questione era seria. Sarebbe stato più complicato, ma alla fine tutto si sarebbe risolto, pensavo. Cominciavo a confondere quello che realmente accadeva con il parto della mia immaginazione perché la mia mente trasformava ogni percezione esterna pescando nel magma di inconsueti contenuti a me sconosciuti. Quella notte la situazione precipitò e fui trasferito in rianimazione totalmente paralizzato e incapace di respirare autonomamente e deglutire. La diagnosi suonava in maniera per me criptica ma molto sinistra: encefalite di tronco. Grazie a un coma indotto, vivevo incoscientemente immerso in remote visioni angoscianti, lasciando sola Cristina nella disperazione di quei momenti. Mi chiedevo che cosa fosse accaduto; ero in un ospedale, tentavo di muovermi, di scendere dal letto senza riuscirci: che strana sensazione! Nessuna reminiscenza di strani e indefinibili malori di quel mio ultimo giorno di vita reale: probabilmente il mio inconscio non accettava che banali disturbi potessero essere precursori di una simile catastrofe. Continuavo ottimisticamente a pensare che alla guarigione sarebbe seguita la riabilitazione, e tutto sarebbe tornato come prima, con un’esperienza in più da raccontare. A parte le condizioni fisiche, in quei frangenti ero quello che stava meglio dal punto di vista psicologico. Mia moglie, consapevole della gravità della mia patologia e dell’imprevedibilità delle possibili conseguenze, fra le quali vi era il decesso o una situazione prossima allo stato vegetativo, trascorreva tutto il giorno al mio capezzale in uno stato di prostrazione, che con grande difficoltà cercava di dissimulare quando la sera rientrava a casa e incontrava i nostri figli. Valentina e Marco, sorpresi da questa mia inspiegabile assenza non dovuta a motivi di lavoro, erano avvolti da una muta disperazione e inermi si chiedevano dove fosse finito il loro padre, e se fosse ancora in vita. Cominciavo a sperimentare quella vita in simbiosi con mia moglie che continua tuttora. Ero confuso, rassicurato solo dalla sua presenza, e in particolare dal suo arrivo nel Reparto di Rianimazione la mattina presto, all’inizio della giornata, al termine di una nottata nella quale in genere ero preda di funesti incubi, metafora surreale della mia lotta per sopravvivere. Speravo che la mia sofferenza avrebbe avuto un senso e non sarebbe stata l’esito di una lotteria, considerato che anche il libero arbitrio, così importante da un punto di vista salvifico, ha sicuramente un margine più ristretto di quanto sembri a prima vista. Pensando ai profili pratici, la principale difficoltà che dovevo contrastare in quella degenza era l’abbrutimento. La mia mente sembrava non aver subito danni. Decisi di riprendere a studiare la lingua tedesca negli sprazzi di lucidità. Da un punto di vista logistico non era molto semplice attuare questo proposito: Cristina, sempre disposta amorevolmente ad assecondarmi, sosteneva il libro per consentirmi di leggere. Compatibilmente con i tempi della rianimazione, sono iniziate le visite dei miei amici. Alcuni, con il loro affetto manifestato in maniera semplice, sincera e senza retorica, sono stati una bellissima conferma, o in qualche caso una piacevole e preziosa sorpresa. Altri sono scomparsi; non posso censurarli, sono io che con la mia malattia sono uscito dall’angusto scenario della loro esistenza. Alcuni amici e amiche, con il loro affetto e il loro conforto sono stati sempre presenti fin dal primo momento. La loro generosità continua a essere una bellissima e tangibile testimonianza di amicizia. Nelle case di cura ho conosciuto un universo di persone fatto di sofferenza e di difficoltà quotidiane per sopravvivere. Tutti sembravano legati da un sentimento di solidarietà, sincero, puro, mai retorico, molto diversi da quell’umanità abituata alle volte dorate e presa esclusivamente da sé stessa, che avevo sempre frequentato. Dopo i sei mesi di Rianimazione è iniziata la riabilitazione. Grazie ai continui esercizi a cui mi sottoponeva senza sosta Cristina quando ero in rianimazione, avevo conservato una condizione muscolare tale da consentire l’efficacia delle terapie successive. Il ritorno a casa non fu come lo immaginavo. Non pensavo che sarei stato dimesso in condizioni di totale guarigione, tuttavia ero convinto che avrei avuto una maggiore autonomia su cui ripianificare la mia vita. Invece, nonostante significativi progressi, non avevo nessuna potenziale autosufficienza. Per poter accedere a ogni cosa avevo bisogno di chiedere. Tutti erano disposti ad aiutarmi e a servirmi, ma questo non era sufficiente. Per uno come me, che aveva fatto della sua vita una roccaforte dell’indipendenza e della riservatezza, disabituato a qualsiasi interferenza sulle proprie determinazioni, questa nuova condizione era difficilmente accettabile. Mi cominciavo a convincere che quella non era la mia vita, né ero io quello che la stava vivendo. C’era una cesura troppo rigida con il passato, e io, immerso in questo degrado fisico, non avevo nulla in comune con quel rigoroso perfezionista che ero, a cominciare dalla cura personale e dalla scelta degli abiti da indossare, sempre e solo apparentemente casuale. Forse la vita era stata privata di tanti orpelli e inutili sovrastrutture, ma progressivamente mi rendevo conto che l’esistenza era fatta da tante contingenze apparentemente inutili. Quell’essenzialità, che avrei vissuto come una conquista se fosse stata una mia scelta, era il risultato invece di una condizione depotenziata perché imposta, che stava mortificando l’umanità che avevo costruito senza accorgermene di giorno in giorno. Le mie mani da prezioso strumento di precisione erano adesso delle grossolane pinze in guanti da sci, incapaci anche di fare una carezza: non solo era limitato il movimento, ma era anche sopita la mia sensibilità. Mi mancava il mio lavoro, che aveva avuto molti momenti felici anche grazie a coincidenze fortunate: ora in un’unica soluzione stavo pagando il mio debito con la sorte. Il Pc divenne il mio fedele compagno di avventura, e Internet la mia finestra su un mondo che non potevo più esplorare con le mie gambe. Non ho ancora parlato di religione pur essendo cristiano e pur avendo la fede un posto importante nella mia vita. Non l’ho fatto perché temo di non avere la maturità spirituale per discuterne senza cadere in luoghi comuni enfatizzando banalità. C’è anche un altro motivo. Andando controcorrente ho sempre voluto tenere distinti i fatti umani, soprattutto quelli spia­cevoli, dalla dimensione cristiana. Diversamente, se avessi collocato ogni contingenza, in particolare quelle negative, nel contesto di imperscrutabili piani divini, avrei rischiato di degradare la religione a mera fil sofia consolatoria. Ridimensionare il conforto della fede non significa avere dubbi sul­l’esistenza di Dio, ma semplicemente pensare che Dio, pur se­guendo le nostre vicende, ci abbia lasciato liberi nelle nostre scelte in attesa del Suo finale abbraccio paterno. L’autonomia del piano umano rispetto a quello divino accresce l’importanza delle nostre opzioni. La provvisorietà è il comune denominatore dell’esistenza. Io, aspirando alla stabilità, mi sono sempre slanciato in avanti per neutralizzare l’incertezza del passo. Oggi mi fa paura tutto quello che è definitivo. Sento l’impulso di un principio etico e spirituale che mi spinge a fare, ma che nello stesso tempo, come appendice di un istinto di sopravvivenza, mi sottrae a una più pesante depressione che mi attanaglierebbe se optassi per un ozio insano, che inevitabilmente mi precipiterebbe nel vortice di un’insostenibile autocommiserazione. RR

 

SBIRRO (27.03.2021)

Sbirro era la guardia che svolgeva servizi di polizia nel periodo medievale e successivamente, nel Rinascimento. L’origine etimologica, birro (‘rosso’ nel tardo latino, πυρρός in greco) rafforzato da una esse iniziale, alludeva al colore della casacca usata. L’epiteto viene oggi impiegato con intento spregiativo o - nel migliore dei casi – scherzoso, nei confronti di chi attualmente svolge funzioni di tutore dell’ordine o di natura investigativa. La presunta natura denigratoria è correlata all’origine storica del termine di cui si è accennato: la guardia medievale era al servizio esclusivo del signorotto da cui dipendeva, proteggendolo e garantendo i suoi soprusi e le sue angherie.  Insomma, lo sbirro era un mercenario nell’accezione peggiore del termine. Messa così lo sbirro è un personaggio negativo. In tempi moderni la fedeltà al signorotto si trasforma nel mettere al primo posto gli ideali di giustizia e di legalità che sono alla base della scelta professionale di servire lo Stato; questi ideali sono positivamente invasivi perché si trasformano in una scelta di vita. In ogni situazione lo sbirro ha un’innata tendenza a verificare la conformità alla liceità e ad attivarsi di conseguenza nella maniera ritenuta più efficace, mettendo da parte ogni interesse anche personale e confliggente. In questo modo, sbirro diviene un complimento per chi si sente tale. Per questo quando qualche amico con riferimento ai miei trascorsi mi dice Sei e rimani sempre uno sbirro lo ringrazio sinceramente per quello che ritengo un bel complimento. RR

 

ISLAM E CRISTIANESIMO: CONSIDERAZIONI GENERALI (22.9.2020)

Il Corano nega la Trinità per affermare l’unicità di Allah. In realtà non vi è contraddizione con il Cristianesimo; per la teologia cattolica non ci sono tre divinità (come erroneamente talvolta si è affermato): con la frase un Dio unico in tre persone si afferma un’unica natura o essenza della divinità, la quale si declina in tre persone uguali e distinte. Tralasciando le insopprimibili differenze dottrinali fra Islam e Cristianesimo, quanto esposto, soprattutto relativamente alla comune devozione mariana, evidenzia un’apertura al soprannaturale dei musulmani e una loro sintonia spirituale con i cristiani, che sono presupposti di una coesistenza che non si esaurisce nella reciproca tolleranza, ma prevede anche momenti di comune e mistica condivisione. Se invece prevale l’aspetto politico, l’invasività islamica di carattere ideologico e le sue conseguenti derive congelano la spontanea, umana e fraterna empatia: il differente credo religioso alza una barriera. Questo avviene soprattutto nell’Islam come anche nell'ebraismo. Ne è una prova la questione palestinese, che ha un carattere prevalentemente o esclusivamente politico; tuttavia aver identificato le conflittualità anche in motivi confessionali ha creato difficoltà nell’avanzamento del processo di pace. Il Cristianesimo sembra maggiormente impermeabile alle influenze politiche.  In proposito Benedetto XVI nella sua esortazione apostolica per il Medio Oriente afferma che la sana laicità significa liberare la religione dal peso della politica e arricchire la politica con gli apporti della religione, mantenendo la necessaria distanza, la chiara distinzione e l'indispensabile collaborazione tra le due[i]. RR

[i] Benedetto XVI, esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Medio Oriente, n. 29, Beirut – Libano, 2012.

