conoscenza e informazione – il giornalismo, il Politicamente
corretto, la cancel culture (1.8.2022)
L’esplorazione delle possibilità di maturare attraverso le potenzialità mediatiche una conoscenza dei fatti e delle questioni politiche, economiche e sociali obiettiva e completa richiede un approfondimento dei rapporti fra giornalismo e ricorso al cosiddetto ‘politicamente corretto’. In proposito per ‘politicamente corretto’ si intende un atteggiamento di supina adesione a principi che hanno una consolidata considerazione in quanto sono arbitrariamente ritenuti un’acquisizione del progresso sociale e culturale. Questa opzione ha come corollario l’opposizione a qualsiasi iniziativa che contrasti o metta in discussione progressi giudicati aprioristicamente incomprimibili. È di facile intuizione che il favore per principi di indimostrata validità non sia compatibile con la libertà di informazione che, al contrario, non deve essere condizionata da idee preconcette e dall’aspirazione ad uniformarsi alle tendenze dominanti. Il giornalismo di informazione dovrebbe infatti individuare i presupposti oggettivi e neutrali delle libere discussioni che si svolgono nell’agorà mediatica, evitando che la trattazione dei temi sia condizionata da verità dogmatiche e intangibili. Questa precisazione non riguarda il giornalismo di opinione che invece manifesta il favore per un punto di vista, che generalmente coincide con ‘la linea editoriale. Qualche esempio senza entrare nel merito delle questioni. Il ‘politicamente corretto’ crea un’ipersensibilità per le problematiche connesse ai fenomeni migratori, che, fino a qualche decennio fa avevano un’importanza marginale, mentre oggi, per il loro impatto sulla società civile, richiedono approfondimenti non contaminati da pregiudizi. Da più di un decennio le società occidentali stanno attraversando una crisi economica che si riflette sulla comunità con possibili fenomeni indotti come la diminuzione delle risorse disponibili a livello individuale e l'aumento della criminalità; come conseguenza di questo clima sociale, si assiste a fenomeni di polarizzazione alimentati dalle fonti mediatiche, che favoriscono atteggiamenti divisivi dell’opinione pubblica anziché promuovere dibattiti costruttivi. I danni causati dalla polarizzazione sono accresciuti dalla tendenza dei lettori ad informarsi solo attraverso fonti che riflettono il loro sistema di credenze. Per esemplificare ulteriormente questo circolo vizioso, sempre in tema di migranti sarebbe opportuno che si superassero posizioni simmetricamente opposte rigidamente radicate su principi antitetici, ovvero quello dell’accoglienza generalizzata – criticato da chi lo giudica il prodotto di un perbenismo alimentato da un moralismo benpensante - e quello del respingimento indiscriminato. Per rendere tutto più complicato, su posizioni radicalmente antitetiche – che ormai contaminano qualsiasi dibattito, dalle politiche di accoglienza o respingimento ai vaccini – si strutturano le divisioni partitiche. Molti leader occidentali hanno investito su questo tratto della psicologia collettiva e approfittano di questo clima divisivo che impedisce all’opinione pubblica di formarsi liberamente. Queste strategie politiche riscuotono un successo popolare: lungi dall'essere estemporanee, sono espressione di un disegno che pone in diretta correlazione il diffuso malcontento con le derive di posizioni polarizzate. Su una serena formazione del libero pensiero influisce il clima radicalmente polarizzato dei mass media. Per completezza aggiungo che ultimamente sul dibattito sul ‘politicamente corretto’ si è sovrapposto quello sulla ‘cancel culture’, con la quale si intende un atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualche cosa di offensivo o politicamente scorretto e ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento. Per esemplificare la ‘cancel culture’ è stata citata da vari opinionisti per commentare la storia del bacio non consensuale di Biancaneve: il SFGate (che è un importante sito di news di San Francisco) ha pubblicato un articolo con il quale, scrivendo sulla riapertura di Disneyland e sulla nuova attrazione dedicata a Biancaneve, alla fine si criticava il modello rappresentato dall’enfatizzazione positiva del bacio del principe a Biancaneve dormiente, e quindi non consenziente. Il dibattito sulla ‘cancel culture’ influisce sul giornalismo perché in concreto si manifesta anche con una particolare sensibilità sui linguaggi da adottare, sulle parole da evitare e su quelle invece da introdurre nel lessico comune per essere più rispettosi delle cosiddette minoranze e delle persone in generale. Rowan Atkinson, il famoso Mr. Bean, ha affermato che la ‘cancel culture’ è l’equivalente della folla che nel Medioevo era in cerca di gente da bruciare. In altri termini bisogna temere la emergente pratica di mettere a tacere le opinioni impopolari. RR
CONOSCENZA
E INFORMAZIONE - FIGURE RETORICHE CHE TRASFORMANO IL GIORNALISMO DI
INFORMAZIONE IN GIORNALISMO DI OPINIONE (29.7.2022)
Esplorando le difficoltà della stampa di produrre un’informazione esaustiva e imparziale, può essere utile una rilettura a distanza di tempo della storica sentenza della Prima Sezione Civile della Cassazione del 18 ottobre 1984 n. 5259 sui limiti al diritto di cronaca, nota enfaticamente come ‘decalogo della Stampa’. La sentenza si proponeva di fornire ai giornalisti alcuni riferimenti giuridici e deontologici finalizzati ad evitare che la pubblicazione di notizie potesse causare a soggetti coinvolti a vario titolo nelle notizie stesse danni non giustificati da un corretto esercizio del diritto di cronaca. La capacità di informare capillarmente propria dei mezzi radiotelevisivi e digitali e - per quanto concerne le pubblicazioni a mezzo internet - la permanenza della notizia sul web, rendono possibile che un soggetto possa avere una compromissione della propria reputazione per un lungo tempo, anche sulla base di notizie inesatte o comunque irrilevanti, con inevitabili ripercussioni sulla sua vita sociale. Dottrina e Giurisprudenza, affrontando la materia, hanno cercato di individuare il miglior bilanciamento tra il diritto all’onore – inserito nella più ampia categoria dei diritti della personalità – ed il diritto di cronaca, corollario della libertà di stampa di cui all’art. 21 Cost. La Cassazione nella menzionata sentenza precisò che il diritto di critica è legittimamente esercitato solo se viene espresso in forma civile. In proposito, la forma della critica non è civile non soltanto quando è eccedente rispetto allo scopo informativo, o difetta di serenità e di obiettività, o calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ma anche quando non è improntata a leale chiarezza. Il difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista, per sottrarsi alle responsabilità che potrebbero seguire da affermazioni palesemente espresse, ricorre a espedienti subdoli per ingenerare nel lettore convinzioni da lui non esplicitate. Uno di questi espedienti sono i cosiddetti sottointesi sapienti: possono consistere nel racchiudere determinate parole tra virgolette o nel ricorrere a eufemismi allo scopo di far intendere che quanto detto non va interpretato in senso letterale, ma in ben altro modo, o addirittura in senso contrario rispetto al significato apparente della frase. Gli accostamenti suggestionanti consistono invece nell’associare ad uno scritto (anche solo con la vicinanza nella pagina) elementi estranei all’articolo che tuttavia evocano suggestioni denigratorie (ad esempio, affiancando all’articolo la foto di un personaggio di cattiva reputazione che non c’entra con quel contesto; o nel fare affermazioni generali o generiche tipo ‘la corruzione è un vizio diffuso’, inducendo il lettore a collegarle con le persone che si vogliono mettere in cattiva luce). Oppure, per suggestionare il lettore, si può ricorrere ad un tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato nel testo e nei titoli, o all’impiego ‘arbitrario’ di aggettivi e punti esclamativi. Oltre al tono ironico viene censurata la mezza verità: la verità incompleta è equiparata ad una falsità. Analogamente possono essere riportate notizie ‘neutre’ drammatizzandole artificiosamente. Non è raro il caso che si ricorra ad insinuazioni diffamanti mediante l’uso della locuzione ‘non si può escludere che...’ o simili. La sentenza, come si può immaginare, non venne recepita positivamente dal mondo giornalistico, che la considerò una limitazione della libertà di informazione e un attacco alla libertà di stampa. È interessante notare come attraverso queste ‘figure retoriche’ si possa fare giornalismo di opinione – cioè si possano esprimere giudizi di merito e di valore – mentre apparentemente si riferiscono solo fatti, e quindi a prima vista si faccia giornalismo di informazione. RR
Sezione I civile; sentenza 18 ottobre 1984, n. 5259 (clicca)
CONOSCENZA E INFORMAZIONE – 1. Considerazioni Introduttive (20.7.2022)
Nella classifica annuale - pubblicata a maggio di quest’anno dall’organizzazione francese Reporter senza frontiere - che dovrebbe indicare lo stato del giornalismo mondiale e il suo grado di libertà in 180 Paesi del mondo, l’Italia occupa la 58esima posizione (avendo perso 17 posti rispetto al 2021 e al 2020 quando invece era stabile alla 41esima posizione). L’Italia è stata superata anche da Gambia e dal Suriname. Il World Press Freedom Index viene redatto mediante dati forniti in forma anonima da cronisti. Uno degli elementi che ha inciso maggiormente nel giudizio negativo sulla situazione italiana è stato il ricorso all’autocensura, ovvero più precisamente sarebbe emerso che i giornalisti italiani a volte cedono alla tentazione di autocensurarsi, o per conformarsi alla linea editoriale della propria testata giornalistica, o per evitare una denuncia per diffamazione o altre forme di azione legale, o per paura di rappresaglie da parte di gruppi estremisti o della criminalità organizzata. Viene inoltre criticata nel rapporto la condizione di immobilismo che impedisce l’adozione di riforme legislative mirate alla tutela dell’attività giornalistica. Segnatamente si avverte la necessità di una migliore definizione del reato di diffamazione e di procedimenti che consentano un più rapido accesso dei media ai dati detenuti dallo Stato. La complessità del mondo dell’informazione nazionale non si esaurisce negli esiti e nelle prescrizioni di questo sondaggio. La scarsa considerazione a livello internazionale del giornalismo italiano evidenzia una realtà paradossalmente contraddittoria. Sebbene complessivamente il livello del giornalismo nazionale sia buono con significative punte avanzate rappresentate da cronisti che sono apprezzati esperti della materia di cui si occupano, l’opinione pubblica ha difficoltà ad accedere ad un’informazione obiettiva e non contaminata da valutazioni soggettive, politicamente orientate. Evidentemente il mondo dell’informazione italiano presenta delle criticità che vanno attentamente esplorate. Oggi attraverso un collegamento a Internet, è possibile disporre di una mole illimitata di dati, non raramente contraddittori, definita in termine tecnico una information overloading. La pregressa fatica di cercare notizie è oggi surrogata da quella di selezionare, valutare, filtrare, organizzare dati. In questo nuovo contesto saper leggere non basta, serve un nuovo tipo di competenza – che viene definita alfabetismo digitale – che consiste nella capacità di utilizzare un pc e di navigare in Rete con spirito critico. In occasione della pandemia da Covid 19 e del Conflitto in Ucraina il lettore ha sperimentato la difficoltà di gestire convenientemente un consistente ed eterogeneo flusso di notizie. L’intellettuale elvetico Starobinski ha felicemente enunciato questa realtà dicendo che la Rete, per le sue potenzialità pedagogiche, è al tempo stesso simile a una sintesi fra la biblioteca di Alessandria e la cloaca Massima. La Rete non si è sostituita alla carta stampata, alla radio e alla televisione, ma ha introdotto un nuovo modo di fare informazione, puntando sui tempi che sono sicuramente più brevi della diffusione di news attraverso un quotidiano cartaceo o di quelli imposti dal rispetto dei palinsesti radiotelevisivi (a parte le edizioni straordinarie). La notizia diffusa in Rete paga la sua immediatezza con il suo carattere scarno e superficiale, mentre i mass media tradizionali conservano come prerogativa l’approfondimento, ovvero un modo più meditato e articolato di fare giornalismo. Questa situazione ha trasformato il giornalismo cartaceo, che conserva ancora particolare autorevolezza, in uno strumento di opinione, prevalentemente caratterizzato da articoli ideologicamente orientati che, commentando gli accadimenti, esprimono un punto di vista soggettivo. Questo processo è avvenuto anche all’estero ma con minore intensità. Nella stampa anglosassone da sempre si pone molta attenzione alla separazione delle notizie dalle opinioni e alla facile riconoscibilità del confine fra le due tipologie: un conto è informare i lettori su un fatto, un altro è darne una propria interpretazione e valutazione. Negli ultimi anni i media italiani (quindi non solo i giornali) sono soprattutto fonti di un giornalismo d’opinione, dunque schierato e identitario, con conseguente difficoltà del fruitore di maturare un punto di vista oggettivo. RR
L'ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA DEI PAESI ISLAMICI (21.7.2022)
Nel mondo islamico c’è una significativa
prevalenza di regimi autoritari. Probabilmente nella genesi di questa
situazione hanno influito alcuni tratti comuni nella formazione dei relativi
Paesi, generalmente nati, con modalità diversificate, dalla fusione di tribù.
In proposito, gli Stati islamici fin dalle loro origini non hanno recepito
l’esigenza di sviluppare un’organizzazione amministrativa periferica, ma,
articolandosi esclusivamente su base tribale, hanno delegato ai clan – la più
elementare unità territoriale – la gestione di circoscritti poteri locali. La
tribù aveva una specifica autonomia, autosufficienza, un forte legame con il
proprio territorio, un’omogeneità interna caratterizzata da propri stili di
vita e in alcuni casi da una propria lingua o dialetto. Nella tribù mancava
qualsiasi espressione di democrazia diretta o rappresentativa; l’attribuzione
delle funzioni apicali avveniva in base a meccanismi dinastici, di anzianità, o
a mezzo di criteri di predeterminazione automatica. A questo modello
organizzativo erano del tutto estranei strumenti di libera scelta. Gli Stati
arabi - che hanno ereditato la cultura giuridica della società tribale -
generalmente fin dalle loro origini hanno tenuto in scarsa considerazione i
diritti di libertà e di uguaglianza, prerogativa delle democrazie occidentali.
L’unico interesse del suddito era che si governasse secondo giustizia,
ovvero che venisse dato ad ognuno quanto gli spettasse; questa elementare
esigenza di giustizia era alla base dell’ordine sociale. In termini concreti un
membro della comunità, poiché poteva aspirare a poteri di governo solo se aveva
aspettative fondate su meccanismi dinastici o di predeterminazione, accettava
pacificamente la supremazia del capo del clan purché venisse esercitata con
equità nei suoi confronti. In termini concreti mentre il concetto di giustizia
sostanziale (non ‘formale’) era alla base dell’ordine sociale tribale, era
invece in quel contesto del tutto sconosciuta la nozione di libertà intesa come
capacità di autodeterminazione. Il governo centrale dello Stati arabo nel demandare
alle tribù la gestione del potere locale, ne otteneva come corrispettivo ne
fedeltà e sostegno. Il clan tribale da questo punto di vista presenta analogie
con il mandamento, che nel gergo mafioso siciliano indica la zona di
influenza di una o più famiglie affiliate a Cosa Nostra. Analogamente al capo
di un clan tribale, il capo mandamento infatti gestisce il potere locale
nell’interesse della Cupola (la struttura centrale di Cosa Nostra). Solo
nel corso dei tumulti della Primavera Araba, per la prima volta i popoli arabi
hanno richiesto sistemi politici che, oltre a governare con giustizia,
assicurassero libertà e democrazia, quasi a reclamare l’avvento di
quell’Illuminismo che ha segnato così profondamente l’Occidente e che è mancato
nella loro storia. Nella creazione di uno Stato democratico sono prioritari la
formazione di un’assemblea costituente e l’indizione di libere elezioni.
Tuttavia nel contesto islamico le timide aspirazioni democratiche di alcuni
Paesi dopo la Primavera araba sono rimaste intrappolate in un circolo vizioso;
le elezioni infatti non sono il momento iniziale di una democrazia ma il punto
di arrivo, in quanto il loro valido e libero svolgimento richiede un apparato
democratico e una ben formata coscienza civica. RR
CONSIDERAZIONI SUL DISASTRO DELLA MARMOLADA (5.7.2022)
La questione climatica e le calamità correlate a iniziative ed attività del genere umano mi ricordano i contenuti di una brillante conferenza che la studiosa e docente di spiritualità indiana Preethaji tenne all’inizio della pandemia causata dal Covid 19; la registrazione dell’evento è tuttora disponibile su YouTube (https://youtu.be/zAZ8GVDxWnY). Preethaji si chiedeva se il genere umano meritasse l’opportunità di essere custode del creato. Noi uomini abbiamo sempre considerato la Storia dal nostro punto di vista, ovvero in maniera antropocentrica. Se invece fossimo ‘nei panni’ del pianeta, ci renderemmo conto che non siamo protagonisti della Storia, ma solo affidatari della conservazione del creato. Infatti, a prescindere dal dibattito scientifico e filosofico fra i sostenitori delle varie tesi sulle origini della vita - in particolare fra creazionisti, evoluzionisti ed evoluzionisti teisti (che sostengono che Dio, nel realizzare il suo progetto creativo, si sarebbe servito delle leggi della scienza, calibrando su di essa il meccanismo dell’evoluzione) -, la terra in milioni di anni ha affrontato glaciazioni, terremoti, sconvolgimenti, alluvioni, derive di continenti ed altro, per raggiungere condizioni di prezioso equilibrio, ottenute anche scartando qualsiasi possibile turbativa; ad esempio si sono estinti i dinosauri, che erano padroni assoluti del pianeta, ma nello stesso tempo anche presenze troppo invasive ed ingombranti. Il genere umano ha ereditato la terra nelle condizioni migliori, ma per conservare questa posizione di privilegio dovrebbe arrecare qualche beneficio. Diversamente, il genere umano se non è funzionale al sistema o addirittura è un elemento esiziale, rischia di essere ‘scartato’, dice Preethaji. La filosofa indiana, pertanto, già due anni fa, ci aveva invitato ad aprire gli occhi; tuttavia abbiamo continuato a manifestare insensibilità, crudeltà, a causare danni irreparabili all’ambiente per esercitare un maldestro potere sulla natura e sottometterla alla nostra presunta superiorità. L’uomo pur ergendosi a custode del Pianeta, non smette di inquinare, di distruggere, di uccidere. Esiste un legame profondo e indissolubile tra il creato e la nostra sopravvivenza. Compromettere i millenari solidi equilibri della natura significa aumentare le probabilità che i cambiamenti ambientali si traducano in calamità. Possiamo sopravvivere solo se evolvendoci saremo in grado di rispettare l’intero ecosistema, tutelando tutti gli esseri viventi, sia del mondo animale che vegetale. Diceva Gandhi: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. RR
MUSULMANI ED EUROPA. LE CONTRADDIZIONI DEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE. Il ridimensionamento dell’espansione demografica islamica. (17.6.2022)
Il tema dell’immigrazione è strettamente connesso al timore di un’inesorabile espansione demografica delle etnie di religione islamica. Alcuni studi avevano in passato diffuso l’idea di un’Europa che presto sarebbe diventata musulmana a seguito dell’alto tasso di natalità delle famiglie islamiche - sempre più numerose a causa dell’incremento dei flussi migratori - che negli anni ’90 era di 7/8 figli (per coppia), mentre quello medio delle famiglie dell’area comunitaria oscillava fra 1.2 /1.3 figli. Questa tesi allarmistica tuttavia nel tempo è stata ridimensionata, perché viziata da un errore all’origine: le proiezioni demografiche infatti erano il risultato di simulazioni basate su un tasso di natalità fisso (quello allora attuale, cioè 7/8 per le coppie musulmane, 1.2/1.3 per quelle ‘europee’). Diversamente in Europa si è progressivamente ridotto il numero di figli per coppia islamica a causa di un declino dovuto soprattutto a due fattori diversi - pianificazioni familiari dovute sia ad una maggiore istruzione, sia a minori possibilità economiche - avvicinandosi alla media europea. RR
MUSULMANI ED EUROPA. LE CONTRADDIZIONI DEL PROCESSO DI
INTEGRAZIONE. LA CONDIZIONE DELLA DONNA. (13.6.2022)
È noto che la donna nei contesti islamici anche europei generalmente vive in una condizione subalterna, che in alcuni tragici casi può assumere derive nefaste con risvolti criminogeni. La condizione femminile è penalizzata dai precetti islamici declinati in modo diverso a seconda delle correnti prevalenti nella realtà locali: è inquietante che questo status di inferiorità sia spesso vissuto con pacifica rassegnazione, cioè sia considerato la conseguenza di una situazione culturale consolidata, ordinaria, inevitabile. Conseguentemente il mondo musulmano – ovvero l’insieme degli Stati nei quali le disposizioni coraniche influenzano con diversa intensità le leggi - ha una potenzialità inesplorata: il contributo positivo che le donne potrebbero fornire alla vita sociale, economica e politica. Paradossalmente, se si esplorano i rapporti di genere nella società araba preislamica (fino al VII sec.), si scopre che il profeta Maometto aveva migliorato la condizione delle donne, prevedendo in loro favore diritti fino a quel momento inesistenti, nell’ambito tuttavia di uno status giuridico minoritario rispetto a quello dell’uomo. In tempi più recenti (fine XVIII/inizio XIX), molte donne musulmane hanno cominciato moderatamente a rivendicare libertà e diritti, dando vita ad un ‘femminismo islamico’, ovvero ad un movimento che si batteva contro i settori più integralisti, utilizzando come arma la necessità di una corretta esegesi del Corano e dei principi etici promossi dalle fonti del diritto islamico; tutto questo avrebbe consentito di approdare ad una sostanziale uguaglianza fra uomo e donna. Parallelamente a questo movimento, in alcuni Paesi a maggioranza islamica in tempi recenti sono state attribuite responsabilità istituzionali apicali a donne, riconoscendone un non comune valore di leadership. Alcuni esempi: Lala Shovkat è stata un importante leader politico in Azerbaigian, Benazir Bhutto, Mame Madior Boye, Tansu Çiller, sono state primo ministro rispettivamente in Pakistan, in Senegal, in Turchia, Kaqusha Jashari ha avuto un importante ruolo nel Kosovo, Megawati Sukarnoputri è un’ex presidente dell’Indonesia. Il Bangladesh è stato il secondo paese al mondo ad avere una donna (la già menzionata Benazir Bhutto) ai vertici dell’esecutivo (il primo Paese è stato l’Inghilterra nel XVI con Maria I ed Elisabetta I). Le donne musulmane europee ‘militanti’ potendo contare su una maggiore libertà hanno creato legami transnazionali mediante reti che si avvalgono delle nuove tecniche di comunicazione e di informazione per far circolare conoscenze, elaborazioni e iniziative. Il movimento delle femministe islamiche europee, qualora si inserisca nella galassia dei movimenti femministi internazionali, potrebbe costituire un prezioso valore aggiunto per la costruzione di un femminismo globale attraverso il suo peculiare contributo. Le rivendicazioni progressiste del movimento infatti non si rivolgono contro l’Islam ma si articolano nel suo ambito. Le donne islamiche infatti non si sentono vittime della religione, ma dell’affermazione di un sistema patriarcale che è il risultato di vicende storiche: sono convinte che l’Islam garantisca loro sufficienti diritti e opportunità. Non sarebbe il Corano ad imporre la sottomissione femminile, ma gli uomini mediante erronee letture e manipolazioni dei testi sacri. Il rapporto con la religione pertanto è ciò che maggiormente differenzia questo movimento rispetto al femminismo occidentale: mentre il femminismo occidentale ha radicate connotazioni laiche, quello islamico svolge la sua funzione progressista senza rinnegare il proprio retaggio confessionale, avvertendo tuttavia la necessità di una ridefinizione di alcuni valori fondanti per liberare l’Islam dalle sovrastrutture che lo hanno allontanato dai contenuti originari. In questo contesto il ritorno all’uso del velo da parte di giovani donne musulmane europee può essere considerato il simbolo di una ritrovata modernità nell’ambito dell’identità femminile islamica. Il cammino dell’emancipazione femminile di giovani donne musulmane che vivono in Europa può esprimersi anche con la rivendicazione del diritto alla libertà di vivere secondo gli usi e costumi occidentali. Purtroppo non è raro che questi tentativi di omologazione vengano interpretati come tradimenti di una malintesa sacralità della cultura di origine ed entrino in rotta di collisione con ambienti familiari fondamentalisti e radicali con esiti drammatici, tra cui l’uccisione per mano dei propri familiari. Questi fatti, anche se sono sempre il prodotto di una follia criminale, evidenziano il fallimento di un processo di integrazione che impone una riflessione libera da idee preconcette, da oziose polarizzazioni, da un moralismo benpensante. RR
MUSULMANI
ED EUROPA. LE CONTRADDIZIONI DEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE. PREMESSA. (9.6.2022)
Nell’Europa attuale nuclei di musulmani sempre più consistenti maturano la convinzione di considerare l’Occidente il definitivo teatro della loro esistenza. Questa consapevolezza è relativamente recente: negli anni ’60 e in tempi precedenti gli immigrati arabi tendevano a vivere con disagio la loro ‘diversità’ culturale e religiosa nel contesto europeo allora rigidamente etnocentrico. Cercavano di contrastare il sentimento di precaria estraneità abbandonando spontaneamente l’abitudine di portare indumenti tradizionali per uniformarsi alle consuetudini occidentali anche nel modo di vestire. Paradossalmente, la sopraggiunta maggiore integrazione sociale e il carattere più stabile dell’insediamento nella città europee hanno incoraggiato (fin dagli anni ’70) atteggiamenti opposti, ovvero si è assistito al ritorno all’uso di abbigliamenti tradizionali - come il niqab[i], lo chador[ii], il burqa[iii] e il qamis[iv] - come modalità esteriore per rivendicare l’appartenenza ad una cultura diversa, e per esternare il rifiuto dell’omologazione occidentale. La Francia in questi ultimi anni ha cercato di contrastare queste dinamiche mediante leggi che vietano nelle scuole di indossare veli islamici[v], soprattutto l’hijab[vi], con il dichiarato obiettivo di limitare l’esposizione in pubblico di simboli religiosi e nello stesso tempo perseguire la laicità dei contesti scolastici e formativi. Più in generale nei Paesi europei continuano ad emergere segnali che manifestano una malcelata preoccupazione nei confronti dell’Islam, che viene generalmente ritenuto erroneamente una monade indifferenziata che minaccia l’identità nazionale. Come generico corollario l’immigrazione è considerata un pericolo e non una risorsa. In piena globalizzazione viene auspicato il ripristino delle frontiere, mentre le differenze sono evidenziate in termini negativi. La conoscenza dell’altro, soprattutto se di cultura islamica, si realizza avendo il pregiudizio come parametro di riferimento. Al fine di evitare conflittualità la convivenza multiculturale con la componente islamica richiederebbe invece negoziazioni che evitino ‘zone d’ombra’. Il concetto di passiva tolleranza - che ha sfumature vagamente discriminatorie in quanto la benevolente accettazione dell’altro spesso presuppone un implicito giudizio di superiorità – dovrebbe essere sostituito con un atteggiamento di attivo riconoscimento della pari dignità dell’altro. Nel ribadire la piena vigenza dei fondamenti sui quali si fonda l’ordinamento giuridico nazionale - salvo che ci siano oggettive esigenze di aggiornamento – deve essere garantita a tutti gli appartenenti alla comunità a prescindere dalle origini etniche una reale uguaglianza nei casi concreti (ovvero non possono essere considerate diversamente situazioni sostanzialmente uguali come anche in termini simmetricamente opposti non possono essere trattate allo stesso modo situazioni apparentemente uguali ma in concreto diverse). In materia di immigrazione devono essere superate le antitetiche posizioni della demagogia politica rigidamente polarizzata sui principi opposti dell’accoglienza generalizzata o del respingimento indiscriminato, che strumentalizza per fini elettorali le possibili derive conseguenti alla radicalizzazione dei due atteggiamenti. RR
[i]Il niqāb è un velo che copre
l'intero corpo della donna, compreso il volto, lasciando scoperti solo gli
occhi.
[ii]Lo chador è un lungo velo nero
che ricopre completamente il corpo a esclusione delle mani, dei piedi e del
viso. È molto diffuso in Iran.
[iii] Il burka (o burqa) è un abito
femminile che copre interamente il corpo, compresa la testa; una fessura,
talvolta velata, all’altezza degli occhi permette alla donna di vedere. Il
burka è molto diffuso in Afghanistan.
[iv] Il qamis è la tunica maschile. Il
djellaba è la tunica munita anche di cappuccio per proteggersi dal sole, diffusa
soprattutto nel Maghreb.
[v] Nello spirito di queste
disposizioni normative transalpine i veli islamici rappresenterebbero anche uno
strumento di differenziazione discriminatoria fra uomini e donne.
[vi] L’hijab è un velo corto femminile, composto di una cuffia che tiene raccolti i capelli e il velo vero e proprio che viene appoggiato su di essa e di solito viene legato sotto il mento, avvolto intorno al collo o lasciato ricadere liberamente sul corpo.
VELO ISLAMICO, IL CRINALE SOTTILE FRA IDENTITÀ E
DIRITTO – 2. Velo ISlamico e Corano (25.5.2022)
Com’è
noto, recentemente in Afghanistan i Talebani hanno obbligato le presentatrici
tv ad andare in onda con il volto coperto. Dopo un timido tentativo di
ribellione, le presentatrici tv sono state costrette ad accettare l’imposizione
del regime, che all’inizio di maggio, attraverso prescrizioni contenute in un
decreto del Ministero della Promozione della Virtù e Prevenzione del Vizio, in
applicazioni delle direttive della Sharia, aveva imposto a tutte le
donne afghane non troppo anziane o non troppo giovani di indossare in
pubblico il burqa, o un abbigliamento che coprisse integralmente il
proprio corpo dalla testa ai piedi, compreso il volto (ad eccezione degli
occhi) in modo da evitare provocazioni ad uomini che non fossero parenti
stretti. Il Decreto precisava l’opportunità che le donne senza importanti
mansioni da svolgere in pubblico si trattenessero in casa. Questa
imposizione, come già detto, non era stata rispettata nella maggior parte dei
programmi televisivi, dove le donne continuavano ad andare in onda con il capo
coperto ma con il volto visibile. Il Regime talebano, dopo un’iniziale
apparente ‘apertura’, non ha tollerato eccezioni, nemmeno nei confronti delle
donne in tv. Per completezza di informazione nella conferenza stampa
dell’agosto scorso seguita alla conquista di Kabul, i Talebani cercarono di
accreditarsi come un gruppo moderato e aperto, intenzionato anche a garantire
il rispetto dei diritti delle donne. Nei mesi successivi tuttavia sono state
disposte misure progressivamente più restrittive, soprattutto nel campo
dell’istruzione femminile, che inducono a ritenere che questo secondo Regime
sia del tutto simile al primo, di impronta rigidamente fondamentalista e durato
dal 1996 al 2001. Nel concetto di velo islamico si intendono varie
tipologie di abbigliamento femminile adottate nei Paesi islamici conformemente
alla vigente tradizione locale. In proposito il Niqab copre tutto il
corpo, la testa e il viso, lasciando solo un’apertura per gli occhi; è diffuso
principalmente negli Stati del Golfo, soprattutto in Arabia Saudita. In alcuni
Paesi europei si ritiene che il Niqab sia in contrasto con le
disposizioni di pubblica sicurezza in quanto occulta l’identità di chi lo
indossa. L’Hijab è generalmente composta da una o due sciarpe che
coprono soltanto la testa e il collo. È il velo meno coprente. Lo Chador è
uno scialle che copre tutto il corpo ed è chiuso sul collo. Copre la testa e il
corpo, ma lascia la faccia completamente visibile. Generalmente lo Chador
è nero ed è particolarmente diffuso in Iran. Il Burqa è un velo che
copre in maniera integrale il corpo femminile. Anche gli occhi sono coperti, e
le donne che lo indossano possono vedere attraverso una retina. È usato comunemente
in Afghanistan e Pakistan. Sotto il primo regime talebano (che ha governato
l’Afghanistan dal 1996 al 2001) il suo uso è stato imposto dalla legge. Di
solito è di color azzurro. L’Al-Amira solitamente si compone di un
copricapo che si stringe alla testa e di una sciarpa a forma di tubo che si
avvolge al collo e copre anche parte della testa. Lo Shayla un
è velo rettangolare che copre la testa, molto simile all’Hijab. Si può
portare in modi diversi, anche se uno dei più comuni è in modo da coprire la
testa e parte del collo. È il tipo di velo più diffuso in Italia. Il Khimar è
un mantello che copra dalla testa in giù: alcuni modelli arrivano fino a sotto
i fianchi, altri fino alle caviglie. In ogni caso lascia scoperti gli occhi e
il volto. È diffuso soprattutto in Medio Oriente. Le direttive in materia di
abbigliamento femminile si fanno risalire al punto 31 della Sura XXIV “E di’
alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare,
dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo
fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri, solo ai loro mariti, ai
loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti,
ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle
loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno
desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste
delle donne. E non battano i piedi sì da mostrare gli ornamenti che celano.
