BREXIT
(27-6-2016)
Sicuramente
l'Unione Europea attraversa un momento di crisi. È succube delle discutibili scelte economiche della Germania.
In termini estremamente esemplificati il governo tedesco, per favorire la
propria economia, promuove una politica di austerità e di rigore, che impone
agli Stati membri meno solidi come il nostro pesanti manovre fiscali e riduzioni della spesa pubblica, che si
traducono in una pericolosa spinta deflazionistica. Questa spirale ha come
corollario la riduzione della circolazione del denaro e una contrazione dei
consumi, presupposti di una recessione economica e di un generale
impoverimento. L'Unione Europea inoltre
ha intrapreso negli scorsi anni, forse
con troppa disinvoltura, un allargamento verso est, inglobando alcuni Stati dell'Europa orientale e passando in
pochi anni da 15 a 28 Paesi membri. In molte occasioni queste nazioni
neoammesse hanno evidenziato un'assenza della cultura della solidarietà
europea, rivelando divisioni e contrasti con Stati limitrofi, snaturando i
tratti comuni di mutuo ausilio, componente indissolubile dello spirito
comunitario. Molte aspettative che i trattati europei avevano alimentato sono
rimaste deluse. Con il Trattato di Maastricht (firmato il 7 febbraio 1992 ed
entrato in vigore nel 1993) l'Europa da realtà economica avrebbe dovuto fare un
salto qualitativo diventando un'unione politica. Questo processo di fatto non
si è realizzato: lo prova l'assenza di una politica estera comune. Nonostante
questo, l'Unione Europea resta un'importante e irrinunciabile opportunità, che
richiede però un incisivo processo di revisione che evidenzi i presupposti dell'attuale fallimento. È opportuno
insistere sulla via europea, non dimenticando tuttavia che l'Unione Europea
necessita di radicali riforme, che
innanzitutto attuino una reale uguaglianza fra gli Stati membri evitando la
sudditanza del sud Europa rispetto al nord Europa, e promuovano il ripristino
del ruolo propositivo della Commissione Europea, che da organo principale del
potere esecutivo si è ridotta in questi ultimi anni ad uno sterile e
burocratico gendarme che controlla (e nemmeno con tanta obiettività) la
condotta degli Stati membri. A questo va aggiunto che l'uscita dall'Unione
Europea non è auspicabile anche perché espone a terremoti finanziari dagli
effetti al momento imprevedibili. Analogamente l'introduzione dell'euro come
moneta unica, non preceduta dalla creazione delle sovrastrutture necessarie, ha
indubbiamente penalizzato l'economia italiana. Tuttavia il ritorno alla lira
comporterebbe, come unanimemente viene riconosciuto, un immediato
impoverimento, anche se alcuni economisti sostengono che i dissesti finanziari
sarebbero seguiti da una progressiva normalizzazione. In altri termini
l'ingresso nell'Unione Europea (come anche nell'euro) ha avviato dei processi
irreversibili che non consentono un
indolore ritorno al passato. Com'è noto, i risultati del referendum
britannico non sono stati omogenei: il 'remain' ha vinto in Scozia (62%) e in
Irlanda del Nord (56%), il 'leave' ha ottenuto la maggioranza in Inghilterra
(53%) e nel Galles (52%); complessivamente il 52% della popolazione si è
espresso per il 'leave', mentre il 48% per il 'remain'. L'equilibrio fra i due
fronti e la diversa ripartizione geografica sta aprendo delle gravi lacerazioni
interne. Alcuni politici hanno prospettato la possibilità di promuovere un
nuovo referendum in Scozia finalizzato alla sua separazione dal Regno Unito e
alla sua permanenza nell'Unione Europea. Poiché il referendum sulla 'Brexit' ha
avuto natura consultiva e quindi richiederà concreti provvedimenti attuativi,
Scozia e Irlanda forse potrebbero negoziare attraverso il Regno Unito e senza
un referendum la loro permanenza nell'Unione Europea come comunità regionali.
Si tratta di ipotesi più o meno ardite e del tutto nuove. Si aprono infatti scenari
completamente imprevedibili e inesplorati, perché mai in passato si è
verificata l'uscita di un Paese membro. Poiché il governo britannico dovrà
presentare istanza formale di uscita dall'Unione Europea e da quel momento ci
vorranno almeno due anni prima che si perfezioni la procedura di uscita, ci
sono tante situazioni transitorie da regolamentare, come ad esempio lo 'status'
degli europarlamentari britannici che non solo non rappresentano più uno Stato
membro, ma potrebbero anche trovarsi in una posizione di conflitto di interessi
con l'Unione Europea visto che ora il Regno Unito si avvia ad essere uno Stato
esterno. C'è anche la possibilità che si avvii un processo di disgregazione
dell'Unione Europea, preceduto da analoghi referendum in altri Stati. Il sentimento antieuropeo è molto forte in
alcuni Paesi nord europei, in Danimarca ad esempio, e lì sono possibili simili
iniziative. In Italia il referendum sui trattati internazionali è vietato dalla
Costituzione (art. 75). Quindi un'eventuale
analoga istanza referendaria dovrebbe essere preceduto da una modifica
costituzionale. In questi giorni si sentono molte banalità e inesattezze da
parte di politici e celebrati personaggi televisivi sull'argomento della
Brexit. Sembra anche che molti non abbiano le idee chiare nemmeno sulla
differenza fra Inghilterra e Regno Unito. A sentire molti 'opinion maker' si
percepisce la sensazione che con la Brexit siano venuti meno tutti i trattati
bilaterali e plurilaterali del Regno Unito con i Paesi europei. Questo
naturalmente non è vero. Anzi aggiungerei che probabilmente - ma è un'ipotesi
da esplorare caso per caso - dovrebbero rivivere i trattati del Regno Unito con
i Paesi Europei vigenti prima del suo ingresso nell'Unione Europea e
implicitamente abrogati per il principio della normale successione degli
accordi nel tempo a seguito del loro assorbimento nell'Acquis comunitario che
ha integrato l'ingresso britannico nell'Unione Europea (l'Acquis comunitario,
com'è noto, corrisponde alla piattaforma comune di diritti ed obblighi che
vincolano l'insieme degli Stati membri nel contesto dell'Unione Europea).
Ovviamente tutti i trattati vigenti possono essere rinegoziati secondo le norme
generali del diritto internazionale; peraltro la ragione di una ritrattazione
potrebbe essere il cambiamento della posizione del Regno Unito, che ora è
diventato a seguito del referendum (che si ricorda ha carattere consultivo) un
partner esterno dell'Unione Europea. Qualche sera fa nel corso di una
trasmissione televisiva un noto giornalista ha detto una significativa
inesattezza. Il giornalista ha manifestato preoccupazioni per il prossimo
ritiro di operatori di polizia inglesi da Calais e di quelli francesi da Dover.
Detti funzionari sono impegnati in una attività che può essere definita
tecnicamente 'un controllo avanzato sulla frontiera franco britannica per il
contrasto dell'immigrazione clandestina'. Questa modalità operativa è frutto di
un'intesa bilaterale (l'Accordo di Le Touquet); infatti il Regno Unito, non
avendo aderito alla Convenzione di Schengen, è fuori dalla cooperazione
transfrontaliera prevista dal Trattato UE e quindi su questo parte di frontiera
interna comunitaria non trovano applicazione i dispositivi di gestione
integrata delle frontiere previsti dagli accordi di Schengen. Pertanto questa
cooperazione bilaterale fra il Regno Unito e la Francia, nonostante la Brexit,
resterà pienamente vigente in quanto prevista da una specifica convenzione fra
i due Stati. Ovviamente, considerata la mutata posizione del Regno Unito
rispetto alla Francia (ora non si tratta più di un accordo fra due Stati
dell'Unione Europea, ma fra uno interno e uno esterno) potrebbe essere
opportuno rinegoziare l'intesa, come ha suggerito il sindaco di Calais. RR
Questo commento fa seguito ai precedenti relativi alla strage di Orlando. La consumazione di questo atto terroristico si presta a tante possibili letture. Resta sullo sfondo la facilità con la quale chiunque, anche uno squilibrato, negli Stati Uniti possa entrare in possesso di armi e stroncare vite umane. Anche la professionalità dell'apparato di prevenzione è stata destinataria di critiche perché avrebbe dimostrato dei limiti nell'attività di intelligence: l'attentatore infatti era conosciuto agli operatori di polizia ai quali tuttavia sfuggirono le sue potenzialità criminali, che poi si sono concretizzate nel tragico eccidio. La matrice jihadista e quella omofoba sono state oggetto di facili e faziose strumentalizzazioni. È tipico dei nostri tempi che le manifestazioni di devianze, come le gesta di un balordo inconsapevole, possano essere enfatizzate e collocate all'interno di una strategia superiore, assumendo un'improbabile dignità seppur negativa. Compito difficile della prevenzione è individuare gli elementi prognostici di una personalità potenzialmente omicida, per sottoporla a una sorveglianza o a provvedimenti preventivi necessari e consentiti. Accade spesso infatti che, nel ricostruire la pregressa esistenza di soggetti pluriomicidi, siano individuati elementi che, se presi in considerazione in precedenza, potevano costituire un preavviso della successiva grave manifestazione violenta. Naturalmente i criteri prognostici di una personalità gravemente incline a delinquere devono essere altamente selettivi, in quanto l'intelligence di nessun Paese in momenti di grave emergenza terroristica ha mezzi e uomini per adottare misure di prevenzione nei riguardi di tutti i soggetti potenzialmente pericolosi per la pubblica incolumità. L'attività di vigilanza si concreta sempre in una delicata, difficile e complessa sfida, anche perché qualsiasi guerra si basa sull'inganno, come si legge nel celebre e sempre attuale libro del generale Sun Tzu[1].
ISLAM E OMOSESSUALITA' (20-6-2016)
Poiché la strage di Orlando, in Florida, compiuta nella notte tra sabato 11/6 e domenica 12/6 è stata consumata all'interno di un locale per gay ed ha avuto frequentatori omosessuali come principali vittime, è stata ipotizzata a giustificazione del folle gesto anche la matrice omofoba. In proposito sono emersi pregressi rapporti ambigui e controversi fra l'autore dell'eccidio e alcuni membri della comunità omosessuale. A prescindere dagli esiti delle indagini degli inquirenti, considerata la possibile relazione fra la fede islamica dello squilibrato e un'eventuale matrice omofoba dell'atto criminale, il fatto suggerisce un approfondimento circa i rapporti fra Islam e omosessualità. Com'è noto, la religione islamica censura l'omosessualità. In proposito, non è oggetto di particolare approfondimento il concetto di identità sessuale, in quanto si ritengono esistenti solo quella maschile e quella femminile. Sono invece presi in considerazione i comportamenti omosessuali (che coincidono con la sodomia) che sono condannati in quanto sono ritenuti deviazioni rispetto all'ordine naturale. Come corollario di questa premessa, secondo l'Islam i fattori genetici e ormonali non sarebbero in grado di per sé di determinare lo sviluppo dell'omosessualità, ma sarebbero solo fattori predisponenti. Pertanto, il fedele avrebbe il dovere di contrastare questa tendenza. Questo concetto si può sintetizzare dicendo che l'Islam non prende in considerazione l'omosessualità (in quanto esisterebbe solo l'identità femminile e quella maschile), ma attribuisce significato ai comportamenti omosessuali, censurandoli in quanto sarebbero un modo attraverso il quale 'colpevolmente' vengono assecondate tendenze 'contro natura'. Conseguentemente, secondo la dottrina islamica un omosessuale può diventare musulmano purché abbandoni di praticare rapporti sessuali con persone dello stesso sesso: Allah non trascurerà la sua creatura, ma la aiuterà a contrastare il suo istinto. La proibizione dei rapporti omosessuali troverebbe fondamento in alcune sure del Corano. Nonostante fra le diverse correnti interpretative della religione musulmana ci sia unanime consenso circa l'illiceità dei rapporti sessuali fra persone dello stesso sesso, tuttavia ci sono differenze di opinione fra gli studiosi soprattutto per quanto riguarda le punizioni e le prove richieste prima che la pena fisica abbia luogo. I rapporti omosessuali sono generalmente puniti negli Stati musulmani: la minaccia delle sanzioni sarebbe necessaria per preservare la virtù e la moralità islamica. I comportamenti omosessuali possono essere puniti con sanzioni fino alla pena di morte in alcuni Paesi, ovvero in Arabia Saudita, in Iran, in Nigeria, in Mauritania, in Pakistan, in Sudan, in Somalia e nello Yemen. Lo Stato che ha il più alto numero di esecuzioni capitali di omosessuali è l'Iran. La pena capitale era applicata anche in Afghanistan quando erano al potere i Talebani. Nei menzionati Paesi spesso sono applicate tuttavie pene minori, come multe o ammende, carcere, frustate. In altri Paesi musulmani come il Bahrain, il Qatar e l'Algeria, l'omosessualità è punita con il carcere, con pene pecuniarie, o corporali. In alcuni Stati a maggioranza musulmana, come la Turchia, la Giordania, l'Egitto, o il Mali, rapporti omosessuali non sono specificatamente proibiti dalla legge. RR
LA MATRICE DELLA STRAGE DI ORLANDO (18-6-2016)
Com'è noto, nella notte tra sabato e domenica scorsi (11/12 giugno) a Orlando, in Florida, un uomo è entrato in un locale gay e ha ucciso 49 persone, ferendone altre 53. A quasi una settimana da questi tragici fatti si continua a discutere della matrice del folle gesto. Per quanto riguarda l'eventuale movente terroristico, sembra che l'autore di questo eccidio sia un cosiddetto lupo solitario; pertanto non può ritenersi attendibile la sua dichiarazione di appartenenza organica alla militanza jihadista. Tuttavia, l'esclusione di un diretto coinvolgimento dello Stato Islamico nell'eccidio di Orlando non può essere considerato un elemento tranquillizzante, in quanto prova che la propaganda fondamentalista - che privilegia come strumento la Rete - è sufficiente a suggestionare un balordo e ad attivarlo negativamente, al punto da indurlo a commettere gravissimi delitti. In altri termini, se in passato era fondato ritenere che un attentato terroristico potesse essere compiuto solo da membri di un'organizzazione eversiva, ora sappiamo invece che un grave crimine di ispirazione fondamentalista può essere il prodotto esclusivamente della fascinazione che subisce una mente debole. Pertanto, scartare che la strage di Orlando sia stata pianificata dallo Stato Islamico - nonostante il responsabile abbia dichiarato in diretta telefonando al numero di emergenza della polizia 911 la sua 'fedeltà' e la sua affiliazione all'Isis - non ridimensiona il nostro allarme sociale, ma al contrario lo accresce. A questo quadro va aggiunto che il dark web, ovvero la parte sommersa della Rete, fornisce a questi squilibrati il necessario supporto operativo, dando indicazioni su come procurarsi o predisporre armi ed esplosivi, e su come pianificare attentati. Simili considerazioni possono essere svolte per la tragica uccisione della deputata britannica Jo Cox: la propaganda dell'estremismo violento di stampo neonazista, mistificato dall'apparenza antieuropea, ha drammaticamente armato la mano di un folle, avvelenando tra l'altro il libero dibattito propedeutico al referendum per la permanenza del Regno Unito nell'Unione Europea. C'è quindi un nuovo preoccupante fenomeno che minaccia la società occidentale, ovvero la diffusione mediatica, principalmente in Rete, di incitamenti alla violenza, che provengono da frange che vanno dal fondamentalismo islamico al radicalismo politico, che sono in grado di plagiare individui psicolabili o che vivono ai margini della società. Successivamente ai fatti di Orlando - come in altre occasioni tristemente analoghe, come l'omicidio a Magnanville, alla periferia di Parigi, di una coppia di funzionari di polizia compiuto da un uomo al grido di Allahu Akbar - è giunta la puntuale rivendicazione dell'agenzia Amaq, che ha definito l'autore della strage un martire del jihad e un militante dello Stato Islamico. Questa dichiarazione non è al momento considerata attendibile dagli inquirenti; peraltro, lo Stato Islamico è solito appropriarsi di tutte le iniziative di pseudo militanti islamisti che decidano di proprio impulso di colpire obiettivi occidentali. Paradossalmente, sarebbe tranquillizzante attribuire veridicità a queste rivendicazioni, perché, se fosse vera l'appartenenza organica a Daesh di questi balordi, sarebbe indirettamente provato che essi sono elementi estranei alla nostra società, avvalorando la nostra illusione che essi siano appendici di un nemico esterno. Al contrario, purtroppo, questi individui sono il prodotto delle incertezze, delle contraddizioni e del malessere della nostra civiltà, ovvero di patologie che sono sempre più fisiologiche. Considerando le vittime del folle gesto di Orlando è stata anche prospettata la matrice omofoba. In proposito gli operatori dell'FBI stanno approfondendo i tratti della complessa personalità dell'attentatore e i suoi controversi pregressi rapporti con la comunità gay. Questo aspetto solleva un altro interessante aspetto, cioè quello relativo ai rapporti fra Islam e omosessualità, dal momento che spesso nei Paesi musulmani i rapporti omosessuali vengono sanzionatati, parificati all'adulterio e considerati contrari alla Sharia. Si tratta di una questione molto articolata che richiede uno specifico approfondimento a parte. RR
ALTRO CAPITOLO DEL CASO 'REGENI' (12-6-2016)
Il caso 'Regeni' si è arricchito in questi giorni di un ulteriore doloroso capitolo: l'Università inglese di Cambridge, presso la quale il ricercatore italiano svolgeva i suoi studi, ha manifestato l'intenzione di non collaborare con gli inquirenti italiani e in particolare di non fornire indicazioni sulla corrispondenza tra lo studioso ucciso al Cairo e i docenti inglesi suoi referenti. Dal carteggio intercorso con l'ateneo inglese sarebbero potuti emergere elementi utili per comprendere i moventi dell'oscuro delitto. Giulio Regeni era in contatto con la professoressa Anne Alexander, che aveva a lungo studiato i sindacati egiziani e il movimento islamista dei Fratelli Musulmani, che, come noto, è attualmente fuori legge in Egitto. La Alexander è un'attivista particolarmente impegnata nella contestazione del Presidente Al Sisi. Dopo la tragica fine del ricercatore italiano la professoressa Alexander ha subito precisato di non conoscere i dettagli del lavoro che Giulio stava svolgendo all'estero, difendendo inoltre la professionalità dei 'supervisori' che dovevano seguire la sua ricerca e proteggerlo dalla sua giovanile ed esuberante curiosità intellettuale in un contesto come quello del Cairo, cioè in una città piena di insidie, nella quale è pericoloso anche parlare con i passanti dal momento che le strade sono piene di spie e di informatori. Non è difficile dare significato alla condotta dell'università di Canbridge. Probabilmente l'Ateneo inglese con il suo silenzio ha cercato di evitare che gli venissero attribuite responsabilità morali per la morte del ricercatore, ovvero che in concreto gli venisse imputata la colpa di non aver intuito e di aver sottovalutato i rischi a cui si stava esponendo lo studioso italiano con le sue iniziative accademiche. Il silenzio dell'università - che di fatto ha rifiutato la collaborazione ad un magistrato di un Paese amico - è in palese contraddizione con l'appello che venne inoltrato dall'Ateneo stesso al governo britannico all'indomani della drammatica morte di Regeni. Con quel documento si chiedeva che fossero svolte indagini accurate e indipendenti affinché si facesse piena luce sull'omicidio. Sarebbe particolarmente squallido se il censurabile atteggiamento dell'università inglese fosse strumentale ad evitare di fornire elementi che potrebbero essere utilizzati per una richiesta di risarcimento da parte dei familiari di Regeni per averlo esposto a fatali pericoli; il altri termini la censurabile condotta potrebbe essere dettata dall'intento di sottrarsi all'eventualità che la responsabilità da morale si trasformi in responsabilità giuridica. Se così fosse si tratterebbe di una decisione eticamente inaccettabile, perché equivarrebbe a rinunciare alla possibilità che si faccia piena luce su una tragica palese violazione di diritti fondamentali, che riguarda un proprio collaboratore, per tutelare i propri beni patrimoniali dal rischio di un'aggressione radicata su una pronuncia giudiziaria sfavorevole. Ci si chiede, se quest'ultima ipotesi fosse fondata, con quale autorità morale potrebbe in futuro atteggiarsi un ateneo che compia una scelta di questo genere? RR
CHILDREN OF PARADISE: THE STRUGGLE FOR THE SOUL OF IRAN DI LAURA SECOR (7-6-2016)
A febbraio di quest'anno (2016) è uscito un saggio sull'Iran molto interessante per chi segue le vicende di quello Stato: Children of paradise: the struggle for the soul in Iran, della giornalista ricercatrice, esperta della realtà iraniana, Laura Secor. Il titolo, Children of Paradise, richiama alla memoria un noto film francese del 1945, Les enfant du Paradis (Children of Paradise, in inglese), tradotto malamente in italiano con Amanti Perduti, un titolo che ha trasformato una magnifico affresco sulla Parigi della prima metà dell'Ottocento in un romanzo d'amore. Les Enfants du paradis, che letteralmente significa i ragazzi del paradiso, è un'espressione gergale che significa quelli del loggione. Il loggione è la parte più alta del teatro e più lontana dal palcoscenico, dove perciò sono ubicati i posti più economici; il pubblico del loggione quindi normalmente è di estrazione popolare. La seconda parte del titolo the struggle for the soul in Iran ha il chiaro significato di la lotta per l'anima dell'Iran. Il saggio descrive una Repubblica Islamica dell'Iran nella quale i cittadini comuni, quelli del loggione, sono molto attivi, lottano per un cambiamento, e, pur non rinunciando al carattere confessionale del loro orientamento spirituale che è una connotazione essenziale e irrinunciabile della comunità a cui appartengono, rivendicano un ruolo che li renda artefici del proprio destino e titolari di diritti di libertà e di una piena ed effettiva potestà di elettorato attivo. Nel saggio l'Iran pertanto non viene descritto come una realtà statica e monolitica, ma come una nazione animata da fermenti ideologici e politici. Questi atteggiamenti fattivi e partecipativi differenziano i cittadini iraniani della repubblica sciita, capaci di esprimere dissenso e spinti alla contestazione da uno spirito critico e riformista, dai sudditi sunniti delle monarchie saudite e dei Paesi arabi in generale, che sono del tutto passivi. In questo modo il regime teocratico al potere in Iran potrebbe collocarsi in futuro all'interno di una prospettiva moderatamente liberale pur mantenendo il suo carattere confessionale; la gestione del potere sembra infatti potersi atteggiare all'interno di una tradizione di tipo quasi illuministico. Naturalmente non ci può essere compatibilità piena della teocrazia con i valori dell'Illuminismo, che ha sostituito l'autorità divina con la sovranità popolare, i doveri religiosi con i diritti naturali. Nella sostanza nel saggio paradossalmente si ipotizza, con un'espressione che sembra un ossimoro, la possibilità di una via laica all'Islam. Peraltro quest'aspetto binario, ovvero questa duplice natura confessionale e laica dell'Iran, è una potenzialità già contenuta nei caratteri della diarchia attualmente al potere, integrata da un vertice civile, il presidente Rouhani, e da un capo religioso, l'ayatollah Khamenei. La scelta confessionale dello Stato iraniano acquista piena legittimità in quanto in questa aggiornata prospettiva i valori fondamentali dell'Islam diventano garanti di diritti inalienabili, che si esprimono innanzitutto nella partecipazione popolare alla vita dello Stato. Naturalmente influiscono su questa interpretazione che enfatizza l'esistenza di un potere popolare reattivo e partecipe delle vicende dello Stato il sostrato di valori occidentali presenti nella cultura iraniana, frutto dei trascorsi storici anteriori alla Rivoluzione islamica, e che possono farsi risalire soprattutto ai periodi in cui regnava la famiglia Pahlavi, che, con tutte le patologie e le degenerazioni del caso, aveva introdotto canoni occidentali nella realtà persiana. Nel saggio la storia dell'Iran si intreccia con la narrazione delle relazioni dialettiche e conflittuali fra giornalisti, politici, personalità varie del dissenso da un lato e il regime al potere, dai tempi dello Scià a quelli della Rivoluzione del '79, dall'altro. In questa prospettiva l'Iran contemporaneo, la prima teocrazia rivoluzionaria che ha le potenzialità di una democrazia confessionale, appare più vicina all'Europa di quanto lo sia geograficamente.