 

ISLAM E CRISTIANESIMO: RIFLESSIONI SULLA FIGURA DELLA VERGINE MARIA NEL CORANO E NELLA TRADIZIONE ISLAMICA (21.9.2020)

Fra Cristiani e Musulmani c’è un pieno accordo sulla venerazione della Vergine Maria, che è ritenuta nel Corano - che la elogia particolarmente - una donna eccezionalmente pura e santa, madre del grande profeta Gesù.  I musulmani infatti rifiutano la divinità di Cristo, e quindi non possono ammettere la maternità soprannaturale di Maria. Gesù pertanto viene esclusivamente definito figlio di Maria (Isa ibn Maryam). Maometto secondo alcune fonti avrebbe detto che ogni bambino, quando nasce, è toccato da Satana, ma questo non sarebbe avvenuto per Maria e suo figlio. È evidente l’analogia fra questa affermazione e il concetto di Immacolata Concezione. Alcuni fedeli cristiani affermano che in Egitto, a El-Zeitoun, alla periferia del Cairo, la Madonna sarebbe apparsa sul tetto di una chiesa copta. Il luogo attualmente è visitato anche da migliaia di Musulmani, che partecipano a pellegrinaggi durante i quali – ha precisato il gesuita egiziano Samir Khalil Samir nel corso di un intervista - vedendo che i cristiani aspettano questa festa per battezzare i bambini, chiedono anch’essi di battezzare i loro piccoli. In proposito sono stati costruiti due battisteri, uno per i cristiani con il sacro crisma e l’altro utilizzato dai fedeli musulmani con normale acqua. Più in generale milioni di Islamici, anche dall’Iran, si recano in pellegrinaggio presso santuari mariani come Fatima in Portogallo, Harissa in Libano, in altri luoghi di culto in Siria oltre che in Egitto. I pellegrini islamici sono generalmente donne musulmane, che chiedono grazie. In occidente tutto ciò che è soprannaturale sembra essere passato di moda; in particolare gli intellettuali non raramente ritengono che il sentimento religioso è una cosa superata. Diversamente nelle altre parti del mondo la dimensione spirituale è ancora viva, come dimostra questo bisogno di alcuni fedeli musulmani di associarsi a forme di devozione cristiana. Probabilmente l’esigenza di rivolgersi alla spiritualità cristiana è motivata non solo dalle richieste di guarigione fisica o da altre istanze simili, ma dalla necessità di una spontanea e intima relazione con il soprannaturale che non trova adeguata soddisfazione nel formalismo dell’Islam ufficiale, nel quale le manifestazioni di fede sono programmate, le cinque preghiere quotidiane sono ad orari predefiniti e devono essere recitate osservando rigorosamente un testo già fissato. Diversamente da Allah, il Dio cristiano è padre, e già questo è il presupposto di una relazione di spontanea intimità. In Libano nel 2010 la solennità mariana dell’Annunciazione del Signore è stata proclamata festa nazionale. L’iniziativa è stata adottata dal Governo nella convinzione che una celebrazione comune potesse accrescere l’intesa tra cristiani e musulmani. Naturalmente le due religioni attribuiscono un diverso significato all’evento: per i musulmani l’Annunciazione è solo l’annuncio della nascita di un grande profeta. Queste esperienze insegnano che musulmani e cristiani sul piano spirituale possono trovare un’intesa senza rinunciare ai loro tratti identitari. RR

 

ISLAM E CRISTIANESIMO: IL DOCUMENTO SULLA FRATELLANZA UMANA PER LA PACE MONDIALE E LA CONVIVENZA COMUNE, CONDIVISO IN OCCASIONE DEL VIAGGIO APOSTOLICO DI PAPA FRANCESCO NEGLI EMIRATI ARABI UNITI (3-5 febbraio 2019) (18.9.2020)

Il 4 febbraio 2019 Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmed Al-Tayeb, hanno firmato ad Abu Dhabi una dichiarazione comune che costituisce un’importante storica tappa nel dialogo tra cristiani e musulmani. Il documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune richiama l’attenzione sulla necessità di promuovere una cultura del dialogo, della reciproca conoscenza, della collaborazione comune per porre fine a qualsiasi forma di violenza di matrice confessionale e a derive belliche e terroristiche, perché la Fede - si precisa nella dichiarazione - deve spingere il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere ed amare. Viene richiesto il coinvolgimento di tutti per porre fine ai conflitti, al declino culturale e al degrado ambientale, e promuovere un’equa distribuzione delle risorse naturali.  I due leader religiosi hanno condiviso la condanna di qualsiasi pratica che minacci la vita (come genocidi, atti terroristici, traffico di organi umani, aborto, eutanasia, etc.) sottolineando l’importanza della famiglia. Le religioni non devono inoltre sollecitare sentimenti di odio, di ostilità, di estremismo, né invitare alla violenza.  La dichiarazione qualifica la libertà di religione come diritto di ogni persona, condannando qualsiasi costrizione e discriminazione. Vengono trattati anche aspetti di carattere sociale come la pari considerazione della donna e l’importanza delle istituzioni di formazione dei giovani come scuole e università. Dal documento si percepisce la necessità che la tolleranza verso le altre fedi prevalga su qualsiasi impulso volto a privilegiare in maniera iniqua la propria religione. La tolleranza per le scelte religiose e politiche individuali degli altri nella cultura giuridica occidentale trova fondamento nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, non riconosciuta dagli Stati arabi i quali, in maniera specularmente contraria, ritengono che le posizioni giuridiche soggettive individuali debbano essere sacrificate in favore delle esigenze della comunità islamica. Questa convinzione ha portato all’elaborazione della Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo, scritta per rapportare i diritti e le libertà individuali alle esigenze religiose e culturali dei Paesi islamici. La tolleranza correttamente interpretata non è passiva sopportazione ma riconoscimento della pari dignità dell’altro. In questa prospettiva la diversità può costituire motivo di arricchimento e di pacifico confronto nel quadro del rispetto dei principi concordati nella dichiarazione comune. Naturalmente ora è di importanza essenziale una capillare attività per favorire fra i rispettivi fedeli una conoscenza e la condivisione dei contenuti del documento e delle motivazioni che ne costituiscono il presupposto. In proposito, per meglio definire la portata dell’accordo nel mondo musulmano va precisato che l’università di Al-Azhar, rappresentata dal Grande Imam Ahmed Al-Tayeb, sebbene goda di particolare autorevolezza in quanto può essere considerata la massima espressione del pensiero giuridico e teologico islamico sunnita, tuttavia non è un’autorità sovraordinata in grado di manifestare posizioni ufficiali, considerata l’assenza nell’Islam di una struttura di vertice. RR

 

 ISLAM POLITICO E CRISTIANESIMO (15.9.2020)

Islam e Cristianesimo spesso vengo considerati sullo stesso piano come se si trattasse di due religioni che, pur nelle evidenti differenze, possano essere ritenute caratterizzate da un’omogeneità di fondo. Diversamente, si osserva che l’Islam, oltre ad essere una religione, ha anche i tratti dell’ideologia politica in quanto la sua affermazione postula l’instaurazione di istituzioni ispirate ad un’etica confessionale. A conferma, la militanza islamica si è spesso storicamente concretizzata nella partecipazione ad iniziative per promuovere con ogni mezzo un ordine sociale nel quale le leggi civili fossero sostituite da un ordinamento plasmato sulla legge divina. Le frange fondamentaliste e radicali non hanno abbandonato questo approccio. Le azioni terroristiche di matrice islamica possono essere ritenute una degenerazione di questo atteggiamento: il ricorso alla violenza e alla minaccia considerato in questa prospettiva è una scorciatoia per l’instaurazione di una società ispirata ai precetti del Corano. Diversamente l’adesione al Cristianesimo e le relative attività di proselitismo rimangono invece confinate nella sfera spirituale individuale. Anche la Fede cristiana può avere rilevanza esterna in quanto richiede ai fedeli iniziative per estendere la condivisione di un modello di vita e dei relativi principi su cui si fonda; queste iniziative tuttavia si esauriscono di norma nell’ambito di un rapporto personale. Nell’Europa - che si è oggettivamente forgiata sotto l’influenza delle radici e delle tradizioni cristiane - l’invasività dell’Islam politico rappresenta una minaccia, alla quale le istituzioni europee contrappongono il principio di tolleranza, teorizzato dall’Illuminismo. Ma da questo punto di vista non esiste reciprocità fra Islam e Cristianesimo. Nell’evoluzione storica del mondo musulmano è mancato un movimento analogo all’Illuminismo in grado di stabilire con chiarezza i confini fra religione e politica affermando, come corollario, il principio di laicità dello Stato. Nell’Islam, poiché si attribuisce valore ad una sola religione, la laicità - ovvero il riconoscimento e la conseguente tolleranza di altri culti - è considerata una forma, spesso perseguibile, di ateismo. L’assenza di confini fra religione e politica è il successivo presupposto di modelli statali di impronta teocratica. RR

 

L’ATTUALITA' DI GESU' NELL’ISLAM      CONTEMPORANEO (12.09.2020)

In questo momento di concrete frizioni – spesso emotivamente enfatizzate - fra l’Islam politico e l’Occidente, può essere utile ricordare alcuni punti di contatto fra la religione musulmana e quella cristiana. Il primo aspetto su cui riflettere è la figura di Cristo. Gesù è oggetto di importante considerazione anche nel mondo islamico. Naturalmente non gli si attribuisce la centralità che ha nel Cristianesimo, che lo riconosce come Dio fatto uomo e come il Messia atteso (ancora) dalla tradizione ebraica; tuttavia i musulmani credono che Gesù – Isa in arabo – sia un grande profeta. In proposito il dibattito sui suoi insegnamenti dovrebbe essere considerato di grande attualità nella crisi e nelle divisioni dell’Islam contemporaneo. Gesù evidenziò la necessità di una riforma religiosa che superasse i confini e abbandonasse le strettoie di quella comprensione strettamente letterale delle sacre scritture che vigeva nel suo tempo: allora gli Ebrei conferivano infatti alle scritture un valore eccessivamente ‘legalistico’. In proposito, nel Vangelo di Matteo Gesù precisa di non essere venuto per abolire la legge, ma per dare compimento ad essa. Chiarisce successivamente: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Analogamente Giovanni afferma che la legge è stata data per mezzo di Mosè, ma è per mezzo di Gesù Cristo che sono venute la grazia e la verità. Pertanto per un cristiano la formale e rigorosa adesione alla legge non è sufficiente per ottenere la salvezza, ma è solo una pre-condizione di essa. Questo concetto è esplicitato nelle parole rivolte da Cristo al giovane ricco che aveva puntualizzato di aver osservato tutti i comandamenti: ...se vuoi essere perfetto, offri tutti i tuoi beni ai poveri, poi seguimi, poiché il regno di Dio non è per i ricchi. Questa lunga premessa evidenzia che gli Ebrei stavano vivendo in quei tempi una crisi religiosa simile a quella dei musulmani di oggi. Il mondo musulmano, come è noto, è estremamente composito: all’interno della galassia islamica è possibile individuare numerose correnti interpretative. È prevalente il doveroso rispetto dei contenuti formali della legge, mentre vengono considerate con estrema cautela eventuali istanze di riforma. Al riguardo hanno spesso esiti radicali le posizioni ideologiche di quelle correnti che sostengono la necessità di ripristinare la purezza dell’Islam delle origini mediante l’osservanza letterale del Corano (segnatamente i Wahabiti e i Salafiti). Paradossalmente le esigenze di riforma emerse i nei moti di rivolta della Primavera Araba (2010-2012) - che hanno avuto moventi spiccatamen­te laici, che possono essere riassunti nel diffuso malessere per una società cristallizzata su posi­zioni antidemocratiche e caratterizzata da una inaccetta­bile diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza – pur promosse da gruppi eterogenei laici, hanno prodotto come risultato a lungo termine il ritorno a regimi fondamentalisti: i popoli arabi, nel richiedere cambiamenti, non potevano infatti avere come modello le democrazie occidentali, da sempre considerate corrotte e lontane da valori spirituali e religio­si. Al contrario, il nuovo Stato arabo, solo se fondato su una piena applicazione dei valori dell’Islam depurati da qualsiasi modernità, sarebbe stato in grado di assicurare un sistema perfetto oltre che giusto. Ciò premesso si richiama l’attenzione sul fatto che la predicazione di Cristo nell’enunciare la buona Novella, come detto in precedenza, non rinnegava le preesistenti scritture, ma si limitava a censurarne l’ossessiva osservanza dei dettagli e solo un superficiale e formale rispetto dei principi morali che ne costituivano il presupposto. Gesù ha affrontato e dato soluzione ad una crisi religiosa originata da uno sterile legalismo e pertanto analoga a quella determinata attualmente dagli esiti talvolta cruenti e violenti causati da una rigida e letterale applicazione della Sharia. La legge coranica, quando disciplina i rapporti interpersonali, è senza dubbio ispirata da istanze di reale giustizia. Tuttavia una declinazione acritica delle norme, che non tenga conto delle circostanze del caso concreto e delle finalità delle disposizioni, ne uccide lo spirito e può facilmente portare alla consumazione di ingiustizie. RR 

 

CONSIDERAZIONI SULLA STORIA DEL LIBANO (24.8.2020) 