Tornate pentiti ad Allah tutti quanti, o credenti, affinché possiate
prosperare.” Non si parla quindi esplicitamente della copertura del capo o
del viso, né di specifiche tipologie di abbigliamento, ma di coprire i propri ornamenti
cioè le bellezze femminili, le forme del corpo. Pertanto la prescrizione
coranica può essere interpretata come un semplice invito alla modestia nel
vestire, ad un atteggiamento pudico e casto. Nel mondo occidentale l’uso del
velo da parte di donne islamiche secondo la tradizione culturale e religiosa
del Paese di riferimento o provenienza, può essere anche un modo per rivendicare
l’appartenenza ad una cultura diversa. RR
APPUNTI
su ISLAM e MONDO ARABO di Roberto Rapaccini
VELO ISLAMICO, IL CRINALE SOTTILE FRA IDENTITÀ E
DIRITTO – 1. Premessa: compatibilità con le disposizioni in materia di
Pubblica Sicurezza (5.05.2022)
Periodicamente
si torna a parlare della compatibilità dell'abbigliamento delle donne musulmane
– in particolare del velo islamico integrale - con le leggi vigenti in Italia
e, più in generale, in Occidente. Preliminarmente va precisato che la scelta di
indossare il niqab (il velo islamico che occulta completamente
il volto) o abiti equivalenti invece dell'hijab (che copre solo i
capelli) ha un carattere culturale e non religioso. Il Corano infatti invita le
donne a vestirsi in modo sobrio e moralmente conveniente: in termini concreti
la Sharia imporrebbe solo un generico dovere, che dovrebbe
essere liberamente declinato sia mediante la sensibilità individuale, sia
considerando le consuetudini locali. Pertanto l'adozione di un abbigliamento
che occulta l'identità è esclusivamente il prodotto di un'interpretazione
integralista e particolarmente rigorosa di usi erroneamente ritenuti di matrice
religiosa. In tempi recenti l'abbigliamento adottato dalle donne musulmane è
divenuta anche una modalità attraverso la quale si rivendica l’appartenenza a
una cultura diversa da quella occidentale, manifestando il rifiuto di
un’omologazione fondata su una malintesa laicità. In Italia si potrebbe
prospettare l'incompatibilità del velo islamico ‘integrale’ con le normative
vigenti in materia di tutela dell’Ordine e della Pubblica Sicurezza: il velo,
oltre ad impedire la riconoscibilità della persona, potrebbe anche consentire
l'occultamento di armi, materiale esplodente, oggetti non
consentiti. L'art. 5 della legge 22/5/1975, contenente disposizioni
a tutela dell'ordine pubblico, vieta l’uso, 'senza giustificato motivo', di caschi
protettivi o di qualunque altro mezzo che impedisca il riconoscimento della
persona in pubblico. La norma citata come corollario pone il seguente quesito:
il rispetto di un principio di carattere religioso o culturale può costituire
un 'giustificato motivo' per l'adozione di un abbigliamento potenzialmente in
contrasto con le esigenze di sicurezza e di ordine pubblico? In passato il
Consiglio di Stato ha precisato che la matrice religiosa o culturale consente
di indossare in pubblico il velo (CdS 3076/08). Le esigenze di
pubblica sicurezza sarebbero infatti soddisfatte dal divieto di utilizzo in
occasione di manifestazioni e dall'obbligo per tali persone di sottoporsi
all'identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario. Resta fermo che
tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi o da parte di
specifici ordinamenti possano essere previste, anche in via amministrativa,
regole comportamentali diverse e incompatibili con il suddetto utilizzo, purché
ovviamente trovino una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di
specifiche e settoriali esigenze. Peraltro l’utilizzo del ‘velo che copre il
volto’, o, in particolare, l’uso del burqa, non sono diretti ad evitare il
riconoscimento, ma sono attuazione di una tradizione. Tuttavia esigenze di
sicurezza sopravvenute alla sopracitata pronuncia del Consiglio di Stato e
correlate alla montante minaccia terroristica di matrice islamista potrebbero
indurre a rivedere detto orientamento giurisprudenziale. RR
IL
CONFLITTO FRA RUSSIA E UCRAINA: AGGIORNAMENTO DEL 22.03.2022 - PUTIN POTRA’
ESSERE CONDANNATO PER CRIMINI DI GUERRA?
Ci
sono quattro possibilità per perseguire i crimini di guerra commessi da Putin.
· Corte
Penale internazionale - La Corte Penale internazionale fondata nel 1998
con lo Statuto di Roma è la giurisdizione che ha il potere di indagare e
giudicare gravissimi delitti commessi dagli individui (non dagli Stati) e più
precisamente: il genocidio, i crimini di guerra, i crimini contro l'umanità e
il crimine di aggressione.
· ONU
- Le Nazioni Unite potrebbero trasferire il lavoro di una commissione di
inchiesta ad un tribunale internazionale costituito per l’occasione, come fu
fatto per le accuse di genocidio in Ruanda e per i crimini commessi nella ex
Jugoslavia.
· Tribunale
Internazionale appositamente costituito (modello Norimberga) – Per perseguire
Putin potrebbe essere decisa la creazione di un apposito tribunale
internazionale su iniziativa di un gruppo di Stati, come quelli della Nato,
analogamente a quanto avvenuto per processare i nazisti al termine della
Seconda Guerra Mondiale (in base a un accordo tra Usa, Urss e Regno Unito).
· Tribunali
Nazionali - Infine, il presidente russo potrebbe essere giudicato anche
nell'ambito degli ordinamenti dei singoli Stati dove esiste una legge nazionale
per perseguire i crimini di guerra. Alcuni Stati, come la Germania, hanno già
avviato inchieste. Non esistono leggi federali in proposito negli Usa, anche se
il Dipartimento della Giustizia ha una sezione che si occupa di crimini come il
genocidio, la tortura o il reclutamento di bambini soldato, le mutilazioni
genitali femminili.
Il
primo problema pratico è la concreta possibilità di celebrare il processo e
dare attuazione alla condanna. Questo in linea di massima presuppone che Putin
venga destituito e venga estradato, salvo che venga processato in patria. La
destituzione di Putin non è un’ipotesi improbabile. C’è molto malcontento
interno e una gravissima crisi economica. Gli oligarchi cominciano ad acquisire
la consapevolezza che Putin li sta trascinando nel baratro. Inoltre la guerra
va male, i rifornimenti per le truppe in Ucraina sono in grave difficoltà. Mi
sembra che né la Russia, né gli Usa hanno aderito alla Convenzione istitutiva
della Corte Penale Internazionale. Putin potrebbe pertanto essere processato in
un Paese individuato dall'ONU o mediante un accordo fra Paesi interessati. Ci
sono precedenti importanti. Ad esempio l'ex leader jugoslavo Slobodan Milošević
fu processato da un tribunale delle Nazioni Unite all'Aia per crimini commessi
nel conflitto che seguì al crollo della Jugoslavia all'inizio degli anni '90.
Morì nella sua cella prima che la Corte potesse emettere il verdetto. Il suo
alleato serbo-bosniaco Radovan Karadžić e il capo militare serbo-bosniaco, Gen
Ratko Mladić, sono stati perseguiti con successo e stanno scontando
l'ergastolo. L'ex presidente liberiano Charles Taylor è stato condannato a 50
anni dopo essere stato per aver sponsorizzato atrocità nella vicina Sierra
Leone. L'ex dittatore del Ciad Hissène Habré, morto recentemente, è stato il
primo ex capo di stato ad essere condannato per crimini contro l'umanità da un
tribunale africano. Fu condannato all'ergastolo. Roberto Rapaccini
AGGIORNAMENTO
DEL 14.03 - NEGOZIATI A GERUSALEMME?
Sembra
che ci avviamo verso esiti devastanti: Putin va avanti, si avvicina ai confini
della Polonia con il rischio che gli attacchi sconfinino anche accidentalmente
nel territorio della Nato con una conseguente letale escalation della guerra.
C’è ancora uno spiraglio che alimenta la speranza per una soluzione negoziale
del conflitto? Il 12 marzo a fine giornata (alle 23:56) il Jerusalem Post ha
pubblicato una notizia, rilanciata successivamente da altre agenzie e testate
giornalistiche, spiegando di averla appresa da una ‘fonte diplomatica’ dopo un
colloquio telefonico avvenuto tra Zelensky e il primo ministro israeliano
Naftali Bennett. La notizia è questa: la Russia avrebbe manifestato
disponibilità a tenere negoziati con l'Ucraina a Gerusalemme. Della questione
non si parla molto (e questo è un buon segno); ci siamo abituati allo
svolgimento di incontri formali fra le due delegazioni (dai quali non sta
emergendo nulla di concreto), contestuali a contatti ufficiosi fra Stati a
livello governativo con maggiori margini di incidenza. Oggi ad esempio a Roma
il consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan, e
il Responsabile della Politica Estera del Partito Comunista Cinese Yang Jiechi
si incontreranno per discutere di questioni internazionali e regionali, e delle
relazioni fra Cina e Stati Uniti. La Cina potrebbe avere un importante ruolo
nelle trattative: in proposito il Financial Times ha ipotizzato che la Russia
possa aver chiesto alla Cina assistenza militare e soldi per sostenere
l’invasione fin dall’inizio. Israele non si è ufficialmente espresso sulle
possibili negoziazioni a Gerusalemme. Perché la candidatura di Gerusalemme? La
mediazione di Israele è gradita ad entrambe le parti. Gli interessi di Israele
e Russia potrebbero convergere nel contenimento delle mire espansionistiche
dell’Iran sul Medioriente. Quanto a Zelensky, è di origine ebrea e si
affiderebbe alla mediazione di Bennet perché sa che ‘dietro di lui’ ci sono gli
Stati Uniti. Pone un’unica condizione: che le trattative siano precedute da un
‘cease-fire’, un cessate il fuoco. In proposito, può considerarsi seria
l’intenzione dei russi di negoziare se nello stesso tempo consumano i peggiori
crimini di guerra e non manifestano minimamente l’intenzione di fermarsi? Forse
questa spietata e riprovevole strategia paradossalmente confermerebbe
l’intenzione di negoziare. Sfuggita la possibilità di una guerra lampo, la
Russia, a causa degli effetti delle sanzioni comincia ad essere in grave
difficolta ed a rischio di default. Quindi deve realizzare quanti più
impressionanti risultati bellici in breve tempo (e cioè prima di essere
travolta dalle difficoltà interne) per presentarsi al tavolo delle trattative
come una grave minaccia per la pace mondiale ed ottenere in questo modo il
consenso sulle sue proposte. Tra l’altro solo da un tavolo negoziale così
strutturato Putin potrebbe non rimanere travolto dagli eventi ed avere una via
d’uscita che potrebbe consistere anche nella possibilità di rimanere al potere.
Il pessimismo della ragione ci dice che è solo un’ipotesi, l’ottimismo della
volontà ci dice di crederci. Nel frattempo la tragedia assume contenuti di
sempre più drammatica consistenza. RR
IL
CONFLITTO FRA RUSSIA E UCRAINA - AGGIORNAMENTO DEL 9.3.2022 - PUTIN E ZELENSKY
Le
divisioni radicali che sconfinano in inconciliabili polarizzazioni estreme sono
ormai una caratteristica ricorrente nell’opinione pubblica italiana. Ci si
divide su tutto: fino a ieri ci si accapigliava fra ‘no-vax’ e ‘pro-vax’. Al
sopraggiungere dell’emergenza bellica in Ucraina le divisioni vaccinali sono
state messe ‘in stand by’ in un angolo remoto dello spazio riservato alle
cognizioni recenti e ci si è immersi in più intriganti contrapposizioni
strutturate su frettolose affabulazioni geopolitiche. Ad una maggioranza che ha
immediatamente condannato l’aggressione di Putin, si è opposta una crescente
fazione che, più riflessivamente, ha valutato inopportuno e pericoloso l’invito
di Zelensky alla resistenza, eroico solo a prima vista. Personalmente non ho
una particolare considerazione per nessuno dei due leader. Indubbiamente Putin
è un sanguinario aggressore: anche se le sue pretese territoriali avessero
qualche fondamento, sono gravemente inadeguate le modalità violente con le
quali sta cercando di realizzarle. Tuttavia non mi piace nemmeno la condotta di
Zelensky. Di fatto il suo invito alla resistenza sta causando il massacro degli
Ucraini. L’amore per il suo popolo lo dovrebbe spingere a privilegiare
soluzioni negoziate che, per il loro esito positivo, richiederebbero un
parziale (e non del tutto onorevole) accoglimento delle pretese russe. Inoltre,
sembra che in tutti i modi nel suo esclusivo interesse cerchi di coinvolgere
nel conflitto i Paesi della Nato, anche se questo possa causare una devastante
escalation del conflitto. L’insistenza di Zelensky sulla ‘No Fly Zone’ è in
proposito molto significativa.
LA
POSSIBILE CONCLUSIONE DELLA GUERRA – Se la logica avesse sempre l’ultima
parola, il conflitto fra la Russia e l’Ucraina dovrebbe concludersi in tempi
relativamente brevi con una soluzione diplomatica. La fine della guerra
conviene sia alla Russia che all’Ucraina. Se il conflitto continuasse infatti
la Russia rischierebbe che le operazioni in Ucraina si trasformino in un nuovo
‘Afghanistan’. Inoltre presto i militari russi, lontani dalle famiglie e
stanziati in terra straniera, sarebbero destinatari di un logoramento fisico e
psichico che li renderebbe sempre più esposti alle azioni nemiche di
guerriglia. In Russia continuerebbe a crescere il malcontento popolare,
ora già elevato, per i disagi causati da un repentino peggioramento delle
condizioni economiche individuali e per la perdita di un benessere solo da
qualche decennio acquisito. A questo quadro poco confortante deve aggiungersi
che al massimo entro due anni le sanzioni determinerebbero il default della
Russia. In ultimo solo attraverso una soluzione diplomatica Putin potrebbe
assicurarsi ‘una via d’uscita’ dal tunnel nel quale è entrato con questa
scellerata avventura bellica. L’Ucraina invece con la fine del conflitto
porrebbe termine a questo drammatico massacro di civili e alla distruzione del
Paese. Naturalmente l’esito positivo delle negoziazioni presuppone reciproche
concessioni. Per quanto riguarda gli aspetti territoriali il trattato di pace
potrebbe consistere nella spartizione dell’Ucraina in modo tale che cedendo
alla Russia il Donbass si ricreerebbe quel ‘cuscinetto’ di distanza dall’Europa
caro al leader russo, mentre l’Ucraina rimanente, ridimensionata, potrebbe
tornare a perseguire le sue aspirazioni europee. In vista degli accordi si
alterneranno comportamenti contraddittori, minacce, iniziative ambigue, perché
ognuno cercherà di ‘alzare la posta’ cioè di crearsi un margine più favorevole
prima di intraprendere i negoziati. Anche altri Stati coinvolti negli accordi,
ad esempio come mediatori, cercheranno di ottenere dei vantaggi (potrebbero
essere la Turchia, la Cina, etc.). Dopo gli accordi le relazioni geopolitiche
si assesteranno su nuovi equilibri. RR
IL
CONFLITTO IN UCRAINA – AGGIORNAMENTO DEL 7.03.2022 - POSSIBILI SCENARI FINALI
Uno
stimato ed esperto giornalista della BBC, James Landale, ha ipotizzato cinque
scenari futuri come possibili esiti del conflitto in atto fra Russia e Ucraina.
Primo
Scenario: guerra breve - La Russia al fine di una rapida soluzione del
conflitto intensificherebbe le operazioni belliche, supportate da incessanti
bombardamenti e da mirati cyber-attacchi per minare il funzionamento delle
strutture istituzionali, e facilitate dall’acquisizione del pieno controllo
delle fonti energetiche (dighe e centrali nucleari). Kiev cadrebbe in pochi
giorni. Questa soluzione avrebbe un altissimo costo in termini di perdita di
vite umane. Il governo di Zelensky verrebbe rimpiazzato da un regime
‘fantoccio’ filorusso. Zelensky, esposto anche al rischio di essere
assassinato, nella migliore delle ipotesi sarebbe destituito ed esiliato.
L’Ucraina diventerebbe un’altra ‘Bielorussia’, cioè uno Stato totalmente
asservito alla Russia. Il Paese in queste condizioni diventerebbe
nell’immediato futuro politicamente instabile ed esposto a insurrezioni e
devastanti forma di guerra civile.
Secondo
Scenario: guerra lunga – Il conflitto si radica, si cronicizza, non emerge la
possibilità di soluzioni a breve termine. L’esercito ucraino risulterebbe
fortemente supportato dalle azioni di guerriglia dei civili che fiaccherebbero
anche moralmente le forze russe, che non potrebbero più conseguire risultati
apprezzabili in relazione alle risorse umane e ai mezzi impiegati. Il controllo
che le truppe russe riuscirebbero ad avere su alcune regioni o siti sarebbe
reso precario dalle azioni di guerriglia. L'Occidente potrebbe continuare a
fornire armi allungando ulteriormente i tempi del conflitto. La resistenza
ucraina potrebbe rivelarsi particolarmente tenace. Nel frattempo negli anni del
conflitto una nuova leadership potrebbe insediarsi a Mosca. Non si può nemmeno
escludere la possibilità che, nonostante l'apparente sproporzione di forze fra
i due Paesi, i militari russi logorati dagli eventi bellici debbano lasciare
l'Ucraina dopo demoralizzanti sconfitte, analogamente a quanto avvenuto in
passato in Afghanistan.
Terzo
scenario: estensione del conflitto oltre i confini ucraini – Putin, come è
stato più volte detto, potrebbe subire la tentazione imperialista di
trasformare la Russia in una aggiornata versione dell’URSS. Per far questo le
sue ambizioni non si fermerebbero all’Ucraina, ma riguarderebbero, ad esempio,
anche la Moldavia e/o la Georgia. Queste due repubbliche sono nella NATO, e quindi
la loro aggressione causerebbe l’ingresso nel conflitto degli altri Paesi
dell’Alleanza, non essendo più sufficiente ‘armare’ i popoli minacciati.
Considerato che la guerra in Ucraina non sta andando bene, secondo logica Putin
non dovrebbe aprire nuovi fronti. È difficile prevedere cosa potrebbe accadere
successivamente. Indubbiamente un elemento di imprevedibile pericolo può essere
rappresentato dal fatto che Putin possa sentire minacciata la sua leadership
dall’evolversi degli eventi.
Quarto
scenario: la soluzione diplomatica – È la soluzione maggiormente auspicabile.
Tuttavia le trattative formalmente in atto non sembrano avere prospettive di
successo; sembrano infatti iniziative fittizie e di ‘facciata’. Sicuramente
sono molto più importanti i contatti informali fra capi di Stato, gli incontri
fra diverse missioni diplomatiche, il coinvolgimento dell’Onu. Un primo
risultato dell’attività diplomatica è l’attivazione di corridoi umanitari con
contestuali ‘cessate il fuoco’ per permettere l’evacuazione dei civili. Gli
accordi per avere successo devono garantire sufficientemente l’Ucraina e devono
possibilmente prevedere una ‘via d’uscita’ per Putin, il cui destino sembra
indissolubilmente legato alle sorti del conflitto. Sulle decisioni di Putin di
intraprendere la via diplomatica potrebbe incidere anche il peso
dell’opposizione interna, che continua a crescere nonostante le misure
repressive, impressionata per il ritorno nelle bare dei soldati russi deceduti
in guerra. Gli accordi potrebbero consistere nella spartizione dell’Ucraina in
modo tale che si ricrei quel ‘cuscinetto’ di distanza dall’Europa caro al
leader russo, mentre l’Ucraina rimanente, ridimensionata potrebbe tornare a
perseguire le sue aspirazioni europee.
Quinto
scenario: la caduta di Putin – In maniera circostanziata il professore di studi
strategici militari del King's College di Londra sir Lawrence Freedman prevede
una possibilità che al momento potrebbe sembrare improbabile per l’apparente
solidità al potere di Putin. Il malcontento popolare represso con sempre
maggiore difficoltà dal Cremlino, dovuto alle perdite di vite umane, alle
sconfitte militari, all’isolamento internazionale, alla perdita del benessere,
potrebbe portare ad una destituzione di Putin. Oligarchi russi, fino a ieri
fedeli al leader, colpiti dalle sanzioni a causa delle sue scelte potrebbero
essere il motore dei cambiamenti. RR
LA
GUERRA RUSSIA – UCRAINA: AGGIORNAMANTO DEL 5.3.2022
CREARE
UNA NO FLY ZONE?
La
‘No-Fly Zone’ consiste in un’area nella quale viene interdetto il volo. La
‘No-Fly Zone’ può essere dichiarata sia da singoli governi sia da
organizzazioni internazionali (Nato, Onu, Unione Europea, etc.). Ordinariamente
questa misura è usata per contrastare il sorvolo degli aerei nemici su un
determinato territorio: in concreto quindi non è un’azione difensiva, ma opera
come uno strumento offensivo. La creazione di una ‘No-Fly Zone’ infatti
richiede l’attivazione di attività di pattugliamento e, in caso di violazione
dello spazio aereo, l’irrogazione di misure repressive che possono arrivare
fino all’abbattimento del velivolo nemico. Il pattugliamento aereo va integrato
con dispositivi che assicurino anche il controllo terrestre dell’area, al fine
di evitare attacchi da terra che possano compromettere la sicurezza aerea. Nel
caso dell’Ucraina quindi l’imposizione di una ‘no-fly zone’ richiederebbe
l’impiego di Forze militari Nato per neutralizzare l’artiglieria russa già
presente sul territorio ucraino. Di fatto l’istituzione di una ‘no-fly zone’
equivarrebbe quindi all’ingresso della Nato nel conflitto, e questa possibilità
al momento non appare opportuna né prudente perché comporterebbe un pericoloso
allargamento della guerra. Per questo motivo non si è dato seguito alla
richiesta di Zelensky circa l’attivazione di detto dispositivo.
LE
SORTI DELLA CULTURA RUSSA – L’isolamento della Russia e la sua estromissione
dai contesti internazionali subiscono la tentazione di estendersi anche a
circuiti culturali come testimoniano alcuni controversi casi di cronaca. Le
manifestazioni d’arte e di cultura universalmente celebrate e il pensiero che
le veicola travalicano i confini nazionali di provenienza per appartenere a
tutti. Sono pertanto inopportune e talvolta controproducenti eventuali forme di
censura nei confronti del patrimonio culturale russo o riguardanti eventi ad
esso correlati; analogamente ‘avere la nazionalità russa’ trovandosi in un
Paese occidentale di per sé non può costituire fonte di discriminazione o di
riprovazione, né generare ‘complessi di colpa’, salvo che si accompagni ad un
attivo e manifesto sostegno dell’attuale regime russo. Tutto questo infatti non
ha nulla a che vedere con il conflitto in atto. Se poi vogliamo entrare nei
dettagli non dobbiamo dimenticare che Dostoevskij per il suo dissenso verso il
regime zarista fu esiliato quattro anni in Siberia. RR
LA
GUERRA RUSSIA-UCRAINA – AGGIORNAMENTO DEL 2.03.2022
Le
trattative – La loro evoluzione conferma che non hanno nessuna prospettiva di
successo. Le negoziazioni presuppongono reciproche concessioni che in questo
momento sono del tutto improbabili. Zelensky, dopo l’iniziale disponibilità ad
un accordo, ha cambiato strategia essendo riuscito a motivare fortemente gli
Ucraini alla resistenza; peraltro il morale degli Ucraini è decisamente alto,
essendo alimentato dai successi sul campo. Zelensky inoltre si è ormai
apertamente dichiarato filoeuropeo e a questo fa riscontro il pieno appoggio
dell’Occidente. Quindi non ha nessuna remora nei confronti della opzione
strategica della guerriglia. Allo stesso modo Putin con l’aggressione
all’Ucraina ha imboccato una via senza ritorno. Le trattative quindi forse
continueranno ma solo come ‘operazione di facciata’.
Le
evoluzioni del conflitto – La guerra si sta trasformando in guerriglia e questo
è un grosso vantaggio per l’Ucraina, come già dimostrano le ingenti perdite di
uomini e mezzi della Russia di molto maggiori di quelle dell’Ucraina. In genere
la guerriglia radicalizza e cronicizza il conflitto. L’isolamento
internazionale della Russia tuttavia è destinato a causare molti problemi
interni, dal dissenso popolare (già significativo) alla scarsità di beni.
Questo potrebbe anche causare una qualche forma di ritiro russo in un futuro
non prossimo. Sarà importante in proposito il comportamento della Cina:
neutralità o soccorso alla Russia (compromettendo affari in atto con
l’Ucraina)? Al momento non sembra che il conflitto sia destinato ad allargarsi
(AL MOMENTO…)
Situazione
interna della Russia – Forse l’aspetto risolutivo della questione rifletterà le
evoluzioni interne della Russia in materia di dissenso popolare (fortemente
crescente) e di fratture nella compagine governativa. Indubbiamente Putin vive
un momento di difficoltà, ma questo al momento polarizza le posizioni e rende
tutto pericolosamente incerto.
L’opzione
nucleare – È un pericolo sempre presente nell’ordinario ma nello specifico va
ridimensionato. Per l’attivazione di una risposta nucleare russa formalmente
non basta la follia di una persona, ma è necessario l’accordo di tre persone:
Putin, il ministro della difesa, il capo di Stato Maggiore.
Anche
se le prospettive non sono così catastrofiche al momento, nel frattempo ci sono
centinaia di morti e migliaia di profughi…e già questa è una catastrofe e il
nostro fallimento conclamato. RR
LA
GUERRA UCRAINA RUSSIA – AGGIORNAMENTO DEL 28.2.2022 - LE TRATTATIVE
È
evidente che queste trattative erano fin dall’inizio un bluff (non uso a caso
questa parola visto che nel gioco del poker il bluff viene definito: “...
rilancio non giustificato dal possesso di una combinazione vincente, fatto allo
scopo di far credere agli avversari di avere un punto alto e indurli a rinunciare
al gioco…”), un’operazione di facciata. Non si tratta e nello stesso tempo si
intensificano i bombardamenti nel territorio della controparte; anzi
generalmente nei contesti internazionali le trattative sono precedute da un
‘cease fire’, un cessate il fuoco…
Poi
mi chiedo perché la delegazione russa inviata a trattare non è stata guidata
dal ministro degli esteri russo Lavrov, che gode anche di grande credito e
stima a livello internazionale. Le ipotesi sono due:
o
il ministro Lavrov è in disaccordo con Putin;
o
si è inviata una delegazione di secondo piano perché non potesse prendere
direttamente decisioni che impegnassero il Paese, ma esprimesse riserve su ogni
questione in modo tale da sottoporre tutto a Putin in un secondo momento per la
decisione finale; in concreto quindi le trattative avrebbero così solo un
effetto dilatorio. RR
LA
GUERRA RUSSIA E UCRAINA – AGGIORNAMENTO DEL 26.2,2022
Le
decodifiche politiche o geoeconomiche sono sforzi interpretativi plausibili, ma
forse c’è un’altra realtà da considerare. Ci sono tanti segni (l’isolamento
interno, le manie, etc.) che dimostrano che c’è qualcosa di inusuale nei
comportamenti di Putin da un po' di mesi. Putin è sempre stato in passato un
cinico, freddo, attento calcolatore, ora gestisce la situazione in maniera
azzardata come un giocatore di poker. La minaccia nucleare è del tutto
gratuita, la paura dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato o in UE non ha nessun
fondamento (si entra nella NATO con l’unanimità dei Paesi membri), mentre un
ingresso nella UE presuppone lunghe procedure. In realtà anche chi parla di
costituzione di un esercito europeo per fronteggiare questo tipo di crisi dice
cose inesatte. Un esercito presuppone l’esistenza di una politica estera comune
e coerente; poi ci sono le difficoltà al momento insormontabili poste dai
trattati UE nell’attuale formulazione. Se fallisce la soluzione diplomatica, si
spera in una possibile soluzione ‘interna’ che però non sia pericolosa nelle
immediate evoluzioni per noi occidentali…
Ci
sono altri elementi da considerare
· I
russi prendono le distanze da Putin. Ormai si sentono ‘occidentali’ e stanno
perdendo le posizioni di benessere acquisite negli ultimi anni
· Il
governo russo non è compatto nel sostenere Putin
· La
Cina che ha importanti interessi in Ucraina ha preso le distanze dal conflitto
· L’Ucraina
con la sua resistenza sta diventando un nuovo Afghanistan per la Russia
RR
MAROCCO:
PARADIGMA DEL MONDO ARABO. RIFLESSIONI CON DAG TESSORE (27.12.2021)
Dag
Tessore è uno stimato saggista e traduttore, tra le lingue da lui
conosciute, oltre all’italiano, all’inglese ed al francese, ci sono
l’arabo e il cinese, nonché il greco antico e moderno, il latino e il
sanscrito. Dopo essersi formato accademicamente in linguistica comparata e
filosofia del linguaggio, ha cominciato ad occuparsi – diventandone un fine e
profondo conoscitore – di spiritualità cristiana e islamica, nonché di
religioni e di culture orientali, sia come saggista che come traduttore,
pubblicando in diversi Paesi numerosi ed apprezzati testi. Ha insegnato
Islamismo e Giudaismo presso l’Istituto di Scienze Politiche di Pescara. Ha
viaggiato a lungo in Paesi arabi, dove ha approfondito la conoscenza della
lingua araba e della cultura islamica. Oggi vive in Marocco.