IL DEEP WEB E I FERMENTI NEL MONDO ARABO (29-5-2016)
Quando si dice che, nel corso delle turbative collegate alla Primavera araba, per comunicare ci si è serviti di Internet, si afferma una cosa parzialmente inesatta. Infatti, allora si fece ampio ricorso al Deep Web - che consente una navigazione anonima - che è cosa diversa dall'Internet ordinario. In proposito, è abbastanza diffuso l'erroneo convincimento che attraverso i motori di ricerca, come Google o Yahoo, siano potenzialmente accessibili tutte le risorse della Rete. Non è così. Il cosiddetto clear Internet, cioè quella parte del Web raggiungibile con le normali interrogazioni, riguarda solo il 2/4% della Rete; tecnicamente si esprime questo concetto dicendo che solo questa scarsa percentuale della Rete è costituita da siti indicizzati, cioè inseriti nei database dei motori di ricerca attraverso degli indici di riferimento. Il restante 96/98% costituisce il cosiddetto Deep Web, cioè un Internet sommerso, navigabile in forma anonima o con falsa identità, non raggiungibile attraverso i normali motori di ricerca, esplorabile solo mediante specifiche procedure tecniche non particolarmente complesse e alla portata di qualsiasi cybernauta con un minimo di esperienza. Questa parte del Web è un pericoloso territorio completamente libero da regole; l'anonimato consente infatti di intraprendere qualsiasi iniziativa senza che le norme giuridiche, ovvero la minaccia di una sanzione, possa avere una funzione preventiva e di deterrenza da comportamenti illeciti. Cosi, nell'ambito del Deep Web si trova di tutto. Pagando con bitcoin, una moneta virtuale che non necessita l'intermediazione di Istituti di credito, è possibile acquistare, armi, droga, materiale pornografico, o imbattersi in siti di sette sataniche, o subire la vista di immagini e di video raccapriccianti. Questi sono gli aspetti negativi della libertà che degenera in licenza. Da un punto di vista positivo l'anonimato della navigazione ha consentito ai giovani arabi di postare informazioni su quanto stava avvenendo nei loro Paesi non correndo il rischio di essere identificati; in questo modo in occidente è stato possibile conoscere il reale svolgimento degli eventi. Inoltre i manifestanti hanno potuto comunicare reciprocamente e coordinarsi. Per questo motivo il Deep Web può essere una preziosa fonte di informazioni, anche riservate. Ovviamente nel Deep Web è massiccia la presenza delle Forze dell'Ordine e di agenzie di intelligence, comprese FBI e CIA, che monitorano quanto avviene, e che, mediante tracce sfuggite alla navigazione anonima, riescono a compiere in qualche occasione brillanti operazioni di Polizia identificando i responsabili di fatti criminosi. Di per sé non è vietato navigare nel Deep Web; solo eventuali specifici comportamenti possono integrare reati. Tuttavia anche la sola esplorazione di questa porzione di Internet non è consigliabile. Come si può facilmente immaginare questa parte del Web è frequentata soprattutto da individui pericolosi: conseguentemente la navigazione può esporre a rischi, ed è necessaria molta prudenza ed alcune accortezze per minimizzare il rischio di esporre il proprio pc a virus o a malware, o per evitare di subire il furto di dati sensibili. Il problema dell'anonimato nei nuovi mezzi di comunicazione è molto attuale. Sicuramente la difficoltà ad identificare i responsabili di condotte illecite costituisce per le forze di polizia un intralcio e uno strumento che può favorire l'impunità. Tuttavia, come le vicende della Primavera araba hanno dimostrato, l'anonimato può essere un importante mezzo per superare le limitazioni imposte alla libertà di comunicazione da regimi totalitari e liberticidi.
LA VICENDA RELATIVA ALLA NOMINA DI FIAMMA NIRENSTEIN COME NUOVO
AMBASCIATORE DI ISRAELE A ROMA (13-5-2016)
La vicenda
relativa alla nomina di Fiamma Nirenstein a nuova ambasciatrice di Israele a
Roma, e alla sua successiva rinuncia dopo più di cinque mesi dall'indicazione
da parte dello stesso Netanyahu, provano che le opzioni politiche di Israele
stanno attraversando un momento nel quale si confrontano posizioni discordanti.
Fiamma Nirenstein è una nota giornalista, pubblicista e scrittrice di origine
ebraica con cittadinanza italiana, ora israeliana, molto attiva anche come
blogger. Fiamma Nirenstein, eletta come candidata nelle liste del Popolo delle
Libertà, è stata parlamentare dal 2008 al 2013, ricoprendo importanti incarichi
nel corso della legislatura. Nel 2013 Fiamma Nirenstein si è trasferita in
Israele; nell'agosto dello scorso anno (2015) è stata designata ambasciatrice
di Israele a Roma direttamente dal primo ministro Benjamin Netanyahu, del quale
la giornalista israeliana ha in più occasioni manifestato di condividerne
pienamente le linee politiche. Da più parti sono state manifestate perplessità
nei confronti di questa designazione. Il popolare quotidiano indipendente di
Tel Aviv, Haaretz, vicino alla sinistra israeliana e spesso critico nei
confronti del governo, ha apertamente assunto una posizione contraria alla
nomina. L'autorevole giornale ha rivelato che il presidente del consiglio
italiano Renzi, riservatamente e attraverso canali informali, avrebbe espresso
riserve su questa decisione del governo israeliano, invitandolo ad un
ripensamento. L'inopportunità della designazione scaturirebbe da un potenziale
conflitto di interessi in cui potrebbe trovarsi la neo diplomatica in relazione
ai pregressi trascorsi istituzionali e politici in Italia. Le riserve del
governo italiano sono state smentite da fonti di Palazzo Chigi. Probabilmente
anche l'orientamento politico della neo designata ha inciso sulle posizioni contrarie
al mandato. Si è anche precisato che il figlio della ex parlamentare presta
servizio nell'intelligence italiana, e anche questo elemento, considerato il
carattere delicato dell'incarico investigativo, non verrebbe visto con favore
in quanto esigenze di prudenza e riservatezza prescrivono in linea di massima
l'inopportunità di legami significativi del personale dei servizi di sicurezza
con dipendenti e funzionari diplomatici di altri Paesi. La testata
giornalistica israeliana ha anche ricordato che Fiamma Nirenstein alcuni anni
fa avrebbe espresso valutazioni negative su Sarah Netanyahu, la moglie del
Premier. La circostanza non sembra aver tuttavia influito sui rapporti fra il
leader israeliano e la sig.ra Nirenstein. Anche esponenti della comunità
ebraica italiana, conferendo particolare rilievo al possibile potenziale
conflitto di interessi di cui si è detto in precedenza, relativo ai trascorsi
istituzionali italiani, hanno evidenziato che queste passate esperienze
potrebbero incidere sulla lealtà del neo diplomatico nello svolgimento del
delicato incarico. In proposito, Fiamma Nirenstein, per evitare questa
confusione di ruoli, dopo la nomina ad ambasciatore ha prontamente rinunciato
alla cittadinanza italiana. In ogni caso qualche giorno fa, ponendo termine
alle polemiche, Fiamma Nirenstein ha annunciato di voler rifiutare la
designazione, pur ribadendo il suo impegno a concorrere nel miglior modo
possibile al bene dello Stato di Israele. Anche la nomina, sempre da parte di
Netanyahu, del nuovo ambasciatore in Brasile, Dani Dayan, l'ex leader del
movimento dei coloni, al momento sta incontrando difficoltà, in quanto non è
stato ancora espresso il richiesto gradimento del governo brasiliano. Queste
vicende sembrano il riflesso di un momento di non particolare popolarità di
Netanyahu. Per quanto riguarda la politica interna l'ultima sua elezione, da
quanto emerse dai sondaggi che hanno preceduto le consultazioni, sembra essere
stata motivata più dalla paura di cambiamenti nel contesto di una congiuntura
così delicata, che da una reale convinzione degli elettori. Nella società
israeliana sono sempre più numerosi i segnali che auspicano una composizione
della questione palestinese, presupposto per un futuro di pace. Sembra esserci
pertanto una frattura fra la gente comune, stanca delle rigidità e delle
posizioni preconcette governative che costringono ad una vita in trincea e
sotto assedio, e l'attuale leadership politica. Anche a livello internazionale
probabilmente i tempi sono maturi per dei cambiamenti strategici che consentano
a Israele di uscire da una condizione che di fatto lo allontana da numerosi
partner. In proposito, Israele potrebbe sfruttare sia i dissidi all'interno del
mondo sunnita che stanno indebolendo i suoi tradizionali rivali arabi, sia
l'attuale congiuntura internazionale caratterizzata dalla contrapposizione dei
Paesi occidentali al fronte islamico fondamentalista, per ritagliarsi un ruolo
politico più attivo nell'ambito della comunità internazionale. Il premier
Netanyahu continua a mantenere una ferma chiusura nei confronti dell'Iran, che sembrarebbe preconcetta, e non tiene presente
che un avvicinamento alla Repubblica Islamica destabilizzerebbe i consolidati
equilibri mediorientali, che creano una cortina di isolamento intorno ad
Israele. Al riguardo, l'Iran - nonostante un ufficiale atteggiamento anti
israeliano che sembra dettato soprattutto dalla necessità di rassicurare la
base popolare circa la fedeltà agli ideali della rivoluzione - ha cessato di
finanziare il movimento terroristico Hamas, principale nemico di Israele, ora
probabilmente supportato dalle monarchie saudite. Questa nuova politica della
Repubblica Islamica è un aspetto da non trascurare. Al contrario l'attuale
leadership israeliana non sembra aver colto o dato importanza a questi segnali
di cambiamento che potrebbero suggerire di intraprendere, con un pò di
coraggio, nuove linee strategiche. Tuttavia si deve tener presente che sulla
prudenza della politica estera israeliana, fedele ai rigidi consolidati
stereotipi, forse influisce anche l'ambiguità dell'attuale politica estera
americana, che non rassicura come in passato, l'alleato israeliano. RR
SADIQ KHAN, NEOSINDACO DI LONDRA (10-5-2016)
Si discute molte in questi giorni dell'elezione del laburista Sadiq Khan come sindaco di Londra. I media, con opposte valutazioni, si sono soffermati sulle sue origini pakistane e soprattutto sulla sua dichiarata confessione religiosa di islamico praticante. Indubbiamente, anche se questo non deve essere di per sé fonte di pregiudizi, non si può negare che un sindaco musulmano in una capitale europea susciti curiosità ed esuli dalla normalità; diversamente il quotidiano britannico The Guardian, forse per eccesso di laicità, nel dare la notizia, ha messo in secondo piano la fede islamica. In effetti, in un momento come questo in cui vi è un aperto scontro fra occidente e fondamentalismo musulmano, che si concreta in tanti fatti inquietanti, come gli eventi bellici negli scenari mediorientali e in Libia, o la recrudescenza del terrorismo di matrice islamica, o i farneticanti proclami dello Stato Islamico circa una prossima conquista delle capitali europee, e in ultimo, nella nota, controversa e provocatoria profezia contenuta nel famoso libro 'Sottomissione' di Michel Houellebecq circa una progressiva e silente islamizzazione dell'Occidente, l'opzione dei londinesi può evocare prospettive suggestive. Tuttavia, esaminando i fatti con meno emotività, l'elezione di un islamico pachistano a sindaco di Londra - e in particolare di Sadiq Khan, - sembra nella sostanza un fatto abbastanza prevedibile. Innanzitutto, il Regno Unito è l'unico Paese europeo, o uno dei pochi, nel quale, a differenza degli esempi negativi di Francia e Belgio, le politiche di integrazione di comunità di etnia extraeuropea hanno avuto successo. Probabilmente, grazie alla creazione del Commonwealth come area geopolitica comune di Stati ex appartenenti all'impero britannico, che ha consentito ai Paesi che ne fanno parte di mantenere collegamenti politici e culturali e di interagire in maniera privilegiata con il Regno Unito, si è realizzato nel tempo il progressivo inserimento di elementi provenienti da regioni esotiche in maniera fisiologica e normale nel tessuto sociale inglese. Fin dai mie primi brevi soggiorni da ragazzo a Londra, o in altre città inglesi, ricordo che era molto frequente imbattermi nei rapporti quotidiani, negli uffici, nei pubblici servizi in persone di origine extraeuropea. Forse fra i tanti controllori provenienti dal subcontinente indiano che prestavano servizio sui bus inglesi, i famosi double-decker rossi, avrò incontrato un antenato del sig. Khan. In quei tempi in Europa non si vedevano facilmente asiatici o africani, o, se si incontravano, avevano completamente abbandonato - se non rinnegato - la cultura di provenienza, mimetizzandosi fra gli europei. Dal punto di vista dell'integrazione l'Inghilterra sembrava un'isola felice, anche se successivamente, a causa di discriminazioni sociali, in quartieri periferici di Londra o in altre città ci sono state tensioni che hanno coinvolto comunità extraeuropee e che sono sfociate in gravi scontri con le forze di polizia. Queste turbative, considerata la complessità dei sistemi e dei grandi aggregati urbani e i momenti di grave crisi economica che stiamo vivendo in questi anni, possono tuttavia essere considerate 'fisiologiche'. Tornando all'elezione di Sadiq Khan, va tenuto presente che la comunità musulmana a Londra è tra le più numerose in Europa (corrisponde al 40% degli islamici che vivono in Inghilterra e nel Galles). Mezzo milione dei musulmani inglesi sono di origine pakistana ed il 40% di loro risiede nella capitale inglese, dove pertanto anche la comunità pakistana è una presenza molto significativa. Quindi da questo punto di vista l'affermazione del sig. Khan non può essere considerata una sorpresa. Tuttavia il neosindaco in passato ha vissuto momenti di tensione con i suoi correligionari estremisti: per le sue posizioni a favore dei matrimoni omosessuali ha ricevuto una fatwa e minacce di morte. Per il neo sindaco il radicalismo e le manifestazioni fondamentaliste in Gran Bretagna sono la conseguenza della disoccupazione, dei servizi inefficienti, delle ingiustizie sociali, della mancanza di volontà di formulare soluzioni a queste carenze; in passato ha dichiarato che "per troppo tempo i governi che si sono succeduti in Gran Bretagna hanno tollerato la segregazione" (da "l'Occidentale" del 7 maggio us). Anche se un po' generiche, poco chiare, e caratterizzate da una demagogia poco rassicurante, queste affermazioni presuppongono la volontà di un intervenire per rimuovere le affermate discriminazioni, e sono in linea con la l'ottica socialdemocratica laburista. In proposito, i laburisti, nonostante il predecessore di Khan fosse stato eletto nelle fila dei conservatori, sono a Londra molto strutturati e solidi. Nel corso della campagna elettorale, quando secondo i sondaggi i consensi nei confronti di Khan erano in sensibile ascesa, ambienti conservatori lo hanno apertamente accusato di essere legato all'estremismo islamico per aver avuto incontri con personaggi legati al radicalismo inglese, come l’imam Suliman Gani, presunto simpatizzante dell'Isis. Questa accusa si è poi rivelata un boomerang, e forse ha inciso sulla sconfitta del suo antagonista conservatore, il sig. Zac Goldsmith, che peraltro non era una personalità di particolare spessore politico. Agli elementi di cui si è detto va aggiunto il brillante curriculum politico e professionale del candidato pakistano, che è un noto avvocato specializzato nella difesa dei diritti umani, nella tutela delle garanzie dei cittadini, in diritto del lavoro. Come esponente politico ha avuto un incarico ministeriale nel governo di Gordon Brown e, dopo le sue dimissioni come capo del Partito Laburista, ha gestito la campagna elettorale di Ed Miliband. Pertanto il sig. Khan ha potuto contare per la sua elezione su un'ampia base elettorale a carattere trasversale. Sicuramente si tratta di un politico scaltro, che dovrà essere giudicato in base a come svolgerà questo importante mandato. Sarà interessante constatare se la sua fede musulmana influirà sul suo operato, considerato il tradizionale carattere spiccatamente laico dell'ambiente londinese. RR
L'espressione 'Allah Akbar' costituisce una delle principali frasi comunemente usate dai musulmani, con la quale si apre il richiamo alla preghiera e che viene, purtroppo, a volte utilizzata anche da chi con la vera fede ha poco a che fare e si macchia di crimini contro l’umanità. Innanzitutto è più corretto dire 'Allah-u akbar' anzichè 'Allah akbar', in quanto i nomi arabi si declinano e 'Allah-u' è la forma nominativa di 'All
l'uso della cravatta. Poi mi sono ricordato, ma non so se questo sia il caso del sig. Sadikh Khan, che l'Islam non considera con favore l'uso della cravatta (in Iran è decisamente sconsigliata), in quanto il nodo richiamerebbe la croce cristiana ed inoltre la cravatta simboleggerebbe la corruzione del mondo occidentale. Comunque è più probabile che l'abbigliamento informale di Sadiq Khan sia scaturito da esigenze più casuali, o che in ogni caso non abbiano a che fare con la sua professione religiosa, considerato che il neo sindaco sembra animato da uno spirito laico e interreligioso, e che viene da una comunità, quella pakistana, molto integrata nel Regno Unito. In proposito, per chi non lo ha visto, con l'occasione consiglierei di vedere il film, di Damien O'Donnel 'East is East', un film sulle realtà multietniche nelle periferie britanniche con riferimento alla comunità pakistana. Molto piacevole e interessante. RR
LA SITUAZIONE A CINQUE ANNI DALLA PRIMAVERA ARABA. 4. LO YEMEN. (4-5-2016)
Nel 2011, dopo le proteste in Egitto e Tunisia, anche nello Yemen la popolazione a causa della grave crisi economica e della corruzione del regime scese nelle piazze della capitale Sanaa per spingere a dimettersi il presidente Ali Abdullah Saleh, al potere da oltre 30 anni, che attraverso modifiche della Costituzione stava cercando di trasformare il suo mandato in un incarico a vita. Saleh dichiarò che avrebbe rinunciato sia alla rielezione o sia ad abdicare in favore del figlio. Nonostante l'apparente disponibilità al dialogo, iniziò una dura e sanguinosa repressione, che provocò dissensi ed una spaccatura anche all'interno delle forze armate, che in parte solidarizzarono con i manifestanti. Il Consiglio di Cooperazione del Golfo, l'organizzazione internazionale regionale a cui aderiscono sei Stati del Golfo Persico, ovvero il Bahrain, il Kuwait, l'Oman, il Qatar, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, cercò di favorire una composizione della crisi attraverso un processo di transizione verso soluzioni di compromesso. Nel giugno 2011 Saleh rimase gravemente ferito in un attentato. I nuovi scontri lo costrinsero nel febbraio del 2012 a passare la guida del Paese al suo vice Abdrabuh Mansour Hadi, che formò un governo di unità nazionale. Nel frattempo si sviluppava e si sovrappose alla crisi in atto anche un conflitto secessionista animato dagli Houthi, un gruppo armato sciita zaydita (lo zaydismo è una variante della confessione sciita) che agiva con l'appoggio politico e materiale dell'Iran, che sosteneva questi ribelli non solo per motivi religiosi (cioè la comune professione sciita) ma soprattutto al fine di conseguire, attraverso l'influenza in un'area dello Yemen, una posizione privilegiata che gli consentisse di gestire più direttamente i propri interessi nel continente africano. Contro gli Houthi, e soprattutto contro l'antagonista iraniano, si mobilitarono le monarchie del Golfo ed altri Paesi sunniti (segnatamente l'Egitto, gli Emirati, il Qatar), guidati dall'Arabia Saudita. Al Qaeda nella Penisola Araba (AQAP) approfittò del caos per gestire la propria influenza nella zona. Così, la rivolta degli Houthi superò subito il suo iniziale carattere limitatamente locale. All'inizio del 2015 i gravi disordini costrinsero il presidente Abd Rabbu Mansour Hadi a dimissioni, respinte dal Parlamento, e successivamente smentite, che furono solo formali, in quanto il suo governo dimissionario continuò la resistenza contro i ribelli ed continuò ad essere considerato a livello internazionale la legittima autorità al potere. Nelle stesso tempo la coalizione degli Stati sunniti guidata dall'Arabia Saudita nel marzo 2015 intraprese un massiccio attacco contro gli Houthi e contro obiettivi civili sia mediante incursioni aeree e bombardamenti sia attraverso truppe di terra. Permane una situazione caratterizzata da crimini di guerra commessi da entrambe le fazioni in lotta, i ribelli sciiti (sostenuti dall’Iran e dagli uomini dell’ex presidente Saleh) e il dimissionario resistente governo del presidente Hadi (appoggiato da una coalizione sunnita a guida saudita, dagli indipendentisti del sud e da varie tribù). Frange dello Stato Islamico attaccano moschee sciite causando la morte di molte vittime civili. Anche in questo Paese la Primavera araba non è approdata ad una democratizzazione delle istituzioni governative. RR
LA SITUAZIONE A CINQUE ANNI DALLA PRIMAVERA ARABA. 3.