Ripercorrendo la storia politica del Libano contemporaneo dal mandato francese ad oggi, risulta evidente uno stretto legame fra l’impianto confessionale del Paese e le sue vicende interne e internazionali. Nel contesto arabo il Libano è un Paese atipico. Il cosiddetto comunitarismo di impronta confessionale, ovvero in concreto la capacità delle comunità religiose di avere una definita e stabile rappresentatività a livello politico, ha sempre condizionato l’assetto istituzionale facendo del Libano una democrazia confessionale. Le comunità religiose, forti del loro un mandato, non di rado hanno svolto un’importante attività di pacificazione e mediazione, che ha consentito anche di contenere le spinte autoritarie che provenivano da ambienti religiosi radicali. Raggiunta l’indipendenza nel 1943 uno dei principali problemi fu quello di rispettare un’equa condivisione del potere fra le due principali comunità, quella cristiana e quella musulmana. Allora venne stipulato un patto interno non scritto fra maroniti e sunniti; la comunità cristiana accettava la definizione del Libano come Stato arabo, ma nello stesso tempo si confermava l’attribuzione di poteri politici fra le comunità in base alle risultanze del censimento del 1932, effettuato durante il mandato francese. Questa clausola, che premiava la comunità cristiana allora maggioritaria, venne modificata dagli Accordi di Taif del 1989 - di cui si dirà - che hanno invece stabilito la parità fra le due comunità. In base al menzionato accordo interno non scritto di fatto si stabiliva che il Presidente della Repubblica sarebbe stato un maronita, il Primo ministro un sunnita, il Presidente dell'Assemblea Nazionale uno sciita, il vice Presidente del Parlamento un Greco ortodosso. Si ebbero difficoltà a rispettare questo assetto quando dall’esterno cominciarono pressioni di carattere panarabo: il Libano si colloca infatti all’interno di un contesto, quello mediorientale, a forte prevalenza arabo-musulmana. Pertanto veniva messo in discussione il potere attribuito alla componente cristiano-maronita. Dopo varie travagliate vicende che insidiavano l’unità nazionale, a seguito di crescenti tensioni nel 1975 scoppio una grave guerra civile che durò fino al 1990.  Il conflitto fu caratterizzato da alleanze molto fluide e variabili; le cause furono sia interne che esterne. Un elemento particolarmente destabilizzante e determinante all’origine delle ostilità, fu il crescente considerevole afflusso nel Paese di profughi palestinesi. Questa presenza accresceva la consistenza della comunità musulmana che ora si sentiva sottorappresentata, mentre la componente cristiana temeva di perdere la propria prevalenza demografica.  Il conflitto fu alimentato anche da fattori esterni, ossia dall’intervento di altri Stati con propri specifici interessi (in particolare della Siria e di Israele). La guerra, che causò gravi perdite umane e precipitò il Paese in una grave crisi economica, si concluse alla fine del 1990 dopo gli accordi di Taif (22 ottobre 1989). Nel 1992 si svolsero libere elezioni che ebbero come esito una forte affermazione degli Hezbollah, e quindi della componente musulmana-sciita (questo esito fu confermato anche da successivi appuntamenti elettorali). Questa situazione politica ha creato i presupposti per forti tensioni e scontri con il vicino Israele, che nel 2006 presero la forma di un vero e proprio conflitto (dal 12 luglio al 4 agosto 2006). Anche le vicende della vicina Siria hanno causato pericolose ripercussioni interne. RR

 

LIBANO, UN PARADISO PERDUTO (22.8.2020)

Qualche giorno fa ho letto un articolo su un sito straniero[1] che con cinico umorismo riferiva che un po' di tempo fa in Libano circolava questa storiella. Dio, quando creò il Libano, decise di dotarlo di bellissime montagne, di spiagge meravigliose, di ricche sorgenti di acqua, di terreni fertili, e di abitanti operosi, intelligenti, creativi, attraenti. Infatti, il Creatore voleva fare del Paese dei cedri una specie di paradiso terrestre; poi però, riflettendo, decise che il Paradiso non poteva esistere in terra, perché doveva essere esclusivamente riservato all’aldilà. Ed allora...creò i popoli confinanti. Si tratta ovviamente di un racconto maliziosamente bugiardo, che tuttavia è un modo allegorico per raccontare una triste verità. Il Libano ha sempre avuto una collocazione molto particolare nel contesto mediorientale. I motivi che diversi decenni fa hanno fatto del Libano un’isola felice - ovvero la multiculturalità, la multietnicità, l’essere al centro di importanti interessi finanziari e geopolitici - oggi sono all’origine della sua instabilità politica e della sua fragilità, perché il Libano è diventata terra di scontro in ragione dell’importanza correlata alla sua condizione. Le vicende del Libano, pur travagliate da grandi difficoltà, dimostrano tuttavia che è plausibile ipotizzare un modello di Stato mediorientale, che, fondato su una nuova coscienza sociale, politica e religiosa, può consentire l’individuazione di una via araba alla democrazia mediante la costituzione di una società del vivere insieme, come felicemente la definiva l’intellettuale libanese Samir Frangieh [2].



[1] Si tratta di Lebanon as Paradise Lost da Brookings, il sito della Brookings Institution, un'organizzazione no profit con sede a Washington, che si pone la missione di condurre ricerche per esplorare nuove soluzioni per risolvere i problemi che la società deve affrontare a livello locale, nazionale e globale.

[2] Samir Frangieh (12.4.1945 – 11.4.2017) è stato un intellettuale, politico e giornalista libanese di fede cristiano-maronita.

 

TWO MEN ONE WAR, 33 YEARS ON – LEBANON, ALCUNE RIFLESSIONI SULLE VICENDE BELLICHE ‘INTERNE’ LIBANESI (21.8.2020)

Sulle piattaforme web Youtube (https://www.youtube.com/watch?v=zIVUV6HhTcI) e Vimeo (https://vimeo.com/9325230) è visibile un interessante cortometraggio, Two men, one war, 33 years on – Lebanon, realizzato dal regista Eric Trometer, nel quale si evidenzia come le vicende belliche libanesi più di ogni altra guerra abbiano contrapposto in maniera insensata e strumentale uomini altrimenti destinati all’amicizia. Nel documentario due ex miliziani, uno cristiano, Assad Shaftari, e l’altro musulmano, Muhieddine Chehub, dopo aver combattuto su fronti opposti ignari l'uno dell'altro, si ritrovano nel 2008, dopo 33 anni, e si raccontano le loro storie parallele. Intraprendono la via del perdono e della conciliazione, rinnegando il loro passato di morte. La guerra è solo un cieco omicidio collettivo causato da un superficiale vuoto etico che rende refrattari a qualsiasi impulso di pacificazione e che produce insensate divisioni. Nei fotogrammi finali del documentario si legge che i due uomini ora sono amici e lavorano insieme in nome del perdono e della tolleranza[i],aggiungendo che per sostenere la riconciliazione è stato creato in Libano un giardino del perdono. Nei fotogrammi iniziali viene citata la nota frase di Lao Tzu chi conosce gli altri è sapiente, chi conosce sé stesso è illuminato. L’ignoranza è alla base di ogni male; la conoscenza degli altri e di sé stesso è il migliore antidoto e lo strumento da privilegiare nella ricerca di soluzioni. RR



[i] Da intendere come reciproco riconoscimento (NdR).

 

IL RUOLO DEL MOVIMENTO HEZBOLLAH IN LIBANO DOPO L’INCIDENTE DEL 4 AGOSTO u. s. (20.8.2020)

In Libano un elemento di elevata instabilità geopolitica è la presenza istituzionale di Hezbollah, il movimento fondamentalista islamico di fede sciita, alleato dell’Iran e nemico giurato di Israele. Gli Hezbollah, pur strutturati come un partito politico, sono dotati di un’ala militare molto attiva, che ha spinto molti Stati occidentali e organizzazioni internazionali a considerare terroristica la sua matrice. Si costituirono nel 1982 con il dichiarato obiettivo strategico di contrastare con ogni mezzo l’ingerenza israeliana. In questo attuale particolare frangente gli Hezbollah, mediante solidi mezzi finanziari e valendosi di un collaudato impianto politico e militare, probabilmente daranno massima visibilità alla loro vocazione assistenzialistica al fine di accreditarsi come unico credibile concreto punto di riferimento per il popolo libanese, soprattutto nei momenti di crisi. Nello stesso tempo il gruppo sciita dovrà dimostrare in maniera credibile la totale estraneità all’incidente dello scorso 4 agosto e alle attuali difficoltà finanziarie del Paese, continuando di fatto nello stesso tempo ad essere la punta avanzata degli interessi dell’Iran in questa regione. RR 

 

IL RUOLO IN LIBANO DELLA COMUNITA’ CRISTIANA COME ELEMENTO DI MEDIAZIONE E DI STABILIZZAZIONE (19.8.2020)

Nel 1920 fu creato il Grande Libano, uno Stato formalmente autonomo indirettamente amministrato dalla Francia, destinataria di un mandato della Società delle Nazioni; le sue frontiere geografiche corrispondevano all'incirca a quelle dell'attuale Libano. La sua fine si ebbe formalmente nel 1943 con la proclamazione di indipendenza della Repubblica del Libano. Il Grande Libano era l'unico Paese del mondo arabo il cui sistema politico era basato sulla democrazia, senza una religione di stato ufficiale. Il Libano pertanto già da allora rappresentava un rifugio sicuro per le minoranze religiose e, segnatamente, per i cristiani che vivevano nei Paesi arabi. È tuttora l’unico Paese nella regione in cui i cristiani giocano un ruolo attivo nella politica nazionale. Oltre al Presidente della Repubblica (che per Costituzione deve essere un maronita) siedono al Parlamento più di 40 deputati cattolici su un totale di poco più di 125 seggi. I cattolici sono rappresentati anche nel governo e nella funzione pubblica. Si stima che fin dagli anni settanta siano la componente maggioritaria della popolazione. La comunità cristiana, ben inserita nel tessuto sociale, può svolgere un ruolo di mediazione nei difficili rapporti fra Sunniti e Sciiti. Un noto ayatollah libanese di origini [i] amava ripetere non c’è Libano senza i suoi cristiani, non c’è Libano senza i suoi musulmani. Nel marzo del 2010 per la prima volta cristiani e musulmani festeggiarono insieme l’Annunciazione. Questa festa ovviamente ricordava la visita dell’angelo a Maria. L’iniziativa che portò all’istituzione della festa fu approvata dal Consiglio Nazionale per il Dialogo e, successivamente, dal Consiglio dei Ministri nella convinzione che una celebrazione comune potesse accrescere l’intesa tra cristiani e musulmani. La Vergine Maria è infatti cara anche ai musulmani; nel Corano si trova il racconto dell’Annunciazione, anche se naturalmente le due religioni divergono sul significato dell’accadimento. Per i musulmani l’evento è solo l’annuncio della nascita di un grande profeta, mentre per i cristiani è il primo atto dell’Incarnazione del Figlio di Dio. La positiva esperienza dovrebbe essere considerata oltre i confini libanesi[ii]. Indubbiamente il meticciato di culture e di diverse tradizioni spirituali e religiose può essere un elemento di crescita sociale e politica, in anticipo sulla politica stessa. Insegna che musulmani e cristiani possono trovare un’intesa senza neutralizzare la loro storia. In un celebre discorso del 1989, Giovanni Paolo II affermò che il Libano è qualcosa di più di un Paese: è un messaggio di libertà e un esempio di pluralismo per l’Oriente come per l’Occidente![iii] In questi ultimi anni i contenuti di questa affermazione sono stati banalizzati e sviliti a mero slogan. Tuttavia resta di massima attualità aiutare in ogni modo il Libano affinché ritrovi e consolidi la sua vocazione interreligiosa. Il nuovo Stato mediorientale deve fondarsi su una aggiornata e nuova coscienza sociale, politica e religiosa, che favorisca la definizione di una via araba alla democrazia, mediante la costituzione di una società del vivere insieme, come la definiva l’intellettuale e politico libanese cristiano-maronita Samir Frangieh[iv]. RR

 


[i] Si tratta dell’imam sciita Muhammad Mahdi Shamseddine (Shams ad-Dîn). Nato nel 1936 in Iraq, ma originario della regione del Jabal ‘Amel nel Libano meridionale, Shamseddine apparteneva a una famiglia di alti dignitari religiosi, la cui genealogia risale fino a Muhammad Ibn Makkî al-‘Âmilî, celebre teologo del XIV secolo, noto come “il primo martire” (al-shahîd al-awwal) per essere stato ucciso dai mamelucchi sunniti.