Indagini
svolte da alcuni istituti di ricerca hanno evidenziato che nel mondo arabo – in
particolare nei Paesi ‘MENA’ (Middle East and North Africa) – sono in aumento
cauti atteggiamenti di indifferentismo religioso. Secondo la sua
esperienza questo fenomeno riguarda anche il Marocco? Si può certamente parlare
di indifferentismo religioso che tocca una parte di marocchini. Ma
bisogna ben intendersi sul significato di ‘indifferentismo’. Diversamente da
quanto accade in Europa con il Cristianesimo, la stragrande maggioranza dei
marocchini si sente fortemente legata all’appartenenza islamica: è molto
diffuso l’atteggiamento di apprezzamento e amore per il Corano e per la figura
di Maometto; inoltre l’Islam è percepito come parte integrante della cultura
tradizionale del Marocco. Tuttavia, un numero consistente di marocchini guarda
con diffidenza il mondo dell’Islam politico nonché tutto quell’insieme di
regole e leggi che caratterizzano l’Islam legalistico, e da questo punto di
vista il loro atteggiamento può essere considerato critico o indifferentista.
Lei
è un profondo e acuto studioso della spiritualità islamica: in generale
l’atteggiamento cautamente critico nei confronti della religione, riscontrato
recentemente nel mondo arabo, riguarda l’Islam globalmente considerato o è solo
indice di una non condivisione delle modalità di professione della fede (ovvero
è manifestazione di riserve nei confronti di un’adesione esteriore di tipo
legalistico)? Esistono diversi gradi. Marocchini che disapprovano in
toto l’Islam e si considerano atei sono probabilmente pochissimi, e in ogni
caso il peso della condanna sociale (e in parte anche legale) è talmente grande
che difficilmente queste posizioni estreme si manifestano alla luce del giorno
(diversamente, ancora una volta, da quanto accade in Europa). L’atteggiamento
critico o indifferentista si mostra invece soprattutto nello scegliere una
modalità piuttosto che un’altra di vivere l’Islam. Ma questo, a stretto rigore,
non è indifferentismo: è una scelta consapevole di vivere l’Islam secondo
quella modalità che si ritiene più giusta e più conforme al Corano.
Si
dice che nelle teocrazie non ci sia spazio per la laicità. L’indifferentismo
religioso è probabilmente un precursore di laicità. Cosa pensa in proposito con
specifico riferimento alla realtà marocchina? Penso che la laicità, così
come è vissuta in Europa e particolarmente in Francia, avrà molta difficoltà ad
attecchire in Marocco. L’Islam è percepito qui come l’anima stessa
dell’identità culturale marocchina, della sua storia e della sua tradizione.
Va anche considerato che sta crescendo molto un atteggiamento critico verso
l’Europa, guardata con sempre meno stima e ammirazione. Pertanto l’identità
islamica assume anche la funzione di opposizione al modello europeo, la cui
laicità è qui percepita spesso come mancanza di amore e fierezza per la propria
identità culturale.
La
popolazione marocchina è composta principalmente da due gruppi
etno-linguistici: i Berberi e gli Arabi. Le due etnie si sono mescolate
fra loro e reciprocamente integrate, o la comunità berbera mantiene dei tratti
distintivi? Durante le fulminee guerre di conquista condotte dai primi califfi
dell’Islam nel VII secolo, il paese che resistette con più accanimento contro
l’invasione araba fu proprio il mondo berbero (Algeria e Marocco), guidato da
figure ‘eroiche’ come la celebre regina berbera Kahina. E per secoli le
dinastie regnanti islamiche in Marocco saranno impegnate a neutralizzare le
molte sacche di autonomia e resistenza dei Berberi, arroccati sulle loro
aspre montagne dell’Atlante. Ancor oggi, dopo circa 1300 anni, l’identità
berbera è chiaramente definita e distinta dall’elemento arabo e,
diversamente da quanto accaduto nella maggior parte dei paesi conquistati dagli
arabi, la lingua autoctona – il berbero – è rimasta prevalente ed è tuttora
parlata da circa una metà dei marocchini.
Vi
sono autonome comunità berbere? Hanno limitate forme di autonomia? Oggi non
esistono forme di autonomia amministrativa o giuridica dei Berberi. Bisogna
infatti tener conto del fatto che, almeno fino a tempi recentissimi, tutta la
classe dirigente e colta era di etnia araba. E gli arabi hanno mantenuto per
secoli un atteggiamento di superiorità nei confronti dei Berberi – siamo noi
che abbiamo portato loro la lingua araba, la cultura e, soprattutto, la
religione islamica -, atteggiamento che continua a serpeggiare diffusamente.
In Algeria (l’unico altro paese con forte presenza berbera) la
frattura è arrivata al punto che molti Berberi hanno abbracciato il Cristianesimo,
sentito come la loro religione precedente all’islamizzazione forzata.
In
Marocco è presente anche una consistente minoranza ebraica, credo la più
numerosa nel mondo arabo. È integrata da un punto di vista politico e sociale?
La religione è motivo di ‘frizione’?
Per secoli vi era una fortissima presenza ebraica in Marocco, perfettamente
integrata nel tessuto sociale – parlavano berbero e vivevano come tutti gli
altri – pur nella netta distinzione religiosa, quasi sempre però vissuta con
ammirevole rispetto reciproco.
Dopo la creazione dello Stato di Israele, tuttavia, e il conseguente
diffondersi di una forte ostilità degli arabi verso gli ebrei, continuare a
vivere in Marocco diventava sempre più difficile e penoso, per cui la maggior
parte degli ebrei berberi marocchini decise di emigrare in Israele (o
in Europa).Oggi direi che il peso dell’odio reciproco tra ebrei e musulmani e
della questione palestinese rende tuttora difficile una serena
convivenza dei marocchini con i pochi ebrei rimasti, anche se la situazione qui
è verosimilmente migliore che in molti altri paesi islamici.
Da qualche mese il Marocco è uno dei pochi paesi islamici del mondo che ha
riconosciuto lo Stato d’Israele, ha istituito rapporti diplomatici
bilaterali e ha dato il via a voli aerei diretti. Ma l’iniziativa non pare
molto gradita a quella larga fetta di popolazione più religiosa.
È
presente in Marocco una comunità cristiana? Se sì, che consistenza ha? Che
rapporti ha con le istituzioni politiche e religiose del Paese?
La presenza cristiana è rigorosamente limitata agli stranieri
residenti in Marocco. Ufficialmente non esistono marocchini cristiani (e ciò è
anzi addirittura vietato per legge), anche se da diversi siti internet è facile
vedere che alcune migliaia di marocchini hanno abbracciato – segretamente – il
Cristianesimo. Esistono chiese cattoliche, protestanti e ortodosse, ma poche, e
solo nelle grandi città, ed è consentito l’accesso solo agli stranieri.
Indubbiamente vi è una certa diffusa ostilità della popolazione e delle
autorità marocchine verso il Cristianesimo, di cui si teme soprattutto il
proselitismo, ai danni dell’identità culturale, nazionale e religiosa del
Marocco.
Esistono
frange fondamentaliste? Il fondamentalismo in Marocco assume due
forme: da una parte vi sono gruppi segreti che intendono rovesciare la
monarchia e istituire un regime islamico e che, durante l’apogeo dell’Isis in
Siria, fornirono migliaia di jihadisti. Questi gruppi sono assolutamente
illegali e combattuti con durezza dal governo, al punto che la loro presenza è
praticamente impercettibile vivendo in Marocco. Poi invece esiste un largo
strato della popolazione che condivide abbastanza gli ideali integristi – e
quindi si augurerebbe la piena applicazione della Shari’a – ma che
esteriormente non fa nulla di illegale: queste persone sono sovente
riconoscibili dall’abbigliamento (niqab per le donne, baffi tagliati, barba
lunga, tunica fin sotto il ginocchio per gli uomini) e costituiscono quello
zoccolo duro dell’Islam, segretamente ostile alla monarchia regnante.
Ci
sono nuclei di confessione sciita? Lo Sciismo è praticamente assente in
Marocco, sia per motivi storici, sia perché da decenni è legato al
fondamentalismo iraniano, a cui il Regno del Marocco guarda con preoccupazione,
come a tutti i movimenti fondamentalisti islamici.
Il
vento della Primavera araba non ha soffiato in Marocco grazie alle politiche
illuminate delle istituzioni politico-religiose. Limitate e contenute proteste
ci sono state nel 2011-2012. Mi sembra che nel complesso la monarchia goda di
un adeguato consenso. Quali sono i fattori che concorrono a questa
situazione di coesione sociale, politica e istituzionale? Negli ultimi decenni
la monarchia è riuscita tutto sommato a governare discretamente il
paese e a rendere la figura del re rispettata, popolare e amata. Direi che ciò
si può spiegare con tre fattori fondamentali della politica marocchina. In
primo luogo il re, pur mantenendo un potere quasi assoluto, ha concesso nel
2011 notevoli nuove libertà politiche, soddisfacendo almeno parzialmente le
aspirazioni democratiche del paese. Inoltre egli lascia al popolo una grande
libertà nei loro affari personali e commerciali: non esistono qui tutte quelle
dettagliatissime e capillari regole e restrizioni europee sulla dimensione dei
tavoli nei ristoranti, sugli scontrini, sull’igiene nei mercati, sui prodotti
venduti dai pizzicagnoli, ecc. Infine la monarchia ha sempre rispettato e
favorito la dimensione islamica della società marocchina. Questi tre fattori
sono, a mio parere, quelli che spiegano meglio la stabilità sociale e politica
del Marocco.
La
situazione politica si mantiene attualmente tranquilla? Ci sono istanze di
maggiore libertà e democrazia? In questo ultimo anno la situazione è cambiata
notevolmente a motivo della politica sulla Covid. Qui, diversamente che in
Europa, un largo strato della popolazione non ritiene
la Covid particolarmente grave e pericoloso e percepisce quindi le
pesanti politiche di restrizioni come una inutile e indebita oppressione,
dannosissima per l’economia e per la vita quotidiana della gente. Quando poi a
metà ottobre 2021 il governo ha imposto qui il Green Pass come in
Europa, il malcontento è esploso in maniera allarmante. Vi è stata
un’opposizione fortissima, che ha portato a una generale e unanime
disobbedienza. Quantunque la legge preveda che non si può accedere a nessuna
struttura pubblica o privata (compreso l’ufficio postale, un bar o un taxi)
senza Green Pass, nessuno in tutto il paese applica questa norma. E proprio da
quando è uscita la nuova legge sull’obbligo del pass vaccinale, la popolazione,
che era arrivata al 60% circa di vaccinazione a due dosi anti-Covid,
ha smesso quasi completamente di vaccinarsi. Si è arrivati quindi in questi
mesi a un fortissimo malcontento nei confronti del governo e anche del re.
Si
auspica una laicizzazione delle istituzioni o il loro carattere confessionale
si considera una condizione imprescindibile? Proprio in questi mesi, a motivo
delle politiche sulla vaccinazione obbligatoria, assolutamente invise alla
stragrande maggioranza della popolazione, stanno aumentando moltissimo
le proteste. Addirittura, una nota deputata ha detto ultimamente, seguita
poi da molti altri, che il Marocco sta diventando una dittatura e che bisogna
lottare in ogni modo per scongiurare questa deriva. L’elemento confessionale e
religioso, ben lungi dall’essere percepito come un ostacolo
alla democrazia, è anzi visto attualmente come il fattore essenziale per
preservare le libertà civili che invece paiono venire minacciate proprio dal
modello europeo ritenuto qui da molti inaccettabilmente antidemocratico proprio
per le sue politiche sulla vaccinazione obbligatoria.
A
parte le attuali limitazioni dovute alla Covid, il Marocco è sempre stato una
meta turistica molto frequentata dagli Europei. Oltre alle indubbie bellezze
naturali e storico-artistiche ci sono altri fattori che hanno favorito queste
opzioni turistiche? Il turismo è stato favorito in Marocco anche certamente
dalla sua notevole stabilità politica, a differenza degli altri paesi del
Maghreb e del Medio Oriente. Inoltre fino a tempi recentissimi è stata
praticata una politica tesa a favorire gli investimenti stranieri e in generale
rapporti commerciali e diplomatici fruttuosi con l’Europa.
In
termini generali qual è il sentimento della popolazione nei confronti
dell’Occidente? Sempre in termini generali nei confronti dell’Occidente c’è un
atteggiamento diverso da quello che si riscontra negli altri Paesi del Maghreb
o c’è omogeneità? Generalmente l’atteggiamento della popolazione marocchina
verso gli stranieri è positivo, e questo ovviamente è di beneficio al
turismo. Il fatto che molti marocchini abbiano vissuto in Europa o abbiano
parte della famiglia residente in Europa, nonché il carattere tendenzialmente
moderato e tollerante dell’Islam marocchino, sono fattori che hanno permesso
una serena crescita del turismo, arrestata poi brutalmente con l’arrivo del
Covid e delle relative restrizioni e chiusure.
C’è
qualche altro aspetto della realtà marocchina che ritiene interessante
segnalare?
Ritengo utile, per il futuro dell’Islam e dei rapporti interreligiosi, prendere
atto delle peculiarità dell’Islam marocchino che, almeno potenzialmente e nelle
linee generali, più che una scelta ideologica esclusivista, si presenta come
una ‘tradizione’ specificamente marocchina, cioè un attaccamento ai propri
valori storici e culturali, nella consapevolezza che gli altri popoli hanno
altri valori e altre religioni, altrettanto rispettabili.
Grazie
a queste riflessioni abbiamo ora un’immagine del Marocco, che, oltre ad essere
veritiera, è filtrata dalla autorevole sensibilità intellettuale del prof. Dag
Tessore. Risulta confermato che il Marocco nel mondo arabo per alcuni tratti
peculiari può essere considerato una realtà avanzata. RR
IL
MONDO ARABO VERSO L'INDIFFERENTISMO RELIGIOSO? (2.12.2021)
La
laicità dello Stato è una delle più significative conquiste delle democrazie
moderne. La separazione fra la sfera politica e quella religiosa in concreto
tutela la libertà di religione, compresa la visione atea o semplicemente agnostica,
in quanto ha come corollario un atteggiamento di equidistanza dei pubblici
poteri da convinzioni religiose, spirituali e filosofiche. La secolarizzazione
dello Stato nella realtà si declina variamente, ma tutte le modalità possono
essere ricondotte in linea di massima a due modelli, ovvero ad una rigida
separazione tra lo Stato e le confessioni religiose, oppure ad un ‘favor’ o
attenzione accordata ad una determinata confessione (generalmente in relazione
alla sua maggiore diffusione) senza tuttavia creare reali discriminazioni.
Naturalmente il proselitismo religioso – cioè la propaganda della propria fede
compresa quella ateistica e agnostica (art.19 Costituzione italiana) – è
consentito, ma è confinato nella sfera delle relazioni private, spesso individuali,
e deve mantenersi estraneo ad attività riconducibili a pubblici poteri. Il
concetto di laicità è sconosciuto alla cultura islamica ed è spesso confuso con
la nozione di ateismo. Negli Stati Islamici si attribuisce rilievo
all’esistenza di una sola religione, l’Islam: non essere musulmano pertanto
equivale a non essere un credente. Non è ammessa una terza possibilità, ovvero
essere fedele di un altro credo religioso. Per questo motivo il termine
‘infedele’, originariamente riservato a politeisti e pagani, nel mondo arabo
comunemente è stato esteso anche agli altri monoteisti. La mancata conoscenza
del concetto di laicità può essere anche una conseguenza dell’assenza, nella
storia dei popoli arabi, di un movimento analogo all’Illuminismo, che in Occidente
ha enfatizzato i diritti di libertà, affermando la necessità che essi si
strutturino in maniera affrancata da schemi prestabiliti. L’Islam è una
religione con un’indubbia matrice politica e ideologica, in quanto postula
l’affermazione di un assetto sociale ispirato a un’impronta confessionale.
L’assenza di un pluralismo religioso nel mondo arabo è anche una diretta
conseguenza della più generale mancanza di libertà religiosa tipica dei regimi
teocratici. In essi infatti la libertà religiosa può essere un pericoloso
strumento di potenziale eversione; non c’è spazio per forme di legittimità
democratica di tipo occidentale in quanto l’unica legittimità viene dal
letterale rispetto della legge coranica. Quando la fede è vissuta come
ideologia il proselitismo è surrogato dalla militanza, cioè dall’impegno
collettivo dei fedeli per promuovere con ogni mezzo l’instaurazione di un
ordine sociale nel quale le leggi civili sono progressivamente sostituite da un
ordinamento plasmato sulla legge divina. Anche nei Paesi a maggioranza islamica
che cercano di percorrere la via della democrazia e della laicità (come la
Tunisia), il Corano rimane un riferimento irrinunciabile, in quanto in questi
ordinamenti in maniera esplicita o implicita sono previsti meccanismi istituzionali
che in concreto evitano che la vita civile si articoli in maniera
contraddittoria o semplicemente autonoma dai principi dell’Islam. In questi
ultimi anni secondo un’indagine svolta dall’istituto di ricerca Arab Barometer
[1] nel mondo arabo si sta assistendo ad un aumento, ancora molto contenuto, di
atteggiamenti di indifferentismo religioso, che si concreta in un cauto
atteggiamento critico nei confronti dell’Islam e nella non condivisione di
un’adesione esteriore di tipo legalistico. Secondo Arab Barometer la frangia di
arabi che si dichiarano ‘non religiosi’ è ancora molto esigua, ma in ripresa.
Dal 2013 al 2019 sarebbe passata dall’8% al 13%. Il dato è particolarmente
significativo se si considera che si colloca in anni di ‘risveglio islamico’. In
dettaglio l’incremento di questo atteggiamento che può preludere alla
diffusione di una moderata laicità ma in crescita, si è registrato in Tunisia
(dal 16% al 35%), in Libia (dall’11% al 25%), in Algeria (dall’ 8% al 13%), in
Marocco (dal 4% al 12%), in Egitto (dal 3 al 12%). Il dato non specifica quale
fede sia in diminuzione, ma, considerata l’esigua presenza di Cristiani o di
fedeli di altre religioni in questi Paesi, si può fondatamente desumere che il
dato si riferisca all’Islam. Gli studiosi non concordano nell’individuazione
delle cause; peraltro le realtà politiche dei Paesi arabi in cui si è
registrato questo dato differiscono molto fra di loro. Sembra che la deriva
terroristica di matrice islamica sia estranea all’incremento del fenomeno,
mentre assumerebbero particolare rilievo motivazioni personali che originano da
crisi religiose individuali. Questi dati anche nelle motivazioni personali che
li originano indubbiamente avvicinano il mondo arabo alle realtà occidentali.
RR
[1]
Arab Barometer è un network politicamente neutro che svolge ricerche e sondaggi
per monitorare le variazioni politiche e sociali in Paesi del Nord Africa e del
Medio Oriente (i cosiddetti Paesi compresi nell’acronimo MENA – Middle East and
North Africa – cioè Algeria, Arabia Saudita, Bahrain, Egitto, Emirati Arabi
Uniti, Iran, Iraq, Israele, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Marocco, Oman,
Qatar, Siria, Cisgiordania, Tunisia, e Yemen). È il più grande archivio di dati
pubblicamente disponibili sugli orientamenti dell’opinione pubblica nel mondo
arabo. Il progetto è governato da un comitato direttivo che include accademici
e ricercatori dei Paesi MENA e degli Stati Uniti.
ARTE
E SOCIOLOGIA (13.10.2021)
Nell’ultima
edizione da poco conclusa del Festival della Sociologia di Narni si è
consolidata l’intima relazione fra Scienze Sociali e Arte. In proposito nel
quadro degli eventi della manifestazione l’Arte Contemporanea è stata presente
(e lo sarà fino al 15 ottobre) con un’esposizione di opere sul tema ‘Oltre i
naufragi’, all’interno del complesso monumentale di San Domenico – Auditorium
Bortolotti di Narni. Curatrice della mostra è l’esperta Mariacristina Angeli,
che si è avvalsa della prestigiosa direzione artistica di Mauro Pulcinella e
della preziosa e insostituibile collaborazione di Ugo Antinori. L’evento,
magistralmente allestito, rende evidenti i legami fra Sociologia e Arte. L’Arte
con la capacità di ridurre la complessità delle contingenze del presente alla
sintesi unitaria ed ermetica di un pensiero complesso esibisce il suo tratto
sociologico; in maniera simmetricamente analoga la Sociologia nell’intento di
esplorare e di dare ordine logico e analitico alla realtà si avvale
dell’astrazione sistematica che impiega l’Arte per attingere valori dalla
coscienza collettiva comune. Nella mostra ‘Oltre i naufragi’ la difficile
coesistenza fra le installazioni e i tradizionali ‘quadri’ (le installazioni
adottano generalmente un linguaggio che emoziona in maniera coinvolgente,
mentre il quadro ostenta un aristocratico distacco fisico dal fruitore) è
felicemente risolta attraverso la creazione di atmosfere mediante ambienti nei
quali confluiscono energie che descrivono suggestive esperienze esistenziali.
In alcuni casi si celebra la solitudine della presenza di un’assenza; in altri
il tentativo di dare ordine ad un flusso di fotogrammi nei quali si perde
l’unicità degli istanti. Lo sguardo ha anche la possibilità di indugiare
sui tratti malinconici del dinamismo perverso e inconsistente di un paesaggio
marino nel quale si consumano drammatici naufragi. C’è pure la memoria di anni
felici di cui restano tracce attraverso forme geometricamente ridotte a un
inquieto schema minimale; o l’allusione alla vitalità tragicamente pietrificata
di una donna araba. C’è il lutto che affonda l’esistenza nel mistero del tempo,
mentre appare la metafora teneramente drammatica di un cuore trafitto dalle
api. Per citare solo alcuni momenti di un viaggio all’interno della mostra,
unica nella sua suggestiva bellezza e tutta da scolpire nel cuore e nella
memoria, che inizia e si perde nell’infinito. RR
LE
VIOLENZE A ROMA E LA DEMOCRAZIA (11.10.2021)
I
toni duri e aggressivi della manifestazione No Vax e No Green Pass a Roma nel
pomeriggio di sabato scorso – che ha avuto un epilogo nel quale le tensioni fra
manifestanti e forze di polizia sono degenerate in pericolose e non consentite
derive incluso l’attacco alla sede della CGIL – sotto il profilo dell’ordine e
della sicurezza pubblica sono segnali che vanno considerati con molta
attenzione. Infatti nel nucleo dei contestatori No Vax, politicizzato in
maniera fortemente polarizzata da elementi dell’estremismo di destra, sono
confluite varie componenti del radicalismo violento di natura fascista e
pericolose per la democrazia. La gestione di questa situazione da parte delle
istituzioni competenti è molto delicata e impegnativa, perché la necessaria
fermezza va coniugata con cautela e prudenza. Se si deve reagire con fermezza a
qualsiasi aggressione o condotta che non rispetti le dinamiche del dialogo democratico
come presupposto per esprimere il proprio pensiero, si deve altresì evitare che
le provocazioni possano degenerare nelle premesse di uno scontro diffuso o,
peggio, in atti di natura terroristica. RR
ANGELA
MERKEL NON SARÀ PIÙ LA CANCELLIERA DOPO 16 ANNI (23.9.2021)
Le
elezioni federali che si svolgono in Germania hanno sempre
un’importanza che va oltre i confini nazionali soprattutto per l’influenza
indiretta che esercitano sulle opzioni politiche ed economiche dell’Unione
Europea. Quelle che si svolgeranno il 26 settembre prossimo per il rinnovo del
Bundestag (il Parlamento federale tedesco) dovrebbe coincidere con il ritiro
dalla vita politica di Angela Merkel dopo 16 anni dal suo primo mandato
di cancelliere (precisamente dal 22 novembre 2005). Le vicende biografiche di
Angela delineano un personaggio complesso, controverso, di non facile lettura. Per
alcuni biografi dietro una prevalente matrice neoliberista si celerebbero
tiepide suggestioni marxiste, retaggio dei suoi incarichi politici giovanili
nella DDR. Con un ossimoro Angela Merkel è stata anche definita una
socialdemocratica conservatrice, una progressista amante dell’austerità, una
razionalista con mentalità scientifica – in relazione alla sua laurea in fisica
e al dottorato in chimica – influenzata da un’educazione religiosa (il padre
era un pastore protestante). Probabilmente queste ambiguità ideologiche hanno
fondamento anche nella diversa sorte delle due Germanie. Infatti Angela Merkel
(Kasner era il suo vero cognome, Merkel lo acquisì dal primo marito) nacque ad
Amburgo, nella Germania Ovest; ma dopo la sua nascita i Kasner si stabilirono
nella piccola cittadina di Templin, nella Germania Orientale: il padre,
che, come già detto, era un pastore protestante soprannominato il ministro
rosso per la decisione dell’insolito trasferimento (la madre invece
era un’insegnante di inglese) riteneva che questo cambiamento di sede gli
avrebbe consentito di ottenere incarichi di rilievo nella Chiesa Luterana,
rimasta attiva anche nell’est dopo la divisione postbellica della Germania. Le
buone relazioni con il Partito comunista consentirono alla sua famiglia qualche
piccolo privilegio: i ‘Kasner’ avevano due auto, potevano recarsi senza
difficoltà nell’ovest e ricevere soldi dai parenti rimasti ad Amburgo.
L’attivismo politico di Angela ai tempi dell’università suscitò i sospetti del
regime. Una sua biografa riferisce l’esistenza di un documento della Stasi – il
Ministero per la Sicurezza della Repubblica Democratica Tedesca – dal quale si
evince un interesse per quella brillante ragazza critica nei confronti dello
Stato. Negli anni che precedettero la caduta del muro (1989) Angela Merkel fu a
Berlino est, dove lavorava come chimico nell’Accademia delle Scienze.
La riunificazione della Germania offrì a molti tedeschi orientali
l’opportunità di ottenere posizioni di primo piano nelle istituzioni pubbliche.
Angela poteva contare su spiccate qualità politiche e su significative
esperienze pregresse, felicemente coniugate con il suo status di ‘rifugiata’
proveniente dall’est (così la definì la rivista Time, quando nel 2005 la nominò
‘personaggio dell’anno’). Nella Germania unita Angela Merkel fu presto
nominata portavoce del movimento Risveglio Democratico, che dopo pochi
mesi divenne un partito prevalentemente impegnato a sensibilizzare i cittadini
tedeschi sull’importanza della riunificazione. Nel 1990 Angela Merkel fu eletta
deputata in Parlamento come esponente del CDU (l’Unione Cristiano
Democratica aveva infatti assorbito Risveglio Democratico). Helmut Kohl, primo
cancelliere della Germania Unita, che la apprezzava molto, la nominò nel 1991
ministro per le Donne e i Giovani, e nel 1994 ministro dell’Ambiente e per la
sicurezza dei reattori nucleari. Nel 1998, quando il governo fu sconfitto alle
elezioni e il CDU fu colpito da uno scandalo finanziario che travolse lo stesso
Kohl, Angela Merkel, nominata segretario generale del CDU, avvio una
ricostruzione del partito, ponendo le premesse per l’estromissione, senza
scrupoli, dei personaggi coinvolti, compreso il suo mentore (il cancelliere
Kohl).I consensi manifestati dagli elettori furono la premessa della sua rapida
ascesa politica che le consentì nel novembre 2005 l’attribuzione
del Cancellierato, che si protrasse per quattro mandati consecutivi. La
sconfitta elettorale del CDU nel 2018 unita alla crescita dei partiti
antieuropeisti, di quelli populisti e di estrema destra indussero la
cancelliera Merkel ad annunciare il suo ritiro al termine del mandato. Angela
Merkel, essendo al vertice politico dello Stato che ha costantemente avuto il
maggiore peso nelle opzioni strategiche dell’Unione Europea soprattutto in
ambito economico, ha compiuto scelte che, pur non raramente giudicate dai Paesi
europei in maniera difforme, sono sempre sembrate finalizzate all’interesse
comune. Le si deve riconoscere il merito di aver tenuto unita e compatta
l’Europa nonostante in questi ultimi anni siano cresciute le pressioni
antieuropee esercitate da movimenti e da partiti mossi da egoistiche istanze
nazionaliste di matrice populista. In piena crisi da Coronavirus, Angela
Merkel ha avuto il coraggio di rimettere in discussione i dogmi soprattutto
tedeschi in materia di aprioristico contenimento del debito comune,
consentendo all’Europa di dotarsi di fondi (noti come Recovery Fund) per
affrontare le congiunture negative di carattere socio-economico degli Stati
Membri colpiti dalla pandemia. Ha insistito inoltre per una soluzione
condivisa e negoziata degli effetti conseguenti alla Brexit nonostante
le difficoltà della trattativa che in alcuni frangenti sembravano
insormontabili. Nell’estate del 2015 Angela Merkel ha deciso di accogliere un
elevato numero di rifugiati, prevalentemente siriani, provenienti dal
Medio Oriente; il governo tedesco avviò un consistente programma di
integrazione. Tale decisione cambiò l’approccio dell’Europa nella gestione del
fenomeno migratorio. Queste specifiche prese di posizione dimostrano che Angela
Merkel, senza farsi condizionare da ideologie o da idee preconcette, ha sempre
avuto la sensibilità e l’intuito nell’individuare le battaglie nelle quali era
necessario il massimo impegno per il raggiungimento di soluzioni concertate
nell’interesse di tutti. RR
UNIONE
EUROPEA - VERSO UN ESERCITO COMUNE? (6.9.2021)
La
politica di sicurezza e di difesa comune dovrebbe consentire all'Unione Europea
di svolgere un ruolo significativo nelle operazioni di mantenimento della pace,
nella prevenzione dei conflitti, nel rafforzamento della sicurezza globale.
L’Unione nella gestione di crisi internazionali può attualmente contare solo su
risorse civili e militari prestate dai Paesi Membri. I recenti eventi in
Afghanistan correlati al repentino disimpegno militare statunitense impongono
all’Europa una riconsiderazione delle sue possibilità concrete di affermarsi
come attore geopolitico. L’Alto Rappresentante UE per la Politica Estera ha
dichiarato che si sta valutando la possibilità di istituire una forza
militare comune, in altri termini un esercito europeo. Le forze armate sono uno
strumento utile nella prospettiva di dare seguito concreto a puntuali opzioni
politiche. Pertanto un esercito comune non potrà aggiungere potenzialità ad
un’Europa che persista nell’incapacità di esprimere una propria politica estera
caratterizzata da linee strategiche comuni. RR
CONTRO
LE MAFIE, PER UNA SOCIETÀ DELLA CORRESPONSABILITÀ (Menti in Fuga, 22.08.2021)
Il
contrasto delle mafie, oltre all’impegno dei magistrati, delle Forze
dell’Ordine, delle istituzioni politiche e amministrative, delle componenti
sociali e dei cittadini sensibili alla convenienza della legalità, richiede la
destinazione di risorse ad iniziative per la corretta formazione dei giovani.