IL BAHRAIN (1-5-2016)
Dopo la Tunisia e l'Egitto di cui si è detto in due
precedenti commenti (quelli del 27-4-2016 e del 11-4-2016), il Bahrain è stato
un altro Paese arabo interessato dai moti della Primavera araba. Il Bahrain è
un arcipelago del Golfo Persico costituito da cinque isole principali e altre
più piccole. La sua principale ricchezza è lo sfruttamento di ingenti
giacimenti di petrolio, con il quale è stata finanziata
l'industrializzazione del Paese, recentemente potenziata anche per compensare
il futuro probabile esaurimento delle risorse petrolifere. Il Paese ha una
particolare importanza strategica per la coalizione occidentale, in quanto una
sua isola ospita una base statunitense nella quale è di stanza la quinta flotta
americana. Gli Usa conseguentemente seguono con molto interesse gli eventi
politici del Bahrain, che considerano un importante alleato 'non Nato' . La
base in questione é stata di fondamentale importanza nelle vicende belliche in
Afghanistan e in Iraq. Da lì inoltre è possibile 'seguire' i
traffici che transitano per lo stretto di Hormuz, compreso il commercio
illecito di armi, ed esercitare con questa presenza una pressione psicologica
sull'Iran. L'aspetto problematico del Paese alla base delle tensioni e dei moti
che si sono manifestati con rinnovata intensità dopo le rivolte arabe in
Tunisia e in Egitto, è la contrapposizione fra sciiti e sunniti. In questa
piccola monarchia gli sciiti sono la netta maggioranza, ovvero circa il 70%
della popolazione, ma hanno pochissimo potere e sono discriminati socialmente,
in quanto governati da una monarchia sunnita, espressione pertanto di una
minoranza. L'Iran sciita e l'Arabia Saudita sunnita si fronteggiano
indirettamente nel Paese attraverso le divisioni fra le due confessioni
religiose: è probabile che l’Iran e gli Hezbollah libanesi sobillino gli sciiti
del Bahrain che aspirano all'uguaglianza sociale e politica, spingendoli alla
resistenza al fine di imporre la transizione verso una monarchia di tipo
costituzionale che attribuisca il giusto potere alla maggioranza; nello stesso
tempo il regime saudita sostiene la monarchia al potere. Probabilmente il
regime di Teheran solo apparentemente auspica la fine delle divisioni fra
sciiti e sunniti, in quanto le tensioni fra le due confessioni religiose sono
un elemento di grave instabilità che può influenzare le vicende interne di
altri Paesi del Golfo indebolendo di fatto la coalizione sunnita. Si
applica il solito e collaudato principio di politica estera (e non
solo..): 'divìde et impera'. Dopo la rivoluzione iraniana si è sospettato un
tentativo dell'Iran, fallito nonostante l'appoggio del Fronte Islamico per la
Liberazione del Bahrain, di 'esportare' la rivoluzione islamica in quel Paese
per rovesciare la monarchia al potere. Peraltro le autorità iraniane hanno in
alcune occasioni affermato di considerare il Bahrain una propria provincia, sia
da un punto di vista geografico che demografico, pur precisando di rispettarne
la sovranità: queste affermazioni sicuramente incidono e alimentano le
conflittualità nell'arcipelago. Il regime degli Al Khalifa, con la complicità
della comunità internazionale - che, per non turbare la suscettibilità saudita,
non ha mai sollevato problemi sulle dure modalità della repressione,
sull'inesistente rispetto dei diritti dell'opposizione, sulle ripetute violazioni
delle libertà di espressione, di religione, di stampa, e sull'elevato numero di
prigionieri politici in Bahrain - è riuscito a contenere le
manifestazioni del 2011 e tuttora mantiene il controllo del Paese nonostante le
latenti tensioni. La Primavera araba quindi qui non ha prodotto cambiamenti, ma
ha incoraggiato l'opposizione a manifestare per i propri diritti, introducendo
elementi di instabilità, che si ripercuotono sui fragili equilibri dell'area
mediorientale. Da quanto detto emerge che i moti in questo Paese, pur avendo
tratto un forte stimolo dai fermenti libertari in altri Paesi arabi, hanno
avuto proprie specifiche connotazioni e motivazioni che non si sono ancora
esaurite. RR
LA SITUAZIONE A CINQUE ANNI DALLA PRIMAVERA ARABA. 2.
LA TUNISIA (27-4-2016)
Com'è noto la Primavera araba ebbe inizio in Tunisia
con la cosiddetta ‘Rivoluzione del gelsomino’, ovvero con i disordini che
seguirono al suicidio di un universitario disoccupato, Mohammed Bouazizi,
costretto per sopravvivere a fare il venditore ambulante. Il giovane si diede
fuoco in segno di protesta per le condizioni economiche del Paese davanti alla
sede del governatorato di Sidi Bouzid dopo aver subìto umiliazioni dalla
polizia a seguito di un alterco. I tumulti motivati soprattutto dalla
disoccupazione, dall'elevato costo dei beni primari, dalla corruzione, dalla
disoccupazione e dalle cattive condizioni di vita si estesero a tutto il Paese
nonostante la polizia cercasse di soffocare i moti locali con la solita
repressione violenta che in pregressi casi era stata sufficiente a ristabilire
l’ordine con successo. Le manifestazioni di piazza a gennaio del 2011
costrinsero il Presidente Ben Alì a porre termine anticipatamente al suo
mandato con una repentina fuga a Gedda in Arabia Saudita. Questo evento acquisì
subito un grande significato: per la prima volta nella storia recente un popolo
arabo riusciva a sbarazzarsi di un dittatore. Nell’ottobre del 2011 si svolsero
le elezioni per la formazione della prima assemblea costituente; le
consultazioni decretarono il successo del movimento islamico Ennahda (il
Movimento della Rinascita) che, nonostante le sue pregresse posizioni radicali
fondamentaliste, affermava di ispirarsi a un modello di Stato laico di tipo
turco. Ennahda nel marzo del 2011 si costituì in partito politico: in questa
nuova veste auspicava, rinunciando all'inserimento della Sharia nella
Costituzione, l’avvento di una via tunisina all’Islamismo che avrebbe dovuto
riconoscere la legittimità di un sistema pluripartitico e ripudiare l’uso di
qualsiasi forma di violenza. Le consultazioni elettorali, alle quali si
registrò un'affluenza alle urne superiore al 90%, sancirono la vittoria di
Ennahda, che ottenne oltre il 40% delle preferenze. L'Assemblea nazionale
costituente approvò una Costituzione provvisoria che consentì la designazione
di un nuovo governo che resse il Paese fino alle successive elezioni generali e
alla promulgazione della Costituzione definitiva. Dopo incerte vicende che
tuttavia sancirono il definitivo passaggio del Paese alla democrazia, nel 2014
si svolsero le previste elezioni, che inaspettatamente registrarono
l'affermazione del partito laico di ispirazione liberale Nidaa Tounes. Gli
islamisti moderati di Ennahda risultarono la seconda forza politica, mentre
terza forza fu l'Unione Patriottica Libera, un partito sostenitore del libero
mercato e di valori modernisti. Al momento il Paese è retto da un governo di
unità nazionale, una condizione difficilmente esperibile nel mondo arabo.
Sicuramente la Tunisia è l'unico Paese che a seguito della Primavera araba ha
cambiato la sua leadership con elezioni libere. Con la Primavera araba si
ripristinò la libertà dei mezzi di comunicazione; i giornali si moltiplicarono
e anche il Web tornò ad essere uno strumento di diffusione di opinioni senza
restrizioni, a differenza di quello che avvenne durante il regime di Ben Alì.
Inoltre fu messa al bando qualsiasi forma di tortura. Tuttavia il Paese ha
pagato la recente rifondazione con una fragilità istituzionale e una vulnerabilità
che si sono concretizzate nell'esplosione della contestazione sociale a causa
della grave crisi economica e in cruenti attacchi terroristici come quello al
museo del Bardo e al resort di Sousse rispettivamente nel marzo e nel giugno
del 2015. La mancanza di sicurezza ha inoltre determinato una drastica
contrazione del turisti e degli investitori stranieri, con gravi ripercussioni
negative nell'economia nazionale. In apparente contraddizione con il processo
di democratizzazione la Tunisia è il Paese nel quale maggiormente si formano i
più radicali jihadisti. Dalla Tunisia sono partiti per la Siria e l'Iraq più di
3000 individui per combattere nelle file dell'Isis; si stima che circa 500 di
questi individui, indottrinati da un'ideologia carica di odio e violenza, siano
rientrati nel Paese, pronti a compiere azioni terroristiche in Tunisia o
all'estero. Secondo alcuni analisti, i jihadisti tunisini costituiscono la
fetta più importante tra i combattenti stranieri che si sono affiliati all'Isis
sia in Siria che in Libia. In proposito, dalla piccola città di Remada (5000
abitanti) nel sud est tunisino, a soli 50 chilometri dal confine con la Libia,
nei mesi scorsi in pochi giorni sono partiti 90 giovani in direzione dei campi
di addestramento libici dello Stato Islamico, nonostante le autorità avessero
chiuso i confini rafforzandoli con la costruzione di un fossato e di un muro di
sabbia. In Tunisia l'Islam radicale ha trovato un fertile terreno soprattutto
nelle periferie delle città dove la disoccupazione giovanile ha raggiunto
livelli molto elevati. Questa situazione può causare un'involuzione, ovvero il
rischio che le autorità usino la lotta al terrorismo e ai disordini per
ripristinare forme di controllo sull'esercizio dei fondamentali diritti di libertà.
Ad esempio, nel mese di luglio del 2015 il governo ha approvato misure di lotta
all'eversione che consentono l'arresto di persone senza specifiche accuse e
prevedono una forte limitazione delle garanzie a difesa dell'accusato. La
Tunisia, nonostante le difficoltà economiche e istituzionali, resta tuttavia
per il mondo arabo un modello da seguire, un'eccezione da difendere. In
proposito, l'attuale presidente tunisino Essebsi ha dichiarato che "la
Tunisia racchiude più identità, laiche e religiose, abituate a convivere nel
rispetto reciproco....". Per il Presidente Essebsi inoltre
"l'islamismo non è un movimento religioso bensì politico il cui unico
intento è la conquista del potere. Si tratta di persone violente, di terroristi
che non hanno nulla che vedere con i musulmani perché l'Islam è per il rispetto
di tutti, nei testi fondamentali dell'Islam non c'è nulla di quanto i
terroristi predicano all'unico fine di imporre il loro potere sugli
altri". RR
LA SITUAZIONE A CINQUE ANNI DALLA PRIMAVERA
ARABA. 1. CONSIDERAZIONI
GENERALI (26-4-2016)
Sono passati cinque anni dai moti di rivolta della
Primavera araba, iniziati in Tunisia e in Egitto rispettivamente alla fine del
2010 e nei primi mesi del 2011, nel corso dei quali il diffuso malessere
per delle società cristallizzate su posizioni antidemocratiche e caratterizzate
da inaccettabili diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza aveva
spinto migliaia di persone nelle piazze di alcune capitali arabe per richiedere
la sostituzione dei regimi autoritari al potere con democrazie laiche. Prima di
esaminare la situazione attuale a cinque anni da quegli eventi che animarono
forti e diffuse aspettative di giustizia e di libertà, è utile premettere
alcune considerazioni generali. La Primavera araba principalmente riguardò sei
Stati: la Tunisia, l’Egitto, lo Yemen, il Bahrain, la Siria e la Libia. Anche
in Marocco ci furono dimostrazioni, ma ebbero un carattere prevalentemente
pacifico e portarono a cambiamenti costituzionali che introdussero forme di
legittimità democratica. Nel corso della Primavera araba svolsero un
ruolo importante i mass media, soprattutto la Rete. Tuttavia, mentre i
giornali e le televisioni si mantennero espressione di poteri governativi, solo
Internet sfuggì a ogni controllo: il Web fu l'unico strumento per la
diffusione mediatica delle idee di cambiamento e la concreta organizzazione
delle manifestazioni, il solo mezzo per assicurare all’interno e all’esterno
dei rispettivi confini nazionali un’adeguata libertà di informazione. Il
fondamentalismo religioso invece inizialmente non ebbe uno specifico ruolo; al
contrario, in alcuni casi assunse una funzione di contenimento e di controllo
delle istanze di rinnovamento, guidando morbidamente i sistemi politici verso
una restaurazione delle condizioni politiche preesistenti, verso una
neoislamizzazione che contribuì ad affermare regimi non particolarmente diversi
da quelli precedenti. In questi moti mancarono anche quelle manifestazioni
anti-occidentali (soprattutto anti-americane e anti-israeliane) emerse in
precedenti rivoluzioni islamiche - come quella iraniana del 1979 - che avevano
accreditato l’immagine di un mondo musulmano compatto nell’essere in ogni
occasione contrapposto all’Occidente. I manifestanti non potevano avere come
modello su cui rifondare il nuovo Stato le democrazie occidentali, considerate
corrotte e lontane da valori spirituali e religiosi. Le nuove istituzioni
potevano ispirarsi solo ad una piena applicazione dei valori dell’Islam, gli
unici che, ripristinati nella loro purezza, venivano considerati in grado di
assicurare uno Stato perfetto, oltre che giusto. Pertanto la Primavera Araba,
pur essendosi originata da movimenti laici, approdò - con l'unica eccezione
della Tunisia - ad esiti integralisti, trasformandosi di fatto in una primavera
islamica. Nella rifondazione di un nuovo Stato sono prioritari la formazione di
un’assemblea costituente e l’indizione di libere elezioni. Tuttavia nei Paesi
arabi nei quali si svolsero le consultazioni elettorali la democratizzazione
rimase intrappolata in un circolo vizioso. Le elezioni infatti non sono il
momento iniziale di una democrazia ma il suo punto di arrivo, in quanto il loro
valido e libero svolgimento richiede un apparato democratico e una ben formata
coscienza civica. La Primavera Araba contribuì - purtroppo solo momentaneamente
- a ridimensionare il ruolo del terrorismo nel determinare le vicende
locali e nazionali dei singoli Stati. In passato i cambiamenti di regime o le
rivoluzioni interne si erano avuti a seguito di iniziative di gruppi eversivi
in qualche caso con l’ausilio esterno di altri Paesi; questo aveva consolidato
nei popoli arabi la consapevolezza che essi potessero solo tollerare i propri
governi, mentre soltanto l’attività terroristica poteva offrire prospettive
concrete di cambiamento. La Primavera Araba, alimentando inizialmente forti
aspettative, sembrò togliere al terrorismo il monopolio esclusivo nel
sovvertire i regimi al potere. Purtroppo gli esiti deludenti della Primavera
araba uniti alla nascita dello Stato Islamico e alla trasformazione di Al
Qaeda, che, sebbene indebolita dai colpi inferti dalla guerra al terrorismo, si
rigenerò attraverso la filiazione di tanti agguerriti movimenti
regionali hanno ripristinato il triste ruolo centrale del terrorismo. RR
LA SITUAZIONE TURCA ATTUALE (22-4-2016)
La Turchia è destinataria di un duplice attacco
terroristico, sia da parte del PKK, sia da parte dello Stato Islamico, che
si avvale anche di azioni suicide. Da un punto di vista internazionale
la Turchia è un Paese isolato. Non ha alleati nel mondo arabo, essendo
espressione di un islamismo dai tratti ambigui, palesemente animato solo dalla
volontà di prevalere sugli altri. La Turchia infatti sembra avere l'ambizione
di tornare ad essere una grande potenza regionale, cercando di acquisire,
in concorrenza con le monarchie saudite, un'incontrastata egemonia
nell'area mediorientale nell'ambito dell'Islam sunnita, e aspirando di fatto
alla ricostituzione di un'aggiornata versione del grande califfato (il
progetto neocaliffale quindi non è solo dello Stato Islamico). È noto
inoltre il dissidio con la Russia dopo l'abbattimento di uno dei suoi aerei al
confine con la Siria. Sono freddi i suoi rapporti con gli Usa per le divergenze
sulla questione curda; Erdogan rimprovera agli Stati Uniti di appoggiarsi nella
lotta all'Isis ai Curdi siriani, che aspirano all'indipendenza dalla Turchia.
Incerte sono le relazioni con l'Unione Europea, motivate solo dalla
convenienza reciproca, come è provato dall'accordo sui migranti, di cui
si è ampiamente detto nel commento precedente. Nello stesso tempo cresce il
dissenso interno; Erdogan, per mantenere il controllo dello Stato, ha adottato
misure che incidono sulla democrazia e sulla sicurezza. Nel Paese si sta
affermando in maniera inquietante una linea autoritaria che sta determinando un
preoccupante arretramento nella tutela dei diritti di libertà. Con il pretesto
di proteggere la sicurezza nazionale e negando pertanto di interferire con la
libertà di stampa sono stati sottoposti a misure restrittive della libertà
personale numerosi giornalisti. Questa situazione, che ha gravi ricadute sulla
vita politica e sociale del Paese, è indicativa di una condizione di crisi del
governo che sta lentamente ma progressivamente perdendo il pieno
controllo. Il PKK, che da tre decenni combatte con ogni mezzo per l'autonomia
curda, anche in assenza di specifiche rivendicazioni, viene individuato come il
primo responsabile di qualsiasi fatto criminoso eversivo. La Turchia è profondamente
divisa al suo interno: c'è una borghesia urbana - integrata dalle classi
benestanti e dagli studenti impegnati socialmente e politicamente - che, seppur
non omogenea, è unita nel contrapporsi ai conservatori islamici che sostengono
il presidente Erdogan, sempre più autoritario e repressivo nei confronti della
libertà di opinione. Le sorti future del Paese dipendono sempre di più da quale
delle due anime a lungo termine prevarrà sull'altra. RR
L'ACCORDO SUI MIGRANTI FRA UNIONE EUROPEA E TURCHIA
(21-4-2016)
Com'è noto nel mese di marzo è stato adottato un accordo fra Turchia ed Unione Europea per fronteggiare quella pressione migratoria diretta in Europa che si è concentrata sulla Grecia dopo la chiusura della rotta balcanica. L'accordo prevede che i migranti irregolari in viaggio dalla Turchia verso la Grecia siano accolti dalla Turchia; per ogni profugo, in possesso dei requisiti per richiedere asilo, che verrà ospitato in Turchia, un altro, sempre in possesso dei requisiti per il diritto d'asilo, fino a un massimo di 72.000, sarà destinato (dalla Turchia) all'Unione Europea, con priorità per quei migranti che non abbiano tentato di entrare nel territorio in modo irregolare. I profughi destinati ai Paesi dell'Unione Europea successivamente saranno ridistribuiti in base ad una ripartizione per quote. In pratica l'Europa delega alla Turchia, che dovrà ospitare sul proprio territorio il grosso dei migranti, la gestione di questo problema, compensandola con un finanziamento molto consistente, ovvero con sei miliardi di Euro, e con la ripresa dei negoziati propedeutici all'adesione dello Stato turco all’Unione Europea e la stipula di procedure semplificate per i cittadini turchi che vogliano accedere allo spazio Schengen. Non possono farsi previsioni circa la tenuta dell'accordo: la scarsa esperienza del governo turco in materia di politiche di asilo e di flussi migratori alimenta infatti qualche dubbio sui risultati a lungo termine dell'intesa. Speriamo che ad un'eventuale difetto di organizzazione o all'incapacità di fermare i profughi diretti in Europa, non si aggiunga in futuro per i Paesi dell'Unione la necessità di accogliere anche i profughi turchi e curdi che fuggono dalle conseguenze repressive di una più spinta eventuale deriva autoritaria del governo di Erdogan. L'accordo dovrebbe avere anche l'effetto di alleggerire la pressione dei profughi sulla Grecia, che potrà rimandare gli 'irregolari' in Turchia, dove dovranno attendere l’esito della loro eventuale richiesta di asilo da avanzare comunque in Grecia. Per l'Italia potrebbero aprirsi prospettive non rassicuranti in quanto le difficoltà create dal filtro turco potrebbero spingere parte dei migranti a privilegiare la rotta mediterranea. È anche possibile che i migranti decidano di entrare in Albania e da lì attraversare il Canale d’Otranto per arrivare in Puglia. L'accordo, definito in termini astratti, non si occupa dei meccanismi pratici di attuazione. L'istanza turca di un rilancio dei negoziati con Bruxelles per il suo ingresso 'in Europa' non sembra avere al momento prospettive di successo, perché la Turchia, soprattutto in relazione all'attuale svolta repressiva del dissenso interno e alla scarsa tutela dei diritti di libertà dei propri cittadini, non soddisfa attualmente i criteri per l’adesione. L'accordo, oltre alle perplessità sul suo funzionamento concreto, ha suscitato molte critiche da un punto di vista etico, soprattutto presso gli ambienti cattolici: l'Unione Europea, infatti, privilegiando la tutela delle proprie frontiere dietro il pagamento di una somma economica, si sgrava della gestione delle problematiche connesse alla questione e delle conseguenti implicazioni umanitarie. Si è anche detto che con l'ingente somma erogata alla Turchia l'Europa avrebbe potuto affrontare in proprio l'emergenza con esiti meno incerti di quelli che prospetta l'affidamento della problematica al governo di Ankara. RR
Com'è noto nel mese di marzo è stato adottato un accordo fra Turchia ed Unione Europea per fronteggiare quella pressione migratoria diretta in Europa che si è concentrata sulla Grecia dopo la chiusura della rotta balcanica. L'accordo prevede che i migranti irregolari in viaggio dalla Turchia verso la Grecia siano accolti dalla Turchia; per ogni profugo, in possesso dei requisiti per richiedere asilo, che verrà ospitato in Turchia, un altro, sempre in possesso dei requisiti per il diritto d'asilo, fino a un massimo di 72.000, sarà destinato (dalla Turchia) all'Unione Europea, con priorità per quei migranti che non abbiano tentato di entrare nel territorio in modo irregolare. I profughi destinati ai Paesi dell'Unione Europea successivamente saranno ridistribuiti in base ad una ripartizione per quote. In pratica l'Europa delega alla Turchia, che dovrà ospitare sul proprio territorio il grosso dei migranti, la gestione di questo problema, compensandola con un finanziamento molto consistente, ovvero con sei miliardi di Euro, e con la ripresa dei negoziati propedeutici all'adesione dello Stato turco all’Unione Europea e la stipula di procedure semplificate per i cittadini turchi che vogliano accedere allo spazio Schengen. Non possono farsi previsioni circa la tenuta dell'accordo: la scarsa esperienza del governo turco in materia di politiche di asilo e di flussi migratori alimenta infatti qualche dubbio sui risultati a lungo termine dell'intesa. Speriamo che ad un'eventuale difetto di organizzazione o all'incapacità di fermare i profughi diretti in Europa, non si aggiunga in futuro per i Paesi dell'Unione la necessità di accogliere anche i profughi turchi e curdi che fuggono dalle conseguenze repressive di una più spinta eventuale deriva autoritaria del governo di Erdogan. L'accordo dovrebbe avere anche l'effetto di alleggerire la pressione dei profughi sulla Grecia, che potrà rimandare gli 'irregolari' in Turchia, dove dovranno attendere l’esito della loro eventuale richiesta di asilo da avanzare comunque in Grecia. Per l'Italia potrebbero aprirsi prospettive non rassicuranti in quanto le difficoltà create dal filtro turco potrebbero spingere parte dei migranti a privilegiare la rotta mediterranea. È anche possibile che i migranti decidano di entrare in Albania e da lì attraversare il Canale d’Otranto per arrivare in Puglia. L'accordo, definito in termini astratti, non si occupa dei meccanismi pratici di attuazione. L'istanza turca di un rilancio dei negoziati con Bruxelles per il suo ingresso 'in Europa' non sembra avere al momento prospettive di successo, perché la Turchia, soprattutto in relazione all'attuale svolta repressiva del dissenso interno e alla scarsa tutela dei diritti di libertà dei propri cittadini, non soddisfa attualmente i criteri per l’adesione. L'accordo, oltre alle perplessità sul suo funzionamento concreto, ha suscitato molte critiche da un punto di vista etico, soprattutto presso gli ambienti cattolici: l'Unione Europea, infatti, privilegiando la tutela delle proprie frontiere dietro il pagamento di una somma economica, si sgrava della gestione delle problematiche connesse alla questione e delle conseguenti implicazioni umanitarie. Si è anche detto che con l'ingente somma erogata alla Turchia l'Europa avrebbe potuto affrontare in proprio l'emergenza con esiti meno incerti di quelli che prospetta l'affidamento della problematica al governo di Ankara. RR