[ii] Il documento sulla “Fratellanza umana. Per la pace mondiale e la convivenza comune”, firmato il 4 febbraio da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb grande imam di Al-Azhar ad Abu Dhabi è anche il frutto di questo cammino.

[iii]  La frase è stata pronunciata nel 1997 da Giovanni Paolo II in occasione della visita in Libano per la pubblicazione dell’Esortazione post-sinodale del Sinodo speciale dedicato proprio al Libano.

[iv] Samir Frangieh (12.4.1945 – 11.4.2017) è stato un intellettuale, politico e giornalista libanese.

 

IL LIBANO. CONSIDERAZIONI GENERALI (13.8.2020). 

Com’è noto il 4 agosto u.s. Beirut è stata dilaniata da violentissime esplosioni, la cui micidiale onda d’urto ha distrutto il porto e buona parte della città. Nell’immediatezza del fatto è sembrato evidente che l’evento fosse imputabile a negligenze e incuria nella gestione di un deposito nel quale era stoccato materiale ad alto rischio (in particolare una quantità ingente di nitrato di ammonio, sostanza utilizzata prevalentemente per produrre fertilizzanti). Nello stesso tempo, nell’ipotesi di concause dolose, sono apparse subito improbabili rivendicazioni attendibili, considerata la indiscriminata gravità dell’atto. Qualora fosse stato un attentato, infatti, non ci si attendeva che qualcuno avesse il coraggio di rivendicarne la paternità. In termini simmetricamente opposti la realtà dell’attentato sarebbe stata difficilmente ammissibile da chi lo avesse subito: sarebbe stato un grave riconoscimento di vulnerabilità. Tornano alla mente le devastazioni della guerra civile che dal 1975 al 1990 – quando le componenti etniche e religiose si sono aspramente combattute - ha devastato questa terra un tempo definita la Svizzera del Medio Oriente. La collocazione del Libano nel contesto mediorientale è la causa del suo fortunato e poi maledetto destino. La multiculturalità, la presenza di almeno 18 diverse confessioni religiose, la multietnicità, sono infatti all’origine della sua precarietà. Indubbiamente un elemento di elevata instabilità politica è la presenza istituzionale di Hezbollah, il movimento fondamentalista islamico di fede sciita, alleato dell’Iran e nemico giurato di Israele. Gli Hezbollah, pur strutturati come un partito politico, sono dotati di un’ala militare molto attiva, che ha spinto molti Stati occidentali e organizzazioni internazionali a considerare terroristica la sua matrice. Si costituirono nel 1982 con il dichiarato obiettivo strategico di contrastare con ogni mezzo l’ingerenza israeliana. La creazione dello Stato del Libano si ebbe a seguito della dissoluzione dell’Impero Ottomano[i]. Il Libano, essendo nato dall’unione di zone eterogenee, è sempre stato politicamente e militarmente debole: spesso sul suo territorio si sono trasferite e consumate fasi di conflitti fra altri Stati[ii]. La Siria degli Assad, animata da propositi nazionalistici, ha sempre rivendicato un’egemonia di fatto su quell’area, non riconoscendone l’autonomia in virtù del suo pregresso potere sulla regione. Il Libano, nonostante l’esiguità territoriale e la fragilità politica, è sempre stato oggetto di una particolare attenzione da parte dei mass-media e dell’opinione pubblica, che trova fondamento nell’essere il risultato di un’alchimia socio-religiosa[iii], che si concreta nella convivenza di diverse identità religiose, tutte integrate nel tessuto sociale e consapevoli della loro reciproca necessità. Nel Libano multiconfessionale anche la comunità cristiana è integrata nella società: da questo punto di vista la realtà libanese potrebbe essere un modello avanzato per una auspicata futura evoluzione della società musulmana verso formule interreligiose. Questa tragedia dalle cause incerte si colloca in un momento in cui il Libano vive una grande e drammatica emergenza sociale ed economica. La gravissima crisi del Libano, aggravata da quest’ultimo evento, è destinata a ripercuotersi anche sulla sicurezza del Mediterraneo. RR

 


[i] Dopo la dissoluzione dell'Impero ottomano al termine della prima guerra mondiale, di fatto ratificando l'accordo Sykes-Picot fra Gran Bretagna e Francia (16 maggio 1916), la Società delle Nazioni con un mandato affidò al controllo della Francia la Grande Siria (che comprendeva le cinque province che oggi costituiscono il Libano).

[ii] Anche il conflitto siriano è spesso sconfinato nei territori libanesi.

[iii] Andrea Riccardi (nella prefazione al libro: Riccardo Cristiano e Samir Frangieh, Il giorno dopo la primavera, Messina, 2012).

 

NATION ESTATE, OVVERO QUANDO GEOPOLITICA E ARTE SI INCONTRANO (5.6.2020)

Attraverso un quadro, un brano musicale, una poesia, un film, o, come nel caso che segue, con un breve video, è possibile semplificare in maniera non convenzionale la comprensione di una situazione e delle implicazioni che ne sono il corollario. L’opera d’Arte ha infatti anche questa funzione, ovvero trasmettere contenuti con un’immediatezza e un’efficacia che non si riscontra nelle comunicazioni ordinarie. In proposito qualche anno fa ho visto un originale cortometraggio con il quale una questione geopolitica particolarmente complessa come quella palestinese veniva esemplificata mediante una fantasiosa finzione cinematografica. Mi riferisco al cortometraggio ‘Nation Estate’ (Edificio Nazione) della brillante e poliedrica regista Larissa Sansour, nata a Gerusalemme Est nel 1973, attualmente residente all’estero, a Londra per la precisione. Il film, realizzato nel 2013 e della durata di 9 minuti circa, è la metafora della condizione di disagio dell’etnia araba che vive in Israele. La geniale Larissa, senza entrare nel controverso contenzioso politico, immagina che la mancanza di un territorio nel quale il popolo palestinese possa esercitare la propria sovranità in maniera esclusiva e possa autodeterminarsi senza interferenze, possa essere risolto attraverso una soluzione verticale: lo Stato palestinese, non potendosi estendere in larghezza, viene confinato all’interno di un enorme e fantascientifico grattacielo (the Nation Estate). In questa full immersion in un ambiente surreale ogni piano corrisponde ad una città della Palestina. Si può attraversare lo Stato palestinese pertanto solo dal basso verso l’alto mediante un modernissimo ascensore: lungo il percorso è possibile intravedere viste che corrispondono alla località del piano. I Palestinesi, relegati nell’edificio, finalmente possono condurre una vita ad alti livelli, come sarcasticamente precisa una didascalia del film. I drammatici tratti della condizione palestinese prendono forma nel composto disorientamento correlato alla necessità di muoversi quotidianamente all’interno di percorsi predeterminati, in un contesto algido che trasmette una sensazione di anonimo spaesamento. Nation Estate non è un documentario, ma un’efficace metafora. Arte e geopolitica sono complementari. Il documentario che consente un’analisi geopolitica scandaglia il visibile, la metafora - nel caso specifico il film di Larissa Sansour – esplora l’invisibile. RR

 

Il film è visibile online: https://vimeo.com/47817604

 

LA TRADUZIONE DEI LIBRI: UNO STRUMENTO DI OSMOSI CULTURALE FRA OCCIDENTE E MONDO MUSULMANO – II parte (18.05.2020) 

Il mondo islamico, attraverso l’edizione in arabo o altre lingue nazionali di libri stranieri, in particolare ‘occidentali’, manifesta con prudente cautela un interesse crescente per la cultura di diversa matrice. Le trasposizioni linguistiche riguardano principalmente la narrativa, ma si traducono anche dizionari, opere scientifiche, saggi, libri per ragazzi e per bambini. In Egitto ed in Libano ogni anno si pubblicano dai 350 ai 400 libri stranieri (non arabi). Queste iniziative sono state favorite dalla partnership fra case editrici, come quella fra l’egiziana Shourouk e la britannica Penguin, che ha consentito di proporre al lettore mediorientale ed egiziano opere come ‘l’Odissea’, ‘Il Principe’ di Macchiavelli, ‘Pigmalione’ di George Bernard Shaw, ‘Furore’ di John Steinbeck. Il progetto editoriale in compartecipazione tra la Penguin e Dar El Shourouk (che è la più importante casa editrice egiziana) fu lanciato nel 2010 per offrire a lettori arabi alcuni tra i più rappresentativi titoli della letteratura classica europea e nordamericana, selezionati nella collezione ‘Classics’ del colosso editoriale anglosassone.  L’inglese è la lingua più tradotta: solo in Egitto dal 2000 al 2006 sono state tradotte e pubblicate 1700 opere originalmente in lingua inglese, ovvero più del 75% di tutte le traduzioni.  Un’altra partnership è stata quella fra Bloomsbury Publishing e Qatar (terminata da alcuni anni), che ha curato la pubblicazione in arabo di opere inglesi e francesi. L’inglese funge spesso da lingua di transito di altre lingue verso l’arabo (ad esempio, non si traduce in genere un libro dal finnico, dal giapponese, dal cinese o dallo svedese, ma si traduce la corrispondente edizione britannica o americana).  La seconda lingua più tradotta è il francese, che rappresenta il 30% delle traduzioni in arabo. Solo in Libano - che ha una popolazione francofona del 40% circa – fino al 2008 erano poco più di un migliaio le edizioni di opere francesi pubblicate in arabo. Gli autori più tradotti sono scrittori classici o moderni - come Jean-Paul Sartre, Molière, Victor Hugo, Albert Camus e André Malraux - scrittori vicina alla cultura araba e islamica come Roger Garaudy, e autori arabi di lingua francese - come Mohammed Arkoun, Amin Maalouf, Samir Amin, alcuni dei quali descrivono l’atmosfera della periferia parigina, les bainlieue, trattando le problematiche arabe nei Paesi di immigrazione. La terza lingua più tradotta è il persiano, mentre la quarta è il tedesco. I lavori di Hermann Hesse e di Bertold Brecht sono i più gettonati.  Poco tradotte sono le opere in lingua spagnola: una quarantina l’anno. Gli ispanici più popolari nel contesto letterario arabo sono Gabriel García Márquez, Jorge Luis Borges, Miguel de Cervantes, Isabel Allende, Federico García Lorca, Mario Vargas Llosa, Julio Cortázar. Le opere italiane tradotte in arabo sono circa 350/400; più del 30% sono opere letterarie. Gli autori più tradotti sono Italo Calvino, Alberto Moravia, Luigi Pirandello e Umberto Eco. Generalmente le traduzioni avvengono direttamente dall’italiano, con poche eccezioni di opere tradotte tramite l’inglese. Un valido contributo alla diffusione della letteratura italiana viene dalla creazione di specifici dipartimenti in alcune  Università arabe, come a Manouba in Tunisia, ad Ain Shams e Helwan in Egitto, e a Damasco.  Inoltre alcune personalità arabe hanno contribuito molto alla diffusione della conoscenza di classici italiani: in particolare, il giordano Issa Al Naouri, il libico Khalifa Tillisi e Hassan Osman. Khalifa Tilissi è autore di un importante dizionario arabo-italiano, mentre Osman ha curato una traduzione in arabo della Divina Commedia dalla quale ha però omesso i versi che riguardano Maometto, considerate offensive nei confronti del Profeta dell’Islam. Il Libano è il Paese che ha orizzonti culturali più ampi. Nelle librerie di Beirut possono essere acquistati libri sulla Siria, sullo Sciismo nei Paesi del Golfo, sui documenti di Wikileaks relativi al Libano, oltre a ‘classici’ di autori di fama internazionale tradotti in arabo. L’interesse arabo per la cultura occidentale ha un trend in ascesa. E la cultura getta ponti fra terre separate dal mare dei pregiudizi e dell’ignoranza. RR 

 