Solo con l’imprescindibile contributo dei giovani è possibile consolidare i
presupposti su cui strutturare una società della corresponsabilità, nella quale
la consapevolezza dell’importanza del proprio impegno possa sostituire
l’indifferenza nei confronti delle derive mafiose. Il procuratore di Catanzaro,
Nicola Gratteri, ha recentemente affermato che la tirannide delle mafie si
sconfigge anche smascherando l’ipocrisia di chi dovrebbe combatterle e
scoraggiando le menzogne di chi continua a girarsi dall’altra parte. Una
società della corresponsabilità è terreno fertile per un impegno etico
determinato e costante, ed è antidoto contro reazioni effimere, fluttuanti ed
emotive. RR
IL
LENTO DECLINO DEL LIBANO (Menti in Fuga, 20.8.2021)
Nel
mondo arabo circola questa storiella. Dio, quando creò il Libano, decise di
dotarlo di bellissime montagne, di spiagge meravigliose, di fresche sorgenti di
acqua, di terreni fertili, di abitanti operosi, intelligenti, creativi,
attraenti. In concreto il Creatore voleva fare del ‘Paese dei cedri’ una specie
di Eden. Poi, riflettendo, concluse che il Paradiso non poteva esistere in
terra. E allora…diede al Libano i popoli confinanti. Uscendo dalla metafora, il
Libano in passato, tra gli anni ’50 e ’60 – era un’isola felice: era
al centro di importanti interessi finanziari e geopolitici, che prosperavano
anche grazie ad un contesto multiculturale e multietnico di provata tolleranza.
Poi è iniziato il coinvolgimento della realtà libanese nelle tensioni
mediorientali alimentate dai Paesi vicini. Il Libano è diventato teatro di
scontri, di violenze, di avventure belliche, che hanno determinato una grave
instabilità politica correlata ad una fragilità strutturale. In particolare, a
seguito di crescenti tensioni, nel 1975 scoppiò una grave guerra
civile che durò fino al 1990, e si concluse con la vigenza delle poco precedenti
intese di Taif (22 ottobre 1989). Il conflitto fu caratterizzato da numerosi
contendenti e da alleanze molto fluide e variabili; fu alimentato anche da
fattori esterni, ossia dall’intervento indiretto di altri Stati con propri
specifici interessi (in particolare della Siria e di Israele), e precipitò il
Paese in una drammatica crisi economica tuttora in atto. Nel contesto arabo il
Libano è un Paese atipico. Ripercorrendo la sua storia dal mandato francese ad
oggi, appare evidente come le sue vicende, sia quelle interne che quelle
internazionali, siano strettamente correlate al suo composito impianto
confessionale. Il Libano è governato da una ‘democrazia confessionale’,
ovvero il suo assetto istituzionale risente dell’attitudine delle comunità
religiose ad avere una definita e stabile rappresentatività a livello
politico – istituzionale. Raggiunta l’indipendenza nel 1943, uno dei principali
problemi fu infatti quello di rispettare un’equa ripartizione di poteri fra le
principali comunità. Venne raggiunta un’intesa mai formalizzata fra
cristiani-maroniti e islamici-sunniti: la comunità cristiana accettava la
definizione del Libano come ‘Stato arabo’ (il Libano fa parte della Lega
araba), mentre l’attribuzione di poteri politici fra le comunità sarebbe
avvenuta tenendo conto degli esiti del censimento del 1932 svolto durante il
mandato francese (e che contò solo i cittadini libanesi residenti in Libano,
escludendo i libanesi emigrati e i residenti non libanesi). La predetta intesa,
rivista e modificata nel 1989 dai già menzionati Accordi di Taif (che
hanno anche istituito la parità parlamentare tra cristiani e musulmani),
prevedeva che il Presidente della Repubblica sarebbe stato un maronita, il
Primo Ministro un sunnita, il Presidente dell’Assemblea Nazionale uno sciita,
il vice Presidente del Parlamento un greco ortodosso. Pressioni panarabe
ostacolarono il rispetto di questo assetto: il Libano si colloca in un
contesto, quello mediorientale, a forte prevalenza arabo-musulmana.
Successivamente al 1932 non sono stati eseguiti altri censimenti ufficiali.
Probabilmente da allora sono cambiati i rapporti numerici e quindi ‘di forza’
fra le varie confessioni religiose. In proposito un elemento destabilizzante è
stato il considerevole afflusso di profughi palestinesi. Questa presenza
ha determinato un aumento della consistenza della comunità musulmana, che
pertanto cominciò a sentirsi ‘di fatto’ sottorappresentata; in maniera
simmetricamente opposta la componente cristiano-maronita temeva di perdere
l’ufficialità della sua prevalenza demografica. Nel 1992 si svolsero libere
elezioni che ebbero come esito una forte affermazione degli Hezbollah, e
quindi della fazione musulmana-sciita (questo esito fu confermato anche da
successivi appuntamenti elettorali). Questa situazione politica creò i
presupposti per forti tensioni e scontri, anche con il vicino Israele, che nel
2006 presero la forma di un vero e proprio conflitto (dal 12 luglio al 4 agosto
2006). Anche le vicende della Siria hanno causato pericolose ripercussioni
interne. Un motivo di elevata instabilità del Libano è il peso istituzionale di
Hezbollah, il movimento fondamentalista islamico di fede sciita, alleato
dell’Iran e nemico giurato di Israele. Gli Hezbollah, pur strutturati come un
partito politico, sono dotati di un’ala militare molto attiva, che ha spinto
alcuni Stati occidentali e organizzazioni internazionali a considerare
‘terroristica’ la loro matrice. Hezbollah si costituì nel 1982 con il
dichiarato obiettivo strategico di contrastare con ogni mezzo l’ingerenza
israeliana; mediante solidi mezzi finanziari e valendosi di una collaudata base
politica e militare, nei momenti di particolare difficoltà del Paese hanno
avuto una brillante capacità di dare massima visibilità alla loro vocazione
assistenzialistica, riuscendo così ad accreditarsi come unico concreto punto di
riferimento per il popolo libanese nei momenti di crisi, continuando nello
stesso tempo tuttavia ad essere la punta avanzata degli interessi dell’Iran in
questa regione. Com’è noto il 4 agosto dello scorso anno Beirut è
stata dilaniata da violentissime esplosioni, la cui micidiale onda d’urto
ha distrutto il porto e buona parte della città. Nell’immediatezza del fatto è
sembrato evidente che l’evento fosse imputabile a negligenze e incuria nella
gestione di un deposito nel quale era stoccato materiale ad alto rischio (in
particolare una quantità ingente di nitrato di ammonio, sostanza utilizzata
prevalentemente per produrre fertilizzanti). Nello stesso tempo, nell’ipotesi
di concause dolose, sono apparse subito improbabili rivendicazioni attendibili,
considerata la indiscriminata gravità dell’atto. Qualora fosse stato un
attentato, infatti, non ci si attendeva che qualcuno avesse il coraggio di
rivendicarne la paternità. In termini simmetricamente opposti la realtà
dell’attentato sarebbe stata difficilmente ammissibile da chi lo avesse subito:
sarebbe stato un grave riconoscimento di vulnerabilità. La detonazione ha avuto
una forza pari a un ventesimo di quella della bomba di Hiroshima, causando un
terremoto di magnitudo superiore a 3. I morti furono più di duecento, mentre
settemila furono i feriti. Dopo un anno non c’è ancora chiarezza; il procedere
delle indagini è fortemente ostacolato. L’esplosione e gli episodi di
malgoverno e malagiustizia che impediscono di individuare e punire i
responsabili, sono una metafora della condizione confusa, di crisi economica e
politica, ed in balìa degli eventi, in cui versa il Libano. La crisi
socio-economica si declina in specifiche gravi emergenze – come l’attuale
carenza di carburante che minaccia la fornitura di servizi sanitari e idrici
essenziali – che espongono la popolazione al rischio di inaccettabili
catastrofi umanitarie. Negli ultimi due anni il costo degli alimenti è
aumentato del 700%, mentre gli stipendi sono bloccati ai valori di prima della
crisi. Il sistema di condivisione pluralista dei poteri si è degradato, ed è
ormai inesorabilmente controllato da signori della guerra, autocrati e
militari. Un numero crescente di libanesi deve affrontare povertà, standard di
vita sempre più bassi, una limitazione dei diritti personali. La partecipazione
alla vita politica è solo virtuale, mentre chi ha poteri di governo consolida
la sua posizione con metodi dispotici, rifiutando riforme e condannando il
Paese ad un lento declino. Il 60% dei libanesi vive in condizioni di povertà
(il Paese si avvicina così al 70% che è la media dei cittadini del mondo arabo
che sono poveri o esposti alla povertà secondo i dati delle Nazioni Unite). Chi
ha disponibilità economica e/o possiede un passaporto straniero (sono una
esigua minoranza) abbandona il Paese. La situazione del Libano è grave anche
sotto un altro punto di vista: è definitivamente archiviata la
convinzione-illusione che il Libano, grazie al suo carattere multiculturale e
multietnico, stesse individuando con successo una via araba alla democrazia
mediante la costituzione di una ‘società del vivere insieme’, come
felicemente definiva questa prospettiva l’intellettuale arabo Samir Frangieh.
RR
LA
TURCHIA DI IERI PER COMPRENDERE LA TURCHIA DI OGGI (8.8.2021)
La
Turchia ha un’importanza centrale nei precari equilibri della regione
mediorientale. Il suo ruolo non sempre chiaro è il corollario di un quesito di
fondo: la Turchia conserva ancora qualche retaggio del suo passato laico o la
scelta islamica, seguita all’ascesa di Erdogan, ha innescato un processo di
islamizzazione irreversibile? È un’appendice dell’Occidente in Asia o è
la punta avanzata dell’Oriente in Europa? È un pezzo di Medio Oriente in
Occidente o un pezzo di Occidente in Medio Oriente? Probabilmente tutte queste
opzioni hanno un fondo di verità in quanto questo Paese è il diretto erede
dell’Impero Ottomano, che realizzò una sintesi fra la realtà balcanica europea
e la civiltà anatolica. Sul Bosforo c’è un ponte lungo più di un
chilometro, che unisce non solo due parti distanti della città, ma due
continenti, Asia ed Europa. Questo ponte è il simbolo di quella doppia anima
che pone spesso la Turchia al centro di delicate questioni geopolitiche, che si
ripercuotono sulle sue vicende nazionali. La natura ambigua del
Paese, oltre che attraverso la sua collocazione geografica, può essere compresa
ripercorrendo la sua storia nel XX secolo, nel quale, attraverso colpi di Stato
e rivolte, si sono alternate istanze di radicale laicizzazione, di cui i
militari sono stati i maggiori garanti, a un periodico riemergere di un’anima
conservatrice fondamentalista che promuoveva processi di islamizzazione.
Nel Novecento la storia turca si è articolata attraverso queste tappe
fondamentali. Nel 1923 Mustafà Kemal Ataturk, divenuto leader del Partito
Popolare Repubblicano, dopo aver deposto il sultano Maometto IV fondò la
Repubblica turca sulle ceneri dell’Impero Ottomano e ne divenne il primo
presidente. Kemal Ataturk è considerato il padre della Turchia moderna:
avviò una capillare modernizzazione del Paese coniugando uno spiccato
nazionalismo con una radicale laicizzazione. Venne abolito il califfato,
vennero chiuse le scuole coraniche e soppressi i tribunali religiosi, venne
esteso il diritto di voto alle donne, furono introdotti codici e una
legislazione di ispirazione europea, venne affiancato l’uso dei caratteri
occidentali a quello dell’alfabeto arabo. Ataturk morì nel 1938, ma il
processo di avvicinamento culturale e politico all’Occidente continuò con i
governi che seguirono. Nel 1945 la Turchia divenne membro dell’ONU. Nel
1952 entrò a far parte della NATO e durante la guerra fredda fu un fedele
alleato degli Stati Uniti. Tuttavia i governi laici che si alternarono
dovettero più volte fronteggiare i movimenti islamisti che rivendicavano un
ruolo maggiore nelle vicende del Paese. Già allora affioravano
quelle contraddizioni che sono particolarmente evidenti nella realtà turca
attuale. Nelle situazioni di maggiore conflittualità a tutela delle
istanze laiche intervenne l’esercito. In particolare, per porre fine a un
periodo di tumulti, nel 1980 il generale Evren prese il potere con un colpo di
Stato, probabilmente con la complicità del governo USA che voleva contrastare
lo sviluppo dei movimenti popolari di sinistra. La dittatura militare
durò due anni, nel corso dei quali venne modificata la Costituzione e nella
sostanza ci si allontanò dallo spirito riformista kemalista. Il generale
Kenan Evren avviò un processo di «normalizzazione» della società turca, nella
quale si realizzò una sintesi fra un nazionalismo acceso e il conservatorismo
dei fondamentalisti nel quadro di un sistema ispirato a princìpi neoliberisti.
Ristabilito l’ordine e ribadito il carattere laico della Turchia, i
militari, come già era avvenuto nel 1960 e nel 1970, rinunciarono al potere
politico e nel giro di due anni riconsegnarono il Paese nelle mani dei civili.
Furono convocate libere elezioni democratiche. Evren lasciò l’esercito
e venne eletto dal Parlamento Presidente della Repubblica, rimanendo in carica
fino al 1989. Nel 2002 si impadronì del potere l’AKP, il Partito per la
Giustizia e lo Sviluppo, filomusulmano e conservatore, che si era potenziato
nel quadro della tradizione dell’Islàm politico virando verso un modello di
democrazia conservatrice. Il suo leader e fondatore
Recep Tayyip Erdogan divenne primo ministro: ebbe inizio un lungo periodo molto
controverso che dura ancora oggi. Come e a tutti noto, lo scopo
della NATO fu la creazione, al termine della Seconda Guerra Mondiale, di
un’alleanza militare a carattere difensivo, che venne istituita in relazione
alle insorgenti tensioni fra il mondo occidentale e il fronte costituito
dall’Unione Sovietica e i suoi Stati satelliti. Con la caduta del muro di
Berlino e la conseguente disgregazione del blocco sovietico è venuto meno
l’antagonista per il quale era stata costituita l’Alleanza Atlantica.
Fino a quando la realtà politica mondiale si era retta sull’equilibrio
USA-URSS, era in atto una sorta di bilanciamento tra le due potenze fondato su
un ordine bipolare, caratterizzato da una situazione di permanente
contrapposizione e di ostilità reciproche. La dissoluzione dell’Unione
Sovietica ha rotto questo equilibrio, creando di fatto un’egemonia degli USA
rimasti l’unica reale superpotenza. L’attuale contrapposizione fra il mondo
islamico fondamentalista e l’Occidente di fatto ha sostituito il vuoto creato
dal crollo dell’Unione Sovietica, dal momento che l’Islàm non è soltanto una
religione, ma rappresenta anche una realtà geopolitica. L’esistenza della
NATO, che è nata nel contesto della contrapposizione USA-URSS, potrebbe trovare
una rinnovata giustificazione della sua esistenza nell’àmbito del confronto fra
Europa e radicalismo di matrice islamista. In relazione a questo
possibile nuovo ruolo della NATO, la presenza dello Stato turco all’interno del
Patto Atlantico potrebbe assumere un peculiare diverso significato strategico.
Mentre al momento dell’adesione al Patto, la posizione della Turchia era di
provata vicinanza politica agli Stati occidentali, l’attuale processo interno
di neo islamizzazione rende incerta la sua affidabilità. Gli USA, per
frenare la «proiezione» mediorientale di Ankara, hanno sempre ritenuto di
vitale importanza mantenere salde le relazioni fra il Paese turco e
l’Occidente; in proposito la NATO è lo strumento più adeguato a conseguire
questo fine. Dopo le tensioni che seguirono l’abbattimento di un velivolo
sovietico avvenuto nel novembre 2015 ad opera di due F16 Turchi, la NATO, dopo
essersi subito dichiarata dalla parte della Turchia, si è frettolosamente
impegnata ad aumentare la capacità di difesa dello spazio aereo turco da
potenziali minacce russe. In Turchia, già prima del fallito golpe del
luglio del 2016, si stava affermando in maniera inquietante una linea
autoritaria che aveva determinato un preoccupante arretramento nella tutela dei
diritti di libertà. Con il pretesto di proteggere la sicurezza nazionale
e negando di interferire con la libertà di stampa, furono sottoposti a misure
restrittive della libertà personale numerosi giornalisti. Questi eventi
rendono fondato chiedersi se la Turchia si identifichi con la politica di
Erdogan, che attraverso un processo a lungo termine sta trasformando l’identità
geopolitica del Paese, o sia rimasta integra la sua l’aspirazione laica e
filo-occidentale di origine kemalista. La Turchia di Erdogan sembra
avere l’ambizione di tornare a essere una grande potenza regionale,
un’aggiornata versione del neo califfato, cercando di acquisire, in concorrenza
con le monarchie saudite, un’incontrastata egemonia nell’area mediorientale e
nell’àmbito dell’Islàm sunnita. La pregressa disgregazione dell’Unione
Sovietica consentirebbe inoltre il ripristino degli antichi collegamenti con i
popoli di lingua turca dell’Asia centrale: conseguentemente la Turchia potrebbe
coltivare l’ambizione di diventare punto ideale di riferimento geopolitico per
uno spazio che va dalla Mongolia al Corno d’Africa. Nel mese di
marzo del 2016 è stato concluso un accordo fra la Turchia e l’Unione Europea al
fine di fronteggiare la pressione migratoria diretta in Europa, che si era
concentrata sulla Grecia dopo la chiusura della rotta balcanica.
L’accordo iniziale prevedeva che i migranti irregolari in viaggio dalla
Turchia verso la Grecia fossero accolti dalla Turchia. Per ogni profugo
in possesso dei requisiti per richiedere asilo ospitato in Turchia, un altro,
sempre in possesso dei requisiti per il diritto d’asilo, sarebbe stato
destinato dalla Turchia all’Unione Europea fino a un massimo di 72.000
individui, con priorità per quei migranti che non avessero tentato di entrare
nel territorio in modo irregolare. I profughi destinati ai Paesi
dell’Unione Europea successivamente sarebbero stati ridistribuiti in base a una
ripartizione per quote. In pratica l’Europa di fatto ‘delegava’ alla
Turchia la gestione del problema ‘immigrazione’, compensandola con un
finanziamento consistente ed altre agevolazioni. Fin dall’inizio sono
stati sollevati dubbi sulla tenuta dell’accordo: la scarsa esperienza del
governo turco in materia di politiche di asilo e di flussi migratori alimentava
qualche dubbio sui risultati a lungo termine dell’intesa. L’accordo
avrebbe dovuto avere quindi l’effetto di alleggerire la pressione dei profughi
sulla Grecia, che avrebbe rimandato gli «irregolari» in Turchia in attesa
dell’esito della loro richiesta di asilo. Per l’Italia si sarebbero
potute aprire prospettive non rassicuranti in quanto le difficoltà create dal
filtro turco avrebbero potuto spingere parte dei migranti a privilegiare la rotta
mediterranea. L’accordo presentava il limite di essere definito in
termini astratti, senza prevedere vincoli pratici di attuazione e garanzie di
natura umanitaria. Nel frattempo l’istanza turca di rilancio dei
negoziati con Bruxelles per il suo ingresso «in Europa» già allora non sembrava
avere particolari possibilità di successo, in quanto la svolta repressiva del
dissenso interno e la scarsa tutela dei diritti di libertà dei cittadini non
soddisfaceva i criteri per l’adesione. L’accordo in materia di immigrazione,
oltre a perplessità operative, ha suscitato fin dall’inizio molte critiche da
un punto di vista etico: l’Unione europea, infatti, privilegiando la tutela
delle proprie frontiere dietro il pagamento di un’ingente somma economica, si
sgravava della gestione di tutte le problematiche - comprese quelle umanitarie
- correlate alla questione dei profughi. Con la cospicua somma promessa
alla Turchia l’Europa avrebbe potuto affrontare in proprio l’emergenza con
esiti meno incerti di quelli che prospettava l’affidamento al della questione
governo di Ankara. La sera del 15 luglio 2016 una parte
dell’esercito turco tentò di impadronirsi del potere e di destituire il
presidente Erdogan. Il colpo di Stato fallì dopo qualche ora di scontri e di incertezze.
Il presidente turco nell’immediatezza cercò di fuggire dal Paese con un
aereo privato, e, mediante messaggi inviati via smarthphone all’emittente
televisiva CNN Turkey, che li diramò, invitò la popolazione a
scendere in piazza per manifestare pubblicamente il sostegno al governo.
Avendo acquisito la certezza del fallimento dell’insurrezione, Erdogan
tornò a Istanbul. Gli scontri proseguirono fino all’alba, soprattutto ad
Ankara, nelle adiacenze del palazzo presidenziale. Alla fine si registrò
un bilancio particolarmente pesante: fra militari, poliziotti e civili più di
260 persone hanno perso la vita, mentre almeno 1.500 militari sono stati
arrestati. Dopo aver ripreso il controllo del Paese, Erdogan ha
immediatamente dato inizio a una massiccia e capillare epurazione degli
ufficiali golpisti. Nei giorni successivi la destituzione dalle funzioni
è stata estesa ad altri militari, a poliziotti, a giornalisti, a docenti e
insegnanti, e a chiunque altro avesse manifestato in passato critiche o anche
solo una tiepida opposizione nei confronti del regime. L’iniziativa
golpista ha avuto come reazione manifestazioni popolari a sostegno del leader
turco, che ne hanno ulteriormente legittimato il suo potere. Erdogan
attribuì a Fetullah Gulen la responsabilità di aver organizzato l’insurrezione
dalla sua dimora negli Stati Uniti, nella quale si era autoesiliato dopo alcuni
attriti con Erdogan. L’imam turco Fetullah Gulen, che ha negato fermamente ogni
addebito, è l’ideologo e il leader del movimento politico di ispirazione
islamista ‘Hizmet’. Nei mesi precedenti il tentato golpe era cresciuta
l’opposizione interna: Erdogan per mantenere il controllo dello Stato era
ricorso all’adozione di misure che, motivate da esigenze di sicurezza, avevano
inciso negativamente in maniera consistente sulla vita democratica. È
legittimo chiedersi se questi moti insurrezionali furono un reale tentato
‘golpe’ o il pretesto per una svolta autoritaria. La Turchia resta
destinataria di un duplice attacco, sia da parte del PKK, sia da parte del
radicalismo jihadista nonostante le sue spregiudicate relazioni con l’ISIS.
Da un punto di vista internazionale il Paese è in una situazione di
isolamento. Non ha alleati nel mondo arabo, essendo espressione di un islamismo
dai tratti ambigui e palesemente animato solo da una volontà egemonica, quella
di prevalere sugli altri Stati musulmani. Il regime turco sta cercando di
uscire da questa condizione di isolamento attraverso alcuni tentativi di
normalizzazione dei rapporti bilaterali con alcuni Stati; sembra anche avviato
un timido e prudente processo di pacificazione con Israele. Sono incerti
e fluttuanti i contatti con l’Unione Europea, motivati solo dalla convenienza
reciproca, come è provato dall’accordo sui migranti. L’ipotesi di una
possibile adesione al consesso europeo sembra definitivamente tramontata, in
quanto la nazione turca non soddisfa gli standard richiesti per l’ammissione.
Il PKK, che da più di tre decenni combatte con ogni mezzo per l’autonomia
curda, anche in assenza di specifiche rivendicazioni viene individuato come il
primo responsabile di qualsiasi fatto criminoso eversivo. La Turchia al
suo interno è profondamente divisa: c’è una borghesia urbana – costituita dalle
classi benestanti e dagli studenti impegnati politicamente – che, seppur non
omogenea, è unita nel contrapporsi ai conservatori islamici che sostengono il
presidente Erdogan, sempre più autoritario e repressivo nei confronti della
libertà di opinione. Le sorti future del Paese dipendono sempre più da quale
delle due anime a lungo termine prevarrà sull’altra. RR
RIFLESSIONI
SU ISLAM POLITICO E CRISTIANESIMO (27.7.2021)
Con
il termine Islam politico si evidenzia l’attitudine della religione islamica ad
estendere l’applicazione dei propri principi alla vita sociale e politica oltre
a guidare l’esistenza individuale e personale dei singoli fedeli. In relazione
alle frizioni fra l’Islam politico e l’Occidente può essere utile ricordare
alcuni punti di contatto e di distanza fra la religione musulmana e quella
cristiana. Deve essere premesso che nell’Islam convivono tante confessioni che
assumono posizioni divergenti fra di loro, a partire dalla principale
ripartizione fra Sciiti e Sunniti. I Sunniti sono il 90/80 % circa dei
musulmani mentre il rimanente 10/20 % è di professione sciita e si trova
prevalentemente in Iran. Nell’Islam, soprattutto di professione sciita, manca
inoltre un’autorità capace di esprimere una posizione ufficiale su ogni
specifica questione.
In
proposito l’imam, pur avendo una leadership spirituale, non è un chierico, né è
destinatario di una designazione ufficiale, ma acquisisce questo titolo per
attribuzione da parte della comunità o per auto-proclamazione. Più in dettaglio
l’imam è un musulmano che, essendo particolarmente esperto nelle prescrizioni
formali relative alle preghiere collettive, si pone davanti ai fedeli guidando
l’orazione. Nell’Islam sciita il titolo di imam ha un significato religioso e
politico di maggior rilievo: gli imam sono considerati i successori legittimi
di Maometto, sono ispirati da Dio e hanno l’autorità e la conoscenza per
fornire commenti e interpretazioni del Corano.
Islam
e Cristianesimo spesso vengono messi sullo stesso piano come se si trattasse di
due religioni che, pur nelle evidenti differenze, possano essere ritenute
caratterizzate da un’omogeneità di fondo. Diversamente, l’Islam, oltre ad
essere una religione, ha anche i tratti dell’ideologia in quanto la sua
espansione postula l’instaurazione di istituzioni ispirate ad un’etica
confessionale. In particolare all’affermazione dell’Islam spesso seguono esiti
politici; un chiaro esempio di questo è la rivoluzione khomeinista in Iran nel
1978–1979, che portò all’instaurazione di un regime teocratico. La militanza
islamica si è non raramente concretizzata nella partecipazione collettiva ad
iniziative per promuovere con ogni mezzo un ordine sociale nel quale le leggi
civili fossero sostituite da un ordinamento plasmato sulla legge divina. Le
frange fondamentaliste e radicali non hanno abbandonato questo approccio. Le
azioni terroristiche di matrice islamista possono essere ritenute una
degenerazione di questo atteggiamento: il ricorso alla violenza e alla minaccia
può essere infatti considerato una scorciatoia per l’avvento di una società
ispirata ai precetti del Corano. L’adesione al Cristianesimo e le relative
attività di proselitismo invece rimangono generalmente confinate nella sfera
individuale. Anche la Fede cristiana richiede ai fedeli iniziative per
estendere la condivisione del proprio modello di vita e dei principi su cui si
fonda, ma queste iniziative tuttavia si esauriscono nell’ambito di un rapporto
personale.
Nell’Islam,
poiché si attribuisce valore legale ad una sola religione, la laicità – che ha
come corollario la possibilità di praticare di altri culti - è reputata una
forma perseguibile di ateismo. Dal difetto di laicità, di cui è corollario
l’assenza di chiari confini fra religione e politica, deriva come conseguenza
l’instaurazione, nel mondo islamico, di regimi governativi di impronta teocratica.
Anche nei Paesi arabi che hanno cercato di percorrere la via della democrazia e
della laicità (come ad esempio la Tunisia), il Corano rimane sempre uno
strumento di riferimento irrinunciabile: nei loro ordinamenti in maniera
esplicita o implicita sono previsti meccanismi giuridici e istituzionali che in
concreto evitano che la vita civile si articoli in maniera contraddittoria o
semplicemente autonoma rispetto ai contenuti della dottrina islamica.
Il
4 febbraio 2019 Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmed
Al-Tayeb, hanno firmato ad Abu Dhabi una dichiarazione comune che costituisce
un’importante storica tappa nel dialogo tra cristiani e musulmani. Il
documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune
richiama l’attenzione sulla necessità di promuovere una cultura del dialogo,
della reciproca conoscenza, della collaborazione comune per porre fine a
qualsiasi forma di violenza di matrice confessionale e a derive belliche e
terroristiche. Le religioni non devono sollecitare sentimenti di odio, di
ostilità, di estremismo, né invitare alla violenza. La dichiarazione
qualifica la libertà di religione come diritto di ogni persona, condannando
qualsiasi costrizione e discriminazione. Si percepisce la necessità che la
tolleranza verso le altre fedi prevalga su qualsiasi impulso contrario. La
tolleranza non è passiva sopportazione ma riconoscimento della pari dignità
dell’altro.
Gesù
è una figura importante anche nel mondo islamico. Naturalmente non gli si
attribuisce la centralità che ha nel Cristianesimo; tuttavia i musulmani
credono che Gesù – Isa in arabo – sia stato un grande profeta. Fra Cristiani e
Musulmani c’è un pieno accordo anche sulla venerazione della Vergine Maria, che
è ritenuta nel Corano una donna eccezionalmente pura e santa, madre del grande
profeta Gesù. I musulmani naturalmente rifiutano la divinità di Cristo e
quindi non ammettono la maternità soprannaturale di Maria. Alcuni fedeli
cristiani affermano che in Egitto, a El-Zeitoun, alla periferia del Cairo, la
Madonna sarebbe apparsa sul tetto di una chiesa copta. Il luogo attualmente è
visitato anche da migliaia di musulmani. Più in generale milioni di Islamici
anche dall’Iran si recano in pellegrinaggio presso santuari mariani come Fatima
in Portogallo, Harissa in Libano, e in altri luoghi di culto in Siria oltre che
in Egitto. Ai pellegrinaggi islamici partecipano generalmente donne musulmane
che chiedono grazie. In Libano nel 2010 la solennità mariana dell’Annunciazione
del Signore è stata proclamata festa nazionale. L’iniziativa è stata adottata
dal Governo nella convinzione che una celebrazione comune potesse accrescere
l’intesa tra cristiani e musulmani.
In
estrema sintesi il Cristianesimo sembra maggiormente impermeabile alle
influenze politiche. In proposito Benedetto XVI nella sua esortazione
apostolica per il Medio Oriente ha affermato che “la sana laicità…significa
liberare la religione dal peso della politica e arricchire la politica con gli
apporti della religione, mantenendo la necessaria distanza, la chiara
distinzione e l’indispensabile collaborazione tra le due. Nessuna società può
svilupparsi in maniera sana senza affermare il reciproco rispetto tra politica
e religione, evitando la tentazione costante della commistione o
dell’opposizione". RR
GERUSALEMME:
EBREI, PALESTINESI e L'ASSENZA DELLA POLITICA INTERNAZIONALE (7.7.2021)
Gerusalemme
continua ad occupare una posizione centrale nel conflitto fra Israele e Palestina.
Peraltro la città è considerata come capitale dei propri territori sia dagli
Ebrei che dai Palestinesi. Gli Ebrei argomentano le loro pretese
ricordando che Gerusalemme, oltre ad essere stata la più importante città
dell’antico Regno di Giuda, era la sede del Tempio Santo, uno dei luoghi
maggiormente sacri per l’Ebraismo. I Palestinesi rivendicano invece
di aver abitato Gerusalemme in maniera esclusiva per secoli. Oggetto di
controversie è soprattutto la parte orientale della città, nella
quale sono ubicati il Muro del Pianto, la Moschea di Al-Aqsa, la Basilica del
Santo Sepolcro, ovvero alcuni fra i principali luoghi di culto delle tre
religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo, Islam). Prendendo atto del
carattere irrisolto delle controversie su questa città ‘santa’, le
organizzazioni internazionali e la maggior parte dei Paesi occidentali hanno
aperto le proprie rappresentanze diplomatiche a Tel Aviv, considerandola
effettiva capitale di Israele. Nemmeno con gli accordi di
Oslo del 1993 – che hanno istituito un’Autorità palestinese con il compito
di governare con una limitata autonomia alcune parti della Cisgiordania e della
Striscia di Gaza – è stata raggiunta un’intesa sullo status di Gerusalemme. Nel
mese di maggio di quest’anno Gerusalemme è stata afflitta da gravi disordini
che si sono successivamente estesi in altre zone sensibili del Paese.