IL BELGIO E L'ISLAM 1. L'ISLAMIZZAZIONE JIHADISTA (18-4-2016)
La rilevanza politico sociale della comunità musulmana in Belgio non è una novità. Ne fu un primo segnale significativo la creazione nel 1967 di una grande moschea nel parco del Cinquantenario, nel cuore della capitale belga; la moschea è tuttora ubicata all'interno del grande palazzo che era stato costruito per ospitare il padiglione orientale in occasione dell'esposizione universale di Bruxelles del 1880. Successivamente l'edificio rimase per lungo tempo inutilizzato; nel 1967 il re Baldovino cedette la struttura in affitto per 99 anni all’Arabia Saudita durante la visita in Belgio di re Faisal Ben Abdelaziz. Allora l'immigrazione araba cominciava ad essere rilevante e perciò si pensò di destinare un grande spazio chiuso a luogo di culto dell'Islam. In realtà sulla benevolenza belga influirono molto gli accordi commerciali (soprattutto in materia di forniture petrolifere) che vennero conclusi fra i due Paesi nella circostanza. L'istituzione della moschea fu quindi il risultato di un iniziativa saudita. Come conseguenza l'interpretazione wahabita (il Wahhabismo, che è il credo dominante nella Penisola Arabica, com'è noto, propone un'interpretazione del Corano letterale, integralista e ultraconservatrice) ha sempre esercitato molta influenza nelle predicazioni che si sono tenute in quel luogo di culto. La moschea, dopo un lungo restauro, venne inaugurata nel 1978 da re Baldovino e dal nuovo sovrano saudita Khalid. Da allora, sempre con i finanziamenti dell'Arabia Saudita e sotto l'influenza wahabita, sono cominciati a proliferare i centri islamici, spesso guidati da imam che si erano formati a Riad. Fin dagli anni novanta iniziarono nell'ormai famoso comune di Molenbeek, nella regione di Bruxelles, senza che le autorità di polizia belghe ne percepissero l'incombente pericolo, le predicazioni salafite di Bassam Ayachi; il Salafismo è una forma di radicalismo islamico. Le iniziative dello sceicco siriano costituirono la base ideologica dell'incipiente jihadismo belga e favorirono concretamente la crescita di un fondamentalismo organizzato. Le predicazioni ispirate al radicalismo trovavano un fertile terreno nel fallimento delle politiche di integrazione che acuivano quei sentimenti di discriminazione e di frustrazione sui quali facevano leva i reclutatori di foreign fighters, che promettevano un futuro da eroi a giovani in una condizione di indigenza. Bassam Ayachi nel 2008 era stato arrestato in Italia per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Emerse dalle indagini che Bassam era un personaggio influente del fondamentalismo islamico; in relazione a suoi progetti di attentati e all'organizzazione di una cellula terroristica gli furono mosse accuse più gravi, e nel 2011 fu condannato in primo grado a otto anni. La sentenza venne poi annullata in Cassazione, cui seguì nel 2012 l'assoluzione in appello (non risultarono elementi sufficienti), a seguito della quale lo sceicco siriano venne scarcerato. La svolta salafita, di cui si è detto, esercitò la sua influenza anche in altre città del Belgio. Ad Anversa nel 2010 Fouad Belkacem, attualmente detenuto, fondò l’organizzazione Sharia4Belgium, che si proponeva, come chiaramente indica il nome, l'instaurazione della legge islamica. L'organizzazione creò propri centri anche in alcune città delle Fiandre, come Mechelen e Vilvoorde, dalle quali successivamente sono partiti per la Siria e l'Iraq numerosi foreign fighters. Da un punto di vista strategico, il Belgio ha una particolare importanza per il jihadismo europeo: per la sua collocazione al centro dell'Europa, nel cuore dello Spazio Schengen, il territorio belga è un facile transito per la Francia, per il Lussemburgo, per i Paesi Bassi e per la Germania; negli aeroporti tedeschi è inoltre possibile disporre di molti voli a buon mercato per la Turchia e, da qui, si può raggiungere la Siria con mezzi di fortuna e connivenze turche. Ovviamente per gli stessi motivi non è complicato avventurarsi per l'itinerario inverso (ovvero dalla Siria all'Europa). La libera circolazione interna - che resta un'importante conquista dell'Unione Europea - in questo momento offre indubbi vantaggi ai terroristi, che possono spostarsi su un vasto territorio, valersi di connivenze in altri Paesi, occultare più facilmente la loro presenza, portare a termine quei programmi criminosi che richiedono trasferimenti transnazionali (come è avvenuto per gli spostamenti fra Belgio e Francia in occasione degli attentati di Parigi); questi vantaggi non sono sufficientemente compensati dal potenziamento dei controlli di sicurezza alle frontiere che hanno messo in atto alcuni Paesi. Le limitazioni interne alla libertà di circolazione dello spazio Schengen - se possono non essere giustificate in relazione all'emergenza 'immigrati' in quanto la soluzione della questione dei flussi di profughi richiede quella solidarietà di tutti i Paesi che è preclusa dalla chiusura delle rispettive frontiere - potrebbero invece trovare temporaneo fondamento nelle esigenze di sicurezza (così come previsto dalla Convenzione di Schengen) connesse al contrasto del terrorismo transnazionale. La solidarietà europea, basata sulla ricerca dell'interesse comune e di cui anche la cooperazione di polizia fra gli Stati membri per il contrasto del terrorismo è un corollario, è sempre più compromessa dal rafforzamento di un'ideologia liberale che privilegia gli interessi nazionali su sacrifici che non sono condivisi perché non solo non sembrano sempre giustificati ed equi, ma anche perché non raramente sembrano trovare fondamento solo nella (ritrovata) volontà di egemonia di alcuni Paesi (la Germania in particolare). Al contrario, la solidarietà europea ha come presupposto la pari dignità di tutti gli Stati membri e uno spirito europeista che si manifesti non solo nel percepire i benefici dell'Unione, ma anche nel condividerne i sacrifici. RR
La rilevanza politico sociale della comunità musulmana in Belgio non è una novità. Ne fu un primo segnale significativo la creazione nel 1967 di una grande moschea nel parco del Cinquantenario, nel cuore della capitale belga; la moschea è tuttora ubicata all'interno del grande palazzo che era stato costruito per ospitare il padiglione orientale in occasione dell'esposizione universale di Bruxelles del 1880. Successivamente l'edificio rimase per lungo tempo inutilizzato; nel 1967 il re Baldovino cedette la struttura in affitto per 99 anni all’Arabia Saudita durante la visita in Belgio di re Faisal Ben Abdelaziz. Allora l'immigrazione araba cominciava ad essere rilevante e perciò si pensò di destinare un grande spazio chiuso a luogo di culto dell'Islam. In realtà sulla benevolenza belga influirono molto gli accordi commerciali (soprattutto in materia di forniture petrolifere) che vennero conclusi fra i due Paesi nella circostanza. L'istituzione della moschea fu quindi il risultato di un iniziativa saudita. Come conseguenza l'interpretazione wahabita (il Wahhabismo, che è il credo dominante nella Penisola Arabica, com'è noto, propone un'interpretazione del Corano letterale, integralista e ultraconservatrice) ha sempre esercitato molta influenza nelle predicazioni che si sono tenute in quel luogo di culto. La moschea, dopo un lungo restauro, venne inaugurata nel 1978 da re Baldovino e dal nuovo sovrano saudita Khalid. Da allora, sempre con i finanziamenti dell'Arabia Saudita e sotto l'influenza wahabita, sono cominciati a proliferare i centri islamici, spesso guidati da imam che si erano formati a Riad. Fin dagli anni novanta iniziarono nell'ormai famoso comune di Molenbeek, nella regione di Bruxelles, senza che le autorità di polizia belghe ne percepissero l'incombente pericolo, le predicazioni salafite di Bassam Ayachi; il Salafismo è una forma di radicalismo islamico. Le iniziative dello sceicco siriano costituirono la base ideologica dell'incipiente jihadismo belga e favorirono concretamente la crescita di un fondamentalismo organizzato. Le predicazioni ispirate al radicalismo trovavano un fertile terreno nel fallimento delle politiche di integrazione che acuivano quei sentimenti di discriminazione e di frustrazione sui quali facevano leva i reclutatori di foreign fighters, che promettevano un futuro da eroi a giovani in una condizione di indigenza. Bassam Ayachi nel 2008 era stato arrestato in Italia per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Emerse dalle indagini che Bassam era un personaggio influente del fondamentalismo islamico; in relazione a suoi progetti di attentati e all'organizzazione di una cellula terroristica gli furono mosse accuse più gravi, e nel 2011 fu condannato in primo grado a otto anni. La sentenza venne poi annullata in Cassazione, cui seguì nel 2012 l'assoluzione in appello (non risultarono elementi sufficienti), a seguito della quale lo sceicco siriano venne scarcerato. La svolta salafita, di cui si è detto, esercitò la sua influenza anche in altre città del Belgio. Ad Anversa nel 2010 Fouad Belkacem, attualmente detenuto, fondò l’organizzazione Sharia4Belgium, che si proponeva, come chiaramente indica il nome, l'instaurazione della legge islamica. L'organizzazione creò propri centri anche in alcune città delle Fiandre, come Mechelen e Vilvoorde, dalle quali successivamente sono partiti per la Siria e l'Iraq numerosi foreign fighters. Da un punto di vista strategico, il Belgio ha una particolare importanza per il jihadismo europeo: per la sua collocazione al centro dell'Europa, nel cuore dello Spazio Schengen, il territorio belga è un facile transito per la Francia, per il Lussemburgo, per i Paesi Bassi e per la Germania; negli aeroporti tedeschi è inoltre possibile disporre di molti voli a buon mercato per la Turchia e, da qui, si può raggiungere la Siria con mezzi di fortuna e connivenze turche. Ovviamente per gli stessi motivi non è complicato avventurarsi per l'itinerario inverso (ovvero dalla Siria all'Europa). La libera circolazione interna - che resta un'importante conquista dell'Unione Europea - in questo momento offre indubbi vantaggi ai terroristi, che possono spostarsi su un vasto territorio, valersi di connivenze in altri Paesi, occultare più facilmente la loro presenza, portare a termine quei programmi criminosi che richiedono trasferimenti transnazionali (come è avvenuto per gli spostamenti fra Belgio e Francia in occasione degli attentati di Parigi); questi vantaggi non sono sufficientemente compensati dal potenziamento dei controlli di sicurezza alle frontiere che hanno messo in atto alcuni Paesi. Le limitazioni interne alla libertà di circolazione dello spazio Schengen - se possono non essere giustificate in relazione all'emergenza 'immigrati' in quanto la soluzione della questione dei flussi di profughi richiede quella solidarietà di tutti i Paesi che è preclusa dalla chiusura delle rispettive frontiere - potrebbero invece trovare temporaneo fondamento nelle esigenze di sicurezza (così come previsto dalla Convenzione di Schengen) connesse al contrasto del terrorismo transnazionale. La solidarietà europea, basata sulla ricerca dell'interesse comune e di cui anche la cooperazione di polizia fra gli Stati membri per il contrasto del terrorismo è un corollario, è sempre più compromessa dal rafforzamento di un'ideologia liberale che privilegia gli interessi nazionali su sacrifici che non sono condivisi perché non solo non sembrano sempre giustificati ed equi, ma anche perché non raramente sembrano trovare fondamento solo nella (ritrovata) volontà di egemonia di alcuni Paesi (la Germania in particolare). Al contrario, la solidarietà europea ha come presupposto la pari dignità di tutti gli Stati membri e uno spirito europeista che si manifesti non solo nel percepire i benefici dell'Unione, ma anche nel condividerne i sacrifici. RR
RIFLESSIONI A MARGINE DEL LIBRO 'IL JIHADISTA DELLA PORTA
ACCANTO' DI KHALED FOUD ALLAM. (16-4-2016)
L'intellettuale algerino Khaled Fouad Allam, dopo la
strage nella sede della rivista Charlie Hebdo di Parigi, in un recente
saggio, 'Il jihadista della porta accanto', compie alcune riflessioni sul
significato e la valenza simbolica di questo attentato. Innanzitutto, è
significativo che il triste evento sia avvenuto in Francia, la patria della
rivoluzione illuminista, il movimento che si è proposto di liberare la mente
dell'uomo dall'ignoranza, dalla superstizione, valorizzando l'apporto della
ragione e della scienza nella formazione del pensiero. L'Illuminismo è infatti
mancato nel mondo arabo, e solo con l'avvento della Primavera araba quei popoli
per la prima volta hanno richiesto sistemi politici che, oltre a
governare con giustizia, assicurassero libertà e democrazia. Il conflitto con
il fondamentalismo islamico, di cui gli attentati a Parigi e a Bruxelles
costituiscono la punta esponenziale, non è nuovo ma è completamente cambiato
con la nascita del Califfato e la costituzione di un esercito che promuove
nuove forme di lotta. L'Isis con i suoi proclami invita a forme individuali di
'guerra santa', coinvolgendo in una nuova missione 'sacra' ragazzi e ragazze
nati in Europa e di seconda generazione; una missione che consiste nel compiere
crimini che possono manifestarsi in qualsiasi luogo e che possono colpire
chiunque, penalizzando indiscriminatamente tutti i potenziali spazi di
relazione fra persone con culture e religioni diverse. Per questo l'autore definisce
'di prossimità' questo terrorismo. Il messaggio del sedicente Califfo sembra
essere 'andate e colpite ovunque'. Dice l'autore del saggio che la data
del 7 gennaio 2015 suona già come l’11 settembre 2001, una specie di
spartiacque, l’entrata in una nuova era, nella quale le nostre
democrazie moderne dovranno abituarsi a non sottovalutare questa emergente
forma di minaccia, quasi permanente, che può provenire da ogni punto
del globo. L'unico modo attraverso il quale l'Occidente può contrastare i raccapriccianti
scenari che prospetta la deriva fondamentalista di matrice islamista è una
forte e coesa cooperazione internazionale; l'Occidente - è stato
autorevolmente affermato (Wael Farouq) - non deve essere un'entità geografica,
ma un insieme di valori. Al contrario l'Occidente manifesta contraddizioni e
mancanza di unione culturale, e non integra né un interlocutore né un
modello compatto, facilitando l'obiettivo dell'Isis di cancellare quella zona
grigia nella quale si articola il dialogo fra mondo cristiano e mondo
musulmano. Lo Stato Islamico, nel rivolgere il suo messaggio di guerra e di
violenza a tutti i musulmani, vuole sottomettere l'Islam per creare un mondo
diviso fra opposti. La fascinazione che il richiamo dei cattivi maestri del
radicalismo esercita sui giovani trova un terreno fertile nella nostra
difficoltà di fornire valori solidi, nel fatto che i giovani quando escono
dalla realtà virtuale popolata dai discutibili ma chiari richiami dell'Isis,
trovano il nulla. E Internet è uno strumento che facilità il terrorismo, perché
è uno mezzo passivo, che non si avvale del confronto critico. Poi il termine
jihad ha una forte suggestione perché è molto più forte del termine
guerra perché conferisce uno 'status' che è il precipitato di una cultura di
riferimento, che si manifesta con un'identità che prima ancora di essere
spirituale è esteriore. La crisi non è politica o religiosa, ma è culturale.
Peraltro l'integrazione di etnie extraeuropee non si esaurisce nel fornire
documenti di identità, ma necessita la condivisione di una civiltà. L'Occidente
ha trascurato questa priorità, osserva acutamente l'intellettuale algerino. La
pericolosità dell'Isis che non va sottovalutata né banalizzata - continua
Khaled - è facilitata da una leggerezza della politica occidentale che sarebbe
subentrata alla caduta del muro di Berlino. Forse la distruzione dei siti
archeologici o l'accanimento verso i luoghi d'Arte hanno una loro logica
perversa: la bellezza artistica e la cultura sono un formidabile collante che unisce
popoli diversi e che va oltre le nazionalità e le visioni spirituali
differenti. Al contrario, è necessario non essere involontariamente conniventi
con il progetto di scontro dell'Isis e mantenere viva questa zona grigia del
dialogo, distinguendo i terroristi e i fondamentalisti dal resto dei musulmani
moderati. L'isolamento dei criminali e del radicalismo è la premessa
dell'unica possibile strategia vincente. L'Occidente vive invece nelle
contraddizioni, come ad esempio, privilegiando i perversi interessi finanziari
e commerciali su ogni altro valore, quella di essere nella lotta all'Isis
alleato dell'Arabia Saudita, culla dell'ideologia wahabita, o di continuare a
fare affari con lo Stato islamico (che così si procura armi e vende petrolio).
Khaled Fouad Allan teme le semplificazioni, e che cioè l'Isis sia considerato
solo l'incarnazione del male non valutando adeguatamente le potenzialità del
suo messaggio di morte. La pericolosità dello Stato Islamico è anche quella
infatti di aver trasformato la contestazione in un'istituzione, creando un
modello, uno Stato con un territorio, un'alternativa concreta alle nostre
contraddizioni e alla nostra identità divisa. RR
LA MAPPA DEL TERRORISMO DI MATRICE ISLAMICA: 5. BOKO
HARAM (13-4-2016)
Boko Haram è un movimento terroristico particolarmente
sanguinario che opera a livello locale, segnatamente nella regione
nigeriana. Il ‘Popolo per la Propagazione degli Insegnamenti del Profeta e
della Jihad’- questo era il suo nome originario - ufficialmente si costituì nel
2001 come reazione alla corruzione del regime federale nigeriano e al malessere
sociale dovuto alla disoccupazione. Sulla sua origine probabilmente hanno
inciso le vicende algerine. Com'è noto, in Algeria nelle elezioni legislative
del 1992 il Fronte Islamico per la Salvezza vinse ampiamente il primo turno;
con il secondo turno il F.I.S. avrebbe conseguito la vittoria definitiva.
Tuttavia, l’esercito volle impedire questa possibilità e intervenne prima del
secondo turno per interrompere il naturale esito del processo elettorale. Si
originò così quella guerra civile nell’ambito della quale nacque il gruppo
armato Gia, che poi evolvendosi diventò nel 1997 il Gspc, ovvero il Gruppo
Salafita per la Predicazione ed il Combattimento. Le pressioni dell’apparato di
sicurezza algerino, uno dei più potenti di questa sub regione - i cui
appartenenti si avvalevano anche di mezzi 'poco ortodossi' come esecuzioni
extragiudiziarie, rapimenti, sparizioni di oppositori - determinarono la
fuoriuscita dal Paese di una considerevole parte dei membri di gruppi
fondamentalisti ed eversivi. Questi individui si rifugiarono soprattutto nelle
zone di frontiera fra Algeria, Mauritania e Niger, evitando di andare verso la
Libia, o altri Stati del Nord-Africa mediterraneo in quanto questi
Paesi erano maggiormente attrezzati per il loro respingimento; diversamente la
Mauritania, il Niger e il Mali non avevano le risorse umane e tecnologiche per
un adeguato controllo transfrontaliero. Probabilmente in queste regioni si è
sviluppato uno dei primi e più importanti nuclei originari di Boko Haram. Boko
Haram in lingua Hausa (l’idioma maggiormente diffuso in Nigeria del Nord
e in Niger) può essere tradotto 'l'educazione occidentale è sacrilega'. Questo
nome evidenzia l’obiettivo della setta fondamentalista, cioè quello di attuare
una dura opposizione alla cultura occidentale ritenuta corruttrice della
purezza dell’Islam. Per il suo carattere regionale Boko Haram non può essere
associato al jihadismo globale dell’Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb Islamico)
o di Al Shabab in Somalia. Anche i rapporti del movimento con il terrorismo
internazionale non sono mai stati sufficientemente provati. L’incerta linea
gerarchica, la struttura poco chiara, la divisione in fazioni, una catena di
comando non univoca, si traducono in un problema di rappresentatività che rende
difficili eventuali ‘contatti costruttivi’ e trattative con le istituzioni
governative nigeriane. La particolare acredine del movimento nei confronti
della cristianità probabilmente è dovuta anche alla fede (cristiana) di
Goodluck Ebele Jonathan, Presidente del Paese dal 2010 al 2015. I membri
di Boko Haram per il loro violento integralismo vengono anche definiti da una
parte della stampa internazionale i 'talebani nigeriani'. Boko Haram, lo scorso
anno ha compiuto un importante salto qualitativo: da gruppo eversivo locale
aderendo all'Isis è divenuto parte dell'inquietante progetto dello Stato
Islamico di ricostituzione del Califfato. Nel 2012 il governo nigeriano ha
proclamato lo stato di emergenza in alcune regioni del Paese, militarizzandole
con la presenza di migliaia di soldati; ma questo non ha impedito a Boko Haram
di estendere il suo controllo su alcune aree nord-orientali della
Nigeria. Gli attacchi del movimento jihadista sono proseguiti negli anni
successivi, anche attraverso assalti kamikaze eseguiti da bambini, avendo come
obiettivo interi villaggi - 'privilegiando' massacri in scuole e in chiese - e
compiendo rapimenti di massa, come quello di 276 studentesse di Chibok dell’aprile
2014, o quello del marzo 2015 a Damasak di cui furono vittime più di
cinquecento persone. Molti analisti, in relazione al numero e alla violenza
delle iniziative terroristiche e alla moltitudine delle persone trucidate,
considerano il livello di pericolosità del movimento superiore anche a quello
dell'Isis. È sempre più inquietante l'impiego, come attentatori suicidi - dopo
un mirato addestramento - di bambini e di giovani donne rapite e costrette a
convertirsi all'Islam. Un sito specializzato nell'analisi del terrorismo, Long
War Journal, ha stimato che nel 2014 almeno 105 elementi fra donne e
bambini sono stati 'usati' da Boko Haram per compiere attacchi suicidi (in
Nigeria e zone limitrofe). RR
L'EGITTO DEL CASO REGENI (11-4-2016)
Il caso Regeni ha riportato al centro dell'attenzione
l'attuale situazione interna dell'Egitto. L'Egitto è un Paese che ha sempre
avuto un'importanza strategica particolare negli equilibri mediorientali; negli
ultimi anni ha subito dei grandi mutamenti politici che hanno cambiato la sua
storia e sovvertito alcuni consolidati equilibri. Lo scenario egiziano è
costantemente stato caratterizzato da componenti contrapposte, e, segnatamente,
dal potere dei militari, da sempre molto influenti nei momenti cruciali del
Paese, dal potere dei fondamentalisti islamici, dalla mediazione del
blocco laico. Nel febbraio del 2011, a seguito delle imponenti manifestazioni a
Piazza Tahir, al culmine di quella primavera egiziana che è stata parte di
quella più generale primavera i cui moti di rivolta, di carattere laico,
iniziati in Tunisia alla fine del 2010, sono poi proseguiti con effetto
domino in altri Paesi Arabi, veniva deposto il presidente Hosni Mubarak.