LA TRADUZIONE DEI LIBRI: UNO STRUMENTO DI OSMOSI CULTURALE FRA OCCIDENTE E MONDO MUSULMANO – I parte (17.5.2020)

Lo strumento privilegiato per attuare un’osmosi fra diverse culture è la traduzione dei libri: attraverso le pubblicazioni un popolo comunica all’estero i connotati della propria civiltà. Le traduzioni facilitano quella circolazione di idee sulla quale si struttura il dialogo interculturale. Questo aspetto assume importanza anche nei rapporti fra Occidente e mondo islamico. L’Europa traduce poche opere scritte in originale in arabo. Fa eccezione la Francia per la presenza sul suo territorio di una numerosa comunità maghrebina, ma si tratta solo di una sessantina di volumi l’anno, che corrisponde a meno dell’1 % di tutti i libri tradotti in Francia nella lingua nazionale. In generale, negli Stati europei la media della traduzione dei libri arabi è di circa un testo ogni mille (tradotti). Escludendo i libri sacri come il Corano, i classici come le Mille e una Notte, e le opere di scrittori affermati come Gibran, Ala Al Aswani e Naguib Mahfouz, i libri tradotti da lingue di Paesi islamici hanno scarsa visibilità nei media, nelle librerie e nelle biblioteche occidentali. In Israele le traduzioni in arabo sono rare nonostante gli arabofoni siano il 25% della popolazione; questo dato è sintomatico dei rapporti di potere fra le due etnie, quella araba e quella ebraica. Anche il turco è poco tradotto. In Francia i libri ‘turchi’ in francese sono lo 0,1/0,2 % delle pubblicazioni tradotte. Queste cifre mostrano quanto scarsa sia la considerazione della produzione letteraria dei Paesi islamici, nonostante gli Stati europei che si affacciano sul Mediterraneo abbiano condiviso parte della loro storia con le popolazioni nordafricane e mediorientali. Le traduzioni di libri arabi nelle lingue dei Paesi dell’Europa orientale o settentrionale spesso ‘transitano’ per lingue terze, principalmente il francese e l’inglese (cioè sono tradotte dalla versione inglese o francese anziché dall’originale). Segnatamente il 30% circa delle opere tradotte dall’arabo passano attraverso il francese. La letteratura araba e turca è pressoché sconosciuta nell’Europa dell’est e nell’area balcanica; sono tradotti tuttavia gli scritti religiosi destinati alle minoranze musulmane.  I saggi arabi in materia di scienze sociali in genere sono raro oggetto di traduzione e questo è sintomatico dell’assenza di un dibattito su questi temi. In generale l’Europa, ostaggio del proprio etnocentrismo, non sembra apprezzare la produzione intellettuale che proviene dal mondo islamico (Turchia compresa). A causa di questo deficit di conoscenza quello che sappiamo del mondo arabo lo apprendiamo prevalentemente da autori europei, soprattutto francesi, e non da una fonte autentica e diretta. Per questo abbiamo difficoltà ad interpretare tutto quello che si agita nel cosmo islamico, Turchia compresa. RR 

 

PER UNA RIFORMA DEL SISTEMA SANITARIO LOCALE (19.02.2020)

La situazione della Sanità italiana è per certi aspetti paradossale. È unanimemente riconosciuta, anche oltre i confini nazionali, la professionalità della classe medica e la preparazione del personale paramedico; tuttavia, la crescente difficoltà a rispettare un livello sufficiente nell’erogazione dei servizi crea le premesse di un allarmante inadempimento delle istituzioni pubbliche.  Sono soprattutto le articolazioni locali del servizio sanitario - depositarie delle attribuzioni concrete in materia - che evidenziano preoccupanti momenti di criticità. La questione è complicata dalla progressiva riduzione della disponibilità di risorse economiche ed umane. Per questo motivo cresce da un punto di vista politico la sensibilità delle opzioni circa le soluzioni da adottare per correggere le palesi inadeguatezze organizzative. Se non ci si rassegna ad una fatalistica prassi che fa affidamento esclusivamente sul senso di responsabilità e sul sacrificio dei singoli operatori per supplire alle falle del sistema e per soddisfare le legittime aspettative dei contribuenti, si impone un tentativo di razionalizzazione delle risorse disponibili ed un loro incremento nei limiti delle possibilità finanziarie. Peraltro l’eccessivo aggravio delle prestazioni è suscettibile di incidere negativamente sulla loro qualità, creando i presupposti per responsabilità anche politiche originate dalla pericolosa incidenza dell’inerzia o delle scelte errate. È evidente l’improrogabilità di una riforma per strutturare le condizioni di un sistema virtuoso: è necessaria innanzitutto una rimodulazione dell’assetto delle articolazioni periferiche che abbia come principale obiettivo una più razionale distribuzione delle disponibilità anche umane. Un’eventuale riforma non deve pregiudicare la prossimità dei momenti decisionali rispetto alla comunità su cui incidono i servizi. È noto che la buona prassi amministrativa - emersa univocamente anche a livello europeo - denominata sussidiarietà, impone di privilegiare le attività di un ente strutturalmente più vicino ad una specifica collettività se è in grado di svolgere meglio un compito rispetto ad un ente più lontano. Peraltro su questo principio si fondano le competenze esclusive delle regioni. Il principio di prossimità alla comunità degli utenti, patrimonio consolidato anche di altri settori amministrativi, nella sanità conforta il paziente che avverte la vicinanza rassicurante dell’apparato. Le esigenze di razionalizzazione e di economicità del sistema dovrebbero pertanto evitare un inutile accentramento delle competenze decisionali. Più specificamente l’accorpamento dell’erogazione dei servizi non va confuso con l’opportunità di realizzare quella positiva integrazione fra le competenze di aziende territoriali e aziende ospedaliere, strumentale ad evitare duplicazioni e a perseguire la complementarietà fra rispettive peculiarità. Non può ulteriormente essere rimandata una ricognizione delle piante organiche per una revisione che le aggiorni alle sopravvenute esigenze operative. Per definire un’erogazione dei servizi che ottimizzi la convenienza economica è necessario promuovere uno studio della realtà geografica nella quale si articolano i servizi locali: questa iniziativa dovrà essere finalizzata a far emergere la distribuzione territoriale delle aspettative dei pazienti e, conseguentemente, i reali confini dei bacini di utenza, che dovrebbero pertanto considerare anche le richieste relative a territori extra-regionali limitrofi. Per aggiungere un esempio concreto di quanto esposto, pazienti di zone limitrofe ai confini extra-regionali della provincia di Terni privilegiano trattamenti sanitari presso l’azienda ospedaliera di Terni. Questa contingenza inciderà quindi sulla reale definizione del relativo bacino di utenza. RR

 

DAGLI EPISTOLARI ALLE COMUNICAZIONI VIRTUALI (17.02.2020)

Qualche giorno fa sono stato alla presentazione di un libro che conteneva il prezioso epistolario fra una poetessa nata nel 1870 (Ada Negri) ed il suo amato. Il testo, oltre ai puntuali contenuti di carattere storico-letterario frutto di una scrupolosa ricerca, è un importante documento anche dal punto di vista sociologico. Rispetto a quei tempi l’evoluzione tecnologica ha modificato radicalmente il nostro modo di relazionarci. La comunicazione epistolare è scomparsa e pressoché sconosciuta ai giovani, che sono oggi assuefatti a messaggi scritti e vocali lapidari e sinteticamente anonimi. Lo scambio epistolare per le sue contingenze è il simbolo di un mondo che è cambiato a seguito di un irreversibile mutamento nei rapporti sociali.  Fra amanti non ci sono più lettere struggenti e profonde, ma comunicazioni di servizio che hanno sostituito un reale dialogo (anche quello telefonico sembra superato); questo stile è utilizzato anche fra persone fisicamente prossime. Nel rapporto epistolare invece ci si avvicinava all’amato/a in maniera intima, rivelando confidenze e segreti, segno di una malinconica complicità che poteva legare affettivamente anche per sempre. Ci si conosceva profondamente e l’amore poteva subire evoluzioni in positivo o in negativo. La distanza imponeva tempi di attesa durante i quali con la fantasia ci si rappresentavano le reazioni del destinatario; la risposta si attendeva con trepidazione unita ad aspettative e ad illusioni. Nello scritto si cercava di esaurire, senza essere mai prolissi, tutte le questioni in sospeso sperando di suscitare riflessioni e riscontri. Nel tempo ‘digitale’ tutto questo è finito. Regna la fretta, l’immediatezza, non c’è spazio per la riflessione. Le storie d’amore, anche importanti, possono nascere e finire con un messaggino in chat o un sms.  I sentimenti, che prima andavano espressi, ora sono sintetizzati da forme standardizzate. L’esigenza di manifestare una sensazione o un’emozione, è surrogata dalla digitazione sulla tastiera un emoticon. Provi vergogna o imbarazzo? C’è la faccina che arrossisce. Devi inviare gli auguri di compleanno a qualcuno? Puoi mandare icone che rappresentano un pacco, una torta, un mazzo di fiori. Tutto virtuale. Sei innamorato? Diglielo con un cuoricino: puoi scegliere anche il colore per puntualizzare il tuo ‘stato’. La fragilità grammaticale e sintattica si dissolve grazie ai correttori o a strumenti come il T9. La comunicazione ora serve per avere risposte lampo come fissare appuntamenti. I vantaggi nel mondo del lavoro sono innegabili. La posta elettronica consente l’economicità che deriva dallo scambio di battute veloci; accorcia le distanze e la durata di un discorso permettendo di guadagnare tempo utile. Se si comunica con gli strumenti virtuali non residua nulla di tangibile, come l’intrigante documentazione cartacea. La corrispondenza telematica manca del confronto personale, di umanità, della pazienza di uno sforzo di comprensione, di empatia. Il progresso ci ha snaturato e reso tiepidi nei sentimenti? La situazione è peggiore o migliore rispetto al passato? Non ha senso chiederselo. I tempi cambiano inesorabilmente e ci si affaccia sul mondo non dalla finestra di casa o dell’ufficio, ma dallo schermo del pc, del tablet e dello smartphone. RR 

 

IL RECENTE RAPPORTO DI AMNESTY INTERNATIONAL SULL’EGITTO (su L’Azione del 6 dicembre 2019)

In un recente rapporto sull’Egitto Amnesty International ha esaminato il ruolo della Procura Suprema per la Sicurezza dello Stato definendola un minaccioso strumento di repressione. Il Rapporto ritiene che l’organo giudiziario sia responsabile della violazione sistematica dei diritti di libertà e delle condizioni che garantiscono l’equità dei processi, disponendo inoltre l’immotivata detenzione di migliaia di persone. La Procura è complice degli abusi commessi dalle forze di polizia e di sicurezza, segnatamente maltrattamenti, torture, sparizioni. Da un punto di vista normativo questa arbitraria repressione si avvale, forzandone i limiti, della legislazione per il contrasto del terrorismo.  Il Rapporto esamina 138 casi di persone arrestate dalla Procura Suprema dal 2013 al 2019. Di questi casi, 56 riguardano soggetti arrestati per aver partecipato a manifestazioni o per aver pubblicato dichiarazioni sui social network, mentre 76 persone sono state ristrette per le loro iniziative in favore del rispetto dei diritti. 6 persone sono state accusate di essere coinvolte in atti di violenza. Il Rapporto si occupa anche di 112 casi di sparizione di persone per periodi fino a 183 giorni. Di queste scomparse si ritiene responsabile prevalentemente l’Agenzia per la sicurezza nazionale con la complicità della Procura che rifiuta sistematicamente di disporre indagini sulle relative denunce. La Procura nei processi si avvale spesso di confessioni estorte con la tortura. In alcuni di questi processi, gli imputati, giudicati colpevoli, sono stati condannati a morte. Nonostante il frequente ricorso a questi mezzi illegali, la dura repressione sembra incapace di arginare le proteste. RR 

 

CONDIZIONE FEMMINILE ED ISLAM (su L’Azione del 29.11.2019)