L’opinione pubblica filogovernativa ha cercato di minimizzare gli scontri,
accreditando, come motivazione dei contrasti, dispute di carattere meramente
immobiliare. Le ostilità sono infatti seguite a provvedimenti giudiziari di sfratto
di cui sono stati destinatari nuclei familiari palestinesi che, fuggiti o
cacciati dalle loro case di Gerusalemme Ovest, si erano trasferiti a
Gerusalemme Est (in particolare nel quartiere di Sheikh Jarrah), cioè nella
parte della città passata sotto il controllo giordano alla conclusione del
conflitto arabo-israeliano nel 1949; infatti con il relativo armistizio si
stabilì che ad Israele sarebbe spettata la parte ovest di Gerusalemme (con
conseguente diaspora dei Palestinesi), mentre la Giordania – che durante la
guerra aveva occupato parte di Gerusalemme e dell’odierna Cisgiordania –
avrebbe assunto il controllo della parte est della città, nella quale
conseguentemente affluirono molti profughi palestinesi ai quali le autorità
giordane occupanti assegnarono gli immobili abbandonati dagli Ebrei migrati a
Gerusalemme Ovest, cioè nella zona sotto il controllo israeliano. La situazione
cambiò nel 1967 alla fine della Guerra dei sei giorni: Israele estese la sua
sovranità anche su Gerusalemme Est e considerò quindi illegittimi i
provvedimenti adottati dalle autorità giordane durante la loro occupazione, tra
i quali le assegnazioni di abitazioni ai palestinesi. Pertanto, dopo più di 160
anni di pacifico possesso, le case assegnate e abitate dai Palestinesi a Gerusalemme
Est sono state reclamate in sede giudiziaria da israeliani che hanno affermato
di esserne i proprietari prima dell’occupazione giordana del 1948. La questione
va oltre la disputa legale ed assume contenuti discriminatori in quanto lo
stesso analogo diritto non viene riconosciuto ai Palestinesi che a seguito
della guerra del 1948 hanno abbandonato immobili a Gerusalemme Ovest, assegnati
successivamente a famiglie israeliane. La repressione della polizia israeliana
nei confronti delle turbative del maggio scorso - in particolare di quelle
sulla Spianata delle Moschee – è stata di eccezionale durezza. Anche se il
conflitto si è poi esteso in altre aree del Paese il problema principale è
quello di definire lo status di Gerusalemme: a chi appartiene la città? Di chi
sono le abitazioni? Le possibili diverse risposte a queste domande evidenziano
che Gerusalemme è una città che può essere narrata in maniera completamente
diversa in relazione a differenti orientamenti politici e religiosi.
Gerusalemme ha quasi un milione di abitanti di cui trecentomila palestinesi che
non sono semplici immigrati ma sono nati in quella terra. La loro protesta è
correlata al convincimento di non poter vivere la loro città. In sintesi, alle
pretese dei coloni ebrei che rivendicano la proprietà di case risalente a prima
della costituzione dello Stato di Israele si oppongono i Palestinesi che
affermano che i loro diritti sulle abitazioni abbandonate si fondano su
legittimi provvedimenti di assegnazione. Il contenzioso si è radicalizzato su
posizioni ideologiche e confessionali di difficile composizione. Non è corretto
ritenere che gli scontri siano il corollario di un conflitto frontale fra le
due etnie, quella ebrea e quella arabo-palestinese, in quanto molti ebrei
condannano e si dissociano dalla politica israeliana di occupazione coloniale.
Questa recrudescenza di violenze e di ostilità si colloca in un momento in cui
la rilevanza della questione palestinese non è più al centro degli equilibri
geopolitici mondiali. I Paesi arabi in generale – e alcune monarchie del Golfo
in particolare – cercano di prendere le distanze dalla questione palestinese,
sulla quale rispetto al passato si esprimono in termini estremamente cauti per
non compromettere le aspirazioni ad una moderata normalizzazione dei rapporti
con Israele. La punta avanzata di questo atteggiamento sono gli Accordi di
Abramo, una dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e
Stati Uniti, raggiunta il 13 agosto 2020, che ha prospettato una prima cauta normalizzazione
delle relazioni fra Israele e i menzionati Paesi arabi. Queste novità si
collocano in un momento in cui la destra israeliana sta attraversando un
momento di crisi, causato principalmente dal venir meno del precedente deciso
sostegno americano, non confermato dalla nuova presidenza statunitense.
Attualmente nessuna compagine politica dispone di una base elettorale
sufficientemente solida per poter governare con un apprezzabile consenso.
Purtroppo permane l’incapacità di individuare valide soluzioni condivise della
questione palestinese. Anche la leadership palestinese sta evidenziando gravi
criticità. La sua credibilità come interlocutore politico è compromessa dalle
note e condizionanti divisioni interne e dall’incapacità di gestire il braccio armato
‘Hamas’. Sembra definitivamente tramontata la prospettiva dell’istituzione di
due Stati liberi e indipendenti, di cui uno palestinese. Né Ebrei né
Palestinesi ci credono. Anzi questa ipotesi sembra essere divenuta solo un
alibi per non esplorare altre vie o altri possibili compromessi. La difficoltà
a trovare soluzioni alle criticità di Gerusalemme probabilmente risente degli
esiti della Guerra dei sei giorni’: la vittoria militare di Israele in questo
conflitto fu acutamente definita ‘maledetta’ in un saggio del 2017 dello
scrittore e giornalista israeliano Aharon Bregman. Nell’occasione, com’è noto,
Israele occupò la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza (fino a quel momento
territori egiziani), la Cisgiordania e Gerusalemme Est (appartenenti alla
Giordania), e le ‘siriane’ alture del Golan. Ne seguirono le gravi turbolenze
relative alla gestione della condizione giuridica dei territori occupati,
correlate alla riluttanza del governo israeliano a restituire i territori
conquistati e causate dalla politica di insediamento coloniale. Come ha
precisato Bregman, gli esiti della Guerra dei sei giorni furono un punto di
svolta nella percezione della questione palestinese: gli israeliani da vittime
accerchiate da minacciose potenze arabe si rivelarono potenti occupanti.
L’istintiva simpatia del mondo occidentale cessò di essere unilateralmente
dalla parte degli israeliani, bersaglio della criminale e folle violenza
nazista, e di un ricorrente antisemitismo, e cominciò a spostarsi verso le
nuove vittime, cioè i palestinesi penalizzati da una iniqua politica di
occupazione militare. Questo è l’amaro presupposto della drammatica e complessa
situazione attuale. L’emergenza terroristica di matrice jihadista di questi
ultimi anni ha fatto però perdere alla questione palestinese la sua centralità
nella geopolitica mondiale. A questo si aggiunge un nuovo atteggiamento di
molti stati arabi che, pur rimanendo ideologicamente contrapposti
all’Occidente, sono sempre più interessati ad essere protagonisti dell’economia
globale. Conseguentemente molti Stati arabi tendono a considerare i
problematici precari equilibri mediorientali questioni interne di Israele,
evitando così che le vicende palestinesi possano interferire con le loro caute
‘aperture’ verso Israele e verso il mondo occidentale. In questa prospettiva
possono essere considerati gli Accordi di Abramo, che, a seguito dell’intesa
raggiunta il 13 agosto 2020, si sono conclusi con una dichiarazione congiunta
tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Stati Uniti, che ha prospettato una
prima e moderata normalizzazione delle relazioni fra Israele e i menzionati
Paesi arabi. Le violenze del maggio scorso potrebbero quindi essere anche un
inconsapevole disperato tentativo di porre il Medioriente di nuovo al centro
dell’attenzione mondiale, al fine di ripristinare le condizioni per uno sforzo
dei maggiori protagonisti degli equilibri internazionali per la ricerca di
compromessi che siano la premessa di un futuro di pace. In proposito
Gerusalemme potrebbe assumere la natura neutra di luogo franco nel quale ebrei,
arabi e cristiani possano avere pari diritti in una condizione di reciproca
tolleranza e di reciproco riconoscimento. RR
L’ORIGINE
DEGLI ATTUALI SCONTRI FRA PALESTINESI ED ISRAELIANI (27.5.2021)
Gerusalemme
è al centro del conflitto fra Israele e Palestina in quanto la città per
ragioni diverse è considerata come capitale del proprio Stato sia dai
palestinesi sia dagli israeliani[i]. Nemmeno gli accordi di Oslo del1993[ii]
contengono un’intesa sullo status di Gerusalemme. Le cause dei gravi scontri
che dal mese di maggio dalla città santa si sono progressivamente estesi in
molte zone sensibili del Paese tendono ad essere minimizzate dall’opinione
pubblica filogovernativa, che cerca di ricondurre i contrasti a dispute di
carattere meramente immobiliare. Le turbative infatti sono seguite ai
provvedimenti giudiziari di sfratto di cui sono stati destinatari i nuclei
familiari palestinesi che, fuggiti o cacciati dalle loro case a Gerusalemme
Ovest, si erano trasferiti a Gerusalemme Est (in particolare nel quartiere di
Sheikh Jarrah), passata sotto il controllo giordano a seguito del conflitto del
1948[iii]. Le autorità giordane di Gerusalemme Est infatti assegnarono a questi
profughi palestinesi, che quindi ne entrarono legittimamente in possesso, gli
immobili abbandonati dagli israeliani che erano invece migrati a Gerusalemme
Ovest, cioè nella zona ‘israeliana’. Dopo più di 160 anni di pacifico possesso,
queste abitazioni sono state rivendicate in sede giudiziale da israeliani che
affermano di essere stati i legittimi proprietari prima dell’occupazione
giordana del 1948. Israele infatti, avendo a seguito della guerra dei sei
giorni del 1967 esteso la sua sovranità anche su Gerusalemme Est, non riconosce
i precedenti provvedimenti delle autorità giordane di assegnazione degli
immobili ai palestinesi, alimentando così le rivendicazioni degli israeliani
precedenti proprietari. La questione va oltre la disputa legale in quanto lo
stesso diritto non viene riconosciuto ai Palestinesi che a seguito della guerra
del 1948 hanno abbandonato immobili a Gerusalemme ovest assegnati
successivamente a famiglie israeliane. Questa disputa quindi manifesta un
atteggiamento discriminatorio, ed è considerata dai Palestinesi
un’intollerabile provocazione. RR
[i]
Gli Ebrei ritengono che Gerusalemme debba essere la capitale di Israele perché
oltre ad essere la più importante città dell’antico Regno di Giuda era sede del
Tempio Santo, il luogo più sacro per l’Ebraismo. I Palestinesi rivendicano invece
di aver abitato Gerusalemme in maniera esclusiva per secoli. Oggetto di
controversie è in particolare la parte orientale di Gerusalemme -
unilateralmente annessa da Israele nel 1967 dopo la guerra dei sei giorni -
nella quale sono ubicati alcuni dei luoghi considerati santi dalle tre
religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo, Islam), quali il Muro del
Pianto, la moschea al-Aqsa, la basilica del Santo Sepolcro. Prendendo atto
della natura irrisolta del contrasto, le organizzazioni internazionali e la
maggior parte dei Paesi Membri dell’Onu hanno aperto le loro rappresentanze
diplomatiche a Tel Aviv, ritenendo questa città la reale capitale di Israele.
Ironia della sorte uno dei significati della parola Gerusalemme è città della
pace.
[ii]
Con gli accordi di Oslo è stata istituita un'Autorità palestinese con il
compito di governare con una limitata autonomia alcune parti della Cisgiordania
e della Striscia di Gaza; e stato inoltre riconosciuto l'OLP come partner di
Israele nei negoziati sulle questioni in sospeso. Gli accordi di Oslo non hanno
creato uno Stato palestinese.
[iii]
L’armistizio con il quale nel 1949 si concluse la prima guerra arabo-israeliana
stabilì che ad Israele spettasse la parte ovest di Gerusalemme, mentre la
Giordania, che durante la guerra aveva occupato parte di Gerusalemme e
dell’odierna Cisgiordania, mantenesse il controllo della parte est della città,
quella palestinese, tuttora è abitata in prevalenza da arabi. La situazione è
cambiata nel 1967, al termine della ‘Guerra dei sei giorni’: Israele conquistò
diversi territori fra cui Gerusalemme est, di cui tutt’oggi mantiene il
controllo militare assieme ad un’ampia zona di quartieri limitrofi.
GLI
SCONTRI DI GERUSALEMME (13-5-2021)
I
gravi fatti di Gerusalemme purtroppo non erano imprevedibili, ma questo non
significa che ci si debba rassegnare all’impossibilità di un futuro di pace per
la capitale della spiritualità monoteista. La repressione della polizia
israeliana nei confronti delle rivendicazioni palestinesi, in particolare sulla
Spianata delle Moschee, è stata di eccezionale e inaccettabile durezza. Anche
se gli scontri attuali riguardano pure altre aree del Paese il problema
centrale è Gerusalemme: di chi è la città? Di chi sono le case, si chiede la
brillante giornalista–analista Paola Caridi, esperta di Medioriente?
Gerusalemme è una città che può essere narrata in maniera completamente
diversa. Ha un milione di abitanti di cui 300.000 palestinesi, che non sono
semplici immigrati ma sono nati in quella terra. La loro protesta è correlata
all’impossibilità di vivere la loro città. D’altra parte i coloni ebrei
rivendicano la proprietà di case risalente a prima della costituzione dello
Stato di Israele. Ma i Palestinesi, come profughi, erano stati legittimi
assegnatari di quelle case. Si comprende come la questione originariamente non
era solo politica. Ora il contenzioso si
è radicalizzato su posizioni ideologiche e confessionali di difficile
composizione. È anche sbagliato considerare questo uno scontro un conflitto fra
ebrei e palestinesi, perché molti ebrei condannano e si dissociano dalla
politica ‘dei coloni’. La recrudescenza
di questi scontri si colloca anche in un momento di crisi di rilevanza della
questione palestinese, non più al centro degli equilibri geopolitici mondiali.
I Paesi arabi in generale, alcune monarchie del Golfo in particolare, cercano
di prendere le distanze dalla questione palestinese, sulla quale rispetto al
passato si esprimono in termini estremamente cauti, ed esplorano le possibilità
di una normalizzazione dei rapporti con Israele. Gli accordi di Abramo sono la
punta avanzata di questa istanza. La destra israeliana in questo momento è
estremamente debole, non potendo più contare su un deciso sostegno americano;
non ha una base elettorale sufficientemente solida per governare ed è incapace
di considerare soluzioni alternative alla vessazione ed alla repressione dei
palestinesi. Anche la leadership palestinese ha le sue gravi colpe. Con le sue
divisioni ha dimostrato l’incapacità di gestire il braccio armato ‘Hamas’ e di
accreditarsi come credibile e forte interlocutore politico, concentrandosi
esclusivamente nella lotta ad Israele con tutti i mezzi. Ormai nessuna delle
due parti crede nella possibilità di due Stati liberi e indipendenti, di cui
uno palestinese. Anzi questa prospettiva sembra essere un alibi per non
esplorare altre vie. Ritorna l’attualità del saggio (2017) di Aharon Bregman,
scrittore e giornalista israeliano, nel quale la brillante vittoria militare di
Israele nella decisiva ‘Guerra dei Sei Giorni’ del 1967 venne acutamente
definita ‘maledetta’. A seguito degli esiti del conflitto Israele, com’è noto,
occupò la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza, fino a quel momento
territori egiziani, la Cisgiordania e Gerusalemme Est appartenenti alla
Giordania, le ‘siriane’ alture del Golan. Ne seguirono le gravi turbolenze
relative alla gestione e alla condizione giuridica dei territori occupati, e
quelle causate dalla riluttanza di Israele alla restituzione dei territori
conquistati e dalla politica di insediamento coloniale. Come precisa Bregman,
gli esiti della Guerra dei Sei Giorni furono un punto di svolta nella
percezione della principale questione mediorientale: gli israeliani da vittime
accerchiate da minacciose potenze arabe si mostrarono potenti occupanti.
Conseguentemente quei drammatici eventi rivelarono che Israele era un ‘Golia’
piuttosto più che un piccolo ‘Davide’: la diffusa istintiva simpatia di parte
del mondo occidentale cessò di essere saldamente dalla parte degli israeliani,
vittime dell’olocausto nazista e di uno strisciante e mai sopito ricorrente
antisemitismo, e cominciò a spostarsi verso le nuove vittime, ovvero gli arabi,
principalmente i palestinesi, che avevano subito l’occupazione militare. Per
questo il trionfo del 1967 finì per trasformarsi per Israele in una ‘vittoria
maledetta’. La storia successiva è la sequenza di tante opportunità per
risolvere questo drammatico conflitto, sprecate a causa della rigidità dei
governi israeliani e a causa delle divisioni fra i palestinesi, guidati da una
leadership politica litigiosa e poco lungimirante. Tutto questo ha portato alla
situazione attuale. Sullo sfondo, come già detto, la questione
israelo-palestinese ha perso la sua centralità nella geopolitica internazionale.
Forse dietro questa recrudescenza c’è un inconsapevole disperato tentativo di
porre il Medioriente di nuovo al centro dell’attenzione mondiale. RR
LAICITA’
E INDIFFERENTISMO RELIGIOSO NEL MONDO ARABO (27.4.2021)
Una
delle più importanti conquiste delle democrazie moderne è la laicità dello
Stato. Come diretto corollario, le iniziative finalizzate al proselitismo
spirituale – e quindi anche quelle strumentali all’avvicinamento e alla
conversione ad una fede religiosa – sono confinate nella sfera delle relazioni
private, spesso individuali, e sono estranee ad attività riconducibili a
pubblici poteri. Nel decreto del Concilio Vaticano II ‘Apostolicam Actuositatem’
(sull’apostolato dei laici), la Chiesa Cattolica, consapevole della
secolarizzazione in atto e di un diffuso anticlericalismo che ostacolava
l’accesso dei religiosi in molti contesti della società civile, invitava i
laici a diffondere anche con l’esempio il messaggio cristiano negli ambiti nei
quali si svolgeva la loro ordinaria attività (in questo modo si sarebbe
realizzata la cosiddetta vocazione alla Santità dei laici). Peraltro fra i
doveri dei cristiani che derivano dal battesimo, c’è la partecipazione alla
missione della Chiesa. Il concetto di laicità è estraneo alla cultura islamica
ed è spesso confuso con la nozione di ateismo. Negli Stati Islamici si
attribuisce un particolare rilievo solo all’esistenza di una sola religione,
l’Islam: non essere musulmano equivale a non essere un credente. Non è ammessa
una terza possibilità, ovvero essere fedele di un altro credo religioso. Per
questo motivo il termine ‘infedele’, originariamente riservato a politeisti e
pagani, nell’uso comune nel mondo arabo è stato esteso anche agli altri
monoteisti. La mancata conoscenza del concetto di laicità può essere anche una
conseguenza della mancanza, nella storia dei popoli arabi, di un movimento
analogo all'Illuminismo, che in Occidente ha enfatizzato i diritti di libertà,
affermando la necessità che essi si strutturino in maniera affrancata da schemi
prestabiliti. L’Islam è una religione con un’indubbia matrice fortemente
politica e ideologica, in quanto postula l’affermazione di un assetto sociale
ispirato a un’etica confessionale. L’assenza di un pluralismo religioso nel
mondo arabo è anche una diretta conseguenza della più generale mancanza di
libertà religiosa tipica dei regimi teocratici. In essi la libertà religiosa
può essere un pericoloso strumento di potenziale eversione; non c’è spazio per
forme di legittimità democratica di tipo occidentale in quanto l’unica
legittimità viene dal letterale rispetto della legge coranica. Quando la fede è
vissuta come ideologia il proselitismo è surrogato dalla militanza, cioè
dall’impegno collettivo dei fedeli per promuovere con ogni mezzo
l’instaurazione di un ordine sociale nel quale le leggi civili sono
progressivamente sostituite da un ordinamento plasmato sulla legge divina.
Anche nei Paesi a maggioranza islamica che cercano di percorrere la via della
democrazia e della laicità (come la Tunisia), il Corano rimane un riferimento
irrinunciabile, in quanto in questi ordinamenti in maniera esplicita o
implicita sono previsti meccanismi istituzionali che in concreto evitano che la
vita civile si articoli in maniera contraddittoria o semplicemente autonoma dai
principi dell’Islam. In questi ultimi anni, secondo un’indagine svolta
dall’istituto di ricerca Arab Barometer, si assiste nel mondo arabo ad un
aumento, ancora molto contenuto, di atteggiamenti di indifferentismo religioso:
molti i giovani, probabilmente spinti da un desiderio di autenticità,
manifestano un limitato orientamento di critica al complesso oggettivo e
formale della dottrina religiosa, e di rifiuto di un’adesione esteriore di tipo
legalistico. Arab Barometer è un network politicamente neutro che svolge
ricerche e sondaggi per monitorare le variazioni politiche e sociali in Paesi
del Nord Africa e del Medio Oriente (i cosiddetti Paesi compresi nell’acronimo
MENA – Middle East and North Africa - cioè Algeria, Arabia Saudita, Bahrain,
Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran, Iraq, Israele, Giordania, Kuwait, Libano,
Libia, Marocco, Oman, Qatar, Siria, Cisgiordania, Tunisia, e Yemen). È il più
grande archivio di dati pubblicamente disponibili sugli orientamenti
dell’opinione pubblica nel mondo arabo. Il progetto è governato da un comitato
direttivo che include accademici e ricercatori dei Paesi MENA e degli Stati
Uniti. Secondo Arab Barometer la frangia di arabi che si dichiarano ‘non
religiosi’, è ancora molto esigua, dal 2013 al 2019 è passata dall’8% al 13%.
Il dato è particolarmente significativo se si considera che si colloca in anni
di ‘risveglio islamico’. In dettaglio l'avanzata maggiore di questo atteggiamento
che può contribuire all’introduzione di una moderata laicità, si è registrata
in Tunisia (dal 16% al 35%), seguita da quella in Libia (dall'11% al 25%), in
Algeria (dall' 8% al 13%), in Marocco (dal 4% al 12%), in Egitto (dal 3 al
12%). Il dato non specifica quale fede sia in diminuzione, ma, considerata
l’esigua presenza di Cristiani o di fedeli di altre religioni in questi Paesi,
si può fondatamente desumere che il dato si riferisca all’Islam. Gli studiosi
non concordano nell’individuazione delle cause; peraltro le realtà politiche
dei Paesi arabi in cui si è registrato questo dato differiscono molto fra di
loro. Sembra che la deriva terroristica di matrice islamica sia estranea
all’incremento del fenomeno, mentre assumerebbero particolare rilievo motivazioni
personali che originano da crisi religiose individuali. Questi dati anche nelle
motivazioni indubbiamente avvicinano il mondo arabo alle realtà
occidentali. RR
‘Tutto è accaduto in un giorno normale’ (Dal
Bollettino Parrocchiale di Labro, Pasqua 2021 - Giornata del Malato,
11.02.2021)
Prima
di ammalarmi un po' di anni fa, conducevo una vita abbastanza brillante,
arricchita da molti interessi, artistici, culturali, sportivi. Non avevo ancora
conosciuto il dolore, la sofferenza, la stanchezza fisica e morale. Senza nessun preavviso, gli esiti delle
complicazioni autoimmuni di una banale influenza hanno cambiato radicalmente la
mia esistenza in poche ore. Ho perso l’autonomia nei movimenti, in alcuni
momenti della giornata la mia respirazione deve essere assistita, mi nutro
artificialmente. Queste gravi disabilità postume mi hanno imposto di
riorganizzare la mia esistenza, con l’illusoria sensazione che si trattasse di
una situazione provvisoria e che ieri sarebbe tornato a essere oggi. Dopo anni
non mi sono ancora adattato a questa condizione e probabilmente mai mi
adeguerò. Tutto iniziò banalmente. Avevo
da giorni una noiosa influenza, ma alcuni impegni, che facevano parte della mia
routine di lavoro, mi avevano impedito di curarmi. Quando decisi di prendermi
qualche giorno per debellare quell’apparente banale male di stagione, era
troppo tardi. Microscopici golia indisturbati avevano cominciato a fare breccia
nel mio sistema nervoso centrale. Ai primi malori mia moglie, medico neurologo,
comprese che era necessario un controllo al Pronto Soccorso: ero sicuro che si
sarebbe trattato di una formalità.
Quell’imprevisto sarebbe stata un’occasione per un check up che
rimandavo da troppo tempo. Mentre
scendevo le scale del giardino di casa, vacillavo, ma non pensavo che avrei
rivisto le mie cose, il verde di quelle piante familiari, i miei libri, i miei
gatti, dopo più di due anni. Ero sicuro
che al Pronto Soccorso tutto sarebbe andato senza problemi; alla fine quella
mattina sarebbe stata piacevole. Avrei incontrato ex-compagni di scuola, amici,
colleghi di Cristina, persone che non rivedevo dalla mia adolescenza. Avrei
raccontato qualcosa della mia vita da zingaro di lusso, episodi di una
professione non molto usuale, che non avrei mai previsto da ragazzo, poiché i
miei interessi allora si rivolgevano ad altri settori, scientifici, artistici,
letterari, ma non certo istituzionali.
Non avrebbero compreso molto della mia professione, perché mi sarei
limitato a qualche flash. Probabilmente
per molti quello che avevo costruito non era niente di eccezionale, ma non per
me, che, nonostante un proficuo e brillante corso scolastico e universitario,
ero un giovane come tanti altri, destinato a un buon impiego nella propria
città, e a parlare di domenica, senza esserne parte, dei gossip della vita
locale. Dopo una breve visita in
ospedale, un salto al bar per fare colazione, sarei tornato a casa, e, se fosse
stato necessario, avrei curato quei fastidiosi ma non allarmanti disturbi con
qualche terapia. Nella mia vita avevo
avuto numerose contrarietà. Si erano alternati alti e bassi ma alla fine ogni
potenziale problema si era risolto, e spesso da contingenze negative si erano
originati esiti positivi. Omnia in bonum era il mio motto. Pertanto avevo maturato un ottimismo
religioso che sfumava in una laica incoscienza. La prima visita fu
tranquillizzante; quei disturbi sembravano i sintomi di un’aggressiva
labirintite. Mia moglie non era convinta di quella frettolosa diagnosi e
ritenne necessario richiedere una risonanza magnetica nucleare urgente. Questo
esame si svolse in circostanze drammatiche, perché ebbi un grave malore.
L’esito fu altrettanto tragico: il mio encefalo presentava vaste aree
profondamente infiammate. Dagli sguardi che Cristina si scambiava con i suoi
colleghi capivo che la questione era seria. Sarebbe stato più complicato, ma
alla fine tutto si sarebbe risolto, pensavo. Cominciavo a confondere quello che
realmente accadeva con il parto della mia immaginazione perché la mia mente
trasformava ogni percezione esterna pescando nel magma di inconsueti contenuti
a me sconosciuti. Quella notte la situazione precipitò e fui trasferito in
rianimazione totalmente paralizzato e incapace di respirare autonomamente e
deglutire. La diagnosi suonava in maniera per me criptica ma molto sinistra:
encefalite di tronco. Grazie a un coma indotto, vivevo incoscientemente immerso
in remote visioni angoscianti, lasciando sola Cristina nella disperazione di
quei momenti. Mi chiedevo che cosa fosse accaduto; ero in un ospedale, tentavo
di muovermi, di scendere dal letto senza riuscirci: che strana sensazione!
Nessuna reminiscenza di strani e indefinibili malori di quel mio ultimo giorno
di vita reale: probabilmente il mio inconscio non accettava che banali disturbi
potessero essere precursori di una simile catastrofe. Continuavo
ottimisticamente a pensare che alla guarigione sarebbe seguita la
riabilitazione, e tutto sarebbe tornato come prima, con un’esperienza in più da
raccontare. A parte le condizioni fisiche, in quei frangenti ero quello che
stava meglio dal punto di vista psicologico. Mia moglie, consapevole della
gravità della mia patologia e dell’imprevedibilità delle possibili conseguenze,
fra le quali vi era il decesso o una situazione prossima allo stato vegetativo,
trascorreva tutto il giorno al mio capezzale in uno stato di prostrazione, che
con grande difficoltà cercava di dissimulare quando la sera rientrava a casa e
incontrava i nostri figli. Valentina e Marco, sorpresi da questa mia
inspiegabile assenza non dovuta a motivi di lavoro, erano avvolti da una muta
disperazione e inermi si chiedevano dove fosse finito il loro padre, e se fosse
ancora in vita. Cominciavo a sperimentare quella vita in simbiosi con mia
moglie che continua tuttora. Ero confuso, rassicurato solo dalla sua presenza,
e in particolare dal suo arrivo nel Reparto di Rianimazione la mattina presto,
all’inizio della giornata, al termine di una nottata nella quale in genere ero
preda di funesti incubi, metafora surreale della mia lotta per sopravvivere.
Speravo che la mia sofferenza avrebbe avuto un senso e non sarebbe stata
l’esito di una lotteria, considerato che anche il libero arbitrio, così
importante da un punto di vista salvifico, ha sicuramente un margine più
ristretto di quanto sembri a prima vista. Pensando ai profili pratici, la
principale difficoltà che dovevo contrastare in quella degenza era
l’abbrutimento. La mia mente sembrava non aver subito danni. Decisi di
riprendere a studiare la lingua tedesca negli sprazzi di lucidità. Da un punto
di vista logistico non era molto semplice attuare questo proposito: Cristina,
sempre disposta amorevolmente ad assecondarmi, sosteneva il libro per
consentirmi di leggere. Compatibilmente con i tempi della rianimazione, sono
iniziate le visite dei miei amici. Alcuni, con il loro affetto manifestato in
maniera semplice, sincera e senza retorica, sono stati una bellissima conferma,
o in qualche caso una piacevole e preziosa sorpresa. Altri sono scomparsi; non
posso censurarli, sono io che con la mia malattia sono uscito dall’angusto
scenario della loro esistenza. Alcuni amici e amiche, con il loro affetto e il
loro conforto sono stati sempre presenti fin dal primo momento. La loro
generosità continua a essere una bellissima e tangibile testimonianza di amicizia.
Nelle case di cura ho conosciuto un universo di persone fatto di sofferenza e
di difficoltà quotidiane per sopravvivere. Tutti sembravano legati da un
sentimento di solidarietà, sincero, puro, mai retorico, molto diversi da
quell’umanità abituata alle volte dorate e presa esclusivamente da sé stessa,
che avevo sempre frequentato. Dopo i sei mesi di Rianimazione è iniziata la
riabilitazione. Grazie ai continui esercizi a cui mi sottoponeva senza sosta
Cristina quando ero in rianimazione, avevo conservato una condizione muscolare
tale da consentire l’efficacia delle terapie successive. Il ritorno a casa non
fu come lo immaginavo. Non pensavo che sarei stato dimesso in condizioni di
totale guarigione, tuttavia ero convinto che avrei avuto una maggiore autonomia
su cui ripianificare la mia vita. Invece, nonostante significativi progressi,
non avevo nessuna potenziale autosufficienza. Per poter accedere a ogni cosa
avevo bisogno di chiedere. Tutti erano disposti ad aiutarmi e a servirmi, ma
questo non era sufficiente. Per uno come me, che aveva fatto della sua vita una
roccaforte dell’indipendenza e della riservatezza, disabituato a qualsiasi
interferenza sulle proprie determinazioni, questa nuova condizione era
difficilmente accettabile. Mi cominciavo a convincere che quella non era la mia
vita, né ero io quello che la stava vivendo. C’era una cesura troppo rigida con
il passato, e io, immerso in questo degrado fisico, non avevo nulla in comune
con quel rigoroso perfezionista che ero, a cominciare dalla cura personale e
dalla scelta degli abiti da indossare, sempre e solo apparentemente casuale.