Archiviato il regime autocratico e corrotto di Mubarak, che aveva afflitto la
popolazione con povertà, soprusi e disoccupazione, i militari, hanno
inizialmente mostrato l’aspetto di un potere garante di quelle istanze di
democraticità, di progresso, di libertà e di giustizia, che la classe media
emergente reclamava nelle manifestazioni di piazza. Furono indette libere
elezioni che portarono al potere Mohamed Morsi, esponente della Fratellanza
Musulmana. Il presidente Morsi intraprese una politica autoritaria reprimendo
le proteste e sottoponendo giudizio davanti a tribunali migliaia di oppositori.
In concreto, le parti laiche che avevano animato la rivoluzione,
progressivamente sono uscite di scena, cedendo il passo alle istanze
autoritarie e fondamentaliste, che hanno consentito a Mohamed Morsi,
primo presidente civile e islamico dell'Egitto democraticamente eletto,
l’autoattribuzione di poteri che conferivano una particolare forza alle sue
iniziative istituzionali e lo rendevano immune da controlli giurisdizionali. La
reazione della componente laica ha contribuito a spingere l’esercito alla
destituzione e all'arresto di Morsi: un vero golpe se si considera che - come
detto in precedenza - il Presidente aveva conseguito questa carica a
seguito di libere elezioni. È iniziata un'altra fase di transizione che si è
conclusa nel maggio del 2014 con l'elezione del generale Al Sisi, esponente
delle forze armate. Successivamente, al fine di stroncare l’opposizione
fondamentalista islamica, i militari cedettero alla tentazione di mettere al
bando il movimento della Fratellanza Musulmana, che lottava per il ritorno di
Morsi e che manteneva il suo ascendente su parte della popolazione e su
molte istituzioni sociali. Questa iniziativa si è rivelata un errore perché di
fatto ha cancellato la fragile demarcazione fra fondamentalismo e
terrorismo, ed ha spinto le frange estreme della Fratellanza verso una deriva
eversiva. Per la sua lotta non solo alla Fratellanza musulmana, ma a tutte le
componenti jihadiste l'Egitto di Al Sisi ha assunto rapidamente un'importanza
centrale nell'attuale scenario geopolitico. La lotta al terrorismo si svolge su
due piani. Innanzitutto si articola su un piano culturale, spingendo
l'Università e la moschea di Al Azhar, che hanno sede al Cairo e sono i
principali centri d'insegnamento religioso dell'Islam sunnita, a promuovere
un'interpretazione politicamente moderata della religione musulmana. Su un
piano militare, il contrasto del terrorismo si realizza mediante iniziative
repressive contro i gruppi violenti in Sinai e nel resto del Paese. Si deve anche
considerare che l'Egitto è uno dei pochi Paesi arabi che ha rapporti con
Israele. Per questi aspetti e per il suo carattere moderato in questo momento
la nazione egiziana è un fondamentale interlocutore per l'occidente, un
possibile ponte verso il mondo arabo. Tuttavia, nonostante il generale Al Sisi
sia un uomo di potere particolarmente solido, non sembra che il Paese e
l'apparato di governo siano completamente sotto il suo controllo. Infatti, la
forte impronta autoritaria del regime è significativamente indebolita
dall'ostilità dei Fratelli Mussulmani, messi frettolosamente al bando per il
pericolo che favorissero una forte islamizzazione del Paese. La gestione della
collaborazione fra autorità italiane e maestranze egiziane per l'accertamento
delle responsabilità per la morte del ricercatore italiano quindi si colloca
anche nel contesto di questi delicati equilibri interni. RR
LA MAPPA DEL TERRORISMO ISLAMICO - 4. DA AL
QAEDA ALL'ISIS (4-4-2016)
Prima di analizzare gli altri movimenti di matrice islamista
si impone un'ulteriore riflessione sull'evoluzione del terrorismo da Al Qaeda
all'Isis. L'Isis non è un'organizzazione terroristica in senso tradizionale,
strutturata in un apparato gestito in maniera gerarchica da un vertice di tipo
politico-militare, con adepti che hanno come riferimento un più noto
organismo, come potrebbe essere Al Qaeda. L'Isis è qualcosa di più, è uno stato
terrorista, con forme elementari di governo sui territori nei quali esercita il
suo potere imponendo regole particolarmente rigide; mentre coltiva il sogno di
un'espansione nel nome di Allah nel Maghreb, e dalla Spagna all'Estremo
Oriente, includendo tutta la Penisola Arabica, conferisce concretezza ad un
modello. Al momento lo Stato Islamico si estende su alcune zone della Siria e
dell'Iraq, mentre sta progressivamente aumentando la sua sfera di influenza in
Libia al punto di voler trasferire la sua capitale da Rakka (in territorio ex
siriano) a Sirte. Dispone di un esercito formato da miliziani locali e da oltre
30.000 foreign fighters. Nella conquista dei territori può valersi di
un'agile struttura caratterizzata da unità mobili che nella conquista di
nuovi territori stabiliscono un controllo preliminare parziale seguito da un
controllo successivo totale, nel quale si radica la sua presenza stabilendo
forme elementari di governo. L'Isis articola queste iniziative 'di conquista'
in distinte fasi. Valendosi di un'intelligence che si è formata alle dipendenze
di Saddam Hussein, individua le tribù e i clan che possano sostenere la sua
azione e i gruppi potenzialmente nemici; successivamente infiltra propri uomini
nel tessuto sociale locale, prima nei quartieri periferici poi nei grandi
agglomerati. Segue un'attività di propaganda e di proselitismo, che si
consolida attraverso iniziative di welfare: il neo istaurato Stato
Islamico aiuta chi ha perso un lavoro fornendo un'occupazione e un
salario, acquista terre e bestiame da allevatori poveri, ristruttura strade ed
edifici, crea enti assistenziali per orfani o persone che necessitano di aiuto,
pensa a cibo e a medicine, finanziandosi con l'imposizione di tasse oltre agli
altri noti introiti. In questo modo lo Stato Islamico diviene per la
popolazione locale un apparato necessario: da questo momento rivela il suo
reale volto di regime rigidissimo interprete di un Islam fondamentalista.
Viene messa al bando qualsiasi attività che possa offendere il Corano: è
vietato fumare - anche il tradizionale narghilè -, non è possibile consumare
alcool e qualsiasi tipo di droga; è proibita qualsiasi forma d'Arte per
il rischio che venga violata la più integralista iconoclastia; viene
attuato un controllo rigidissimo su cibo e farmaci al fine di evitare che
possano essere considerati impuri; è interdetto qualsiasi prodotto che venga
dall'occidente. Il rispetto della Sharia è assicurato dai vigili controlli
della Hisba, la polizia religiosa che opera per garantire vigenza al diritto
islamico, e si avvale anche di improvvisati pubblici processi che applicano,
nel caso di violazioni, 'esemplari' sanzioni che possono consistere
nell'uccisione, in gravi mutilazioni, in frustate. Sembra che nell'area siriana
e zone limitrofe dalla proclamazione dello Stato Islamico ad oggi siano stati
giustiziati più di 2000 civili. Il Web, sottoposto ad un rigido controllo, è un
fondamentale strumento di propaganda 'esterna'. Attraverso il Web vengono
trasmessi martellanti messaggi di morte; le immagini dell'abbattimento
dell'aereo russo, degli attentati di Parigi, dei fatti di Bruxelles sono la
macabra pubblicità in Rete della sfida che lo Stato Islamico ha lanciato
all'Occidente. Queste azioni hanno il chiaro fine di creare uno stato di
insicurezza, di minare la solidità del nostro vivere quotidiano, di
costringerci alla costante paura di un attentato e, nello stesso tempo,
facilitano il reclutamento di foreign fighters, basato sulla
fascinazione dell'immaginario di giovani emarginati, che si sentono privi di
futuro e vittime di contesti di crisi e di depressione economica. Questa
propaganda virtuale si avvale di una persuasione motivazionale e ideologica,
soprattutto attraverso la retorica della guerra all'occidente e dell'eroismo
dei Kamikaze, che spinge questi giovani, che percepiscono positivamente questi
messaggi di ferocia e di violenza, ad unirsi ai combattenti jihadisti. In
proposito, alla fine dello scorso anno è stato pubblicato dall'analista Charlie
Winter un interessante documento, 'Documenting the Virtual Caliphate'
(disponibile in Rete - http://www.quilliamfoundation.org/wp/wp-content/uploads/2015/10/FINAL-documenting-the-virtual-caliphate.pdf)
che spiega i meccanismi di propaganda 'virtuale' del Califfato. Dalle
considerazioni anzidette si evince che la guerra all'Isis, come ha precisato il
criminologo Arije Antinori, non si esaurisce in iniziative belliche ma
richiede il contrasto di una 'cultura'. Il proselitismo interno è capillare,
non risparmia - opportunamente adattato - nemmeno i bambini, futuri miliziani.
Le pratiche di addestramento militare sono durissime. L'arsenale è costituito
soprattutto dalle armi sottratte all'esercito siriano e a quello iracheno;
probabilmente è alimentato anche dal traffico di armi che transita per Paesi,
come la Turchia e l'Arabia Saudita, che hanno un atteggiamento ambiguo nei
confronti dell'Isis, non coerente con l'ufficiale condanna. Alle armi
tradizionali si aggiunge l'uso di attentatori suicidi, il prodotto del fatto
che l'Isis non ha solo il controllo di territori, ma anche quello di
persone che arrivano ad immolarsi per la causa dell'Islam. In proposito, va precisato
che il martirio per l'Islam non è un dovere, ma è una testimonianza di fede
estrema, per cui chi si sottrae ad esso non è considerato un apostata. A
sottolineare la rilevanza di questo fenomeno, si sottolinea che nella settimana
dell'attentato a Bruxelles ci sono state 41 operazioni portate avanti da
'kamikaze'. Non solo in Belgio, ma anche in Siria, in Iraq, nel Sinai. RR
IL RUOLO DI EUROPOL NELLA LOTTA AL TERRORISMO
(31-3-2016)
Le recenti tragiche vicende in Belgio relative agli attentati
si matrice jihadista consumati a Bruxelles hanno evidenziato la necessità di un
maggiore coordinamento fra le forze di polizia e l'intelligence dei Paesi
europei, di un più intenso scambio delle informazioni di cui dispongono, del
raggiungimento di un livello di professionalità più elevato. In proposito,
l'istituzione di Europol, che è l'agenzia comunitaria che
supporta i Paesi membri dell'Unione Europea nel combattere le forme più gravi
di criminalità internazionale e il terrorismo, è strumentale a questi scopi.
Europol è un organismo di impronta intergovernativa in quanto non
espropria le competenze delle polizie nazionali ma si limita a facilitarne la
cooperazione, a gestire database nei quali dovrebbero confluire le specifiche
informazioni sensibili di cui dispongono i competenti uffici nazionali, a
elaborare 'best practices' che dovrebbero elevare e fissare su un comune
livello superiore lo standard professionale delle strutture investigative
nazionali. I database sono anche oggetto di attente e mirate attività di
analisi. Recentemente le capacità di Europol nel contrasto del terrorismo sono
state incrementate con la creazione del Centro Europeo Antiterrorismo (ECTC)
che dovrebbe potenziare la condivisione di informazioni e il coordinamento operativo
- anche con distacco di esperti presso specifiche realtà nazionali -, con
particolare attenzione al fenomeno dei 'foreign fighters', al traffico illecito
di armi, al finanziamento delle attività criminali. Europol ha notevoli
potenzialità, ha strumenti sofisticati nella raccolta e per l'analisi delle
informazioni, ed è già pronto alla futura gestione - quando saranno rimossi gli
ostacoli normativi - degli importantissimi 'PNR' (i dati sui passeggeri dei
voli internazionali). Tuttavia il limite concreto è rappresentato dal fatto che
l'efficacia dell'azione di Europol richiede il supporto degli Stati membri. Ad
esempio, l'utilità dei database di cui dispone l'ufficio europeo dipende dalla
quantità e dalla qualità dei dati che i competenti uffici nazionali forniscono,
come anche le opportunità operative offerte dall'agenzia europea sono attivate
liberamente dalle polizie nazionali. Se non fosse così si limiterebbe
l'autonomia delle polizie dei Paesi membri, e questo non è possibile in quanto,
come detto in un precedente commento, la materia della cooperazione operativa
di polizia non è stata oggetto di una comunitarizzazione, ovvero la sua
gestione non è stata trasferita alle istituzioni comunitarie. Per questo motivo
è del tutto improprio parlare, con enfasi giornalistica, di Europol come di una
specie di FBI europea. L'unica vera forza di polizia europea, in quanto dotata
di specifici e autonomi poteri di iniziativa nelle indagini, è l'OLAF, che però
si occupa esclusivamente della repressione dei reati relativi alle truffe sui
fondi comunitari. Eurojust, che dovrebbe coordinare i magistrati incaricati di
indagini su crimini che coinvolgono più Paesi europei, al momento ha scarse
potenzialità operative, limitandosi ad un coordinamento burocratico; inoltre non
vi è un reale collegamento operativo fra Europol, come organo di coordinamento
delle attività di polizia e Eurojust, come organo di coordinamento giudiziario.
Alle dipendenze dell'Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di
sicurezza, opera l'organismo EuIntCen che tuttavia si limita alla raccolta di
informazioni classificate. Probabilmente un'esigenza di coordinamento esiste
anche fra questi enti comunitari di settore. In conclusione, l'Unione Europea
dispone di efficaci strumenti che tuttavia devono essere potenziati; quindi non
necessita di nuove strutture. In particolare, è opportuna una ricognizione
sulle potenzialità di Europol, perfezionandone gli strumenti di cui dispone o
prevedendone altri più mirati, e rendendo più incisivo il collegamento
operativo fra questa agenzia europea e gli Stati membri, chiamati ad una più
intensa e stretta collaborazione anche qualora questa comporti il sacrificio di
parte della propria sovranità. In altri termini, l'Europa è pronta anche se
deve implementare gli strumenti di cui dispone. Le polizie degli Stati membri,
attraverso un maggiore coordinamento centrale, devono invece migliorare la
propria efficienza e devono aprirsi ad una maggiore collaborazione, ritrovando
quello spirito che li aveva animati nel comune interesse fin dall'esperienza
dell'accordo 'Trevi', e che ha consentito traguardi che allora sembravano
irraggiungibili. RR
E' POSSIBILE UN MINISTRO DELL'INTERNO EUROPEO?
(30-3-2016)
Tra le tante proposte per combattere il terrorismo di matrice islamica in alcuni 'media' è stata formulata anche quella di istituire 'un unico ministro dell'interno europeo'. Il tema non è nuovo. La questione della creazione di organi centrali europei per la repressione dei reati e dei loro relativi poteri - che generalmente comportano limitazioni delle sovranità nazionali in quanto impongono forme di collaborazione forzata - ha sempre avuto un'importanza centrale. Per verificare la fattibilità e l'opportunità di questa opzione, è necessario ripercorrere le tappe della storia della cooperazione di polizia fra gli Stati europei e considerare quanto prescrivono attualmente le norme del Trattato sull'Unione Europea vigenti in materia, che delineano normativamente il quadro entro il quale deve essere contenuta ogni nuova iniziativa. Una cooperazione europea di polizia fu avviata da alcuni Stati nel 1976 mediante un accordo denominato 'Trevi', che si avvaleva di una rete di rappresentanti dei ministri della giustizia e degli affari interni. Ancora non esisteva l'Unione Europea e quindi si trattava di una collaborazione strutturata su un accordo intergovernativo, cioè fondata sui reciproci impegni delle parti contraenti. Un'organizzazione intergovernativa - come era quella creata dall'accordo Trevi - non prevede l'istituzione di organi sovranazionali e ogni decisione pertanto viene presa all'unanimità. Si comprende facilmente come in questo ambito sia sempre difficoltosa l'adozione di determinazioni, in quanto è sufficiente il veto di un solo Stato per bloccare una proposta. L'accordo 'Trevi' inizialmente era finalizzato a coordinare l'azione dei governi europei nella lotta al terrorismo, ma successivamente fu esteso a molte altre questioni di polizia, soprattutto quelle di carattere transfrontaliero. Con la creazione dell'Unione Europea con il Trattato di Maastricht nel 1992 (in vigore dal novembre 1993), le politiche comuni vennero divise in tre aree denominate 'pilastri'. L'Unione Europea è un ente con una personalità giuridica distinta da quella degli Stati membri, i quali, pertanto, con la firma del Trattato hanno accettato di limitare la loro sovranità. Tecnicamente questo avviene attraverso 'la comunitarizzazione'. Con il metodo comunitario, che costituisce la regola generale, le decisioni sono adottate attraverso una procedura che prevede l'uso del voto a maggioranza qualificata. Tuttavia con il Trattato di Maastrich si mantenne il metodo intergovernativo per gli aspetti della politica estera e della cooperazione giudiziaria e di polizia, con la conseguenza che le relative delibere in materia dovessero essere adottate ancora all'unanimità, tenendo presente la necessità di rispettare le diverse peculiarità nazionali, che ogni Stato pertanto, con l'eventuale esercizio del veto, poteva tutelare bloccando una decisione. La cooperazione di polizia quindi venne destinata ad uno specifico pilastro, il terzo, sottraendola al processo di 'comunitarizzazione', che avrebbe invece comportato il totale trasferimento della politica del settore alle istituzioni comunitarie, creando un unico sistema per tutti i Paesi. Per agevolare la collaborazione fra 'law enforcement' degli Stati membri, si è sempre perseguita la progressiva riduzione delle differenze nazionali nella struttura degli apparati giudiziari e di polizia e nelle normative penali sostanziali e procedurali. Con il Trattato di Lisbona, per rafforzare l'azione dell'Unione Europea, vennero aboliti i tre pilastri. Tuttavia, sussistendo l'opportunità di garantire l'autonomia dell'azione degli Stati membri nel settore della giustizia e di polizia, il metodo intergovernativo è stato mantenuto per quanto riguarda la cooperazione operativa, in questi termini: "Il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale, può stabilire misure riguardanti la cooperazione operativa.......Il Consiglio delibera all'unanimità previa consultazione del Parlamento europeo..... " (art 87, Capo V, Titolo V - Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea). Pertanto, la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, sebbene sia stata integrata nel regime di diritto comune, continua a valersi dell’applicazione di procedure particolari in cui gli Stati membri conservano poteri importanti. In conclusione allo stato attuale si deve escludere la previsione di un organo centrale che possa assorbire le competenze degli Stati espropriando le sovranità nazionali. Da un punto di vista formale un vertice cogente (come un ministro europeo) è escluso dalla sopravvivenza del metodo intergovernativo, in quanto un organo centrale con pieni poteri presupporrebbe la completa comunitarizzazione della materia, mentre da un punto di vista sostanziale appare opportuno mantenere, pur nella massima implementazione della cooperazione di polizia (ad esempio rafforzando Europol o prevedendo nuovi mezzi), l'autonomia delle forze nazionali. RR
Tra le tante proposte per combattere il terrorismo di matrice islamica in alcuni 'media' è stata formulata anche quella di istituire 'un unico ministro dell'interno europeo'. Il tema non è nuovo. La questione della creazione di organi centrali europei per la repressione dei reati e dei loro relativi poteri - che generalmente comportano limitazioni delle sovranità nazionali in quanto impongono forme di collaborazione forzata - ha sempre avuto un'importanza centrale. Per verificare la fattibilità e l'opportunità di questa opzione, è necessario ripercorrere le tappe della storia della cooperazione di polizia fra gli Stati europei e considerare quanto prescrivono attualmente le norme del Trattato sull'Unione Europea vigenti in materia, che delineano normativamente il quadro entro il quale deve essere contenuta ogni nuova iniziativa. Una cooperazione europea di polizia fu avviata da alcuni Stati nel 1976 mediante un accordo denominato 'Trevi', che si avvaleva di una rete di rappresentanti dei ministri della giustizia e degli affari interni. Ancora non esisteva l'Unione Europea e quindi si trattava di una collaborazione strutturata su un accordo intergovernativo, cioè fondata sui reciproci impegni delle parti contraenti. Un'organizzazione intergovernativa - come era quella creata dall'accordo Trevi - non prevede l'istituzione di organi sovranazionali e ogni decisione pertanto viene presa all'unanimità. Si comprende facilmente come in questo ambito sia sempre difficoltosa l'adozione di determinazioni, in quanto è sufficiente il veto di un solo Stato per bloccare una proposta. L'accordo 'Trevi' inizialmente era finalizzato a coordinare l'azione dei governi europei nella lotta al terrorismo, ma successivamente fu esteso a molte altre questioni di polizia, soprattutto quelle di carattere transfrontaliero. Con la creazione dell'Unione Europea con il Trattato di Maastricht nel 1992 (in vigore dal novembre 1993), le politiche comuni vennero divise in tre aree denominate 'pilastri'. L'Unione Europea è un ente con una personalità giuridica distinta da quella degli Stati membri, i quali, pertanto, con la firma del Trattato hanno accettato di limitare la loro sovranità. Tecnicamente questo avviene attraverso 'la comunitarizzazione'. Con il metodo comunitario, che costituisce la regola generale, le decisioni sono adottate attraverso una procedura che prevede l'uso del voto a maggioranza qualificata. Tuttavia con il Trattato di Maastrich si mantenne il metodo intergovernativo per gli aspetti della politica estera e della cooperazione giudiziaria e di polizia, con la conseguenza che le relative delibere in materia dovessero essere adottate ancora all'unanimità, tenendo presente la necessità di rispettare le diverse peculiarità nazionali, che ogni Stato pertanto, con l'eventuale esercizio del veto, poteva tutelare bloccando una decisione. La cooperazione di polizia quindi venne destinata ad uno specifico pilastro, il terzo, sottraendola al processo di 'comunitarizzazione', che avrebbe invece comportato il totale trasferimento della politica del settore alle istituzioni comunitarie, creando un unico sistema per tutti i Paesi. Per agevolare la collaborazione fra 'law enforcement' degli Stati membri, si è sempre perseguita la progressiva riduzione delle differenze nazionali nella struttura degli apparati giudiziari e di polizia e nelle normative penali sostanziali e procedurali. Con il Trattato di Lisbona, per rafforzare l'azione dell'Unione Europea, vennero aboliti i tre pilastri. Tuttavia, sussistendo l'opportunità di garantire l'autonomia dell'azione degli Stati membri nel settore della giustizia e di polizia, il metodo intergovernativo è stato mantenuto per quanto riguarda la cooperazione operativa, in questi termini: "Il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale, può stabilire misure riguardanti la cooperazione operativa.......Il Consiglio delibera all'unanimità previa consultazione del Parlamento europeo..... " (art 87, Capo V, Titolo V - Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea). Pertanto, la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, sebbene sia stata integrata nel regime di diritto comune, continua a valersi dell’applicazione di procedure particolari in cui gli Stati membri conservano poteri importanti. In conclusione allo stato attuale si deve escludere la previsione di un organo centrale che possa assorbire le competenze degli Stati espropriando le sovranità nazionali. Da un punto di vista formale un vertice cogente (come un ministro europeo) è escluso dalla sopravvivenza del metodo intergovernativo, in quanto un organo centrale con pieni poteri presupporrebbe la completa comunitarizzazione della materia, mentre da un punto di vista sostanziale appare opportuno mantenere, pur nella massima implementazione della cooperazione di polizia (ad esempio rafforzando Europol o prevedendo nuovi mezzi), l'autonomia delle forze nazionali. RR
Il ruolo delle joint
investigation teams (le squadre investigative comuni) nella lotta al terrorismo
in Europa (28-3-2016)
Come si è detto in un precedente post, lo
scambio di informazioni in materia di terrorismo in ambito comunitario - di
cui si parla molto in questi giorni come punto critico della cooperazione
di polizia - seppur previsto e codificato in numerosi documenti, presenta
profili molto problematici nella sua attuazione concreta che ne limitano fortemente
l'efficacia. Si è detto che i limiti dello scambio di notizie sensibili 'a
distanza' fra organi collaterali di 'intelligence' di diversi Paesi può essere
superato attraverso esperienze operative comuni, ovvero mediante il
coinvolgimento diretto di operatori di polizia in una medesima specifica
attività investigativa. Lavorare insieme, infatti, facilita la conoscenza e
conseguentemente accresce quella fiducia reciproca che consente di
superare le remore e i timori di una asettica e formale cooperazione 'a
distanza'. In proposito, a conferma che la collaborazione fra le forze di
polizia dei Paesi europei piuttosto che di nuovi strumenti ha necessità di
una implementazione di quelli già esistenti, in questo ambito è previsto
uno strumento che prevede questo tipo di esperienza operativa. Si tratta
delle squadre investigative comuni (joint investigation teams). Le squadre
investigative comuni sono state originariamente previste da una decisione
quadro del Consiglio dell'Unione Europea del 2002. L'Atto stabilisce che,
al fine di condurre indagini che esigono un'azione coordinata e concertata
negli Stati membri in ambiti specifici, due o più Stati possono costituire per
una durata limitata, delle squadre investigative, composte da autorità
giudiziarie e/o di polizia. Gli Stati membri interessati sono responsabili
della composizione, delle finalità e della durata del mandato della squadra
investigativa, che può avvalersi della collaborazione di rappresentanti di
Europol, di Olaf o di Stati terzi. Le squadre, sebbene ipotizzate per
contrastare una lunga serie di reati, sono particolarmente idonee a combattere
il terrorismo, il traffico di stupefacenti, la tratta di esseri umani.