La ricorrenza della giornata contro la violenza sulle donne (25 novembre) suggerisce alcune riflessioni sulla condizione della donna nei Paesi musulmani. Il Corano è sensibile nei confronti del benessere femminile; la sua applicazione concreta tuttavia, condizionata dalla tradizione islamica, crea situazioni di profonda discriminazione. Nel diritto di famiglia ad esempio l’istituto matrimoniale si fonda in linea di massima su principi di reciprocità e di uguaglianza; nella pratica però la tradizione attribuisce un potere assoluto al marito. Il Corano consente il divorzio, ma la società musulmana rende difficile per le donne – sia legalmente che socialmente - il ricorso a questa facoltà. In teoria entrambi i genitori hanno la stessa influenza sull'educazione dei figli, ma in molti Paesi musulmani le donne divorziate perdono automaticamente la custodia dei figli in età preadolescenziale. Alcuni studiosi affermano che le tradizioni musulmane hanno frainteso lo spirito del Corano in materia di poligamia, di diritti di eredità, di separazione fisica dei sessi, di prescrizioni in materia di abbigliamento femminile. Queste consuetudini sarebbero state originariamente istituite per proteggere le donne e per garantirne l'autonomia; si sono però poi trasformate in segni di una condizione legalmente minorata. È necessario che le donne musulmane non solo rivendichino indipendenza rispetto alla soggezione patriarcale, ma acquisiscano una dignità piena che consenta loro di determinarsi liberamente respingendo i modelli occidentali estranei alla loro cultura. RR  

 

I CORRIDOI UMANITARI (su L’Azione del 15.11.2019)

La creazione di corridoi umanitari è lo strumento attraverso il quale si realizza il progetto di accoglienza istituito con un accordo che coinvolge i Ministeri dell’Interno e degli Esteri, la Conferenza Episcopale Italiana, la Comunità di Sant'Egidio, ed altri enti come la Federazione delle Chiese Evangeliche, la Tavola Valdese, la Caritas, la Fondazione Migrantes. L’iniziativa è un virtuoso esempio di collaborazione fra la società civile e le istituzioni, con la finalità di aiutare le popolazioni in fuga da situazioni di carestia e di guerra. Il progetto – che è completamente autofinanziato, cioè non pesa in alcun modo sulle finanze dello Stato in quanto i fondi necessari provengono dalle associazioni promotrici - offre ai richiedenti asilo un’alternativa all’immigrazione illegale. In concreto le associazioni inviano nei Paesi interessati esperti e volontari che acquisiscono informazioni e predispongono una lista di potenziali beneficiari. Ogni segnalazione viene verificata dalle associazioni, per poi essere inviata alle istituzioni competenti per un’ulteriore verifica. Terminati i controlli, le liste dei beneficiari sono trasmesse alle autorità consolari italiane dei Paesi coinvolti, le quali rilasciano i necessari visti umanitari. Arrivati in Italia, i profughi sono ospitati in strutture di accoglienza e viene offerta loro la possibilità di un’integrazione attraverso l’apprendimento della lingua italiana, la scolarizzazione dei minorenni e altro. Si tratta di un’iniziativa encomiabile, che però non può risolvere un problema di così ampia portata. Solo misure strutturali - come la previsione di canali legali di ingresso - possono contrastare efficacemente il flusso clandestino di migranti e il traffico di esseri umani. RR

 

GERMANIA E CASO HUAWEI (su L’Azione del 1.11.2019)

Nonostante le pressioni statunitensi per impedire al colosso industriale Huawei di interagire con le tecnologie delle telecomunicazioni dei Paesi alleati, la Germania consentirà alla compagnia telefonica cinese di accedere alle sue reti 5G, finché saranno rispettati i requisiti di sicurezza decisi dal Bundesnetzagentur, l’agenzia federale tedesca competente in materia. Gli esperti tedeschi hanno motivato la loro posizione precisando che per ora non hanno ravvisato nelle iniziative dell’industria cinese minacce alla sicurezza nazionale. Da mesi alcuni Paesi – tra cui l’Australia e il Giappone, oltre agli Stati Uniti - hanno impedito a Huawei di vendere i propri prodotti alle aziende nazionali per sospette attività di spionaggio: si ritiene possibile infatti che il governo cinese possa sfruttare le strumentazioni necessarie per far funzionare le Reti di telecomunicazioni di Huawei per carpire informazioni importanti. In proposito, il governo americano ha avvertito quello tedesco che limiterà la condivisione di informazioni di intelligence nel caso in cui Huawei avesse accesso alle infrastrutture tedesche. Questa possibile forma di spionaggio tecnologico ha mortificato l’immaginazione, alimentata dalle opere letterarie, che ha sempre considerato attori delle iniziative di spionaggio agenti idealisti o dai tratti umani romantici e irresistibili, impegnati in rischiose attività per individuare e neutralizzare pericolosi criminali, o per scoprire complicati intrighi internazionali. RR 

 

L’IRREPARABILITA’ DEI DANNI AMBIENTALI (su L’Azione del 4.10.2019)

Mentre l’attenzione è concentrata sul rogo che ha distrutto parte della foresta pluviale amazzonica, un altro disastro ambientale si sta consumando nel continente sudamericano. La costa nordorientale del Brasile – per una estensione di circa 1500 km - è contaminata da larghe macchie di petrolio. Le analisi non hanno consentito di precisare la provenienza del greggio. È probabile che la sostanza sia stata scaricata nelle acque dell’Atlantico più di un mese fa da qualche nave, che al momento non è stata individuata. Purtroppo il catrame, oltre ai danni ambientali, ha imprigionato e ridotto in agonia tartarughe, cormorani, gabbiani e altri volatili. Gruppi di volontari cercano di salvare gli animali in difficoltà, curandoli dopo averli liberati dal mortale manto nero. Questo disastro ambientale si aggiunge alle tante ferite letali che abbiamo inferto al nostro pianeta, dall’inquinamento atmosferico – di cui sono maggiormente responsabili India e Cina – causato dalle anidridi prodotte dalla combustione del carbone, responsabili di piogge acide e di gravi problemi di salute, alle isole che le correnti creano negli Oceani  con più di 8 milioni di tonnellate di rifiuti che si riversano ogni anno nelle acque dei mari di tutto il mondo (la più grande si trova nell’Oceano Pacifico, tra la California e l’Arcipelago Hawaiano, e si stima che potrebbe occupare dai 700 mila ai 10 milioni di km quadrati). Purtroppo la comunità scientifica concorda nel ritenere irreparabili i danni ambientali più gravi, e pochi effetti potrà avere l’ondata emotiva prodotta dal movimento ecologista che ha avuto in Greta Thumberg la sua punta avanzata. Dobbiamo acquisire la consapevolezza che siamo tutti cittadini del mondo, la nostra reale patria. RR 

 

BRUCIA IL POLMONE DELLA TERRA (su L’Azione del 27.9.2019)

Gli incendi che stanno devastando la foresta pluviale amazzonica stanno creando danni irreparabili: potrebbero servire secoli per ripristinare la situazione preesistente. Ogni minuto viene distrutta un'area delle dimensioni di un campo da calcio. Le foreste bruciate non si ricostituiscono facilmente. La rigogliosa vegetazione dopo qualche anno dall’evento è sostituita da una fitta macchia di alberi esili. Durante la stagione secca le combustioni di piante sono fisiologiche; tuttavia secondo l’Istituto di Ricerche Spaziali del Brasile tra gennaio e agosto di quest’anno sono stati registrati in Amazzonia 73.000 incendi circa, mentre sono stati poco più di 39.750 nel corso di tutto il 2018. Questa calamità sta trasformando territori ricchi di impenetrabile vegetazione resa lussureggiante dalle copiose precipitazioni in terre desolate e aride, vulnerabili a futuri incendi. A causa di questa escalationgli ambientalisti hanno aspramente censurato le dichiarazioni del presidente Bolsonaro, che durante la campagna elettorale aveva evidenziato l’opportunità che parte della foresta pluviale fosse disboscata per essere destinata all’agricoltura e allo sfruttamento minerario, sostenendo che la crescita economica del Brasile era frenata dal mancato sfruttamento delle potenzialità dei territori occupati dalla foresta pluviale. L’Amazzonia produce il 6% dell'ossigeno dell’atmosfera terrestre. Tutto l’ecosistema del pianeta è compromesso dalle fiamme che devastano questa regione, che si è sviluppata per milioni di anni senza essere mai interessata dal fuoco. La comunità scientifica mondiale è particolarmente preoccupata: si sta ammalando il polmone vitale della terra. RR

 

GERUSALEMME, CAPITALE CONTESA (Su L’Azione del 13.9.2019)

Recentemente la Repubblica dell’Honduras ha aperto a Gerusalemme un ufficio diplomatico che svolgerà funzioni amministrative per conto dell’Ambasciata honduregna che ha sede a Tel Aviv. L’iniziativa è una concreta attuazione della volontà del Paese centro-americano di considerare Gerusalemme la capitale di Israele, conformemente a quanto stabilito dalla Knesset con una legge approvata nel luglio del 1980 (censurata da una Risoluzione dell’Onu nel successivo agosto). Con il medesimo intento lo scorso anno gli Stati Uniti e il Guatemala avevano trasferito le proprie ambasciate da Tel Aviv a Gerusalemme. La città per il suo grande valore simbolico è oggetto di gravi tensioni fra Israeliani e Palestinesi. Gli Israeliani ritengono che Gerusalemme debba essere la capitale del loro Stato perché oltre ad essere la più importante città dell’antico Regno di Giuda era sede del Tempio Santo, il luogo più sacro per l’Ebraismo. I Palestinesi rivendicano invece di aver abitato Gerusalemme in maniera esclusiva per secoli. Oggetto di controversie è in particolare la parte orientale di Gerusalemme - unilateralmente annessa da Israele nel 1967 dopo la guerra dei sei giorni - nella quale sono ubicati alcuni dei luoghi considerati santi dalle tre religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo, Islam), quali il Muro del Pianto, la moschea al-Aqsa, la basilica del Santo Sepolcro. Prendendo atto della natura irrisolta del contrasto, le organizzazioni internazionali e la maggior parte dei Paesi Membri dell’Onu hanno aperto le loro rappresentanze diplomatiche a Tel Aviv, ritenendo questa città la reale capitale di Israele. Ironia della sorte uno dei significati della parola Gerusalemme è città della pace. RR 

 

 IL FASCISMO ISLAMICO (19.8.2019)

Agli inizi di questo secondo millennio, in relazione alle crescenti conflittualità fra la civiltà occidentale e il mondo musulmano e alle derive violente di movimenti sunniti ultraconservatori, si è fatto ricorso a neologismi come ‘fascismo islamico’, ‘islamofascismo’, o espressioni simili. Questa locuzione in maniera minoritaria è utilizzata anche da chi, sottolineando il carattere ideologico della religione musulmana, sostiene che non esiste un Islam moderato [1]. La locuzione di per sé non significa nulla se non viene precisata e circostanziata. Già il termine fascismo è ambiguo: tecnicamente dovrebbe essere riferito solo al movimento - poi divenuto partito nel 1921 – che, preso il potere in Italia, instaurò un regime autoritario che dal 1922 si protrasse fino al 1943. In maniera convenzionalmente non pacifica l’attributo è stato esteso a qualsiasi dittatura di destra; con modalità analogamente controverse l’aggettivo è usato anche per definire una concezione dei rapporti umani basata sulla prevaricazione e sul ricorso alla forza. Similmente, il termine ‘fascismo islamico’ ha una duplice valenza: può riferirsi all’estremismo islamico quando assume tratti autoritari, intolleranti, o antisemiti, o, in maniera meno banale e sicuramente più interessante, si usa per definire i rapporti tra il regime fascista e il mondo islamico. È noto che Mussolini ricevette nel 1937 la ‘spada dell’Islam’, arma bianca riccamente decorata donata da un capo berbero al Duce in quanto ritenuto protettore dell’Islam. Considerato che Mussolini fu sempre attento a mantenere l’appoggio dei fedeli cattolici, la sua volontà di accreditarsi come leader politico occidentale rispettoso delle istanze del mondo islamico probabilmente deve considerarsi motivata solo da opportunismi strategici e geopolitici, ovvero dallo scopo di facilitare il perseguimento pacifico di interessi coloniali senza apparire ‘imperialista’. La propaganda di regime era in sintonia con questo intento: cercò infatti di motivare con fini umanitari la guerra in Etiopia, giustificata come operazione di liberazione dei musulmani dalle vessazioni del governo del Negus. Analogamente e coerentemente con questo intento il Fascismo in Libia costruì e restaurò moschee e inaugurò scuole di cultura islamica. In sintesi la propaganda cercava di trasmettere l’idea che il Fascismo stesse perseguendo una missione civilizzatrice, sperando di fare dei musulmani dei bravi sudditi coloniali devoti al loro capo. Le relazioni fra Islam e Occidente, nonostante la particolare attualità, hanno radici remote nel tempo, e si sono sviluppate dialetticamente per tutto il secolo scorso. Il loro approfondimento può sicuramente contribuire alla comprensione del presente. RR