Forse la vita era stata privata di tanti orpelli e inutili sovrastrutture, ma
progressivamente mi rendevo conto che l’esistenza era fatta da tante
contingenze apparentemente inutili. Quell’essenzialità, che avrei vissuto come
una conquista se fosse stata una mia scelta, era il risultato invece di una
condizione depotenziata perché imposta, che stava mortificando l’umanità che
avevo costruito senza accorgermene di giorno in giorno. Le mie mani da prezioso
strumento di precisione erano adesso delle grossolane pinze in guanti da sci,
incapaci anche di fare una carezza: non solo era limitato il movimento, ma era
anche sopita la mia sensibilità. Mi mancava il mio lavoro, che aveva avuto
molti momenti felici anche grazie a coincidenze fortunate: ora in un’unica
soluzione stavo pagando il mio debito con la sorte. Il Pc divenne il mio fedele
compagno di avventura, e Internet la mia finestra su un mondo che non potevo
più esplorare con le mie gambe. Non ho ancora parlato di religione pur essendo
cristiano e pur avendo la fede un posto importante nella mia vita. Non l’ho
fatto perché temo di non avere la maturità spirituale per discuterne senza
cadere in luoghi comuni enfatizzando banalità. C’è anche un altro motivo.
Andando controcorrente ho sempre voluto tenere distinti i fatti umani,
soprattutto quelli spiacevoli, dalla dimensione cristiana. Diversamente, se
avessi collocato ogni contingenza, in particolare quelle negative, nel contesto
di imperscrutabili piani divini, avrei rischiato di degradare la religione a
mera fil sofia consolatoria. Ridimensionare il
conforto della fede non significa avere dubbi sull’esistenza di Dio, ma
semplicemente pensare che Dio, pur seguendo le nostre vicende, ci abbia
lasciato liberi nelle nostre scelte in attesa del Suo finale abbraccio paterno.
L’autonomia del piano umano rispetto a quello divino accresce l’importanza
delle nostre opzioni. La provvisorietà è il comune denominatore dell’esistenza.
Io, aspirando alla stabilità, mi sono sempre slanciato in avanti per
neutralizzare l’incertezza del passo. Oggi mi fa paura tutto quello che è
definitivo. Sento l’impulso di un principio etico e spirituale che mi spinge a
fare, ma che nello stesso tempo, come appendice di un istinto di sopravvivenza,
mi sottrae a una più pesante depressione che mi attanaglierebbe se optassi per
un ozio insano, che inevitabilmente mi precipiterebbe nel vortice di
un’insostenibile autocommiserazione. RR
SBIRRO
(27.03.2021)
Sbirro era la guardia che
svolgeva servizi di polizia nel periodo medievale e successivamente, nel
Rinascimento. L’origine etimologica, birro (‘rosso’ nel tardo
latino, πυρρός in greco) rafforzato da una esse iniziale, alludeva
al colore della casacca usata. L’epiteto viene oggi impiegato con intento
spregiativo o - nel migliore dei casi – scherzoso, nei confronti di chi
attualmente svolge funzioni di tutore dell’ordine o di natura investigativa. La
presunta natura denigratoria è correlata all’origine storica del termine di cui
si è accennato: la guardia medievale era al servizio esclusivo del signorotto
da cui dipendeva, proteggendolo e garantendo i suoi soprusi e le sue angherie.
Insomma, lo sbirro era un mercenario nell’accezione peggiore del termine.
Messa così lo sbirro è un personaggio negativo. In tempi
moderni la fedeltà al signorotto si trasforma nel mettere al primo posto gli
ideali di giustizia e di legalità che sono alla base della scelta professionale
di servire lo Stato; questi ideali sono positivamente invasivi perché si
trasformano in una scelta di vita. In ogni situazione lo sbirro ha
un’innata tendenza a verificare la conformità alla liceità e ad attivarsi di
conseguenza nella maniera ritenuta più efficace, mettendo da parte ogni
interesse anche personale e confliggente. In questo modo, sbirro diviene
un complimento per chi si sente tale. Per questo quando qualche amico con
riferimento ai miei trascorsi mi dice Sei e rimani sempre uno sbirro lo
ringrazio sinceramente per quello che ritengo un bel complimento. RR
ISLAM
E CRISTIANESIMO: CONSIDERAZIONI GENERALI (22.9.2020)
Il
Corano nega la Trinità per affermare l’unicità di Allah. In realtà non vi è
contraddizione con il Cristianesimo; per la teologia cattolica non ci sono tre
divinità (come erroneamente talvolta si è affermato): con la frase un
Dio unico in tre persone si afferma un’unica natura o essenza della
divinità, la quale si declina in tre persone uguali e distinte. Tralasciando le
insopprimibili differenze dottrinali fra Islam e Cristianesimo, quanto esposto,
soprattutto relativamente alla comune devozione mariana, evidenzia un’apertura
al soprannaturale dei musulmani e una loro sintonia spirituale con i cristiani,
che sono presupposti di una coesistenza che non si esaurisce nella reciproca
tolleranza, ma prevede anche momenti di comune e mistica condivisione. Se
invece prevale l’aspetto politico, l’invasività islamica di carattere
ideologico e le sue conseguenti derive congelano la spontanea, umana e fraterna
empatia: il differente credo religioso alza una barriera. Questo avviene
soprattutto nell’Islam come anche nell'ebraismo. Ne è una prova la questione
palestinese, che ha un carattere prevalentemente o esclusivamente politico;
tuttavia aver identificato le conflittualità anche in motivi confessionali ha creato
difficoltà nell’avanzamento del processo di pace. Il Cristianesimo sembra
maggiormente impermeabile alle influenze politiche. In proposito
Benedetto XVI nella sua esortazione apostolica per il Medio Oriente afferma
che la sana laicità significa liberare la religione dal peso della
politica e arricchire la politica con gli apporti della religione, mantenendo
la necessaria distanza, la chiara distinzione e l'indispensabile collaborazione
tra le due[i]. RR
[i] Benedetto
XVI, esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Medio
Oriente, n. 29, Beirut – Libano, 2012.
ISLAM
E CRISTIANESIMO: RIFLESSIONI SULLA FIGURA DELLA VERGINE MARIA NEL CORANO E
NELLA TRADIZIONE ISLAMICA (21.9.2020)
Fra
Cristiani e Musulmani c’è un pieno accordo sulla venerazione della Vergine
Maria, che è ritenuta nel Corano - che la elogia particolarmente - una donna
eccezionalmente pura e santa, madre del grande profeta Gesù. I musulmani
infatti rifiutano la divinità di Cristo, e quindi non possono ammettere la
maternità soprannaturale di Maria. Gesù pertanto viene esclusivamente definito figlio
di Maria (Isa ibn Maryam). Maometto secondo alcune fonti
avrebbe detto che ogni bambino, quando nasce, è toccato da
Satana, ma questo non sarebbe avvenuto per Maria e suo figlio. È evidente
l’analogia fra questa affermazione e il concetto di Immacolata Concezione.
Alcuni fedeli cristiani affermano che in Egitto, a El-Zeitoun, alla periferia
del Cairo, la Madonna sarebbe apparsa sul tetto di una chiesa copta. Il luogo
attualmente è visitato anche da migliaia di Musulmani, che partecipano a
pellegrinaggi durante i quali – ha precisato il gesuita egiziano Samir Khalil
Samir nel corso di un intervista - vedendo che i cristiani aspettano
questa festa per battezzare i bambini, chiedono anch’essi di battezzare i loro
piccoli. In proposito sono stati costruiti due battisteri, uno per i
cristiani con il sacro crisma e l’altro utilizzato dai fedeli musulmani con
normale acqua. Più in generale milioni di Islamici, anche dall’Iran, si recano
in pellegrinaggio presso santuari mariani come Fatima in Portogallo, Harissa in
Libano, in altri luoghi di culto in Siria oltre che in Egitto. I pellegrini
islamici sono generalmente donne musulmane, che chiedono grazie. In occidente
tutto ciò che è soprannaturale sembra essere passato di moda; in particolare
gli intellettuali non raramente ritengono che il sentimento religioso è una
cosa superata. Diversamente nelle altre parti del mondo la dimensione
spirituale è ancora viva, come dimostra questo bisogno di alcuni fedeli
musulmani di associarsi a forme di devozione cristiana. Probabilmente
l’esigenza di rivolgersi alla spiritualità cristiana è motivata non solo dalle
richieste di guarigione fisica o da altre istanze simili, ma dalla necessità di
una spontanea e intima relazione con il soprannaturale che non trova adeguata
soddisfazione nel formalismo dell’Islam ufficiale, nel quale le manifestazioni
di fede sono programmate, le cinque preghiere quotidiane sono ad orari
predefiniti e devono essere recitate osservando rigorosamente un testo già
fissato. Diversamente da Allah, il Dio cristiano è padre, e già questo è il
presupposto di una relazione di spontanea intimità. In Libano nel 2010 la solennità
mariana dell’Annunciazione del Signore è stata proclamata festa nazionale.
L’iniziativa è stata adottata dal Governo nella convinzione che una
celebrazione comune potesse accrescere l’intesa tra cristiani e musulmani.
Naturalmente le due religioni attribuiscono un diverso significato all’evento:
per i musulmani l’Annunciazione è solo l’annuncio della nascita di un grande
profeta. Queste esperienze insegnano che musulmani e cristiani sul piano
spirituale possono trovare un’intesa senza rinunciare ai loro tratti
identitari. RR
ISLAM
E CRISTIANESIMO: IL DOCUMENTO SULLA FRATELLANZA UMANA PER LA PACE MONDIALE E LA
CONVIVENZA COMUNE, CONDIVISO IN OCCASIONE DEL VIAGGIO APOSTOLICO DI PAPA
FRANCESCO NEGLI EMIRATI ARABI UNITI (3-5 febbraio 2019) (18.9.2020)
Il
4 febbraio 2019 Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmed
Al-Tayeb, hanno firmato ad Abu Dhabi una dichiarazione comune che costituisce
un’importante storica tappa nel dialogo tra cristiani e musulmani. Il
documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune
richiama l’attenzione sulla necessità di promuovere una cultura del dialogo,
della reciproca conoscenza, della collaborazione comune per porre fine a
qualsiasi forma di violenza di matrice confessionale e a derive belliche e
terroristiche, perché la Fede - si precisa nella dichiarazione - deve spingere
il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere ed amare.
Viene richiesto il coinvolgimento di tutti per porre fine ai conflitti, al
declino culturale e al degrado ambientale, e promuovere un’equa distribuzione
delle risorse naturali. I due leader religiosi hanno condiviso la
condanna di qualsiasi pratica che minacci la vita (come genocidi, atti
terroristici, traffico di organi umani, aborto, eutanasia, etc.) sottolineando
l’importanza della famiglia. Le religioni non devono inoltre sollecitare
sentimenti di odio, di ostilità, di estremismo, né invitare alla
violenza. La dichiarazione qualifica la libertà di religione come
diritto di ogni persona, condannando qualsiasi costrizione e discriminazione.
Vengono trattati anche aspetti di carattere sociale come la pari considerazione
della donna e l’importanza delle istituzioni di formazione dei giovani come
scuole e università. Dal documento si percepisce la necessità che la tolleranza
verso le altre fedi prevalga su qualsiasi impulso volto a privilegiare in
maniera iniqua la propria religione. La tolleranza per le scelte religiose e
politiche individuali degli altri nella cultura giuridica occidentale trova
fondamento nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, non
riconosciuta dagli Stati arabi i quali, in maniera specularmente contraria,
ritengono che le posizioni giuridiche soggettive individuali debbano essere
sacrificate in favore delle esigenze della comunità islamica. Questa
convinzione ha portato all’elaborazione della Dichiarazione Islamica dei
Diritti dell’Uomo, scritta per rapportare i diritti e le libertà
individuali alle esigenze religiose e culturali dei Paesi islamici. La
tolleranza correttamente interpretata non è passiva sopportazione ma
riconoscimento della pari dignità dell’altro. In questa prospettiva la
diversità può costituire motivo di arricchimento e di pacifico confronto nel
quadro del rispetto dei principi concordati nella dichiarazione comune.
Naturalmente ora è di importanza essenziale una capillare attività per favorire
fra i rispettivi fedeli una conoscenza e la condivisione dei contenuti del
documento e delle motivazioni che ne costituiscono il presupposto. In
proposito, per meglio definire la portata dell’accordo nel mondo musulmano va
precisato che l’università di Al-Azhar, rappresentata
dal Grande Imam Ahmed Al-Tayeb, sebbene goda di particolare
autorevolezza in quanto può essere considerata la massima espressione del
pensiero giuridico e teologico islamico sunnita, tuttavia non è un’autorità
sovraordinata in grado di manifestare posizioni ufficiali, considerata
l’assenza nell’Islam di una struttura di vertice. RR
ISLAM
POLITICO E CRISTIANESIMO (15.9.2020)
Islam
e Cristianesimo spesso vengo considerati sullo stesso piano come se si
trattasse di due religioni che, pur nelle evidenti differenze, possano essere
ritenute caratterizzate da un’omogeneità di fondo. Diversamente, si osserva che
l’Islam, oltre ad essere una religione, ha anche i tratti dell’ideologia
politica in quanto la sua affermazione postula l’instaurazione di istituzioni
ispirate ad un’etica confessionale. A conferma, la militanza islamica si è
spesso storicamente concretizzata nella partecipazione ad iniziative per promuovere
con ogni mezzo un ordine sociale nel quale le leggi civili fossero sostituite
da un ordinamento plasmato sulla legge divina. Le frange fondamentaliste e
radicali non hanno abbandonato questo approccio. Le azioni terroristiche di
matrice islamica possono essere ritenute una degenerazione di questo
atteggiamento: il ricorso alla violenza e alla minaccia considerato in questa
prospettiva è una scorciatoia per l’instaurazione di una società ispirata ai
precetti del Corano. Diversamente l’adesione al Cristianesimo e le relative
attività di proselitismo rimangono invece confinate nella sfera spirituale
individuale. Anche la Fede cristiana può avere rilevanza esterna in quanto
richiede ai fedeli iniziative per estendere la condivisione di un modello di vita
e dei relativi principi su cui si fonda; queste iniziative tuttavia si
esauriscono di norma nell’ambito di un rapporto personale. Nell’Europa - che si
è oggettivamente forgiata sotto l’influenza delle radici e delle tradizioni
cristiane - l’invasività dell’Islam politico rappresenta una minaccia, alla
quale le istituzioni europee contrappongono il principio di tolleranza,
teorizzato dall’Illuminismo. Ma da questo punto di vista non esiste reciprocità
fra Islam e Cristianesimo. Nell’evoluzione storica del mondo musulmano è
mancato un movimento analogo all’Illuminismo in grado di stabilire con
chiarezza i confini fra religione e politica affermando, come corollario, il
principio di laicità dello Stato. Nell’Islam, poiché si attribuisce valore ad
una sola religione, la laicità - ovvero il riconoscimento e la conseguente
tolleranza di altri culti - è considerata una forma, spesso perseguibile, di
ateismo. L’assenza di confini fra religione e politica è il successivo
presupposto di modelli statali di impronta teocratica. RR
L’ATTUALITA'
DI GESU' NELL’ISLAM CONTEMPORANEO (12.09.2020)
In
questo momento di concrete frizioni – spesso emotivamente enfatizzate - fra
l’Islam politico e l’Occidente, può essere utile ricordare alcuni punti di
contatto fra la religione musulmana e quella cristiana. Il primo aspetto su cui
riflettere è la figura di Cristo. Gesù è oggetto di importante considerazione
anche nel mondo islamico. Naturalmente non gli si attribuisce la centralità che
ha nel Cristianesimo, che lo riconosce come Dio fatto uomo e come il Messia
atteso (ancora) dalla tradizione ebraica; tuttavia i musulmani credono che Gesù
– Isa in arabo – sia un grande profeta. In proposito il dibattito sui suoi
insegnamenti dovrebbe essere considerato di grande attualità nella crisi e
nelle divisioni dell’Islam contemporaneo. Gesù evidenziò la necessità di una
riforma religiosa che superasse i confini e abbandonasse le strettoie di quella
comprensione strettamente letterale delle sacre scritture che vigeva nel suo
tempo: allora gli Ebrei conferivano infatti alle scritture un valore
eccessivamente ‘legalistico’. In proposito, nel Vangelo di Matteo Gesù precisa
di non essere venuto per abolire la legge, ma per dare compimento ad essa.
Chiarisce successivamente: se la vostra giustizia non supererà quella degli
scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Analogamente Giovanni
afferma che la legge è stata data per mezzo di Mosè, ma è per mezzo di Gesù
Cristo che sono venute la grazia e la verità. Pertanto per un cristiano la
formale e rigorosa adesione alla legge non è sufficiente per ottenere la
salvezza, ma è solo una pre-condizione di essa. Questo concetto è esplicitato
nelle parole rivolte da Cristo al giovane ricco che aveva puntualizzato di aver
osservato tutti i comandamenti: ...se vuoi essere perfetto, offri tutti i tuoi
beni ai poveri, poi seguimi, poiché il regno di Dio non è per i ricchi. Questa
lunga premessa evidenzia che gli Ebrei stavano vivendo in quei tempi una crisi
religiosa simile a quella dei musulmani di oggi. Il mondo musulmano, come è
noto, è estremamente composito: all’interno della galassia islamica è possibile
individuare numerose correnti interpretative. È prevalente il doveroso rispetto
dei contenuti formali della legge, mentre vengono considerate con estrema
cautela eventuali istanze di riforma. Al riguardo hanno spesso esiti radicali
le posizioni ideologiche di quelle correnti che sostengono la necessità di
ripristinare la purezza dell’Islam delle origini mediante l’osservanza
letterale del Corano (segnatamente i Wahabiti e i Salafiti). Paradossalmente le
esigenze di riforma emerse i nei moti di rivolta della Primavera Araba
(2010-2012) - che hanno avuto moventi spiccatamente laici, che possono essere
riassunti nel diffuso malessere per una società cristallizzata su posizioni
antidemocratiche e caratterizzata da una inaccettabile diseguaglianza nella
distribuzione della ricchezza – pur promosse da gruppi eterogenei laici, hanno
prodotto come risultato a lungo termine il ritorno a regimi fondamentalisti: i
popoli arabi, nel richiedere cambiamenti, non potevano infatti avere come
modello le democrazie occidentali, da sempre considerate corrotte e lontane da
valori spirituali e religiosi. Al contrario, il nuovo Stato arabo, solo se
fondato su una piena applicazione dei valori dell’Islam depurati da qualsiasi
modernità, sarebbe stato in grado di assicurare un sistema perfetto oltre che
giusto. Ciò premesso si richiama l’attenzione sul fatto che la predicazione di
Cristo nell’enunciare la buona Novella, come detto in precedenza, non rinnegava
le preesistenti scritture, ma si limitava a censurarne l’ossessiva osservanza
dei dettagli e solo un superficiale e formale rispetto dei principi morali che
ne costituivano il presupposto. Gesù ha affrontato e dato soluzione ad una
crisi religiosa originata da uno sterile legalismo e pertanto analoga a quella
determinata attualmente dagli esiti talvolta cruenti e violenti causati da una
rigida e letterale applicazione della Sharia. La legge coranica, quando disciplina
i rapporti interpersonali, è senza dubbio ispirata da istanze di reale
giustizia. Tuttavia una declinazione acritica delle norme, che non tenga conto
delle circostanze del caso concreto e delle finalità delle disposizioni, ne
uccide lo spirito e può facilmente portare alla consumazione di ingiustizie.
RR
CONSIDERAZIONI
SULLA STORIA DEL LIBANO (24.8.2020)
Ripercorrendo
la storia politica del Libano contemporaneo dal mandato francese ad oggi,
risulta evidente uno stretto legame fra l’impianto confessionale del Paese e le
sue vicende interne e internazionali. Nel contesto arabo il Libano è un Paese
atipico. Il cosiddetto comunitarismo di impronta
confessionale, ovvero in concreto la capacità delle comunità religiose di avere
una definita e stabile rappresentatività a livello politico, ha sempre
condizionato l’assetto istituzionale facendo del Libano una democrazia
confessionale. Le comunità religiose, forti del loro un mandato, non
di rado hanno svolto un’importante attività di pacificazione e mediazione, che
ha consentito anche di contenere le spinte autoritarie che provenivano da
ambienti religiosi radicali. Raggiunta l’indipendenza nel 1943 uno dei
principali problemi fu quello di rispettare un’equa condivisione del potere fra
le due principali comunità, quella cristiana e quella musulmana. Allora venne
stipulato un patto interno non scritto fra maroniti e sunniti; la comunità
cristiana accettava la definizione del Libano come Stato arabo, ma
nello stesso tempo si confermava l’attribuzione di poteri politici fra le
comunità in base alle risultanze del censimento del 1932, effettuato durante il
mandato francese. Questa clausola, che premiava la comunità cristiana allora
maggioritaria, venne modificata dagli Accordi di Taif del 1989 - di cui si dirà
- che hanno invece stabilito la parità fra le due comunità. In base al
menzionato accordo interno non scritto di fatto si stabiliva che il Presidente
della Repubblica sarebbe stato un maronita, il Primo ministro un sunnita, il
Presidente dell'Assemblea Nazionale uno sciita, il vice Presidente del
Parlamento un Greco ortodosso. Si ebbero difficoltà a rispettare questo assetto
quando dall’esterno cominciarono pressioni di carattere panarabo: il Libano si
colloca infatti all’interno di un contesto, quello mediorientale, a forte
prevalenza arabo-musulmana. Pertanto veniva messo in discussione il potere
attribuito alla componente cristiano-maronita. Dopo varie travagliate vicende
che insidiavano l’unità nazionale, a seguito di crescenti tensioni nel 1975
scoppio una grave guerra civile che durò fino al 1990. Il conflitto
fu caratterizzato da alleanze molto fluide e variabili; le cause furono sia
interne che esterne. Un elemento particolarmente destabilizzante e determinante
all’origine delle ostilità, fu il crescente considerevole afflusso nel Paese di
profughi palestinesi. Questa presenza accresceva la consistenza della comunità
musulmana che ora si sentiva sottorappresentata, mentre la componente cristiana
temeva di perdere la propria prevalenza demografica. Il conflitto fu
alimentato anche da fattori esterni, ossia dall’intervento di altri Stati con
propri specifici interessi (in particolare della Siria e di Israele). La
guerra, che causò gravi perdite umane e precipitò il Paese in una grave crisi
economica, si concluse alla fine del 1990 dopo gli accordi di Taif (22 ottobre
1989). Nel 1992 si svolsero libere elezioni che ebbero come esito una forte
affermazione degli Hezbollah, e quindi della componente musulmana-sciita
(questo esito fu confermato anche da successivi appuntamenti elettorali).
Questa situazione politica ha creato i presupposti per forti tensioni e scontri
con il vicino Israele, che nel 2006 presero la forma di un vero e proprio
conflitto (dal 12 luglio al 4 agosto 2006). Anche le vicende della vicina
Siria hanno causato pericolose ripercussioni interne. RR
LIBANO,
UN PARADISO PERDUTO (22.8.2020)
Qualche
giorno fa ho letto un articolo su un sito straniero[1] che con
cinico umorismo riferiva che un po' di tempo fa in Libano circolava questa
storiella. Dio, quando creò il Libano, decise di dotarlo di bellissime
montagne, di spiagge meravigliose, di ricche sorgenti di acqua, di terreni
fertili, e di abitanti operosi, intelligenti, creativi,
attraenti. Infatti, il Creatore voleva fare del Paese dei
cedri una specie di paradiso terrestre; poi però, riflettendo, decise
che il Paradiso non poteva esistere in terra, perché doveva essere
esclusivamente riservato all’aldilà. Ed allora...creò i popoli confinanti. Si
tratta ovviamente di un racconto maliziosamente bugiardo, che tuttavia è un
modo allegorico per raccontare una triste verità. Il Libano ha sempre avuto una
collocazione molto particolare nel contesto mediorientale. I motivi che diversi
decenni fa hanno fatto del Libano un’isola felice - ovvero la multiculturalità,
la multietnicità, l’essere al centro di importanti interessi finanziari e
geopolitici - oggi sono all’origine della sua instabilità politica e della sua
fragilità, perché il Libano è diventata terra di scontro in ragione
dell’importanza correlata alla sua condizione. Le vicende del Libano, pur
travagliate da grandi difficoltà, dimostrano tuttavia che è plausibile
ipotizzare un modello di Stato mediorientale, che, fondato su una nuova
coscienza sociale, politica e religiosa, può consentire l’individuazione di una
via araba alla democrazia mediante la costituzione di una società del
vivere insieme, come felicemente la definiva l’intellettuale libanese Samir
Frangieh [2].
[1] Si tratta
di Lebanon as Paradise Lost da Brookings, il sito
della Brookings Institution, un'organizzazione no
profit con sede a Washington, che si pone la missione di condurre
ricerche per esplorare nuove soluzioni per risolvere i problemi che la società
deve affrontare a livello locale, nazionale e globale.
[2] Samir
Frangieh (12.4.1945 – 11.4.2017) è stato un intellettuale, politico e
giornalista libanese di fede cristiano-maronita.
TWO MEN
ONE WAR, 33 YEARS ON – LEBANON, ALCUNE RIFLESSIONI SULLE VICENDE BELLICHE
‘INTERNE’ LIBANESI (21.8.2020)
Sulle
piattaforme web Youtube (https://www.youtube.com/watch?v=zIVUV6HhTcI) e
Vimeo (https://vimeo.com/9325230)
è visibile un interessante cortometraggio, Two men, one war, 33 years
on – Lebanon, realizzato dal regista Eric Trometer, nel quale si evidenzia
come le vicende belliche libanesi più di ogni altra guerra abbiano contrapposto
in maniera insensata e strumentale uomini altrimenti destinati all’amicizia.
Nel documentario due ex miliziani, uno cristiano, Assad Shaftari, e l’altro
musulmano, Muhieddine Chehub, dopo aver combattuto su fronti opposti ignari
l'uno dell'altro, si ritrovano nel 2008, dopo 33 anni, e si raccontano le loro
storie parallele. Intraprendono la via del perdono e della conciliazione,
rinnegando il loro passato di morte. La guerra è solo un cieco omicidio
collettivo causato da un superficiale vuoto etico che rende refrattari a
qualsiasi impulso di pacificazione e che produce insensate divisioni. Nei
fotogrammi finali del documentario si legge che i due uomini ora sono
amici e lavorano insieme in nome del perdono e della tolleranza[i],aggiungendo
che per sostenere la riconciliazione è stato creato in Libano un
giardino del perdono. Nei fotogrammi iniziali viene citata la nota
frase di Lao Tzu chi conosce gli altri è sapiente, chi conosce sé
stesso è illuminato. L’ignoranza è alla base di ogni male; la
conoscenza degli altri e di sé stesso è il migliore antidoto e lo strumento da
privilegiare nella ricerca di soluzioni. RR
[i] Da
intendere come reciproco riconoscimento (NdR).
IL
RUOLO DEL MOVIMENTO HEZBOLLAH IN LIBANO DOPO L’INCIDENTE DEL 4 AGOSTO u. s.
(20.8.2020)
In
Libano un elemento di elevata instabilità geopolitica è la presenza
istituzionale di Hezbollah, il movimento fondamentalista islamico di fede
sciita, alleato dell’Iran e nemico giurato di Israele. Gli Hezbollah, pur
strutturati come un partito politico, sono dotati di un’ala militare molto
attiva, che ha spinto molti Stati occidentali e organizzazioni internazionali a
considerare terroristica la sua matrice. Si costituirono nel 1982 con il
dichiarato obiettivo strategico di contrastare con ogni mezzo l’ingerenza
israeliana. In questo attuale particolare frangente gli Hezbollah, mediante
solidi mezzi finanziari e valendosi di un collaudato impianto politico e militare,
probabilmente daranno massima visibilità alla loro vocazione assistenzialistica
al fine di accreditarsi come unico credibile concreto punto di riferimento per
il popolo libanese, soprattutto nei momenti di crisi. Nello stesso tempo il
gruppo sciita dovrà dimostrare in maniera credibile la totale estraneità
all’incidente dello scorso 4 agosto e alle attuali difficoltà finanziarie del
Paese, continuando di fatto nello stesso tempo ad essere la punta avanzata
degli interessi dell’Iran in questa regione. RR
IL
RUOLO IN LIBANO DELLA COMUNITA’ CRISTIANA COME ELEMENTO DI MEDIAZIONE E DI
STABILIZZAZIONE (19.8.2020)
Nel
1920 fu creato il Grande Libano, uno Stato formalmente autonomo indirettamente
amministrato dalla Francia, destinataria di un mandato della Società
delle Nazioni; le sue frontiere geografiche corrispondevano all'incirca a
quelle dell'attuale Libano. La sua fine si ebbe formalmente nel 1943 con
la proclamazione di indipendenza della Repubblica del Libano. Il Grande Libano
era l'unico Paese del mondo arabo il cui sistema politico era basato sulla
democrazia, senza una religione di stato ufficiale. Il Libano pertanto già da
allora rappresentava un rifugio sicuro per le minoranze religiose e,
segnatamente, per i cristiani che vivevano nei Paesi arabi. È tuttora l’unico
Paese nella regione in cui i cristiani giocano un ruolo attivo nella politica
nazionale. Oltre al Presidente della Repubblica (che per Costituzione deve
essere un maronita) siedono al Parlamento più di 40 deputati
cattolici su un totale di poco più di 125 seggi. I cattolici sono rappresentati
anche nel governo e nella funzione pubblica. Si stima che fin dagli anni
settanta siano la componente maggioritaria della popolazione. La comunità
cristiana, ben inserita nel tessuto sociale, può svolgere un ruolo di
mediazione nei difficili rapporti fra Sunniti e Sciiti. Un noto ayatollah
libanese di origini [i] amava ripetere non c’è Libano senza i suoi
cristiani, non c’è Libano senza i suoi musulmani. Nel marzo del 2010
per la prima volta cristiani e musulmani festeggiarono insieme l’Annunciazione.
Questa festa ovviamente ricordava la visita dell’angelo a Maria. L’iniziativa
che portò all’istituzione della festa fu approvata dal Consiglio Nazionale per
il Dialogo e, successivamente, dal Consiglio dei Ministri nella convinzione che
una celebrazione comune potesse accrescere l’intesa tra cristiani e musulmani.