Nel 2011 il Consiglio dell'Unione Europea ha aggiornato un manuale che ha
come obiettivo quello di informare gli operatori circa le basi
giuridiche, i requisiti per la costituzione di questi team, e di dare
indicazioni sulle occasioni in cui può essere proficuo avvalersene (Il Manuale
può essere consultato a questo indirizzo - http://www.statewatch.org/news/2011/nov/eu-council-jit-manual-15790-rev1-11.pdf).
Le squadre investigative comuni apportano un altro valore aggiunto. In
precedenza nella repressione transnazionale dei reati è stata riscontrata anche
questa difficoltà: la cooperazione internazionale ha sempre coinvolto
principalmente le forze di polizia (si pensi in particolare ad Europol e a
Interpol). Conseguentemente queste attività investigative non sempre si
sono coordinate con le iniziative degli apparati giudiziari nazionali; questo
'scollamento' generalmente può produrre da un punto di vista pratico
ripercussioni negative nella repressione degli illeciti, in quanto spesso gli
apparati giudiziari, destinatari finali delle risultanze investigative, non se
ne sono potuti avvalere positivamente. Le squadre investigative invece
possono avere in sé sia la componente più prettamente investigativa ed
operativa che quella giudiziaria, cosicché le forze di polizia possono
pienamente svolgere il ruolo di 'braccio' operativo di un'attività giudiziaria.
Naturalmente anche una maggiore efficienza di Eurojust e una corretta
applicazione del mandato di arresto europeo contribuiscono ad una reciproca
integrazione fra le attività investigative (con valenza preventiva e
repressiva) e quelle degli organi giudiziari chiamati soprattutto a facilitarne
la finalizzazione pratica. Naturalmente questi strumenti potranno essere
migliorati rendendoli maggiormente idonei all'obbiettivo di prevenire e
reprimere il terrorismo. Ma l'implementazione degli istituti per
aggiornarli al fine di renderli maggiormente adeguati agli scopi che si
propongono è implicita in ogni decisione comunitaria. RR
LA MAPPA DEL TERRORISMO ISLAMICO - 3. LA COMUNE
STRATEGIA DEGLI ATTENTATI SUICIDI (26-3-2016)
I recenti gravi fatti di Bruxelles hanno tragicamente
reso di nuovo attuale la questione del terrorismo suicida. Com'è noto,
l’attività terroristica determina una situazione di guerra definita asimmetrica
per sottolineare il suo carattere non convenzionale, in quanto in essa non si
contrappongono due eserciti, espressione di realtà nazionali, strutturati in
forma rigidamente piramidale, che si avvalgono di armamenti e mezzi bellici
tradizionali. I movimenti terroristici infatti diversamente dalle forze armate
di uno Stato, sono organizzazioni clandestine, che per i loro fini ricorrono
anche a iniziative – come dirottamenti, attentati, omicidi, stragi, rapimenti,
sabotaggi – che in genere non si riscontrano comunemente in contingenze
belliche ordinarie. Il terrorismo di matrice islamica, oltre ai mezzi appena
menzionati, utilizza un’arma che è di grande efficacia nel diffondere terrore
in maniera indiscriminata in virtù della sua imprevedibilità e della difficoltà
a contrastarne gli effetti: si tratta dell’impiego di individui imbottiti di
esplosivo che si fanno detonare presso un obiettivo sensibile - come la
stazione della metro di Maalbeek o l'aeroporto di Zaventem a Bruxelles -
causando gravi danni alla comunità civile. Il fenomeno del terrorismo
suicida viene considerato analogo a quello dei kamikaze, i piloti giapponesi
(prevalentemente di aerei), che durante la Seconda Guerra Mondiale procuravano
ingenti perdite ai nemici attraverso l’esplosione del proprio mezzo. I kamikaze
giapponesi erano motivati da un forte sentimento patriottico: l’appartenenza
allo Stato nipponico radicava in loro il dovere etico di difendere la comunità
dei connazionali con ogni mezzo, anche estremo come il sacrificio della vita.
Peraltro questa condotta, oltre ad arrecare onore e prestigio alla propria
famiglia, era una via che per l’alto valore morale si riteneva conducesse alla
pace eterna. I kamikaze erano parte integrante dell’esercito regolare
giapponese e operavano nel contesto di una guerra convenzionale; corollario del
carattere segnatamente bellico delle loro iniziative era la volontà di
progettare queste azioni in maniera da evitare che nell’esplosione
venissero coinvolti obiettivi civili. Premessi questi aspetti, non sembra che
ci siano molti punti di contatto fra il suicidio dei kamikaze e il sacrificio
dei terroristi fondamentalisti. Gli atti suicidi con finalità terroristiche
sono generalmente considerati monopolio della cultura religiosa, in particolare
islamica. Infatti siamo abituati a ritenere che i fedeli islamici siano più
versati al martirio e al sacrificio della propria vita rispetto agli
appartenenti ad altre religioni o culture. Tuttavia, in epoca moderna gli
attentati suicidi per la prima volta sono stati attuati da terroristi di
estrazione laica, ovvero le Tigri Tamil operanti in India. È controversa la
relazione fra il sacrificio della vita in nome dell’Islam e i conseguenti
privilegi che garantirebbe Allah in Paradiso. In proposito il Corano considera
la vita sempre sacra e inviolabile e pertanto in linea di massima non giudica
lecita nessuna forma di suicidio. Tuttavia il Corano obbliga i fedeli al
cosiddetto 'Jihad difensivo': ogni musulmano ha il dovere di difendere le terre
dell’Islam dall’attacco di infedeli o liberarle dalla loro presenza. Uno
studioso americano, Robert Pape, analizzando gli attacchi suicidi relativamente
a decenni recenti ha rilevato empiricamente che il loro incremento esponenziale
non è causato dalla crescita del fondamentalismo religioso o dall’acuirsi di
contingenze socio-economiche, ma è correlato alla percezione dei terroristi
islamici che il proprio Stato si trovi in una condizione di occupazione o di
dipendenza militare o anche soltanto ideologica da parte di una potenza
straniera. In proposito, per occupazione non si deve intendere soltanto
l’insediamento straniero in un territorio, ma anche la semplice presenza di una
potenza occidentale che intende interferire con la cultura locale o imporre la
propria. Questa condizione di asservimento è avvertita come una situazione in
grado di snaturare la società islamica; per questo genera nel fedele il dovere
di attivarsi per contrastare questo pericolo, supposto o reale. Si è anche
rilevato che spesso la nazionalità dei terroristi suicidi è quella di un Paese
che ospita truppe provenienti da Paesi occidentali come, ad esempio, l’Arabia
Saudita. Quindi si è dedotto empiricamente che l’iniziativa suicida sembra
essere una reazione (piuttosto che un’azione) strumentale alla difesa della
terra dell'Islam; conformemente all'istituto del 'Jihad difensivo' prescritto
dal Corano, la consapevolezza dell’occupazione del proprio territorio nazionale
richiede al fedeli di attivarsi. Analogamente si è anche riscontrato che,
quando l’atto è compiuto dal terrorista al di fuori del territorio di nascita o
provenienza, la nazionalità del terrorista è in linea di massima quella di un
Paese il cui territorio è oggetto di presenza o di attacco da parte di un Paese
occidentale. Si tratta di rilevamenti statistici ed empirici che tuttavia
forniscono indicazioni sulle motivazioni consapevoli o inconsapevoli di questi
atti. Allo studioso americano Robert Pape va pertanto il merito di aver
inserito l’atto suicida nell’ambito di una logica strategica. Un interessante
contributo alla comprensione di questo fenomeno è fornita dal film palestinese
'Paradise Now' di Hany Abu-Assad, nel quale vengono esposte in dettaglio le
vicende di due giovani che sono scelti dalla comunità per compiere un attentato
suicida. RR
LA MAPPA DEL TERRORISMO ISLAMICO - 2. I
FINANZIAMENTI DELL'ISIS (25-3-2016)
Come si è detto nel precedente post, l'Isis gode di
grandissime disponibilità economiche, che così approssimativamente sono state
stimate:
·
dal commercio del petrolio (molti giacimenti che l'Isis controlla sono in
territorio ex-iracheno) provengono 480 milioni di dollari l'anno (429 milioni
di euro);
·
dalle tasse imposte in maniera quasi estorsiva sui residenti nei territori
occupati (parte della Siria, parte dell'Iraq, ma anche parte della Libia - si
tratta di circa 8 milioni di persone) provengono 48 milioni di dollari al mese
(42,9 milioni di euro);
·
dalle estorsioni a cui sono sottoposti commercianti, professionisti,
camionisti, cittadini, provengono 20 milioni di dollari l'anno (17,8 milioni di
euro);
·
dal contrabbando delle opere d'arte, trafugate soprattutto dai siti
archeologici siriani, provengono 100 milioni di dollari l'anno (89,3 milioni di
euro);
·
da donazioni di soggetti pubblici e privati di carattere religioso sunnita nel
biennio 2013 - 2014 sono giunti 40 milioni di dollari (35,7 milioni di euro).
Forse ingenti e imprecisati occulti finanziamenti
provengono da alcune monarchie del Golfo, seppur formalmente schierate nella
coalizione anti-Isis. Il Califfato ha un vero e proprio Ministero dell'Economia
che controlla e gestisce le entrate e le uscite. Inoltre le minoranze etniche e
religiose, cristiani compresi, per poter restare in quei territori sono
costretti a subire particolari vessazioni, anche economiche, conformemente a
quanto prescrive la Sharia con l'istituto della Dhimma. Si comprende facilmente
come l'interruzione di questi flussi finanziari, ancor più delle iniziative
militari, possa essere un fattore fondamentale nella sconfitta dello Stato
Islamico. In proposito il congelamento dei flussi finanziari ha avuto
un'importanza decisiva nel ridimensionamento di Al Qaeda. Tuttavia, poiché
l'Isis, diversamente da Al Qaeda, ha un territorio e degli abitanti, è
presumibile che un taglio alle fonti di finanziamento si tradurrebbe in una
catastrofe umanitaria, in quanto in concreto il sacrificio
economico ricadrebbe drammaticamente sulla popolazione. Non è una novità che la
gente comune paghi il prezzo diretto o indiretto delle folli iniziative di
pochi sconsiderati. RR
LO SCAMBIO DI INFORMAZIONI IN AMBITO EUROPEO NELLA
LOTTA AL TERRORISMO DOPO I TRAGICI FATTI DI BRUXELLES (24-3-2016)
Dopo i tragici fatti di Bruxelles, molti opinion maker, soprattutto politici e giornalisti, insistono sulla necessità di un maggiore scambio di informazioni fra i Paesi Membri dell'Unione Europea e sulla creazione di un organismo centrale di intelligence europeo, ovvero di una specifica procura. Sicuramente si tratta di due strade che è necessario percorrere, ma la problematica è molto ampia e antica, e si ha l'impressione che la maggior parte di coloro che ne parlano non ne conosca la reale portata. La cooperazione di polizia in ambito comunitario è sempre stata molto avanzata. In proposito nei documenti approvati nell'ambito dell'ex terzo Pilastro (quello che era deputato alle problematiche giudiziarie e di polizia) lo scambio di informazioni inerenti le attività di intelligence è sancito in maniera chiara e nei dettagli; tuttavia da un punto di vista pratico la collaborazione produce scarsi risultati, soprattutto per quanto riguarda la lotta al terrorismo. Innanzitutto si deve tener presente che i rapporti fra organismi di polizia di Stati diversi hanno una confidenzialità più formale - ovvero codificata - rispetto a quello che avviene nel contesto nazionale. Conseguentemente molte informazioni inerenti la prevenzione dell'eversione, poiché particolarmente sensibili e sfumate, sono scambiate con prudenza finché non siano accertate nella reale portata (e questo comporta una condivisione tardiva). Infatti è rischioso comunicare 'all'esterno' nell'urgenza notizie da verificare, in quanto questo può mettere in moto da parte dei collaterali organismi di Paesi stranieri iniziative di polizia che, se si rivelassero infondate, potrebbero essere fonte di responsabilità anche gravi. Si dice anche che esista una gelosia degli Stati circa le informazioni di polizia di cui dispongono. Questo avviene soprattutto per quelle notizie inerenti indagini in corso che impongono una particolare riservatezza e che potrebbero essere compromesse da una gestione che abbia come conseguenza una qualche forma di divulgazione. Aggiungo che spesso già all'interno di uno stesso ufficio di polizia nazionale non c'è una generale condivisione di notizie criminis, ovvero non tutti gli appartenenti sono messi al corrente di tutto, non solo per motivi di riservatezza operativa ma anche semplicemente di fiducia personale. Ci sono poi le legislazioni nazionali che possono essere un ostacolo concreto alla cooperazione in questo contesto. Non è di aiuto inoltre la mancanza di una nozione di terrorismo unanimemente condivisa a livello internazionale. Quindi gli ostacoli a ben vedere, sono 'culturali', non dipendono da una inefficienza europea, e possono essere superati attraverso una maggiore fiducia reciproca che può essere conseguita solo lavorando insieme. Anche una maggiore omogeneità strutturale e sostanziale fra gli apparati giudiziari e di polizia degli Stati membri sarebbe auspicabile. Ma pure in questo ambito si è fatto molto. Gli stessi problemi vanno superati per l'eventuale costituzione di un organismo centrale di intelligence europeo: è necessario che questo costituendo ente si possa avvalere dei flussi informativi di cui dispongono gli Stati membri, diversamente è destinato a non produrre risultati operativi significativi. Sicuramente Europol è un esempio concreto molto positivo da considerare come modello per meglio strutturare la lotta europea al terrorismo. In conclusione non è sufficiente creare organismi centrali o stabilire obblighi di collaborazione fra gli Stati, ma è necessario un salto culturale, sentirsi poliziotti europei e acquisire quella fiducia reciproca che può nascere solo dal lavoro congiunto (come nei già consolidati 'joint investigation teams') e dalla buona volontà degli Stati membri di superare le divisioni e la recrudescenza degli egoismi nazionali. Se vogliamo andare avanti sulla strada della cooperazione comunitaria - anche per una valutazione opportunistica conseguente ad una maggiore forza che deriva dall'unione - questa è l'unica via. L'Europa, prima di essere una entità politica, è una realtà culturale. RR
Dopo i tragici fatti di Bruxelles, molti opinion maker, soprattutto politici e giornalisti, insistono sulla necessità di un maggiore scambio di informazioni fra i Paesi Membri dell'Unione Europea e sulla creazione di un organismo centrale di intelligence europeo, ovvero di una specifica procura. Sicuramente si tratta di due strade che è necessario percorrere, ma la problematica è molto ampia e antica, e si ha l'impressione che la maggior parte di coloro che ne parlano non ne conosca la reale portata. La cooperazione di polizia in ambito comunitario è sempre stata molto avanzata. In proposito nei documenti approvati nell'ambito dell'ex terzo Pilastro (quello che era deputato alle problematiche giudiziarie e di polizia) lo scambio di informazioni inerenti le attività di intelligence è sancito in maniera chiara e nei dettagli; tuttavia da un punto di vista pratico la collaborazione produce scarsi risultati, soprattutto per quanto riguarda la lotta al terrorismo. Innanzitutto si deve tener presente che i rapporti fra organismi di polizia di Stati diversi hanno una confidenzialità più formale - ovvero codificata - rispetto a quello che avviene nel contesto nazionale. Conseguentemente molte informazioni inerenti la prevenzione dell'eversione, poiché particolarmente sensibili e sfumate, sono scambiate con prudenza finché non siano accertate nella reale portata (e questo comporta una condivisione tardiva). Infatti è rischioso comunicare 'all'esterno' nell'urgenza notizie da verificare, in quanto questo può mettere in moto da parte dei collaterali organismi di Paesi stranieri iniziative di polizia che, se si rivelassero infondate, potrebbero essere fonte di responsabilità anche gravi. Si dice anche che esista una gelosia degli Stati circa le informazioni di polizia di cui dispongono. Questo avviene soprattutto per quelle notizie inerenti indagini in corso che impongono una particolare riservatezza e che potrebbero essere compromesse da una gestione che abbia come conseguenza una qualche forma di divulgazione. Aggiungo che spesso già all'interno di uno stesso ufficio di polizia nazionale non c'è una generale condivisione di notizie criminis, ovvero non tutti gli appartenenti sono messi al corrente di tutto, non solo per motivi di riservatezza operativa ma anche semplicemente di fiducia personale. Ci sono poi le legislazioni nazionali che possono essere un ostacolo concreto alla cooperazione in questo contesto. Non è di aiuto inoltre la mancanza di una nozione di terrorismo unanimemente condivisa a livello internazionale. Quindi gli ostacoli a ben vedere, sono 'culturali', non dipendono da una inefficienza europea, e possono essere superati attraverso una maggiore fiducia reciproca che può essere conseguita solo lavorando insieme. Anche una maggiore omogeneità strutturale e sostanziale fra gli apparati giudiziari e di polizia degli Stati membri sarebbe auspicabile. Ma pure in questo ambito si è fatto molto. Gli stessi problemi vanno superati per l'eventuale costituzione di un organismo centrale di intelligence europeo: è necessario che questo costituendo ente si possa avvalere dei flussi informativi di cui dispongono gli Stati membri, diversamente è destinato a non produrre risultati operativi significativi. Sicuramente Europol è un esempio concreto molto positivo da considerare come modello per meglio strutturare la lotta europea al terrorismo. In conclusione non è sufficiente creare organismi centrali o stabilire obblighi di collaborazione fra gli Stati, ma è necessario un salto culturale, sentirsi poliziotti europei e acquisire quella fiducia reciproca che può nascere solo dal lavoro congiunto (come nei già consolidati 'joint investigation teams') e dalla buona volontà degli Stati membri di superare le divisioni e la recrudescenza degli egoismi nazionali. Se vogliamo andare avanti sulla strada della cooperazione comunitaria - anche per una valutazione opportunistica conseguente ad una maggiore forza che deriva dall'unione - questa è l'unica via. L'Europa, prima di essere una entità politica, è una realtà culturale. RR
LA MAPPA DEL TERRORISMO ISLAMICO - 1. L'ISIS E
AL QAEDA (22-3-2016)
Sicuramente lo Stato Islamico, che ha occupato parte dei territori della Siria e dell'Iraq, è un gruppo terroristico che ha grandissime disponibilità economiche grazie alla vendita del petrolio, alla riscossione del pagamento dei sequestri di cittadini occidentali e a un sistema di tassazione interna. L'appellativo 'Stato islamico' non è pacificamente riconosciuto nel mondo arabo in quanto si contesta che l'Isis sia uno Stato e che sia riconducibile alla religione musulmana. L'Isis è nato da un gruppo terroristico, Jamat al Tawhid wa-l-Jihad, che autonomamente operava in Iraq e che si affiliò ad Al Qaeda, giurandogli fedeltà e assumendo la denominazione di 'Al Qaeda in Iraq', in applicazione del meccanismo del cosiddetto 'franchising' del terrorismo. Con 'franchising' del terrorismo si intende il seguente fenomeno: cellule indipendenti, nel porre in essere atti terroristici di matrice integralista, si auto accreditano come emissari di una più grande e affermata organizzazione (nello specifico Al Qaeda). In questo modo i due enti criminali ottengono entrambi un vantaggio: la cellula terroristica riscuote il prestigio e la visibilità che consegue alla sua affiliazione, mentre l'organizzazione maggiore ha il vantaggio di potersi valere di referenti che gli consentono di operare non solo attraverso la sua struttura centralizzata ma anche mediante pericolose agenzie nelle diverse aree del mondo. Nonostante questa comune origine attualmente i rapporti dell'Isis con Al Qaeda e con le formazioni che integrano sue filiazioni sono poco chiari e per lo più conflittuali. Infatti, Isis e Al Qaeda, sebbene condividano lo stesso obiettivo ovvero la restaurazione del Califfato islamico che dovrebbe estendersi fino a ricomprendere Paesi africani, europei, mediorientali e asiatici, hanno opposti punti di vista per quanto riguarda le strategie per perseguire questo obiettivo; queste diversità alimentano rivalità che sono degenerate anche in scontri in regioni nelle quali si è sovrapposta la loro sfera di influenza (ad esempio, in Siria). In particolare, Al Qaeda ha sempre ritenuto che dovesse privilegiarsi lo strumento terroristico al fine di ottenere il progressivo appoggio dei popoli arabi che, oppressi dalla repressione degli Stati occidentali, ribellandosi avrebbero solidarizzato e si sarebbe uniti per la creazione dello Stato Islamico; in altri termini il Califfato avrebbe dovuto essere il punto di approdo di un percorso finalizzato al raggiungimento di un'unità nel mondo islamico. L'Isis (o Stato Islamico, o Is, o Daesh) al contrario valutava prioritaria la creazione di uno Stato - attualmente già costituito - che sarebbe stata seguita da un'espansione territoriale, anche mediante iniziative militari, e da un incremento della popolazione attraverso l'afflusso di fedeli provenienti da altri Stati. Inoltre Al Qaeda ha sempre rivolto le sue attenzioni prioritariamente all'attacco di un nemico esterno, cioè l'occidente, mentre l'Isis ha sempre considerato con particolare ostilità e spietatezza gli altri Paesi Islamici che, con le loro divisioni, minerebbero il progetto di un omologazione dell'universo musulmano secondo i propri dettami: questa differenza è stata uno dei primi motivi di contrasto fra i due gruppi. Oggi Al Qaeda da struttura gerarchizzata si è trasformata in una rete di organizzazioni affiliate. Il cambiamento si è verificato a seguito della morte di Osama Bin Laden, che esercitava un forte potere carismatico sull'intera struttura, e a seguito dei colpi inflitti dalla cosi detta guerra al terrorismo, intrapresa dagli USA e dal Regno Unito insieme ad altri Paesi. RR