 

[1] In proposito, il politologo egiziano ha affermato: “L’islam moderato non esiste. Dai tempi di Maometto l’islamista aspira alla teocrazia, lo Stato con Dio come sovrano. Dobbiamo vigilare affinché la cultura islamo-fascista non pervada la società europea” (da L’Espresso, ‘."La radice dell'Islam è fascista e i moderati musulmani non esistono’, 16.1.2015)


LA VITTORIA MALEDETTA (17.8.2019)

Purtroppo quasi giornalmente si registrano gravi fatti di sangue fra Palestinesi e Israeliani. Qualche giorno fa a Gerusalemme, nella Città Vecchia, è stato pugnalato, e per buona sorte ferito non gravemente, un ufficiale di polizia. La reazione delle forze di sicurezza ha causato la morte di uno dei due aggressori. In precedenza, l’8 agosto, era stato ritrovato accoltellato a morte nei pressi di Hebron un militare israeliano.  Questi drammatici fatti mi fanno pensare ad un recente saggio (2017) di Aharon Bregman, scrittore e giornalista israeliano, nel quale la brillante vittoria militare di Israele nella decisiva ‘Guerra dei Sei Giorni’ del 1967 viene acutamente definita ‘maledetta’. Com’è noto, il breve conflitto, che fu combattuto fra Israele da una parte ed Egitto, Siria e Giordania dall'altra, si concluse con una rapida, umiliante e totale vittoria degli israeliani. A seguito degli esiti del conflitto Israele occupò la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza, fino a quel momento territori egiziani, la Cisgiordania e Gerusalemme Est appartenenti alla Giordania, le ‘siriane’ alture del Golan. Ne seguirono le gravi turbolenze relative alla gestione e alla condizione giuridica dei territori occupati, e quelle causate dalla riluttanza di Israele alla restituzione dei territori conquistati[i], e dalle politiche di insediamento coloniale. Come precisa Bregman, gli esiti della Guerra dei Sei Giorni furono un punto di svolta nella percezione della principale questione mediorientale: gli israeliani da vittime accerchiate da minacciose potenze arabe si mostrarono potenti occupanti. Conseguentemente quei drammatici eventi rivelarono che Israele era un ‘Golia’ piuttosto più che un piccolo ‘Davide’: la diffusa istintiva simpatia di parte del mondo occidentale cessò di essere saldamente dalla parte degli israeliani, vittime dell’olocausto nazista e di uno strisciante e mai sopito ricorrente antisemitismo, e cominciò a spostarsi verso le nuove vittime, ovvero gli arabi, principalmente i palestinesi, che avevano subito l’occupazione militare. Per questo il trionfo del 1967 finì per trasformarsi per Israele in una ‘vittoria maledetta’. La storia successiva è la sequenza di tante opportunità per risolvere questo drammatico conflitto, sprecate a causa della rigidità dei governi israeliani e a causa delle divisioni fra i palestinesi, guidati da una leadership politica litigiosa e poco lungimirante. RR

 

[i] Il Sinai fu restituito all’Egitto tra il 1979 e il 1982. Successivamente Israele si ritirò parzialmente anche dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania. Buona parte della Cisgiordania, la Gerusalemme Est araba e le Alture del Golan restano sotto stretto controllo israeliano.


IL RISCHIO DELLA BANALIZZAZIONE DEL CRISTIANESIMO (5.8.2019)

Animati dall’intenzione di contrastare la diffusione in Europa della religione islamica a seguito dei fenomeni migratori e di affermare l’estraneità di altre culture, viene sottolineata la natura cristiana delle radici europee. La costante interazione del Cristianesimo nelle sue manifestazioni spirituali e temporali con la storia politica dell’Europa è un fatto oggettivo e non ideologico Chi dubita di questo probabilmente non tiene conto che affermando la natura cristiana delle radici europee non si vuole attribuire natura confessionale agli Stati attuali né negare la conquista moderna e illuministica della laicità, ma solo riconoscere una realtà storica obiettiva. Sembra ugualmente innegabile l’influenza della religione cristiana nello sviluppo della cultura europea, anche nel caso in cui questa suggestione sia valutata in termini negativi di mera interferenza. Molti valori confessionali hanno influenzato lo sviluppo del patrimonio etico europeo. È noto ad esempio che la Rivoluzione Francese abbia combattuto la visione antropologica e sociale della Chiesa Cattolica; tuttavia non si può disconoscere che i principi alla base del movimento rivoluzionario, cioè la libertà, l’uguaglianza e la fraternità, abbiano un’origine cristiana, anche se per la loro affermazione sono stati commessi orrori e gravi crimini.  Analogamente il valore della persona come base della convivenza umana è entrato nella storia attraverso il Cristianesimo. Come corollario della visione sopra esposta si afferma che i simboli cristiani, come la croce e il presepe, appartengono alla tradizione europea e perciò vanno difesi con fermezza. Queste considerazioni, nonostante le ‘buone’ intenzioni, potrebbero approdare ad esiti opposti, ovvero alla banalizzazione della religione cristiana. Esigere infatti che la croce o il presepe vadano tutelati e rispettati non come simboli di un intimo convincimento spirituale, ma in quanto parte irrinunciabile dell’arte e della tradizione europea, rischia di degradare il Cristianesimo a mera matrice culturale comune dei popoli europei disconoscendone il valore di religione. RR

 

L’ASCESA NUMERICA DELL’ISLAM (su L’Azione del 30.8.2019)

Attualmente si stima che i fedeli musulmani siano circa 1,6/1,8 miliardi, che equivale a circa il 23% della popolazione mondiale; l’Islam, quanto a consistenza numerica, è la seconda religione nel mondo, dopo il Cristianesimo che, con circa 2,2 miliardi di fedeli (che equivale a più del 31%), è la confessione religiosa più praticata. Tuttavia l’Islam ha un tasso di crescita particolarmente significativo, supportato dalle dinamiche demografiche che favoriscono i Paesi islamici, che hanno in generale un tasso di natalità maggiore di quello delle regioni del mondo nelle quali prevalgono i cristiani. È pertanto probabile che in un futuro non lontano i fedeli islamici possano superare quelli cristiani, anche se non si può prevedere con certezza quando questo possa avvenire, considerata l’incidenza delle fluttuazioni delle varianti sociali e geopolitiche. L’ascesa dell’Islam, descritta da fredde statistiche che non tengono conto della reale rilevanza delle confessioni religiose nei diversi contesti nazionali, non corrisponde alla sconfitta della Cristianità occidentale di fronte ad un Islam guerriero e fortemente invasivo. L’occidente anche se in crisi, resta caratterizzato da un pensiero che, seppure debole o liquido per l’assenza di riferimenti solidi e certi, è espressione del libero - e perciò solido - dialogo fra le componenti sociali. Senza disconoscere i possibili condizionamenti dovuti ai mezzi di cui si possono avvalere le élite al potere, qualsiasi materia in occidente può essere oggetto di un approfondimento, laicamente condiviso, senza costrizioni, grazie alle potenzialità della democrazia e all’eredità dell’Illuminismo che ha evidenziato il potente e positivo valore innovativo della ragione (non necessariamente contrapposta alla fede). RR


ARABIA SAUDITA E TERRORISMO (31.7.2019)

Qualche giorno fa il network Al Jazeera ha comunicato che il terrorista pakistano Khalid Sheikh Mohammed, attualmente detenuto nel campo di prigionia di Guantanamo in quanto accusato di gravissimi crimini tra cui importanti responsabilità nell’attacco al World Trade Center l’11 settembre del 2001, sarebbe disponibile a evidenziare nel corso di un procedimento giudiziario il coinvolgimento dell’Arabia Saudita negli attacchi terroristici del 2001, qualora le autorità statunitensi rinuncino alla richiesta di pena capitale nei suoi confronti.  Probabilmente la decisione sull’istanza risentirà anche di valutazioni extragiudiziali e in particolare di carattere politico. Com’è noto la monarchia Saudita è di fede religiosa ‘wahabita’, una versione estremamente rigida dell’Islam che insiste su un'interpretazione rigorosamente letterale del Corano. Sono stati spesso evidenziati legami fra potentati sauditi e fondamentalisti islamici in Paesi europei anche attraverso il supporto al ‘wahabismo’ mediante organizzazioni filantropiche come la World Assembly of Muslim Youth che fa parte della Lega mondiale islamica (è una ONG con sede principale a Jeddah, in Arabia Saudita, dove è stata fondata nel 1972; il suo obiettivo principale è quello di diffondere gli insegnamenti del vero Islam). Tuttavia l’Arabia Saudita è un tradizionale e strategico alleato, anche in funzione anti-iraniana, degli Stati Uniti. Questa alleanza (rafforzata anche da importanti accordi commerciali) sembra essersi ulteriormente consolidata sotto l’amministrazione Trump. Pertanto anche se viene segnalata da parte di alcuni politici e funzionari occidentali l’opportunità di imporre all’Arabia Saudita sanzioni per fermare il finanziamento di gruppi estremisti di matrice islamica, sembra improbabile che verranno gravate da embargo le esportazioni di petrolio saudite (come è avvenuto per l’Iran per il suo programma nucleare). Successivamente, qualche giorno dopo l’articolo di al Jazeera, in Arabia Saudita il network Arab News riprendendo un tweet del New York Times, ha sostenuto che si può affermare ‘con certezza’ che il Qatar (potenza regionale rivale dell’Arabia Saudita) supporta il terrorismo.  Anche attraverso l’accusa di finanziare il terrorismo di matrice islamica si consuma il latente conflitto regionale nel Golfo Persico per la leadership sunnita nel mondo arabo. RR

 

LA CRESCITA DELL’INDIFFERENTISMO RELIGIOSO NEL MONDO ARABO (27.7.2019)

Com’è noto il concetto di laicità è estraneo alla cultura islamica ed è confuso con la nozione di ateismo. Per la logica islamica non essere musulmano equivale a non essere credente: non è ammessa una terza possibilità, ovvero essere fedele di un altro credo. Probabilmente questo atteggiamento è una conseguenza della mancanza, nella storia dei popoli arabi, di un movimento analogo all'Illuminismo, che in Occidente ha enfatizzato i diritti di libertà affermando la necessità che si strutturino in maniera affrancata da schemi prestabiliti. L’assenza di pluralismo religioso è anche un corollario della più generale mancanza di libertà religiosa nei regimi teocratici. La libertà religiosa infatti è ritenuta un potenziale strumento di eversione. Tuttavia in questi ultimi anni si è registrato nel mondo arabo un aumento, ancora molto contenuto, dell’indifferentismo religioso. Secondo una recente ricerca dell’Arab Barometer – un istituto che monitora le variazioni politiche e sociali in Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente – dal 2013 al 2019 la frangia, ancora molto esigua, di arabi che si dichiarano ‘non religiosi’, è passata dall’8% al 13%. Il dato è particolarmente significativo se si considera che si colloca in anni di ‘risveglio islamico’. In dettaglio l'avanzata maggiore della laicità si è registrata in Tunisia (dal 16% al 35%), seguita da quella in Libia (dall'11% al 25%), in Algeria (dall' 8% al 13%), in Marocco (dal 4% al 12%), in Egitto (dal 3 al 12%). Il dato non specifica quale fede sia in diminuzione, ma, considerata l’esigua presenza di Cristiani o di fedeli di altre religioni in questi Paesi, si può fondatamente desumere che il dato si riferisca all’Islam. Gli studiosi non concordano nell’individuazione delle cause; peraltro le realtà politiche dei Paesi arabi in cui si è registrato questo dato differiscono molto fra di loro. Sembra che la deriva terroristica di matrice islamica sia estranea all’incremento del fenomeno, mentre assumerebbero particolare rilievo motivazioni personali che originano crisi religiose individuali. Questi dati anche nelle motivazioni indubbiamente avvicinano il mondo arabo alle realtà occidentali. RR