La Vergine Maria è infatti cara anche ai musulmani; nel Corano si trova il
racconto dell’Annunciazione, anche se naturalmente le due religioni divergono
sul significato dell’accadimento. Per i musulmani l’evento è solo l’annuncio
della nascita di un grande profeta, mentre per i cristiani è il primo atto
dell’Incarnazione del Figlio di Dio. La positiva esperienza dovrebbe essere
considerata oltre i confini libanesi[ii]. Indubbiamente
il meticciato di culture e di diverse tradizioni spirituali e religiose può
essere un elemento di crescita sociale e politica, in anticipo sulla politica
stessa. Insegna che musulmani e cristiani possono trovare un’intesa senza
neutralizzare la loro storia. In un celebre discorso del 1989, Giovanni Paolo
II affermò che il Libano è qualcosa di più di un Paese: è un messaggio
di libertà e un esempio di pluralismo per l’Oriente come per l’Occidente![iii] In
questi ultimi anni i contenuti di questa affermazione sono stati banalizzati e
sviliti a mero slogan. Tuttavia resta di massima attualità aiutare in ogni modo
il Libano affinché ritrovi e consolidi la sua vocazione interreligiosa. Il
nuovo Stato mediorientale deve fondarsi su una aggiornata e nuova coscienza
sociale, politica e religiosa, che favorisca la definizione di una via araba
alla democrazia, mediante la costituzione di una società del vivere
insieme, come la definiva l’intellettuale e politico libanese
cristiano-maronita Samir Frangieh[iv]. RR
[i] Si tratta
dell’imam sciita Muhammad Mahdi Shamseddine (Shams ad-Dîn). Nato nel 1936 in
Iraq, ma originario della regione del Jabal ‘Amel nel Libano meridionale,
Shamseddine apparteneva a una famiglia di alti dignitari religiosi, la cui
genealogia risale fino a Muhammad Ibn Makkî al-‘Âmilî, celebre teologo del XIV
secolo, noto come “il primo martire” (al-shahîd al-awwal) per essere stato
ucciso dai mamelucchi sunniti.
[ii] Il
documento sulla “Fratellanza umana. Per la pace mondiale e la convivenza
comune”, firmato il 4 febbraio da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb
grande imam di Al-Azhar ad Abu Dhabi è anche il frutto di questo cammino.
[iii] La
frase è stata pronunciata nel 1997 da Giovanni Paolo II in occasione della
visita in Libano per la pubblicazione dell’Esortazione post-sinodale del
Sinodo speciale dedicato proprio al Libano.
[iv] Samir
Frangieh (12.4.1945 – 11.4.2017) è stato un intellettuale, politico e
giornalista libanese.
IL
LIBANO. CONSIDERAZIONI GENERALI (13.8.2020).
Com’è
noto il 4 agosto u.s. Beirut è stata dilaniata da violentissime esplosioni, la
cui micidiale onda d’urto ha distrutto il porto e buona parte della città.
Nell’immediatezza del fatto è sembrato evidente che l’evento fosse imputabile a
negligenze e incuria nella gestione di un deposito nel quale era stoccato
materiale ad alto rischio (in particolare una quantità ingente di nitrato di
ammonio, sostanza utilizzata prevalentemente per produrre fertilizzanti). Nello
stesso tempo, nell’ipotesi di concause dolose, sono apparse subito improbabili
rivendicazioni attendibili, considerata la indiscriminata gravità dell’atto.
Qualora fosse stato un attentato, infatti, non ci si attendeva che qualcuno
avesse il coraggio di rivendicarne la paternità. In termini simmetricamente
opposti la realtà dell’attentato sarebbe stata difficilmente ammissibile da chi
lo avesse subito: sarebbe stato un grave riconoscimento di vulnerabilità.
Tornano alla mente le devastazioni della guerra civile che dal 1975 al 1990 –
quando le componenti etniche e religiose si sono aspramente combattute - ha
devastato questa terra un tempo definita la Svizzera del Medio Oriente. La
collocazione del Libano nel contesto mediorientale è la causa del suo fortunato
e poi maledetto destino. La multiculturalità, la presenza di almeno 18 diverse
confessioni religiose, la multietnicità, sono infatti all’origine della sua
precarietà. Indubbiamente un elemento di elevata instabilità politica è la
presenza istituzionale di Hezbollah, il movimento fondamentalista islamico di
fede sciita, alleato dell’Iran e nemico giurato di Israele. Gli Hezbollah, pur
strutturati come un partito politico, sono dotati di un’ala militare molto
attiva, che ha spinto molti Stati occidentali e organizzazioni internazionali a
considerare terroristica la sua matrice. Si costituirono nel 1982 con il
dichiarato obiettivo strategico di contrastare con ogni mezzo l’ingerenza
israeliana. La creazione dello Stato del Libano si ebbe a seguito della
dissoluzione dell’Impero Ottomano[i]. Il Libano,
essendo nato dall’unione di zone eterogenee, è sempre stato politicamente e
militarmente debole: spesso sul suo territorio si sono trasferite e consumate
fasi di conflitti fra altri Stati[ii]. La Siria
degli Assad, animata da propositi nazionalistici, ha sempre rivendicato
un’egemonia di fatto su quell’area, non riconoscendone l’autonomia in virtù del
suo pregresso potere sulla regione. Il Libano, nonostante l’esiguità
territoriale e la fragilità politica, è sempre stato oggetto di una particolare
attenzione da parte dei mass-media e dell’opinione pubblica, che trova fondamento
nell’essere il risultato di un’alchimia socio-religiosa[iii], che si
concreta nella convivenza di diverse identità religiose, tutte integrate nel
tessuto sociale e consapevoli della loro reciproca necessità. Nel Libano
multiconfessionale anche la comunità cristiana è integrata nella società: da
questo punto di vista la realtà libanese potrebbe essere un modello avanzato
per una auspicata futura evoluzione della società musulmana verso formule
interreligiose. Questa tragedia dalle cause incerte si colloca in un momento in
cui il Libano vive una grande e drammatica emergenza sociale ed economica. La
gravissima crisi del Libano, aggravata da quest’ultimo evento, è destinata a
ripercuotersi anche sulla sicurezza del Mediterraneo. RR
[i] Dopo la
dissoluzione dell'Impero ottomano al termine della prima guerra mondiale, di
fatto ratificando l'accordo Sykes-Picot fra Gran Bretagna e Francia (16 maggio
1916), la Società delle Nazioni con un mandato affidò al controllo della
Francia la Grande Siria (che comprendeva le cinque province che oggi
costituiscono il Libano).
[ii] Anche il
conflitto siriano è spesso sconfinato nei territori libanesi.
[iii] Andrea
Riccardi (nella prefazione al libro: Riccardo Cristiano e Samir Frangieh, Il
giorno dopo la primavera, Messina, 2012).
NATION
ESTATE, OVVERO QUANDO GEOPOLITICA E ARTE SI INCONTRANO (5.6.2020)
Attraverso
un quadro, un brano musicale, una poesia, un film, o, come nel caso che segue,
con un breve video, è possibile semplificare in maniera non convenzionale la
comprensione di una situazione e delle implicazioni che ne sono il corollario.
L’opera d’Arte ha infatti anche questa funzione, ovvero trasmettere contenuti
con un’immediatezza e un’efficacia che non si riscontra nelle comunicazioni
ordinarie. In proposito qualche anno fa ho visto un originale cortometraggio
con il quale una questione geopolitica particolarmente complessa come quella
palestinese veniva esemplificata mediante una fantasiosa finzione
cinematografica. Mi riferisco al cortometraggio ‘Nation Estate’ (Edificio
Nazione) della brillante e poliedrica regista Larissa Sansour, nata a
Gerusalemme Est nel 1973, attualmente residente all’estero, a Londra per la
precisione. Il film, realizzato nel 2013 e della durata di 9 minuti circa, è la
metafora della condizione di disagio dell’etnia araba che vive in Israele. La
geniale Larissa, senza entrare nel controverso contenzioso politico, immagina
che la mancanza di un territorio nel quale il popolo palestinese possa
esercitare la propria sovranità in maniera esclusiva e possa autodeterminarsi
senza interferenze, possa essere risolto attraverso una soluzione
verticale: lo Stato palestinese, non potendosi estendere in larghezza,
viene confinato all’interno di un enorme e fantascientifico grattacielo (the
Nation Estate). In questa full immersion in un ambiente surreale
ogni piano corrisponde ad una città della Palestina. Si può attraversare lo
Stato palestinese pertanto solo dal basso verso l’alto mediante un modernissimo
ascensore: lungo il percorso è possibile intravedere viste che corrispondono
alla località del piano. I Palestinesi, relegati nell’edificio, finalmente
possono condurre una vita ad alti livelli, come sarcasticamente
precisa una didascalia del film. I drammatici tratti della condizione
palestinese prendono forma nel composto disorientamento correlato alla
necessità di muoversi quotidianamente all’interno di percorsi predeterminati,
in un contesto algido che trasmette una sensazione di anonimo spaesamento.
Nation Estate non è un documentario, ma un’efficace metafora. Arte e
geopolitica sono complementari. Il documentario che consente un’analisi
geopolitica scandaglia il visibile, la metafora - nel caso specifico il film di
Larissa Sansour – esplora l’invisibile. RR
Il
film è visibile online: https://vimeo.com/47817604
LA
TRADUZIONE DEI LIBRI: UNO STRUMENTO DI OSMOSI CULTURALE FRA OCCIDENTE E MONDO
MUSULMANO – II parte (18.05.2020)
Il
mondo islamico, attraverso l’edizione in arabo o altre lingue nazionali di
libri stranieri, in particolare ‘occidentali’, manifesta con prudente
cautela un interesse crescente per la cultura di diversa matrice. Le
trasposizioni linguistiche riguardano principalmente la narrativa, ma si
traducono anche dizionari, opere scientifiche, saggi, libri per ragazzi e
per bambini. In Egitto ed in Libano ogni anno si pubblicano dai 350 ai 400
libri stranieri (non arabi). Queste iniziative sono state favorite
dalla partnership fra case editrici, come quella fra
l’egiziana Shourouk e la britannica Penguin, che ha consentito di proporre al
lettore mediorientale ed egiziano opere come ‘l’Odissea’, ‘Il Principe’ di
Macchiavelli, ‘Pigmalione’ di George Bernard Shaw, ‘Furore’ di John Steinbeck.
Il progetto editoriale in compartecipazione tra la Penguin e Dar El
Shourouk (che è la più importante casa editrice egiziana) fu lanciato nel
2010 per offrire a lettori arabi alcuni tra i più rappresentativi titoli della
letteratura classica europea e nordamericana, selezionati nella collezione
‘Classics’ del colosso editoriale anglosassone. L’inglese è la lingua più
tradotta: solo in Egitto dal 2000 al 2006 sono state tradotte e pubblicate 1700
opere originalmente in lingua inglese, ovvero più del 75% di tutte le
traduzioni. Un’altra partnership è stata quella fra
Bloomsbury Publishing e Qatar (terminata da alcuni anni), che ha curato
la pubblicazione in arabo di opere inglesi e francesi. L’inglese funge
spesso da lingua di transito di altre lingue verso l’arabo (ad
esempio, non si traduce in genere un libro dal finnico, dal giapponese, dal
cinese o dallo svedese, ma si traduce la corrispondente edizione britannica o
americana). La seconda lingua più tradotta è il francese, che rappresenta
il 30% delle traduzioni in arabo. Solo in Libano - che ha una popolazione
francofona del 40% circa – fino al 2008 erano poco più di un migliaio le
edizioni di opere francesi pubblicate in arabo. Gli autori più tradotti sono
scrittori classici o moderni - come Jean-Paul Sartre, Molière, Victor Hugo,
Albert Camus e André Malraux - scrittori vicina alla cultura araba e
islamica come Roger Garaudy, e autori arabi di lingua francese - come Mohammed
Arkoun, Amin Maalouf, Samir Amin, alcuni dei quali descrivono l’atmosfera della
periferia parigina, les bainlieue, trattando le problematiche arabe
nei Paesi di immigrazione. La terza lingua più tradotta è il persiano, mentre
la quarta è il tedesco. I lavori di Hermann Hesse e di Bertold Brecht sono i
più gettonati. Poco tradotte sono le opere in lingua
spagnola: una quarantina l’anno. Gli ispanici più popolari nel contesto
letterario arabo sono Gabriel García Márquez, Jorge Luis Borges, Miguel de
Cervantes, Isabel Allende, Federico García Lorca, Mario Vargas Llosa, Julio
Cortázar. Le opere italiane tradotte in arabo sono circa 350/400; più del 30%
sono opere letterarie. Gli autori più tradotti sono Italo Calvino, Alberto
Moravia, Luigi Pirandello e Umberto Eco. Generalmente le traduzioni avvengono
direttamente dall’italiano, con poche eccezioni di opere tradotte tramite
l’inglese. Un valido contributo alla diffusione della letteratura italiana
viene dalla creazione di specifici dipartimenti in alcune Università
arabe, come a Manouba in Tunisia, ad Ain Shams e Helwan in Egitto, e a
Damasco. Inoltre alcune personalità arabe hanno contribuito molto alla
diffusione della conoscenza di classici italiani: in particolare, il giordano
Issa Al Naouri, il libico Khalifa Tillisi e Hassan Osman. Khalifa
Tilissi è autore di un importante dizionario arabo-italiano, mentre Osman ha
curato una traduzione in arabo della Divina Commedia dalla quale ha però omesso
i versi che riguardano Maometto, considerate offensive nei confronti del
Profeta dell’Islam. Il Libano è il Paese che ha orizzonti culturali più ampi.
Nelle librerie di Beirut possono essere acquistati libri sulla Siria,
sullo Sciismo nei Paesi del Golfo, sui documenti di Wikileaks relativi al
Libano, oltre a ‘classici’ di autori di fama internazionale tradotti in arabo.
L’interesse arabo per la cultura occidentale ha un trend in
ascesa. E la cultura getta ponti fra terre separate dal mare dei pregiudizi e
dell’ignoranza. RR
LA
TRADUZIONE DEI LIBRI: UNO STRUMENTO DI OSMOSI CULTURALE FRA OCCIDENTE E MONDO
MUSULMANO – I parte (17.5.2020)
Lo
strumento privilegiato per attuare un’osmosi fra diverse culture è la
traduzione dei libri: attraverso le pubblicazioni un popolo comunica all’estero
i connotati della propria civiltà. Le traduzioni facilitano quella circolazione
di idee sulla quale si struttura il dialogo interculturale. Questo aspetto
assume importanza anche nei rapporti fra Occidente e mondo islamico. L’Europa
traduce poche opere scritte in originale in arabo. Fa eccezione la Francia per
la presenza sul suo territorio di una numerosa comunità maghrebina, ma si
tratta solo di una sessantina di volumi l’anno, che corrisponde a meno
dell’1 % di tutti i libri tradotti in Francia nella lingua nazionale. In
generale, negli Stati europei la media della traduzione dei libri arabi è di
circa un testo ogni mille (tradotti). Escludendo i libri sacri come il
Corano, i classici come le Mille e una Notte, e le opere di
scrittori affermati come Gibran, Ala Al Aswani e Naguib Mahfouz, i libri
tradotti da lingue di Paesi islamici hanno scarsa visibilità nei media, nelle
librerie e nelle biblioteche occidentali. In Israele le traduzioni in
arabo sono rare nonostante gli arabofoni siano il 25% della popolazione; questo
dato è sintomatico dei rapporti di potere fra le due etnie, quella araba e
quella ebraica. Anche il turco è poco tradotto. In Francia i libri
‘turchi’ in francese sono lo 0,1/0,2 % delle pubblicazioni tradotte. Queste
cifre mostrano quanto scarsa sia la considerazione della produzione letteraria
dei Paesi islamici, nonostante gli Stati europei che si affacciano sul
Mediterraneo abbiano condiviso parte della loro storia con le popolazioni
nordafricane e mediorientali. Le traduzioni di libri arabi nelle lingue dei
Paesi dell’Europa orientale o settentrionale spesso ‘transitano’ per lingue
terze, principalmente il francese e l’inglese (cioè sono tradotte dalla
versione inglese o francese anziché dall’originale). Segnatamente il 30% circa
delle opere tradotte dall’arabo passano attraverso il francese. La
letteratura araba e turca è pressoché sconosciuta nell’Europa dell’est e nell’area
balcanica; sono tradotti tuttavia gli scritti religiosi destinati alle
minoranze musulmane. I saggi arabi in materia di scienze sociali
in genere sono raro oggetto di traduzione e questo è sintomatico
dell’assenza di un dibattito su questi temi. In generale l’Europa, ostaggio del
proprio etnocentrismo, non sembra apprezzare la produzione intellettuale che
proviene dal mondo islamico (Turchia compresa). A causa di questo deficit
di conoscenza quello che sappiamo del mondo arabo lo apprendiamo prevalentemente
da autori europei, soprattutto francesi, e non da una fonte autentica e
diretta. Per questo abbiamo difficoltà ad interpretare tutto quello che si
agita nel cosmo islamico, Turchia compresa. RR
PER
UNA RIFORMA DEL SISTEMA SANITARIO LOCALE (19.02.2020)
La
situazione della Sanità italiana è per certi aspetti paradossale. È
unanimemente riconosciuta, anche oltre i confini nazionali, la professionalità
della classe medica e la preparazione del personale paramedico; tuttavia, la
crescente difficoltà a rispettare un livello sufficiente nell’erogazione dei
servizi crea le premesse di un allarmante inadempimento delle istituzioni
pubbliche. Sono soprattutto le articolazioni locali del servizio
sanitario - depositarie delle attribuzioni concrete in materia - che
evidenziano preoccupanti momenti di criticità. La questione è complicata dalla
progressiva riduzione della disponibilità di risorse economiche ed umane. Per
questo motivo cresce da un punto di vista politico la sensibilità delle opzioni
circa le soluzioni da adottare per correggere le palesi inadeguatezze
organizzative. Se non ci si rassegna ad una fatalistica prassi che fa
affidamento esclusivamente sul senso di responsabilità e sul sacrificio dei
singoli operatori per supplire alle falle del sistema e per soddisfare le
legittime aspettative dei contribuenti, si impone un tentativo di
razionalizzazione delle risorse disponibili ed un loro incremento nei limiti
delle possibilità finanziarie. Peraltro l’eccessivo aggravio delle prestazioni
è suscettibile di incidere negativamente sulla loro qualità, creando i
presupposti per responsabilità anche politiche originate dalla
pericolosa incidenza dell’inerzia o delle scelte errate. È evidente
l’improrogabilità di una riforma per strutturare le condizioni di un sistema
virtuoso: è necessaria innanzitutto una rimodulazione dell’assetto delle
articolazioni periferiche che abbia come principale obiettivo una più razionale
distribuzione delle disponibilità anche umane. Un’eventuale riforma non deve
pregiudicare la prossimità dei momenti decisionali rispetto alla comunità su
cui incidono i servizi. È noto che la buona prassi amministrativa -
emersa univocamente anche a livello europeo - denominata sussidiarietà,
impone di privilegiare le attività di un ente strutturalmente più vicino ad una
specifica collettività se è in grado di svolgere meglio un compito rispetto ad
un ente più lontano. Peraltro su questo principio si fondano le competenze
esclusive delle regioni. Il principio di prossimità alla comunità degli utenti,
patrimonio consolidato anche di altri settori amministrativi, nella sanità
conforta il paziente che avverte la vicinanza rassicurante dell’apparato. Le
esigenze di razionalizzazione e di economicità del sistema dovrebbero pertanto
evitare un inutile accentramento delle competenze decisionali. Più
specificamente l’accorpamento dell’erogazione dei servizi non va confuso con
l’opportunità di realizzare quella positiva integrazione fra le competenze di
aziende territoriali e aziende ospedaliere, strumentale ad evitare duplicazioni
e a perseguire la complementarietà fra rispettive peculiarità. Non può
ulteriormente essere rimandata una ricognizione delle piante organiche per una
revisione che le aggiorni alle sopravvenute esigenze operative. Per definire
un’erogazione dei servizi che ottimizzi la convenienza economica è necessario
promuovere uno studio della realtà geografica nella quale si articolano i
servizi locali: questa iniziativa dovrà essere finalizzata a far emergere la
distribuzione territoriale delle aspettative dei pazienti e, conseguentemente,
i reali confini dei bacini di utenza, che dovrebbero pertanto considerare anche
le richieste relative a territori extra-regionali limitrofi. Per aggiungere un
esempio concreto di quanto esposto, pazienti di zone limitrofe ai confini
extra-regionali della provincia di Terni privilegiano trattamenti sanitari
presso l’azienda ospedaliera di Terni. Questa contingenza inciderà quindi sulla
reale definizione del relativo bacino di utenza. RR
DAGLI
EPISTOLARI ALLE COMUNICAZIONI VIRTUALI (17.02.2020)
Qualche
giorno fa sono stato alla presentazione di un libro che conteneva il prezioso
epistolario fra una poetessa nata nel 1870 (Ada Negri) ed il suo amato. Il
testo, oltre ai puntuali contenuti di carattere storico-letterario frutto di
una scrupolosa ricerca, è un importante documento anche dal punto di vista
sociologico. Rispetto a quei tempi l’evoluzione tecnologica ha modificato
radicalmente il nostro modo di relazionarci. La comunicazione epistolare è
scomparsa e pressoché sconosciuta ai giovani, che sono oggi assuefatti a
messaggi scritti e vocali lapidari e sinteticamente anonimi. Lo scambio
epistolare per le sue contingenze è il simbolo di un mondo che è cambiato a
seguito di un irreversibile mutamento nei rapporti sociali. Fra amanti
non ci sono più lettere struggenti e profonde, ma comunicazioni di servizio che
hanno sostituito un reale dialogo (anche quello telefonico sembra superato);
questo stile è utilizzato anche fra persone fisicamente prossime. Nel rapporto
epistolare invece ci si avvicinava all’amato/a in maniera intima, rivelando
confidenze e segreti, segno di una malinconica complicità che poteva legare
affettivamente anche per sempre. Ci si conosceva profondamente e l’amore poteva
subire evoluzioni in positivo o in negativo. La distanza imponeva tempi di
attesa durante i quali con la fantasia ci si rappresentavano le reazioni del
destinatario; la risposta si attendeva con trepidazione unita ad aspettative e
ad illusioni. Nello scritto si cercava di esaurire, senza essere mai prolissi,
tutte le questioni in sospeso sperando di suscitare riflessioni e riscontri.
Nel tempo ‘digitale’ tutto questo è finito. Regna la fretta, l’immediatezza,
non c’è spazio per la riflessione. Le storie d’amore, anche importanti, possono
nascere e finire con un messaggino in chat o un sms. I sentimenti, che
prima andavano espressi, ora sono sintetizzati da forme standardizzate.
L’esigenza di manifestare una sensazione o un’emozione, è surrogata dalla
digitazione sulla tastiera un emoticon. Provi vergogna o imbarazzo? C’è la
faccina che arrossisce. Devi inviare gli auguri di compleanno a qualcuno? Puoi
mandare icone che rappresentano un pacco, una torta, un mazzo di fiori. Tutto
virtuale. Sei innamorato? Diglielo con un cuoricino: puoi scegliere anche il
colore per puntualizzare il tuo ‘stato’. La fragilità grammaticale e sintattica
si dissolve grazie ai correttori o a strumenti come il T9. La comunicazione ora
serve per avere risposte lampo come fissare appuntamenti. I vantaggi nel mondo
del lavoro sono innegabili. La posta elettronica consente l’economicità che
deriva dallo scambio di battute veloci; accorcia le distanze e la durata di un
discorso permettendo di guadagnare tempo utile. Se si comunica con gli
strumenti virtuali non residua nulla di tangibile, come l’intrigante
documentazione cartacea. La corrispondenza telematica manca del confronto
personale, di umanità, della pazienza di uno sforzo di comprensione, di
empatia. Il progresso ci ha snaturato e reso tiepidi nei sentimenti? La
situazione è peggiore o migliore rispetto al passato? Non ha senso chiederselo.
I tempi cambiano inesorabilmente e ci si affaccia sul mondo non dalla finestra
di casa o dell’ufficio, ma dallo schermo del pc, del tablet e dello smartphone.
RR
IL
RECENTE RAPPORTO DI AMNESTY INTERNATIONAL SULL’EGITTO (su L’Azione del 6
dicembre 2019)
In
un recente rapporto sull’Egitto Amnesty International ha esaminato il ruolo
della Procura Suprema per la Sicurezza dello Stato definendola un minaccioso
strumento di repressione. Il Rapporto ritiene che l’organo giudiziario sia
responsabile della violazione sistematica dei diritti di libertà e delle
condizioni che garantiscono l’equità dei processi, disponendo inoltre
l’immotivata detenzione di migliaia di persone. La Procura è complice degli
abusi commessi dalle forze di polizia e di sicurezza, segnatamente
maltrattamenti, torture, sparizioni. Da un punto di vista normativo questa
arbitraria repressione si avvale, forzandone i limiti, della legislazione per
il contrasto del terrorismo. Il Rapporto esamina 138 casi di persone
arrestate dalla Procura Suprema dal 2013 al 2019. Di questi casi, 56 riguardano
soggetti arrestati per aver partecipato a manifestazioni o per aver pubblicato
dichiarazioni sui social network, mentre 76 persone sono state ristrette per le
loro iniziative in favore del rispetto dei diritti. 6 persone sono state
accusate di essere coinvolte in atti di violenza. Il Rapporto si occupa anche
di 112 casi di sparizione di persone per periodi fino a 183 giorni. Di queste
scomparse si ritiene responsabile prevalentemente l’Agenzia per la sicurezza
nazionale con la complicità della Procura che rifiuta sistematicamente di
disporre indagini sulle relative denunce. La Procura nei processi si avvale
spesso di confessioni estorte con la tortura. In alcuni di questi processi, gli
imputati, giudicati colpevoli, sono stati condannati a morte. Nonostante il
frequente ricorso a questi mezzi illegali, la dura repressione sembra incapace
di arginare le proteste. RR
CONDIZIONE
FEMMINILE ED ISLAM (su L’Azione del 29.11.2019)
La
ricorrenza della giornata contro la violenza sulle donne (25 novembre)
suggerisce alcune riflessioni sulla condizione della donna nei Paesi musulmani.
Il Corano è sensibile nei confronti del benessere femminile; la sua
applicazione concreta tuttavia, condizionata dalla tradizione islamica, crea
situazioni di profonda discriminazione. Nel diritto di famiglia ad esempio
l’istituto matrimoniale si fonda in linea di massima su principi di reciprocità
e di uguaglianza; nella pratica però la tradizione attribuisce un potere
assoluto al marito. Il Corano consente il divorzio, ma la società musulmana
rende difficile per le donne – sia legalmente che socialmente - il ricorso a
questa facoltà. In teoria entrambi i genitori hanno la stessa influenza
sull'educazione dei figli, ma in molti Paesi musulmani le donne divorziate
perdono automaticamente la custodia dei figli in età preadolescenziale. Alcuni
studiosi affermano che le tradizioni musulmane hanno frainteso lo spirito del
Corano in materia di poligamia, di diritti di eredità, di separazione fisica
dei sessi, di prescrizioni in materia di abbigliamento femminile. Queste
consuetudini sarebbero state originariamente istituite per proteggere le donne
e per garantirne l'autonomia; si sono però poi trasformate in segni di una
condizione legalmente minorata. È necessario che le donne musulmane non solo
rivendichino indipendenza rispetto alla soggezione patriarcale, ma acquisiscano
una dignità piena che consenta loro di determinarsi liberamente respingendo i
modelli occidentali estranei alla loro cultura. RR
I
CORRIDOI UMANITARI (su L’Azione del 15.11.2019)
La
creazione di corridoi umanitari è lo strumento attraverso il quale si realizza
il progetto di accoglienza istituito con un accordo che coinvolge i Ministeri
dell’Interno e degli Esteri, la Conferenza Episcopale Italiana, la Comunità di
Sant'Egidio, ed altri enti come la Federazione delle Chiese Evangeliche, la
Tavola Valdese, la Caritas, la Fondazione Migrantes. L’iniziativa è un virtuoso
esempio di collaborazione fra la società civile e le istituzioni, con la
finalità di aiutare le popolazioni in fuga da situazioni di carestia e di
guerra. Il progetto – che è completamente autofinanziato, cioè non pesa in
alcun modo sulle finanze dello Stato in quanto i fondi necessari provengono
dalle associazioni promotrici - offre ai richiedenti asilo un’alternativa
all’immigrazione illegale. In concreto le associazioni inviano nei Paesi
interessati esperti e volontari che acquisiscono informazioni e predispongono
una lista di potenziali beneficiari. Ogni segnalazione viene verificata dalle
associazioni, per poi essere inviata alle istituzioni competenti per
un’ulteriore verifica. Terminati i controlli, le liste dei beneficiari sono
trasmesse alle autorità consolari italiane dei Paesi coinvolti, le quali
rilasciano i necessari visti umanitari. Arrivati in Italia, i profughi sono
ospitati in strutture di accoglienza e viene offerta loro la possibilità di
un’integrazione attraverso l’apprendimento della lingua italiana, la scolarizzazione
dei minorenni e altro. Si tratta di un’iniziativa encomiabile, che però non può
risolvere un problema di così ampia portata. Solo misure strutturali - come la
previsione di canali legali di ingresso - possono contrastare efficacemente il
flusso clandestino di migranti e il traffico di esseri umani. RR
GERMANIA
E CASO HUAWEI (su L’Azione del 1.11.2019)
Nonostante
le pressioni statunitensi per impedire al colosso industriale Huawei di
interagire con le tecnologie delle telecomunicazioni dei Paesi alleati, la
Germania consentirà alla compagnia telefonica cinese di accedere alle sue reti
5G, finché saranno rispettati i requisiti di sicurezza decisi
dal Bundesnetzagentur, l’agenzia federale tedesca competente in materia.
Gli esperti tedeschi hanno motivato la loro posizione precisando che per ora
non hanno ravvisato nelle iniziative dell’industria cinese minacce alla
sicurezza nazionale. Da mesi alcuni Paesi – tra cui l’Australia e il Giappone,
oltre agli Stati Uniti - hanno impedito a Huawei di vendere i propri prodotti
alle aziende nazionali per sospette attività di spionaggio: si ritiene
possibile infatti che il governo cinese possa sfruttare le strumentazioni
necessarie per far funzionare le Reti di telecomunicazioni di Huawei per
carpire informazioni importanti. In proposito, il governo americano ha
avvertito quello tedesco che limiterà la condivisione di informazioni di
intelligence nel caso in cui Huawei avesse accesso alle infrastrutture
tedesche. Questa possibile forma di spionaggio tecnologico ha mortificato
l’immaginazione, alimentata dalle opere letterarie, che ha sempre considerato
attori delle iniziative di spionaggio agenti idealisti o dai tratti umani
romantici e irresistibili, impegnati in rischiose attività per individuare e
neutralizzare pericolosi criminali, o per scoprire complicati
intrighi internazionali. RR
L’IRREPARABILITA’
DEI DANNI AMBIENTALI (su L’Azione del 4.10.2019)
Mentre
l’attenzione è concentrata sul rogo che ha distrutto parte della foresta
pluviale amazzonica, un altro disastro ambientale si sta consumando nel
continente sudamericano. La costa nordorientale del Brasile – per una
estensione di circa 1500 km - è contaminata da larghe macchie di petrolio. Le
analisi non hanno consentito di precisare la provenienza del greggio. È
probabile che la sostanza sia stata scaricata nelle acque dell’Atlantico più di
un mese fa da qualche nave, che al momento non è stata individuata. Purtroppo
il catrame, oltre ai danni ambientali, ha imprigionato e ridotto in agonia
tartarughe, cormorani, gabbiani e altri volatili. Gruppi di volontari cercano
di salvare gli animali in difficoltà, curandoli dopo averli liberati dal
mortale manto nero. Questo disastro ambientale si aggiunge alle tante ferite
letali che abbiamo inferto al nostro pianeta, dall’inquinamento atmosferico –
di cui sono maggiormente responsabili India e Cina – causato dalle anidridi
prodotte dalla combustione del carbone, responsabili di piogge acide e di gravi
problemi di salute, alle isole che le correnti creano negli Oceani con
più di 8 milioni di tonnellate di rifiuti che si riversano ogni anno nelle
acque dei mari di tutto il mondo (la più grande si trova nell’Oceano Pacifico,
tra la California e l’Arcipelago Hawaiano, e si stima che potrebbe
occupare dai 700 mila ai 10 milioni di km quadrati). Purtroppo la comunità
scientifica concorda nel ritenere irreparabili i danni ambientali più gravi, e
pochi effetti potrà avere l’ondata emotiva prodotta dal movimento ecologista
che ha avuto in Greta Thumberg la sua punta avanzata. Dobbiamo acquisire la
consapevolezza che siamo tutti cittadini del mondo, la nostra reale patria.