Sicuramente lo Stato Islamico, che ha occupato parte dei territori della Siria e dell'Iraq, è un gruppo terroristico che ha grandissime disponibilità economiche grazie alla vendita del petrolio, alla riscossione del pagamento dei sequestri di cittadini occidentali e a un sistema di tassazione interna. L'appellativo 'Stato islamico' non è pacificamente riconosciuto nel mondo arabo in quanto si contesta che l'Isis sia uno Stato e che sia riconducibile alla religione musulmana. L'Isis è nato da un gruppo terroristico, Jamat al Tawhid wa-l-Jihad, che autonomamente operava in Iraq e che si affiliò ad Al Qaeda, giurandogli fedeltà e assumendo la denominazione di 'Al Qaeda in Iraq', in applicazione del meccanismo del cosiddetto 'franchising' del terrorismo. Con 'franchising' del terrorismo si intende il seguente fenomeno: cellule indipendenti, nel porre in essere atti terroristici di matrice integralista, si auto accreditano come emissari di una più grande e affermata organizzazione (nello specifico Al Qaeda). In questo modo i due enti criminali ottengono entrambi un vantaggio: la cellula terroristica riscuote il prestigio e la visibilità che consegue alla sua affiliazione, mentre l'organizzazione maggiore ha il vantaggio di potersi valere di referenti che gli consentono di operare non solo attraverso la sua struttura centralizzata ma anche mediante pericolose agenzie nelle diverse aree del mondo. Nonostante questa comune origine attualmente i rapporti dell'Isis con Al Qaeda e con le formazioni che integrano sue filiazioni sono poco chiari e per lo più conflittuali. Infatti, Isis e Al Qaeda, sebbene condividano lo stesso obiettivo ovvero la restaurazione del Califfato islamico che dovrebbe estendersi fino a ricomprendere Paesi africani, europei, mediorientali e asiatici, hanno opposti punti di vista per quanto riguarda le strategie per perseguire questo obiettivo; queste diversità alimentano rivalità che sono degenerate anche in scontri in regioni nelle quali si è sovrapposta la loro sfera di influenza (ad esempio, in Siria). In particolare, Al Qaeda ha sempre ritenuto che dovesse privilegiarsi lo strumento terroristico al fine di ottenere il progressivo appoggio dei popoli arabi che, oppressi dalla repressione degli Stati occidentali, ribellandosi avrebbero solidarizzato e si sarebbe uniti per la creazione dello Stato Islamico; in altri termini il Califfato avrebbe dovuto essere il punto di approdo di un percorso finalizzato al raggiungimento di un'unità nel mondo islamico. L'Isis (o Stato Islamico, o Is, o Daesh) al contrario valutava prioritaria la creazione di uno Stato - attualmente già costituito - che sarebbe stata seguita da un'espansione territoriale, anche mediante iniziative militari, e da un incremento della popolazione attraverso l'afflusso di fedeli provenienti da altri Stati. Inoltre Al Qaeda ha sempre rivolto le sue attenzioni prioritariamente all'attacco di un nemico esterno, cioè l'occidente, mentre l'Isis ha sempre considerato con particolare ostilità e spietatezza gli altri Paesi Islamici che, con le loro divisioni, minerebbero il progetto di un omologazione dell'universo musulmano secondo i propri dettami: questa differenza è stata uno dei primi motivi di contrasto fra i due gruppi. Oggi Al Qaeda da struttura gerarchizzata si è trasformata in una rete di organizzazioni affiliate. Il cambiamento si è verificato a seguito della morte di Osama Bin Laden, che esercitava un forte potere carismatico sull'intera struttura, e a seguito dei colpi inflitti dalla cosi detta guerra al terrorismo, intrapresa dagli USA e dal Regno Unito insieme ad altri Paesi. RR
LA TURCHIA ATTUALE (14-3-2016)
In questo momento la Turchia è destinataria di un
duplice attacco terroristico, sia da parte dello Stato Islamico, sia da parte
del PKK, che si avvale anche di azioni suicide e che si è
concretizzato in una serie di gravissimi e cruenti fatti criminosi. Nello
stesso tempo cresce il dissenso interno nei confronti di Erdogan che è dovuto
ricorrere a provvedimenti repressivi anche nei confronti della stampa, e che
per mantenere il controllo dello Stato ha adottato misure che incidono sulla
democrazia e sulla sicurezza. Questa situazione, che ha gravi ricadute sulla
vita politica e sociale del Paese, è indicativa di una condizione di crisi del
governo che sta lentamente ma progressivamente perdendo il pieno
controllo. Il PKK, che da tre decenni combatte con ogni mezzo per l'autonomia
curda, anche in assenza di specifiche rivendicazioni viene individuato come il
primo responsabile dei fatti criminosi eversivi, che minano - dice il
presidente Erdogan - l'integrità, l'unità e la solidarietà del Paese, senza
tuttavia incidere sulla sua determinazione nella lotta al terrorismo.
Nonostante queste difficoltà interne la Turchia con il suo impegno
internazionale nei fronti che si oppongono rispettivamente al governo di Assad
in Siria, e allo Stato Islamico, ha l'ambizione di affermarsi come la maggiore
potenza regionale nell'area medio orientale, contrastando l'egemonia delle
monarchie sunnite. Inoltre il governo di Ankara sta esercitando pressioni
sull'Unione Europea sostenendo di essere l'unica barriera che può contrastare i
migranti provenienti dal teatro bellico siro-iracheno: oltre alla richiesta di
fondi, Ankara sollecita la ripresa dei negoziati sulla sua adesione all’Unione
e la stipula di modalità di soppressione dell’obbligo di visto per
accedere allo spazio Schengen. L'istanza turca di rilanciare i negoziati con
Bruxelles non sembra avere prospettive positive, perché la Turchia, soprattutto
in relazione all'attuale svolta repressiva del dissenso interno e alla scarsa
tutela dei diritti di libertà dei propri cittadini, non soddisfa attualmente i
criteri per l’adesione. La scarsa esperienza della Turchia in materia di
politiche di asilo e di flussi migratori alimenta qualche dubbio sugli
eventuali risultati concreti a lungo termine di un accordo fra Unione Europea e
Turchia per limitare gli arrivi di migranti attraverso la rotta balcanica:
speriamo che ad un'eventuale incapacità della Turchia di fermare i profughi
provenienti dalle aree siriana e irachena diretti in Europa, i Paesi
dell'Unione non si trovino a dover accogliere anche i profughi turchi e curdi
che fuggono dalle conseguenze repressive di una più spinta futura eventuale
deriva autoritaria del governo turco. RR
CONSIDERAZIONI SULLA RELAZIONE ANNUALE DEI SERVIZI DI
SICUREZZA (11-2-2016)
Qualche giorno fa è stata presentata in Parlamento la
relazione annuale dei Servizi di Sicurezza. Il rapporto, oltre a costituire un
resoconto dell'attività svolta nel 2015, consente, in relazione all'analisi
degli elementi acquisiti, di formulare lo scenario dell'attuale minaccia nei
confronti degli obiettivi sensibili del nostro Paese. Sicuramente, anche
in assenza di specifici riscontri (a parte l'arresto a Campobasso
dell'iman somalo che sembra stesse progettando un evento criminoso a Roma), si
sta incrementando il pericolo di attentati analoghi a quelli che hanno già
colpito altre capitali europee (Parigi, Londra, Madrid). Oltre all'impegno
contro il terrorismo internazionale, alla solida collocazione nel fronte
occidentale (sono particolarmente indicative in proposito l'alleanza con gli
USA e l'amicizia con Israele), e allo svolgimento del Giubileo (che rafforza
l'immagine di Roma come capitale della Cristianità), l'imminente attività
dell'Italia in prima linea nella normalizzazione della Libia - ancora da
precisare nella sua consistenza e nella sua articolazione operativa -
contribuirà ad un aumento dell'esposizione del nostro Paese, che appare
elevata nonostante la professionalità dell'intelligence e il puntuale
monitoraggio di possibili centri con presenze jihadiste. Cresce
anche il reclutamento dei foreign fighters, sempre di entità modesta
rispetto alla consistenza del fenomeno in altri Stati europei; in Italia i foreign
fighters si stimano in poco più di un centinaio di elementi -
prevalentemente si tratta di immigrati o di figli di immigrati - mentre quelli
presenti in Siria e in Iraq sono oltre 3 mila, metà dei quali provenienti dalla
Francia, e poi dal Regno Unito, dalla Germania, dall'Olanda e dal Belgio. Il
fenomeno consiste soprattutto nell'auto reclutamento di giovanissimi e si
realizza attraverso un processo di radicalizzazione che si consuma in tempi
rapidi e generalmente all'infuori della propria famiglia. La libera
circolazione in area Schengen può facilitare il loro eventuale spostamento da
un Paese europeo all'altro, o il loro rientro da scenari di guerra in Medio
Oriente (si tratta dei così detti 'returnees' o 'commuters'): la collaborazione
informativa internazionale fra gli apparati di sicurezza assume in questo
ambito un'importanza preventiva decisiva. Pertanto la minaccia terroristica
proviene non solo da noti gruppi strutturati come Al Qaeda o l'Isis, ma anche
da individui isolati che possono improvvisamente e inaspettatamente attivarsi
verso bersagli locali, di più basso profilo e pertanto meno prevedibili, sono i
così detti 'soft target'. Anche se il rischio di
infiltrazioni terroristiche nei flussi migratori non ha
trovato specifici riscontri, la rotta balcanica, particolarmente affollata
dal transito anche bidirezionale di profughi provenienti dall'area
siro-irachena, appare un contesto territoriale particolarmente vulnerabile e
quindi da monitorare attentamente. La Libia, così divisa e politicamente
incerta, è un focolaio nel quale iniziative ostili e traffici illeciti possono
essere concepiti e organizzati con facilità. Per questo appare decisiva la
presenza sul territorio libico di unità italiane innanzitutto con funzioni
informative, non solo nell'ottica di favorire una stabilizzazione regionale, ma
soprattutto al fine di prevenire la progettazione o l'attuazione di iniziative
criminose nei confronti della nostra sicurezza. Deve essere attentamente
valutata nella regione libica la presenza particolarmente attiva non solo
dell'Isis, ma anche di Al Qaeda nel Maghreb, e Ansar Al Shariah, che utilizzano
quest'area per condurre attività di rifornimento logistico (considerata la
larga disponibilità 'in loco' di armi, uomini, mezzi), di addestramento di
combattenti, di miglioramento delle proprie capacità operative ed offensive.
Purtroppo anche l'analisi dei Servizi di Sicurezza conferma che il terrorismo è
la nuova forma di guerra, particolarmente incisiva e inquietante anche per
l'assenza di una localizzazione e per il carattere indefinito del nemico.
Evidentemente anche i conflitti bellici del nostro tempo sono riflessi
della globalizzazione e della modernità 'liquida' (intesa come assenza di
riferimenti oggettivi) applicata alla nuova geopolitica. RR
L'INFORMAZIONE TELEVISIVA NEL MONDO ARABO (10-3-2016)
Alla luce delle continue evoluzioni del contesto mediorientale - sempre più il principale fulcro delle vicende geopolitiche - può essere interessante una ricognizione sulle politiche dell'informazione televisiva nel mondo arabo in relazione alle attività di censura che limitano l'espressione del libero pensiero che caratterizzano questi Paesi (e di cui si è già detto a proposito della satira). Già dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale l’attività giornalistica si sviluppò anche nei Paesi arabi; la mancanza di democrazia e il carattere confessionale della maggior parte di quegli Stati impedì tuttavia l’affermarsi di una piena libertà di stampa. In proposito, nel mondo arabo l'informazione è sempre stata non solo filogovernativa, ovvero controllata dai rispettivi regimi, ma anche panaraba, cioè finalizzata a garantire e a sottolineare una omogeneità di vedute fra le nazioni di cultura araba (un'omogeneità più apparente che reale - si dice che gli arabi siano d'accordo solo nel non essere d'accordo). Le divisioni che hanno sempre caratterizzato i rapporti fra queste nazioni infatti sono sempre rimaste in un secondo piano rispetto all'enfatizzazione dei valori comuni dell'Islam. Fino agli accordi di Camp David (1978) il monopolio radiotelevisivo in Medio Oriente era nelle mani dell'Egitto. L'accordo dell'Egitto con Israele e la conseguente rottura con la Lega Araba posero fine a questa egemonia, che venne subito sostituita da quella dei 'media' dell'emergente potenza saudita, caratterizzati da una modesta professionalità e condizionati dal rigore religioso della visione islamica wahabita; questi 'media' tuttavia godevano della grande disponibilità economica che proveniva dal commercio del petrolio. Con la guerra del Golfo (1990/1991) per la prima volta sui canali satellitari delle televisioni arabe comparve un'informazione globalizzata, ovvero quella garantita dalla CNN e dai 'media' americani ed europei. Questo nuovo modo di fare informazione, sebbene sbilanciato verso una prospettiva occidentale, determinò il tramonto dei canali egiziani e sauditi, dei quali furono evidenti i limiti. Il modo di fare giornalismo delle Reti occidentali ispirò la nascita del canale satellitare del Qatar Al Jazeera, che si auto accreditava come la 'voce libera del mondo arabo', e che aveva l'ambizione di applicare all'informazione araba i canoni occidentali, sia dal punto di vista organizzativo ed editoriale, sia nell’impaginazione e presentazione dei servizi, sia nel coinvolgimento di tutte le parti in causa in una questione al fine di realizzare un libero dibattito. L’emittente televisiva Al Jazeera fu voluta, creata e finanziata dall’Emiro sunnita del Qatar Hamad bin Khalifa al Thani con l’intento di modernizzare ed elevare il suo Stato, irrilevante da un punto di vista politico, a principale centro culturale della regione del Golfo. L’emittente fu lanciata nel 1996 in lingua araba, mentre dal 2005 trasmette anche in lingua inglese. L’Arabia Saudita, da sempre ostile ad Al Jazeera, - che, stabilendo un contatto con le masse e dando spazio alle voci 'zittite' dalla censura politica, era giudicata dal resto del mondo arabo pericolosa ed estremista - ha cercato di farle concorrenza strutturando Al Arabiya, una televisione di lingua araba, imitando i format e l’impostazione di Al Jazeera senza tuttavia riscuotere particolare successo. Il Qatar attraverso Al Jazeera ha sostenuto (non solo mediaticamente ma anche finanziariamente) tutte le Primavere arabe (si è mostrata tuttavia prudente nei confronti delle controverse vicende del Bahrein sostenendo la 'normalizzazione' saudita - il Bahrein è infatti un Paese a maggioranza sciita governato da una monarchia sunnita). Con la rivoluzione operata da Al Jazeera il sistema mediatico arabo si è liberato dagli stereotipi, dalle convenzioni e dai localismi, cambiando il ruolo dei giornalisti emancipandoli dalle limitazioni del panarabismo. Naturalmente la libertà dell'emittente non giunge fino alla critica della linea politica e delle vicende personali dell'Emiro del Qatar e della sua famiglia. Ma la libertà nei confronti del potere non è piena, nonostante le apparenze, nemmeno in occidente. In fondo, sarcasticamente, si può osservare che anche lì la piena libertà di informazione di fatto è garantita solo a chi possiede i mezzi di informazione. RR
Alla luce delle continue evoluzioni del contesto mediorientale - sempre più il principale fulcro delle vicende geopolitiche - può essere interessante una ricognizione sulle politiche dell'informazione televisiva nel mondo arabo in relazione alle attività di censura che limitano l'espressione del libero pensiero che caratterizzano questi Paesi (e di cui si è già detto a proposito della satira). Già dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale l’attività giornalistica si sviluppò anche nei Paesi arabi; la mancanza di democrazia e il carattere confessionale della maggior parte di quegli Stati impedì tuttavia l’affermarsi di una piena libertà di stampa. In proposito, nel mondo arabo l'informazione è sempre stata non solo filogovernativa, ovvero controllata dai rispettivi regimi, ma anche panaraba, cioè finalizzata a garantire e a sottolineare una omogeneità di vedute fra le nazioni di cultura araba (un'omogeneità più apparente che reale - si dice che gli arabi siano d'accordo solo nel non essere d'accordo). Le divisioni che hanno sempre caratterizzato i rapporti fra queste nazioni infatti sono sempre rimaste in un secondo piano rispetto all'enfatizzazione dei valori comuni dell'Islam. Fino agli accordi di Camp David (1978) il monopolio radiotelevisivo in Medio Oriente era nelle mani dell'Egitto. L'accordo dell'Egitto con Israele e la conseguente rottura con la Lega Araba posero fine a questa egemonia, che venne subito sostituita da quella dei 'media' dell'emergente potenza saudita, caratterizzati da una modesta professionalità e condizionati dal rigore religioso della visione islamica wahabita; questi 'media' tuttavia godevano della grande disponibilità economica che proveniva dal commercio del petrolio. Con la guerra del Golfo (1990/1991) per la prima volta sui canali satellitari delle televisioni arabe comparve un'informazione globalizzata, ovvero quella garantita dalla CNN e dai 'media' americani ed europei. Questo nuovo modo di fare informazione, sebbene sbilanciato verso una prospettiva occidentale, determinò il tramonto dei canali egiziani e sauditi, dei quali furono evidenti i limiti. Il modo di fare giornalismo delle Reti occidentali ispirò la nascita del canale satellitare del Qatar Al Jazeera, che si auto accreditava come la 'voce libera del mondo arabo', e che aveva l'ambizione di applicare all'informazione araba i canoni occidentali, sia dal punto di vista organizzativo ed editoriale, sia nell’impaginazione e presentazione dei servizi, sia nel coinvolgimento di tutte le parti in causa in una questione al fine di realizzare un libero dibattito. L’emittente televisiva Al Jazeera fu voluta, creata e finanziata dall’Emiro sunnita del Qatar Hamad bin Khalifa al Thani con l’intento di modernizzare ed elevare il suo Stato, irrilevante da un punto di vista politico, a principale centro culturale della regione del Golfo. L’emittente fu lanciata nel 1996 in lingua araba, mentre dal 2005 trasmette anche in lingua inglese. L’Arabia Saudita, da sempre ostile ad Al Jazeera, - che, stabilendo un contatto con le masse e dando spazio alle voci 'zittite' dalla censura politica, era giudicata dal resto del mondo arabo pericolosa ed estremista - ha cercato di farle concorrenza strutturando Al Arabiya, una televisione di lingua araba, imitando i format e l’impostazione di Al Jazeera senza tuttavia riscuotere particolare successo. Il Qatar attraverso Al Jazeera ha sostenuto (non solo mediaticamente ma anche finanziariamente) tutte le Primavere arabe (si è mostrata tuttavia prudente nei confronti delle controverse vicende del Bahrein sostenendo la 'normalizzazione' saudita - il Bahrein è infatti un Paese a maggioranza sciita governato da una monarchia sunnita). Con la rivoluzione operata da Al Jazeera il sistema mediatico arabo si è liberato dagli stereotipi, dalle convenzioni e dai localismi, cambiando il ruolo dei giornalisti emancipandoli dalle limitazioni del panarabismo. Naturalmente la libertà dell'emittente non giunge fino alla critica della linea politica e delle vicende personali dell'Emiro del Qatar e della sua famiglia. Ma la libertà nei confronti del potere non è piena, nonostante le apparenze, nemmeno in occidente. In fondo, sarcasticamente, si può osservare che anche lì la piena libertà di informazione di fatto è garantita solo a chi possiede i mezzi di informazione. RR
LE RECENTI ELEZIONI IN IRAN (3-3-2016)
Recentemente si sono svolte in Iran le elezioni per il
rinnovo del Parlamento e dell'Assemblea degli Esperti. Per comprendere il
risultato delle elezioni è necessario innanzitutto precisare la rilevanza dei
due organi nella complessa architettura 'a doppio binario' della Repubblica
Islamica. Ai vertici del regime, come strutturato a seguito della rivoluzione
del 1979, c'è una diarchia ad impronta teocratica che comporta una stretta
relazione fra Stato e istituzione religiosa. Questo assetto istituzionale ha
come corollario una grande influenza dell'organizzazione confessionale sciita
sull'apparato amministrativo e di governo. La teocrazia in tutte le sue
possibili varianti, oltre ad essere una forma di governo, è anche un
sistema culturale in quanto è caratterizzata dall'influenza della visione etica
dell'elemento religioso nel tessuto sociale, condizionandone i linguaggi, le
abitudini, le pratiche quotidiane. La Guida Suprema dello Stato iraniano è la
massima autorità religiosa; sovrintende alla designazione delle più alte
cariche, oltre ad essere anche il comandante delle forze armate. Il vertice del
potere esecutivo è invece il Presidente, che è una carica 'civile' in
quanto è eletto dal popolo (ha un mandato di 4 anni che consecutivamente può
essere rinnovato una sola volta): oltre a nominare i Ministri e a presiedere il
Governo, decide le leggi e le iniziative da sottoporre all'approvazione del
Parlamento. Attualmente la Guida Suprema è l'ayatollah Khamenei, espressione di
uno spirito conservatore teocratico e reale freno al progresso, mentre il
Presidente è Rouhani, animato da una volontà riformista e di apertura verso
l'occidente. L'Islam, che presiede lo Stato islamico attraverso l'applicazione
della Sharia - al punto che il costituzionalismo di fatto non esprime,
come nella tradizione occidentale, la separazione dei poteri, ma la fedeltà ai
principi divini - introduce un'istanza statica in quanto la legge divina
è immutabile e non dipende dalle contingenti vicende umane. Al contrario la
politica imprime un carattere dinamico alle vicende della società iraniana,
attraverso il potenziale potere di cambiare che esprimono i cittadini mediante
le opzioni elettorali. Pertanto il rapporto fra Islam e politica nel sistema
iraniano è dialettico, al contrario della coincidenza 'statica' fra i due
termini che si riscontra normalmente nei regimi islamici teocratici,
generalmente di confessione sunnita. Si realizza così in Iran una difficile
sintesi fra modernità e tradizione. L'ex presidente dell'Iran, Ali Akbar
Hashemi Rafsanjani, così ha espresso questa realtà: "Quando mai nella
storia dell’Islam si è visto un parlamento, un presidente, un ministro e un
governo? In realtà l’80% di quello che facciamo non ha precedenti nella
storia dell’Islam". Le recenti elezioni hanno riguardato l'Assemblea degli
esperti e il Parlamento. L'Assemblea degli Esperti è composta da 86 giuristi e
accademici islamici eletti ogni otto anni con suffragio universale; ha
l'importante potere di indicare ed eventualmente esautorare la Guida Suprema.