 

UNA NECESSARIA RIFLESSIONE (26.7.2019)

Il grave episodio avvenuta la notte scorsa nel quale ha perso la vita un giovane carabiniere colpito da sette coltellate suscita alcune riflessioni. Nel contrasto alla criminalità le Forze di Polizia, soprattutto Polizia di Stato e Carabinieri, pagano il loro impegno in prima linea con un pesantissimo e inaccettabile tributo di sangue. Anche se non può essere una consolazione è importante la solidarietà e la vicinanza della comunità civile, a cominciare dalla classe politica e dalle istituzioni, che non si devono limitare alle affermazioni demagogiche da ‘spot’, ma devono tradurre le loro affermazioni in misure concrete che consentano agli operatori di polizia di lavorare in sicurezza disponendo di maggiori e adeguati mezzi. Nello stesso tempo è altrettanto importante che la magistratura interpreti, come generalmente avviene, il suo fondamentale ruolo di potere dello Stato garante della legalità, con sensibilità istituzionale, consentendo agli operatori di polizia di esercitare la loro funzione con la serenità che deriva dalla consapevolezza che il loro operato, svolto nel rispetto delle norme giuridiche, sarà sempre adeguatamente tutelato sotto ogni punto di vista. RR

 

I CATTOLICI NELLA POLITICA (su L’Azione del 19.7.2019)

Le recenti elezioni europee, stimolano alcune riflessioni relativamente alla militanza politica dei cattolici. Si parla spesso di radici e di identità cristiane dei popoli europei. Queste affermazioni possono avere l’effetto di secolarizzare i principi cristiani, riducendoli a mero valore culturale. Dopo l’esperienza della Democrazia Cristiana - ovvero di un partito ispirato alla promozione di valori confessionali - la presenza politica dei cristiani è diventata trasversale, riguarda sia la sinistra che la destra. I cattolici non incidono sulle politiche dei partiti e dei movimenti. Non esiste in linea generale una contrapposizione fra la morale laica dei partiti e quella cristiana in quanto fino agli anni ’60 i valori dominanti erano quelli cristiani secolarizzati: infatti l’Illuminismo non aveva proposto valori diversi, ma un loro diverso fondamento ovvero la Ragione. I cattolici sono però portatori anche di valori non negoziabili, come l’abolizione del matrimonio omosessuale, il divieto di procreazione medicalmente assistita, il rifiuto della teoria del gender. I politici in questi casi, anche se riconoscono la propria identità cristiana o affermano ‘a titolo personale’ di essere favorevoli a qualche principio ‘non negoziabile’ (ad esempio l’abolizione dell’aborto), generalmente si affrettano a dichiararsi contrari a sostenere principi non negoziabili cattolici perché diversamente comprometterebbero il carattere laico della società. L’identità cristiana viene inoltre superficialmente utilizzata per contrapporsi ‘culturalmente’ alla penetrazione musulmana. RR

 

IL PRINCIPIO ‘AIUTIAMOLI A CASA LORO’ (su L’Azione del 5.7.2019)

È inflazionato lo slogan aiutiamoli a casa loro.  Di per sé questa affermazione avrebbe un senso positivo se si traducesse nella volontà di porre le premesse per interventi per rendere i potenziali migranti realmente liberi di restare o di partire. Non è sufficiente destinare fondi, in quanto gli interventi finanziari o i flussi di denaro devono essere strategicamente orientati. Alcuni studi hanno evidenziato che il sostegno al reddito individuale incoraggia le partenze, mentre gli investimenti nei servizi e nelle infrastrutture spingono la popolazione a restare. È necessario che siano protetti i mercati interni al fine di favorire lo sviluppo di un’economia basata sul consumo della produzione locale. Diversamente il modello imposto dalle organizzazioni internazionali prevede il ricorso al libero scambio, che in concreto privilegia l’esportazione dei beni di prima necessità, pertanto sottratti al consumo interno. Conseguentemente la popolazione africana deve destinare la disponibilità economica individuale all’acquisto di beni di importazione penalizzando la produzione e l’industria nazionale. A questa povertà contribuiscono anche forme di neocolonialismo come il land grabbing, l’accaparramento di terre fertili da parte di Stati stranieri, gruppi e aziende multinazionali, che si giovano anche di collusioni con politici e funzionari governativi. Ai piccoli agricoltori resta la prospettiva di abbandonare il proprio Paese. Senza cadere in facili moralismi si deve considerare che i flussi migratori clandestini sono alimentati anche da conflitti bellici, spesso armati dalle industrie occidentali. RR

 

MIGRANTI ECONOMICI E RICHIEDENTI ASILO (su L’Azione del 28.6.2019)

Il 20 giugno si è celebrata la Giornata Mondiale del Rifugiato. Tra i temi oggetto di approfondimento si è discusso molto della differenza fra migranti economici e richiedenti asilo. La discriminazione originariamente fu elaborata per differenziare chi parte per necessità (i pushed, destinati a diventare rifugiati) da chi lo fa per scelta (i pulled, attratti da migliori prospettive economiche). Più tecnicamente il richiedente asilo è chi chiede il riconoscimento dello status di rifugiato o di altre forme di protezione internazionale mentre il migrante economico è chi abbandona il Paese di origine alla ricerca di migliori condizioni di vita. Nella pratica la distinzione si riduce per l’assenza di un canale di ingresso specifico per i migranti economici e per il carattere composito delle cause di fuga che si celano dietro ai moventi economici; in queste ipotesi infatti non c’è mai un solo fattore che porta ad emigrare, ma un complesso di situazioni. Pertanto in concreto i migranti economici possono essere anche destinatari di protezione umanitaria. Nell’immaginario collettivo c’è un latente pregiudizio: i richiedenti asilo sono considerati meritevoli di tutela perché fuggono da guerre o persecuzioni, mentre i migranti economici sono giudicati con malcelato biasimo perché sbarcano in Europa per trovare un lavoro. Sarebbe opportuno avere politiche chiare, evitando che dall’Africa il canale dell’asilo sia impropriamente usato anche dagli immigrati economici.  La gestione di questi flussi lavorativi contribuirebbe sicuramente a ridurre gli sbarchi sulle coste europee. RR

 

CONSIDERAZIONI A MARGINE DELLA MINACCIATA PROCEDURA DI INFRAZIONE

Premetto che le questioni economiche sono per me sempre estremamente tecniche, complesse, e difficili. Peraltro quelle comunitarie sono lontane dalla mia specifica esperienza professionale a Bruxelles. Fatta questa premessa mi sembra che l’attuale rischio di procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per debito eccessivo crei una situazione con dei risvolti paradossali, che può avere esito positivo solo con molto buon senso da parte della Commissione Europea dimissionaria, e capacità di mediazione politica da parte del governo italiano. L’esecutivo comunitario afferma che esistono dei parametri di bilancio che vincolano gli Stati Membri, dai quali l’Italia si sta discostando. Da questo punto di vista la lettera di richiamo da parte della Commissione potrebbe considerarsi una specie di atto dovuto, anche se si potrebbe eccepire che in passato nei confronti di altri Stati si è praticata un maggiore flessibilità. Tuttavia le dinamiche dell’attuale economia mondiale stanno dimostrando oggettivamente che le scelte di rigore delle disposizioni dell’Unione Europea non sono solo scarsamente efficaci ma anche controproducenti. Nella sostanza la Commissione Europea uscente richiama l’applicazione di regole che probabilmente la nuova Commissione Europea – si auspica - rivedrà e modificherà, ma che al momento sono ancora pienamente vigenti. Nello stesso tempo l’Italia rivendica l’opportunità di nuove regole su cui strutturare le possibilità di ripresa economica. Alla Commissione Europea si chiede pertanto buon senso per due motivi. Innanzitutto la procedura di infrazione è un atto grave con risvolti politici che poco si addice ad un esecutivo uscente; inoltre la procedura si fonda sul richiamo di regole di dubbia efficacia, ma che tuttavia sono ancora legittimamente in vigore. Conseguentemente il governo italiano dovrà usare incisive capacità di mediazione per confermare la sua intenzione di voler continuare il cammino comunitario nella consapevolezza che l’appartenenza all’Unione esige il rispetto delle regole poste nell’interesse comune; tuttavia nello stesso tempo deve richiedere una maggiore flessibilità nell’esame della propria posizione, che ha anche l’obiettivo di sollecitare una revisione critica di parametri fissati in tempi nei quali le esigenze dell’economia mondiale erano molto diverse da quelle attuali. RR

 

LA RICCA AFRICA, IL CONTINENTE PIU’ POVERO DEL MONDO (su L’Azione del 21.6.2019)

Nel dossier “Guinea - Corruzione: ecologia umana lacerata”, pubblicato nello scorso maggio, la Caritas evidenzia il peso negativo della corruzione nello sviluppo della Guinea, che pur essendo ricca di risorse ha un alto tasso di povertà. Il dossier rivela una condizione paradigmatica di quella di molti altri Paesi africani, nei quali la corruzione è un male endemico, una calamità che prosciuga i maggiori flussi finanziari - anche provenienti da aiuti umanitari - che finiscono in conti off-shore, arricchendo élite locali complici di governi che perseguono solo interessi personali. In questi contesti i giovani della classe media, bacino di una possibile futura classe dirigente libera dalle contaminazioni di un’amministrazione approssimativa e disonesta, disponendo delle somme necessarie alimentano gli esodi clandestini verso l’Europa mediterranea. Rimangono i disperati ai quali la mancanza di mezzi preclude anche la lotteria di questi viaggi, e chi invece vive della complicità con i potentati della corruzione. Per uscire dalla povertà ed offrire un futuro ai giovani, l’Africa avrebbe bisogno di investimenti infrastrutturali, e soprattutto di proteggere i propri mercati e sviluppare un’economia basata sulla produzione e sul consumo interno. Al contrario, il modello imposto dalle organizzazioni internazionali si struttura sul massimo ricorso al libero scambio, e prevede che si esportino beni di prima necessità sottraendoli al consumo e si importi il resto, impedendo così la nascita di un’industria locale. Paradossalmente il continente più ricco del mondo è anche il più povero!  RR

 

UN NUOVO MURO DA ABBATTERE (su L’Azione del 7 giugno 2019)

Trent’anni fa, nel novembre del 1989, cadeva il Muro di Berlino: tutti conoscono le implicazioni storiche e geopolitiche dell’evento. L’ordine mondiale era strutturato sulla contrapposizione ideologica e militare fra Usa e Urss: i due Paesi avevano la leadership rispettivamente del blocco dei Paesi occidentali e di quello sovietico. La pace si fondava su un precario equilibrio, caratterizzato da una condizione permanente di ostilità reciproche. Con la caduta del Muro di Berlino e con la conseguente dissoluzione dell’Unione Sovietica è venuta meno questa bipartizione e gli Usa di fatto sono diventati l'unica potenza egemone. Il processo di globalizzazione, determinato dalla tecnologia e dai flussi migratori, offrendo maggiori possibilità di conoscenza, avrebbe dovuto conferire, alle diverse culture etniche, componenti ibride in grado di mediare le differenze strutturali ed organiche. Al contrario l’epoca della globalizzazione, oltre a generare inaspettate nuove marginalizzazioni, è tuttora caratterizzata da una perversa polarizzazione, che divide l’umanità attraverso profondi solchi ideologici. Questa radicalizzazione crea insanabili contrapposizioni, che impediscono una dialettica e un libero confronto che sarebbero altresì necessari per costruire concertate soluzioni su cui fondare un futuro di progresso. Come premessa per la creazione di una società realmente interculturale, dopo la demolizione fisica del Muro di Berlino, si impone pertanto l’abbattimento di un altro steccato, quello delle frontiere ideologiche. RR