RR
BRUCIA
IL POLMONE DELLA TERRA (su L’Azione del 27.9.2019)
Gli
incendi che stanno devastando la foresta pluviale amazzonica stanno creando
danni irreparabili: potrebbero servire secoli per ripristinare la situazione
preesistente. Ogni minuto viene distrutta un'area delle dimensioni di un campo
da calcio. Le foreste bruciate non si ricostituiscono facilmente. La rigogliosa
vegetazione dopo qualche anno dall’evento è sostituita da una fitta macchia di
alberi esili. Durante la stagione secca le combustioni di piante sono
fisiologiche; tuttavia secondo l’Istituto di Ricerche Spaziali del Brasile tra
gennaio e agosto di quest’anno sono stati registrati in Amazzonia 73.000
incendi circa, mentre sono stati poco più di 39.750 nel corso di tutto il 2018.
Questa calamità sta trasformando territori ricchi di impenetrabile vegetazione
resa lussureggiante dalle copiose precipitazioni in terre desolate e aride,
vulnerabili a futuri incendi. A causa di questa escalation, gli
ambientalisti hanno aspramente censurato le dichiarazioni del presidente
Bolsonaro, che durante la campagna elettorale aveva evidenziato l’opportunità
che parte della foresta pluviale fosse disboscata per essere destinata
all’agricoltura e allo sfruttamento minerario, sostenendo che la crescita
economica del Brasile era frenata dal mancato sfruttamento delle potenzialità
dei territori occupati dalla foresta pluviale. L’Amazzonia produce il 6%
dell'ossigeno dell’atmosfera terrestre. Tutto l’ecosistema del pianeta è
compromesso dalle fiamme che devastano questa regione, che si è sviluppata per
milioni di anni senza essere mai interessata dal fuoco. La comunità scientifica
mondiale è particolarmente preoccupata: si sta ammalando il polmone vitale
della terra. RR
GERUSALEMME,
CAPITALE CONTESA (Su L’Azione del 13.9.2019)
Recentemente
la Repubblica dell’Honduras ha aperto a Gerusalemme un ufficio diplomatico che
svolgerà funzioni amministrative per conto dell’Ambasciata honduregna che ha
sede a Tel Aviv. L’iniziativa è una concreta attuazione della volontà del
Paese centro-americano di considerare Gerusalemme la capitale di Israele,
conformemente a quanto stabilito dalla Knesset con una legge approvata nel
luglio del 1980 (censurata da una Risoluzione dell’Onu nel successivo agosto).
Con il medesimo intento lo scorso anno gli Stati Uniti e il Guatemala avevano
trasferito le proprie ambasciate da Tel Aviv a Gerusalemme. La città per
il suo grande valore simbolico è oggetto di gravi tensioni fra Israeliani e
Palestinesi. Gli Israeliani ritengono che Gerusalemme debba essere la capitale
del loro Stato perché oltre ad essere la più importante città dell’antico Regno
di Giuda era sede del Tempio Santo, il luogo più sacro per l’Ebraismo. I
Palestinesi rivendicano invece di aver abitato Gerusalemme in maniera esclusiva
per secoli. Oggetto di controversie è in particolare la parte orientale di
Gerusalemme - unilateralmente annessa da Israele nel 1967 dopo la guerra dei sei
giorni - nella quale sono ubicati alcuni dei luoghi considerati santi dalle tre
religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo, Islam), quali il Muro del
Pianto, la moschea al-Aqsa, la basilica del Santo Sepolcro. Prendendo atto
della natura irrisolta del contrasto, le organizzazioni internazionali e la
maggior parte dei Paesi Membri dell’Onu hanno aperto le loro rappresentanze
diplomatiche a Tel Aviv, ritenendo questa città la reale capitale di Israele.
Ironia della sorte uno dei significati della parola Gerusalemme è città della
pace. RR
IL
FASCISMO ISLAMICO (19.8.2019)
Agli
inizi di questo secondo millennio, in relazione alle crescenti conflittualità
fra la civiltà occidentale e il mondo musulmano e alle derive violente di
movimenti sunniti ultraconservatori, si è fatto ricorso a neologismi come
‘fascismo islamico’, ‘islamofascismo’, o espressioni simili. Questa locuzione
in maniera minoritaria è utilizzata anche da chi, sottolineando il carattere
ideologico della religione musulmana, sostiene che non esiste un Islam moderato
[1]. La locuzione di per sé non significa nulla se non viene precisata e
circostanziata. Già il termine fascismo è ambiguo: tecnicamente dovrebbe essere
riferito solo al movimento - poi divenuto partito nel 1921 – che, preso il
potere in Italia, instaurò un regime autoritario che dal 1922 si protrasse fino
al 1943. In maniera convenzionalmente non pacifica l’attributo è stato esteso a
qualsiasi dittatura di destra; con modalità analogamente controverse
l’aggettivo è usato anche per definire una concezione dei rapporti umani basata
sulla prevaricazione e sul ricorso alla forza. Similmente, il termine ‘fascismo
islamico’ ha una duplice valenza: può riferirsi all’estremismo islamico quando
assume tratti autoritari, intolleranti, o antisemiti, o, in maniera meno banale
e sicuramente più interessante, si usa per definire i rapporti tra il regime
fascista e il mondo islamico. È noto che Mussolini ricevette nel 1937 la ‘spada
dell’Islam’, arma bianca riccamente decorata donata da un capo berbero al Duce
in quanto ritenuto protettore dell’Islam. Considerato che Mussolini fu
sempre attento a mantenere l’appoggio dei fedeli cattolici, la sua volontà di
accreditarsi come leader politico occidentale rispettoso delle
istanze del mondo islamico probabilmente deve considerarsi motivata solo da
opportunismi strategici e geopolitici, ovvero dallo scopo di facilitare il
perseguimento pacifico di interessi coloniali senza apparire ‘imperialista’. La
propaganda di regime era in sintonia con questo intento: cercò infatti di
motivare con fini umanitari la guerra in Etiopia, giustificata come operazione
di liberazione dei musulmani dalle vessazioni del governo del Negus.
Analogamente e coerentemente con questo intento il Fascismo in Libia costruì e
restaurò moschee e inaugurò scuole di cultura islamica. In sintesi la
propaganda cercava di trasmettere l’idea che il Fascismo stesse perseguendo una
missione civilizzatrice, sperando di fare dei musulmani dei bravi sudditi
coloniali devoti al loro capo. Le relazioni fra Islam e Occidente, nonostante
la particolare attualità, hanno radici remote nel tempo, e si sono sviluppate
dialetticamente per tutto il secolo scorso. Il loro approfondimento può
sicuramente contribuire alla comprensione del presente. RR
[1] In
proposito, il politologo egiziano ha affermato: “L’islam moderato non esiste.
Dai tempi di Maometto l’islamista aspira alla teocrazia, lo Stato con Dio come
sovrano. Dobbiamo vigilare affinché la cultura islamo-fascista non pervada la
società europea” (da L’Espresso, ‘."La radice dell'Islam
è fascista e i moderati musulmani non esistono’, 16.1.2015)
LA VITTORIA MALEDETTA (17.8.2019)
Purtroppo
quasi giornalmente si registrano gravi fatti di sangue fra Palestinesi e
Israeliani. Qualche giorno fa a Gerusalemme, nella Città Vecchia, è stato
pugnalato, e per buona sorte ferito non gravemente, un ufficiale di polizia. La
reazione delle forze di sicurezza ha causato la morte di uno dei due
aggressori. In precedenza, l’8 agosto, era stato ritrovato accoltellato a morte
nei pressi di Hebron un militare israeliano. Questi drammatici fatti mi
fanno pensare ad un recente saggio (2017) di Aharon Bregman, scrittore e
giornalista israeliano, nel quale la brillante vittoria militare di Israele
nella decisiva ‘Guerra dei Sei Giorni’ del 1967 viene acutamente definita
‘maledetta’. Com’è noto, il breve conflitto, che fu combattuto fra Israele da
una parte ed Egitto, Siria e Giordania dall'altra, si concluse con una rapida,
umiliante e totale vittoria degli israeliani. A seguito degli esiti del
conflitto Israele occupò la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza, fino a
quel momento territori egiziani, la Cisgiordania e Gerusalemme Est appartenenti
alla Giordania, le ‘siriane’ alture del Golan. Ne seguirono le gravi turbolenze
relative alla gestione e alla condizione giuridica dei territori occupati, e
quelle causate dalla riluttanza di Israele alla restituzione dei territori
conquistati[i], e dalle politiche di insediamento coloniale. Come precisa
Bregman, gli esiti della Guerra dei Sei Giorni furono un punto di svolta nella
percezione della principale questione mediorientale: gli israeliani da vittime
accerchiate da minacciose potenze arabe si mostrarono potenti occupanti.
Conseguentemente quei drammatici eventi rivelarono che Israele era un ‘Golia’
piuttosto più che un piccolo ‘Davide’: la diffusa istintiva simpatia di parte
del mondo occidentale cessò di essere saldamente dalla parte degli israeliani,
vittime dell’olocausto nazista e di uno strisciante e mai sopito ricorrente
antisemitismo, e cominciò a spostarsi verso le nuove vittime, ovvero gli arabi,
principalmente i palestinesi, che avevano subito l’occupazione militare. Per
questo il trionfo del 1967 finì per trasformarsi per Israele in una ‘vittoria
maledetta’. La storia successiva è la sequenza di tante opportunità per
risolvere questo drammatico conflitto, sprecate a causa della rigidità dei
governi israeliani e a causa delle divisioni fra i palestinesi, guidati da una
leadership politica litigiosa e poco lungimirante. RR
[i] Il Sinai
fu restituito all’Egitto tra il 1979 e il 1982. Successivamente Israele si
ritirò parzialmente anche dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania. Buona
parte della Cisgiordania, la Gerusalemme Est araba e le Alture del Golan
restano sotto stretto controllo israeliano.
IL RISCHIO DELLA BANALIZZAZIONE DEL CRISTIANESIMO (5.8.2019)
Animati
dall’intenzione di contrastare la diffusione in Europa della religione islamica
a seguito dei fenomeni migratori e di affermare l’estraneità di altre culture,
viene sottolineata la natura cristiana delle radici europee. La costante
interazione del Cristianesimo nelle sue manifestazioni spirituali e temporali
con la storia politica dell’Europa è un fatto oggettivo e non ideologico Chi
dubita di questo probabilmente non tiene conto che affermando la natura
cristiana delle radici europee non si vuole attribuire natura confessionale
agli Stati attuali né negare la conquista moderna e illuministica della
laicità, ma solo riconoscere una realtà storica obiettiva. Sembra ugualmente
innegabile l’influenza della religione cristiana nello sviluppo della cultura
europea, anche nel caso in cui questa suggestione sia valutata in termini
negativi di mera interferenza. Molti valori confessionali hanno influenzato lo
sviluppo del patrimonio etico europeo. È noto ad esempio che la Rivoluzione
Francese abbia combattuto la visione antropologica e sociale della Chiesa
Cattolica; tuttavia non si può disconoscere che i principi alla base del
movimento rivoluzionario, cioè la libertà, l’uguaglianza e la fraternità,
abbiano un’origine cristiana, anche se per la loro affermazione sono stati
commessi orrori e gravi crimini. Analogamente il valore della persona
come base della convivenza umana è entrato nella storia attraverso il
Cristianesimo. Come corollario della visione sopra esposta si afferma che i
simboli cristiani, come la croce e il presepe, appartengono alla tradizione
europea e perciò vanno difesi con fermezza. Queste considerazioni, nonostante
le ‘buone’ intenzioni, potrebbero approdare ad esiti opposti, ovvero alla
banalizzazione della religione cristiana. Esigere infatti che la croce o il
presepe vadano tutelati e rispettati non come simboli di un intimo
convincimento spirituale, ma in quanto parte irrinunciabile dell’arte e della
tradizione europea, rischia di degradare il Cristianesimo a mera matrice
culturale comune dei popoli europei disconoscendone il valore di religione. RR
L’ASCESA
NUMERICA DELL’ISLAM (su L’Azione del 30.8.2019)
Attualmente
si stima che i fedeli musulmani siano circa 1,6/1,8 miliardi, che equivale a
circa il 23% della popolazione mondiale; l’Islam, quanto a consistenza
numerica, è la seconda religione nel mondo, dopo il Cristianesimo che, con
circa 2,2 miliardi di fedeli (che equivale a più del 31%), è la confessione
religiosa più praticata. Tuttavia l’Islam ha un tasso di crescita
particolarmente significativo, supportato dalle dinamiche demografiche che
favoriscono i Paesi islamici, che hanno in generale un tasso di natalità
maggiore di quello delle regioni del mondo nelle quali prevalgono i cristiani.
È pertanto probabile che in un futuro non lontano i fedeli islamici possano
superare quelli cristiani, anche se non si può prevedere con certezza quando
questo possa avvenire, considerata l’incidenza delle fluttuazioni delle
varianti sociali e geopolitiche. L’ascesa dell’Islam, descritta da fredde
statistiche che non tengono conto della reale rilevanza delle confessioni
religiose nei diversi contesti nazionali, non corrisponde alla sconfitta della
Cristianità occidentale di fronte ad un Islam guerriero e fortemente invasivo.
L’occidente anche se in crisi, resta caratterizzato da un pensiero che, seppure
debole o liquido per l’assenza di riferimenti solidi e certi, è espressione del
libero - e perciò solido - dialogo fra le componenti sociali. Senza
disconoscere i possibili condizionamenti dovuti ai mezzi di cui si possono
avvalere le élite al potere, qualsiasi materia in occidente può essere oggetto
di un approfondimento, laicamente condiviso, senza costrizioni, grazie alle
potenzialità della democrazia e all’eredità dell’Illuminismo che ha evidenziato
il potente e positivo valore innovativo della ragione (non necessariamente
contrapposta alla fede). RR
ARABIA SAUDITA E TERRORISMO (31.7.2019)
Qualche
giorno fa il network Al Jazeera ha comunicato che il terrorista pakistano
Khalid Sheikh Mohammed, attualmente detenuto nel campo di prigionia di
Guantanamo in quanto accusato di gravissimi crimini tra cui importanti
responsabilità nell’attacco al World Trade Center l’11 settembre del 2001,
sarebbe disponibile a evidenziare nel corso di un procedimento giudiziario il
coinvolgimento dell’Arabia Saudita negli attacchi terroristici del 2001,
qualora le autorità statunitensi rinuncino alla richiesta di pena capitale nei
suoi confronti. Probabilmente la decisione sull’istanza risentirà
anche di valutazioni extragiudiziali e in particolare di carattere politico. Com’è
noto la monarchia Saudita è di fede religiosa ‘wahabita’, una versione
estremamente rigida dell’Islam che insiste su un'interpretazione rigorosamente
letterale del Corano. Sono stati spesso evidenziati legami fra potentati
sauditi e fondamentalisti islamici in Paesi europei anche attraverso il
supporto al ‘wahabismo’ mediante organizzazioni filantropiche come la World
Assembly of Muslim Youth che fa parte della Lega mondiale islamica (è una ONG
con sede principale a Jeddah, in Arabia Saudita, dove è stata fondata nel 1972;
il suo obiettivo principale è quello di diffondere gli insegnamenti del vero
Islam). Tuttavia l’Arabia Saudita è un tradizionale e strategico alleato, anche
in funzione anti-iraniana, degli Stati Uniti. Questa alleanza (rafforzata anche
da importanti accordi commerciali) sembra essersi ulteriormente consolidata
sotto l’amministrazione Trump. Pertanto anche se viene segnalata da parte di
alcuni politici e funzionari occidentali l’opportunità di imporre all’Arabia
Saudita sanzioni per fermare il finanziamento di gruppi estremisti di matrice
islamica, sembra improbabile che verranno gravate da embargo le esportazioni di
petrolio saudite (come è avvenuto per l’Iran per il suo programma nucleare).
Successivamente, qualche giorno dopo l’articolo di al Jazeera, in Arabia
Saudita il network Arab News riprendendo un tweet del New York Times, ha
sostenuto che si può affermare ‘con certezza’ che il Qatar (potenza regionale
rivale dell’Arabia Saudita) supporta il terrorismo. Anche attraverso
l’accusa di finanziare il terrorismo di matrice islamica si consuma il latente
conflitto regionale nel Golfo Persico per la leadership sunnita nel mondo
arabo. RR
LA
CRESCITA DELL’INDIFFERENTISMO RELIGIOSO NEL MONDO ARABO (27.7.2019)
Com’è
noto il concetto di laicità è estraneo alla cultura islamica ed è confuso con
la nozione di ateismo. Per la logica islamica non essere musulmano equivale a
non essere credente: non è ammessa una terza possibilità, ovvero essere fedele
di un altro credo. Probabilmente questo atteggiamento è una conseguenza della
mancanza, nella storia dei popoli arabi, di un movimento analogo
all'Illuminismo, che in Occidente ha enfatizzato i diritti di libertà
affermando la necessità che si strutturino in maniera affrancata da schemi
prestabiliti. L’assenza di pluralismo religioso è anche un corollario della più
generale mancanza di libertà religiosa nei regimi teocratici. La libertà
religiosa infatti è ritenuta un potenziale strumento di eversione. Tuttavia in
questi ultimi anni si è registrato nel mondo arabo un aumento, ancora molto
contenuto, dell’indifferentismo religioso. Secondo una recente ricerca
dell’Arab Barometer – un istituto che monitora le variazioni politiche e
sociali in Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente – dal 2013 al 2019 la frangia,
ancora molto esigua, di arabi che si dichiarano ‘non religiosi’, è passata
dall’8% al 13%. Il dato è particolarmente significativo se si considera che si
colloca in anni di ‘risveglio islamico’. In dettaglio l'avanzata maggiore della
laicità si è registrata in Tunisia (dal 16% al 35%), seguita da quella in Libia
(dall'11% al 25%), in Algeria (dall' 8% al 13%), in Marocco (dal 4% al 12%), in
Egitto (dal 3 al 12%). Il dato non specifica quale fede sia in diminuzione, ma,
considerata l’esigua presenza di Cristiani o di fedeli di altre religioni in
questi Paesi, si può fondatamente desumere che il dato si riferisca all’Islam.
Gli studiosi non concordano nell’individuazione delle cause; peraltro le realtà
politiche dei Paesi arabi in cui si è registrato questo dato differiscono molto
fra di loro. Sembra che la deriva terroristica di matrice islamica sia estranea
all’incremento del fenomeno, mentre assumerebbero particolare rilievo
motivazioni personali che originano crisi religiose individuali. Questi dati anche
nelle motivazioni indubbiamente avvicinano il mondo arabo alle realtà
occidentali. RR
UNA
NECESSARIA RIFLESSIONE (26.7.2019)
Il
grave episodio avvenuta la notte scorsa nel quale ha perso la vita un giovane
carabiniere colpito da sette coltellate suscita alcune riflessioni. Nel
contrasto alla criminalità le Forze di Polizia, soprattutto Polizia di Stato e
Carabinieri, pagano il loro impegno in prima linea con un pesantissimo e
inaccettabile tributo di sangue. Anche se non può essere una consolazione è importante
la solidarietà e la vicinanza della comunità civile, a cominciare dalla classe
politica e dalle istituzioni, che non si devono limitare alle affermazioni
demagogiche da ‘spot’, ma devono tradurre le loro affermazioni in misure
concrete che consentano agli operatori di polizia di lavorare in sicurezza
disponendo di maggiori e adeguati mezzi. Nello stesso tempo è altrettanto
importante che la magistratura interpreti, come generalmente avviene, il suo
fondamentale ruolo di potere dello Stato garante della legalità, con
sensibilità istituzionale, consentendo agli operatori di polizia di esercitare
la loro funzione con la serenità che deriva dalla consapevolezza che il loro
operato, svolto nel rispetto delle norme giuridiche, sarà sempre adeguatamente tutelato
sotto ogni punto di vista. RR
I
CATTOLICI NELLA POLITICA (su L’Azione del 19.7.2019)
Le
recenti elezioni europee, stimolano alcune riflessioni relativamente alla
militanza politica dei cattolici. Si parla spesso di radici e di identità
cristiane dei popoli europei. Queste affermazioni possono avere l’effetto di
secolarizzare i principi cristiani, riducendoli a mero valore culturale. Dopo
l’esperienza della Democrazia Cristiana - ovvero di un partito ispirato alla
promozione di valori confessionali - la presenza politica dei cristiani è
diventata trasversale, riguarda sia la sinistra che la destra. I cattolici non
incidono sulle politiche dei partiti e dei movimenti. Non esiste in linea
generale una contrapposizione fra la morale laica dei partiti e quella
cristiana in quanto fino agli anni ’60 i valori dominanti erano quelli
cristiani secolarizzati: infatti l’Illuminismo non aveva proposto valori
diversi, ma un loro diverso fondamento ovvero la Ragione. I cattolici sono però
portatori anche di valori non negoziabili, come l’abolizione del matrimonio
omosessuale, il divieto di procreazione medicalmente assistita, il rifiuto
della teoria del gender. I politici in questi casi, anche se riconoscono la
propria identità cristiana o affermano ‘a titolo personale’ di essere
favorevoli a qualche principio ‘non negoziabile’ (ad esempio l’abolizione dell’aborto),
generalmente si affrettano a dichiararsi contrari a sostenere principi non
negoziabili cattolici perché diversamente comprometterebbero il carattere laico
della società. L’identità cristiana viene inoltre superficialmente utilizzata
per contrapporsi ‘culturalmente’ alla penetrazione musulmana. RR
IL
PRINCIPIO ‘AIUTIAMOLI A CASA LORO’ (su L’Azione del 5.7.2019)
È
inflazionato lo slogan aiutiamoli a casa loro. Di per sé questa
affermazione avrebbe un senso positivo se si traducesse nella volontà di porre
le premesse per interventi per rendere i potenziali migranti realmente liberi
di restare o di partire. Non è sufficiente destinare fondi, in quanto gli
interventi finanziari o i flussi di denaro devono essere strategicamente
orientati. Alcuni studi hanno evidenziato che il sostegno al reddito
individuale incoraggia le partenze, mentre gli investimenti nei servizi e nelle
infrastrutture spingono la popolazione a restare. È necessario che siano
protetti i mercati interni al fine di favorire lo sviluppo di un’economia
basata sul consumo della produzione locale. Diversamente il modello imposto
dalle organizzazioni internazionali prevede il ricorso al libero scambio, che
in concreto privilegia l’esportazione dei beni di prima necessità, pertanto
sottratti al consumo interno. Conseguentemente la popolazione africana deve
destinare la disponibilità economica individuale all’acquisto di beni di
importazione penalizzando la produzione e l’industria nazionale. A questa
povertà contribuiscono anche forme di neocolonialismo come il land grabbing,
l’accaparramento di terre fertili da parte di Stati stranieri, gruppi e aziende
multinazionali, che si giovano anche di collusioni con politici e funzionari
governativi. Ai piccoli agricoltori resta la prospettiva di abbandonare il
proprio Paese. Senza cadere in facili moralismi si deve considerare che i
flussi migratori clandestini sono alimentati anche da conflitti bellici, spesso
armati dalle industrie occidentali. RR
MIGRANTI
ECONOMICI E RICHIEDENTI ASILO (su L’Azione del 28.6.2019)
Il
20 giugno si è celebrata la Giornata Mondiale del Rifugiato. Tra i temi oggetto
di approfondimento si è discusso molto della differenza fra migranti economici
e richiedenti asilo. La discriminazione originariamente fu elaborata per differenziare
chi parte per necessità (i pushed, destinati a diventare rifugiati) da chi lo
fa per scelta (i pulled, attratti da migliori prospettive economiche). Più
tecnicamente il richiedente asilo è chi chiede il riconoscimento dello status
di rifugiato o di altre forme di protezione internazionale mentre il migrante
economico è chi abbandona il Paese di origine alla ricerca di migliori
condizioni di vita. Nella pratica la distinzione si riduce per l’assenza di un
canale di ingresso specifico per i migranti economici e per il carattere
composito delle cause di fuga che si celano dietro ai moventi economici; in
queste ipotesi infatti non c’è mai un solo fattore che porta ad emigrare, ma un
complesso di situazioni. Pertanto in concreto i migranti economici possono
essere anche destinatari di protezione umanitaria. Nell’immaginario collettivo
c’è un latente pregiudizio: i richiedenti asilo sono considerati meritevoli di
tutela perché fuggono da guerre o persecuzioni, mentre i migranti economici
sono giudicati con malcelato biasimo perché sbarcano in Europa per trovare un
lavoro. Sarebbe opportuno avere politiche chiare, evitando che dall’Africa il
canale dell’asilo sia impropriamente usato anche dagli immigrati
economici. La gestione di questi flussi lavorativi contribuirebbe
sicuramente a ridurre gli sbarchi sulle coste europee. RR
CONSIDERAZIONI
A MARGINE DELLA MINACCIATA PROCEDURA DI INFRAZIONE
Premetto
che le questioni economiche sono per me sempre estremamente tecniche,
complesse, e difficili. Peraltro quelle comunitarie sono lontane dalla mia
specifica esperienza professionale a Bruxelles. Fatta questa premessa mi sembra
che l’attuale rischio di procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per
debito eccessivo crei una situazione con dei risvolti paradossali, che può
avere esito positivo solo con molto buon senso da parte della Commissione
Europea dimissionaria, e capacità di mediazione politica da parte del governo
italiano. L’esecutivo comunitario afferma che esistono dei parametri di
bilancio che vincolano gli Stati Membri, dai quali l’Italia si sta discostando.
Da questo punto di vista la lettera di richiamo da parte della Commissione
potrebbe considerarsi una specie di atto dovuto, anche se si potrebbe eccepire
che in passato nei confronti di altri Stati si è praticata un maggiore
flessibilità. Tuttavia le dinamiche dell’attuale economia mondiale stanno
dimostrando oggettivamente che le scelte di rigore delle disposizioni
dell’Unione Europea non sono solo scarsamente efficaci ma anche controproducenti.
Nella sostanza la Commissione Europea uscente richiama l’applicazione di regole
che probabilmente la nuova Commissione Europea – si auspica - rivedrà e
modificherà, ma che al momento sono ancora pienamente vigenti. Nello stesso
tempo l’Italia rivendica l’opportunità di nuove regole su cui strutturare le
possibilità di ripresa economica. Alla Commissione Europea si chiede pertanto
buon senso per due motivi. Innanzitutto la procedura di infrazione è un atto
grave con risvolti politici che poco si addice ad un esecutivo uscente; inoltre
la procedura si fonda sul richiamo di regole di dubbia efficacia, ma che
tuttavia sono ancora legittimamente in vigore. Conseguentemente il governo
italiano dovrà usare incisive capacità di mediazione per confermare la sua intenzione
di voler continuare il cammino comunitario nella consapevolezza che
l’appartenenza all’Unione esige il rispetto delle regole poste nell’interesse
comune; tuttavia nello stesso tempo deve richiedere una maggiore flessibilità
nell’esame della propria posizione, che ha anche l’obiettivo di sollecitare una
revisione critica di parametri fissati in tempi nei quali le esigenze
dell’economia mondiale erano molto diverse da quelle attuali. RR
LA
RICCA AFRICA, IL CONTINENTE PIU’ POVERO DEL MONDO (su L’Azione del 21.6.2019)
Nel
dossier “Guinea - Corruzione: ecologia umana lacerata”, pubblicato nello scorso
maggio, la Caritas evidenzia il peso negativo della corruzione nello sviluppo
della Guinea, che pur essendo ricca di risorse ha un alto tasso di povertà. Il
dossier rivela una condizione paradigmatica di quella di molti altri Paesi
africani, nei quali la corruzione è un male endemico, una calamità che
prosciuga i maggiori flussi finanziari - anche provenienti da aiuti umanitari -
che finiscono in conti off-shore, arricchendo élite locali complici di governi
che perseguono solo interessi personali. In questi contesti i giovani della
classe media, bacino di una possibile futura classe dirigente libera dalle
contaminazioni di un’amministrazione approssimativa e disonesta, disponendo
delle somme necessarie alimentano gli esodi clandestini verso l’Europa
mediterranea. Rimangono i disperati ai quali la mancanza di mezzi preclude
anche la lotteria di questi viaggi, e chi invece vive della complicità con i
potentati della corruzione. Per uscire dalla povertà ed offrire un futuro ai
giovani, l’Africa avrebbe bisogno di investimenti infrastrutturali, e
soprattutto di proteggere i propri mercati e sviluppare un’economia basata
sulla produzione e sul consumo interno. Al contrario, il modello imposto dalle
organizzazioni internazionali si struttura sul massimo ricorso al libero
scambio, e prevede che si esportino beni di prima necessità sottraendoli al
consumo e si importi il resto, impedendo così la nascita di un’industria
locale. Paradossalmente il continente più ricco del mondo è anche il più
povero! RR
UN
NUOVO MURO DA ABBATTERE (su L’Azione del 7 giugno 2019)
Trent’anni
fa, nel novembre del 1989, cadeva il Muro di Berlino: tutti conoscono le
implicazioni storiche e geopolitiche dell’evento. L’ordine mondiale era
strutturato sulla contrapposizione ideologica e militare fra Usa e Urss: i due
Paesi avevano la leadership rispettivamente del blocco dei Paesi occidentali e
di quello sovietico. La pace si fondava su un precario equilibrio,
caratterizzato da una condizione permanente di ostilità reciproche. Con la
caduta del Muro di Berlino e con la conseguente dissoluzione dell’Unione
Sovietica è venuta meno questa bipartizione e gli Usa di fatto sono diventati
l'unica potenza egemone. Il processo di globalizzazione, determinato dalla
tecnologia e dai flussi migratori, offrendo maggiori possibilità di conoscenza,
avrebbe dovuto conferire, alle diverse culture etniche, componenti ibride in
grado di mediare le differenze strutturali ed organiche. Al contrario l’epoca
della globalizzazione, oltre a generare inaspettate nuove marginalizzazioni, è
tuttora caratterizzata da una perversa polarizzazione, che divide l’umanità
attraverso profondi solchi ideologici. Questa radicalizzazione crea insanabili
contrapposizioni, che impediscono una dialettica e un libero confronto che
sarebbero altresì necessari per costruire concertate soluzioni su cui fondare
un futuro di progresso. Come premessa per la creazione di una società realmente
interculturale, dopo la demolizione fisica del Muro di Berlino, si impone
pertanto l’abbattimento di un altro steccato, quello delle frontiere
ideologiche. RR