Il Parlamento è composto da 290 deputati ed esercita principalmente il potere
legislativo. Le elezioni hanno confermato un brillante successo dei riformatori
e dei moderati. Pertanto di fatto è stata premiata la linea riformista che il
Presidente Rouhani, non senza difficoltà, ha portato avanti fin dall'inizio,
seppur con cautela, con progressiva decisione, e che si è concretizzata in una
manifesta volontà di apertura verso l'occidente e nel noto accordo per l'impiego
dell'energia nucleare per scopi civili. La conferma delle scelte del leader
Rouhani apre prospettive importanti per l'occidente, in quanto l'Iran, con il
suo impegno contro il fondamentalismo sunnita - che ha la sua punta avanzata
nell'Isis - sempre più appare come quel partner affidabile nel mondo
islamico di cui l'occidente ha un bisogno essenziale. L'Iran come passo
ulteriore dovrebbe rimuovere la sua inattuale ostilità nei confronti di
Israele. Forse arriverà anche a questo, ma sarà un cammino difficile, perché le
scelte di opportunità politica del potere centrale dovranno contrapporsi e
superare l'istintivo radicalismo che sulla questione manifesta la base
popolare. RR
LA SATIRA NEL MONDO ARABO (27-2-2016)
La satira nell'antichità classica era un genere
letterario utilizzato per deridere personaggi o vizi pubblici. Mantenendo la
natura di strumento per sottolineare con intento critico e ironia particolari
aspetti della realtà umana, oggi la satira non utilizza solo la forma
letteraria, ma si avvale anche di altri mezzi espressivi, in particolare si
utilizzano molto le vignette, i disegni, le opere multimediali. A prima vista
potrebbe sembrare che la satira non sia compatibile con il mondo arabo,
considerate le forti limitazioni alla libertà di espressione che lo
caratterizzano. In realtà, sebbene entro margini definiti, l'arma del ridicolo
è moderatamente utilizzata - o meglio variamente tollerata - anche nei contesti
islamici. Naturalmente non incontra problemi la satira che ridicolizza e deride
l'infedele occidente. In generale, la religione e il regime al potere nel
proprio Paese restano argomenti su cui è meglio non scherzare;
eventuali trasgressioni possono costare la vita. Spesso la satira ha come
obiettivo lo Stato Islamico: vengono rappresentati militanti che non sanno
usare le armi, combattenti confusi su cosa è concesso fare e cosa no, kamikaze
che litigano su chi deve farsi saltare in aria per primo. Alcuni esempi.
L'emittente irachena Al Iraqyia trasmette una serie di cartoni animati
nei quali sono protagonisti maldestri combattenti dell'Isis; in un episodio si
vede un militante dello Stato Islamico che non sa bene come usare un mortaio e,
invece di dirigerlo contro un posto di blocco, spara su un piede del suo capo.
In una puntata del Ktir Salbe Show, un telefilm comico in onda su
un'emittente privata libanese, un jihadista prende un taxi: l'estremista
non vuole ascoltare la musica perché secondo lui non sarebbe consentito dalla
religione in quanto nell'interpretazione letterale del Corano non è prevista la
radio; per lo stesso motivo non tollera l'aria condizionata che il tassista
vorrebbe accendere. Successivamente il jihadista critica l'autista
perché usa il cellulare; il tassista seccato, dopo avergli chiesto se i taxi ci
fossero nell'antichità, caccia il fondamentalista dall'auto e gli dice di
aspettare che passi un cammello. Un'emittente palestinese, Al
Falastiniya, mostra invece un sketch con amaro humour: un
cristiano si imbatte in due militanti islamici che si mettono a litigare su chi
deve ucciderlo al fine di ottenere 'favori celesti'. Nel frattempo il
cristiano muore per un attacco di cuore nella delusione e nello stupore degli
islamisti. L'obiettivo di queste forme di satira è quello di delegittimare
l'Isis, nel quale verrebbe travisato il vero Islam. La tolleranza della
satira cambia da Paese a Paese. Il Libano è sicuramente il Paese più
'liberale', pur restando la religione un argomento severamente vietato. Le
monarchie wahabite del Golfo non sono molto predisposte allo humour,
né tolleranti nei confronti della critica. L'ironia praticata da qualche
giovane attivista sugli usi del Paese è molto cauta e prudente: un caso è il
piacevole video, attualmente visibile su Youtube (https://www.youtube.com/watch?v=aZMbTFNp4wI),
realizzato da due sauditi che, scherzando con molto garbo sul divieto delle
donne di guidare l'auto, hanno reinterpretato il classico di Bob Marley
'No Woman, No Cry', modificandone il titolo in 'No Woman, No Drive',
stravolgendone il testo e adeguandolo al tema del titolo. Il Pakistan,
diversamente da quello che si possa pensare, è un Paese aperto alla satira. Le
vignette pubblicate anche da quotidiani nazionali e alcuni programmi
televisivi ridicolizzano personaggi pubblici, anche politici, ma mai i leader
religiosi o i vertici delle forze armate. Ovviamente anche qui la blasfemia
contro Maometto è punita con la morte e l'umorismo non può riguardare argomenti
religiosi. Il regime siriano ha sempre punito duramente le forme di dissenso
politico, comprese quelle mediante la satira. Emblematico il caso del famoso
vignettista Ali Farzat, costretto oggi all'esilio e in passato catturato e
picchiato duramente per aver disegnato vignette che alludevano alla caduta di
Bashar Al Assad. Attualmente, l'unica satira tollerata - anzi incoraggiata dal
regime - è quella contro lo Stato Islamico. In Egitto, che ha una lunga e
brillante tradizione in materia, la satira politica è praticata, ma gli autori
incontrano non di rado difficoltà e problemi, subendo sanzioni e arresti,
spesso motivati con la pretestuosa accusa di aver offeso l'Islam (che tuttavia
nasconde la paura non dichiarata che queste rappresentazioni attentino alla
sicurezza nazionale). Molto divertente è il sito egiziano Al Koshary Today
che riporta notizie false ironizzando sulle realtà del mondo arabo, anche
quelle politiche, ma mai su quelle religiose; alcuni esempi di notizie -
ovviamente false - diffuse dal sito sono quella relativa alla creazione di
un'associazione di consumatori egiziani che garantirebbe un risarcimento
economico nel caso in cui si scopra che la propria moglie non fosse vergine al
momento delle nozze, o quella che afferma che finalmente l’Arabia Saudita
permetterà alle donne di guidare le biciclette. In Turchia, le riviste
satirico-umoristiche hanno una lunga tradizione e costituiscono uno strumento
per cogliere il clima sociale e politico del Paese. In proposito attualmente
dal leader Erdogan è mal tollerato il dissenso; conseguentemente le vignette
che lo raffigurano in termini critici spesso sono causa di contenziosi
giudiziari e di forme di censura. Nella letteratura persiana classica (ne sono
esempi i testi Navader e Resaleh ye Delgosha elaborati
rispettivamente nel quarto e nell'ottavo secolo, e le poesie di Hafez e Rumi,
del XIV e del XIIV secolo) sono presenti testi che contengono una trattazione
satirica di concetti teologici; tuttavia attualmente la satira politica e
religiosa è scarsamente tollerata, come dimostrano l'epilogo giudiziario con
una dura condanna della vignettista Atena Farghadani e il caso
della giornalista Elham Foroutan che rischia la pena capitale per un articolo
nel quale la rivoluzione islamica è stata paragonata al virus dell'Aids. Lo
scorso anno a Teheran è stata organizzata da Irancartoon una rassegna
satirica dedicata allo Stato islamico e al terrorismo internazionale. La
Rassegna non aveva solo motivazioni politiche, in quanto l'Iran sostiene
l'esercito iracheno contro le milizie di Al Baghdadi, ma anche
giustificazioni religiose in quanto la Repubblica Islamica sciita si oppone al
Califfato sunnita. Mi viene in mente una paradossale affermazione di Nietsche: Non
in un crepuscolo svanirono gli dei...ma morirono a forza di ridere. RR
IL CASO 'REGENI' DOPO UN MESE (26-2-2016)
Dopo un mese si continua a discutere sul caso
'Regeni'. Sicuramente sono molto lodevoli le ferme rimostranze e le insistenti
pressioni del Ministro Gentiloni nei confronti del Governo egiziano affinché si
faccia piena luce sull'omicidio e siano assicurati alla giustizia i
responsabili; tuttavia è improbabile che si giunga a qualche risultato
apprezzabile. Anche qualora le autorità egiziane avessero chiarito o
stiano chiarendo nel loro ambito interno questa vicenda che probabilmente si è
consumata in una sfera di influenza degli apparati di sicurezza egiziani, gli
eventuali risultati difficilmente saranno esternati in quanto questo
equivarrebbe ad una implicita ammissione di colpa del regime - almeno sotto il
profilo oggettivo - e al riconoscimento che gli apparati istituzionali,
soprattutto i più delicati, non sono sotto il controllo dei poteri
centrali. Nonostante la forte impronta autoritaria, il regime egiziano è
significativamente indebolito dall'ostilità dei Fratelli Mussulmani, che -
messi frettolosamente (e inopportunamente) al bando all'indomani della
deposizione di Mohammed Morsi ritenuto colpevole di aver tentato una
forte islamizzazione del Paese - rappresentano una componente molto influente
che pur nella clandestinità non ha ridotto le proprie infiltrazioni
all'interno di tutte le fasce sociali, il proprio peso nella società civile, la
radicata presenza nelle istituzioni pubbliche e private. Oltre alla
pericolosità intrinseca dell'oggetto delle sue ricerche, ovvero la raccolta di
informazioni sulla realtà dei sindacati egiziani, non si può escludere che
Giulio Regeni fosse approdato a conoscenze molto sensibili che lo avrebbero
esposto a particolari rischi. Si discute anche di eventuali responsabilità del
mondo accademico, che avrebbe spinto Giulio Regeni a rendere particolarmente
incisive le sue iniziative. Il contributo in termini di dati e di analisi che,
nella conoscenza delle realtà geopolitiche, viene fornito dagli enti accademici
e da istituti privati è di grande importanza, ed è purtroppo fisiologico che le
ricerche in piena autonomia compiute sul campo - ovvero quelle svolte
risiedendo in Stati particolarmente instabili, o nei quali non vi è sufficiente
rispetto dei diritti individuali di libertà - possano compromettere la
sicurezza dei ricercatori che si dedichino ad esse. Lo stesso avviene per
l'attività giornalistica all'estero. A tale riguardo l'unica possibilità per
ridurre questi rischi, non del tutto eliminabili, è quella di operare 'sotto
l'ombrello protettivo' del proprio Paese. In proposito, gli uffici diplomatici
all'estero - Ambasciate e Consolati - hanno strutture complesse e contatti con
le autorità locali che possono in qualche modo garantire al ricercatore di
operare in condizioni di fatto di maggiore sicurezza. Sarebbe buona prassi che
chiunque per motivi professionali si trovi in uno Stato straniero con funzioni
delicate e/o che comportino contatti con le maestranze locali, almeno informi
della sua presenza le autorità diplomatiche. Tuttavia non sempre questo è
possibile e, nel caso della ricerca scientifica, il ricercatore potrebbe temere
che questa informativa limiti la sua libertà o comprometta la riservatezza del
suo lavoro. L'ufficio diplomatico all'estero è un centro di riferimento
globale, anche per la propria sicurezza, ma questa consapevolezza molto forte
per i cittadini di altri Paesi europei che, sentendo un forte legame nazionale
quando si trovano ad operare all'estero, considerano realmente gli uffici
consolari appendici del proprio Stato, è meno avvertita dagli italiani (si
tratta di una convinzione personale sebbene suffragata da esperienze
professionali). Purtroppo, per minimizzare il rischio di chi si trovi ad
operare all'estero in realtà che possono minacciare la propria incolumità, non
sembrano esserci in concreto altre possibilità. RR
Atelier della parola, dalla
solitudine al legame sociale di Silvana Leali
Premessa
Trentotto anni di lavoro, presso un Servizio pubblico
infantile, mi hanno permesso di osservare come un intervento di diagnosi
precoce modifichi la domanda di accesso degli utenti ai servizi. La risposta
dei servizi è il risultato:
·
di un processo storico e culturale,
·
di una pluralità di soggetti,
·
di formazione di metodi,
·
di rete,
·
di comunità che attualmente si rispecchia nel modello bio-psico-sociale.
I servizi offrono una molteplicità di tecniche
riabilitative ma - tra le teorie e il fare - gli eventi, nel lavoro
istituzionale, funzionano diversamente: tra l’asse centrale della cura, basata
sul sapere scientifico, vi è la pratica del terapista che deve
rispondere ai protocolli organizzativi, all’urgenza, all’emergenza, alla caduta
di ideali e alla propria soggettività. Un mio desiderio: testimoniare una
personale esperienza non come una esperta, ma come una interrogante o meglio
una cantastorie che ha raccolto - nella rete del linguaggio - i discorsi
dei bambini. L’orientamento scelto non è quello immediato della risposta, ma è
l’intento dell’operatrice di divenire una partner di ascolto: di un ascolto non
qualunque, di un ascolto particolare secondo l’orientamento della psicanalisi
di Freud e di Lacan. Un’esperienza nata per caso in un gruppo di bambini e
preadolescenti; luogo nel quale l’esperienza è maturata: il Centro
Baobab, del quale riferirò, in seguito, alcune caratteristiche.
Breve parentesi sul linguaggio
Linguaggio è una funzione
adattiva caratteristica e specifica dell’uomo che si sviluppa in un arco
breve della vita, richiede:
·
competenze comunicative
·
capacità funzionali (prassie e gnosie)
·
produzione linguistica (aspetti formali e funzionali )
·
comprensione linguistica.
Ma, "…affinché un bambino entri in
questo mondo linguistico, bisogna che sia esposto a una lingua che qualcuno
parli con lui e acceda in lui il desiderio di comunicare …" (Sabbadini,
De Cagno, Vaquer, Michelazzo - 2000). Vorrei riportare, a partire dal
concetto di desiderio, due celebri aforismi di J. Lacan:
"Il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro" -
"L’inconscio è il discorso dell’Altro"
Che cosa significano i due aforismi?
·
I due aforismi indicano verità di cui servirsi, nei vari percorsi
terapeutici, per la cura del linguaggio?
·
Quale utilità operativa si può ricavare dalle lezioni freudiana e lacaniana sul
linguaggio?
Presenterò, come ho già accennato e come
risposta alle parole di Lacan, l’esperienza di un atelier di parola
Apro alcune questioni sulle quali interrogarci:
·
Psicanalisi e neuroscienze alleate o antagoniste?
·
Cosa accadrebbe se la psicanalisi trovasse conferma nelle neuroscienze?
·
Nel modello bio-psico-sociale: plasticità neuronale, traccia psichica e
sinaptica, rete neuronale e inconscio possono diventare elementi non
antagonisti ma alleati?
Freud, come afasiologo e neurologo, ha sempre cercato
di scoprire i fondamenti della Sua base teorica. Nel 1920 (in Al di là del
principio di piacere, p. 243) scriveva che,
"...probabilmente, le carenze della nostra esposizione scomparirebbero se
fossimo già nella condizione di sostituire i termini psicologici con quelli
della fisiologia o della chimica. La biologia è davvero un campo dalle possibilità
illimitate dal quale ci dobbiamo attendere le più sorprendenti delucidazioni,
non possiamo quindi indovinare quali risposte essa potrà dare, tra qualche
decennio, ai problemi che le abbiamo posto …". La scoperta dei neuroni
a specchio (mirror-neurons - avvenuta agli inizi degli anni novanta
all’Istituto di fisiologia di Parma - ha permesso di comprendere i
fenomeni:
·
dell’ identificazione,
·
della teoria della mente,
·
dell’ empatia,
·
della comprensione di stati mentali altrui,
·
dell’ autismo.
Le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività
(Gallese, Paolo Migone e Morris Eagle) aprono connessioni possibili con la
psicanalisi. Recenti autori come F. Ansermet (medico psichiatra infantile,
psicanalista) e P. Magistretti (neuroscienziato) scrivono: "La plasticità
partecipa all’emergere dalla individualità del soggetto …Ogni esperienza è
unica, il fenomeno della plasticità non è un fenomeno esclusivamente psichico,
esso coinvolge anche il corpo …". Tali autori propongono l’ipotesi di un
modello d’inconscio che integri i dati della neurobiologia con i principi
fondanti della psicanalisi (A ciascuno il suo cervello, plasticità
neuronale e inconscio, Bollati Boringhieri, 2008).
Come ultimo frammento, infine, si possono
ricordare i lavori :
·
sulla immagine speculare, nella ricerca storico-psicanalitica di J.
Lacan,
·
sullo stadio dello specchio,
·
sugli schemi ottici ed i fenomeni che si stratificano nell’inconscio (J.
Lacan, Fabrizio Palombi, Carrocci, 2008).
Diagnosi e riabilitazione: un compito impossibile ?
Diagnosi è un termine
di origine greca, deriva da dia - per mezzo e gnosis -
cognizione, conoscere; per il vocabolario di psicologia di Galimberti
significa: riconoscimento. L’aspettativa - degli utenti e degli
operatori - dei servizi, nei confronti della diagnosi, è quella che sia
oggettiva, ma può accadere di dover maneggiare diagnosi con alcuni
costrutti teorici (diagnosi medica, psichiatrica, neuropsicologica,
funzionale, sociale,…). Per questi motivi uno degli scopi del sistema ICF è
quello di migliorare la comunicazione tra gli operatori in un linguaggio
comune e condivisibile. La diagnosi, se non è solo un’applicazione di
codici o etichette, può essere l’incontro di saperi professionali diversi?
Riabilitazione - con le sue pratiche terapeutiche ben delimitate, con
l’attenzione alla persona e al sistema familiare/sociale nell’incontro con il
corpo reale - può essere: riparabile
o non riparabile. L’irrompere della verità, nella relazione
di cura, può essere una risorsa possibile.
Atelier
E’ un termine francese che indica: opificio,
laboratorio, studio di pittura, incisione.
·
Può diventare, in laboratorio, un’esperienza di tecniche preliminari alla
parola del bambino?
·
Può diventare una raccolta di utili dati sul territorio, nella scuola,
nei servizi ?
·
Può dar vita ad una pratica a piu voci (pratique à plusieurs
definizione data da J.Miller in Italia)? Una pratica da anni già
sperimentata con successo da una mia carissima amica.
Tecnica
E’ un termine che deriva dal greco (techné),
indica: arte (collegato alla poiesis, ovvero produzione
artistica). Significa anche: tessere, stendere la tela, fare testo.
Nell’ideogramma della lingua cinese tek significa: processo;
origina dagli ideogrammi: crocevia, cammino, strada, comunicazione.
Che cosa si incide in un atelier ?
Che cosa - tra bambini disturbati,chiusi in se stessi
in una solitudine onnipotente - lascia traccia nell’incontro con un Altro?
Il movimento può incidere una traccia
grafica e lasciare, nel bambino, un
segno che preceda la parola?
L’atelier è,
contemporaneamente, un dispositivo:
· di gioco,
· di narrazione,
· di possibili terapie
utilizzando anche lo psicodramma,
· può rappresentare un
ritaglio istituzionale che comprende una pluralità di pratiche che, in
questi anni, si sono svolte sotto diverse forme nel territorio ternano:
sportelli di ascolto per adolescenti nelle scuole medie; atelier 'Panna e
Cioccolato' per disabili cognitivi del Centro 'Il Faro'; gruppi di formazione
per genitori, insegnanti e operatori nell’ambito dello psicodramma analitico
anche per bambini. L’atelier può rappresentare anche un children-triaing,
termine coniato per indicare un gruppo di lavoro con adolescenti (il nostro
gruppo è condotto dalla dott. Allegretti).
Origine (nascita) dell’
Atelier della Parola
L’ Atelier nasce dal desiderio
di un incontro possibile tra psicanalisi e riabilitazione. I discorsi
dei bambini, con i loro disordini comunicativi e fonologici, indicano delle
tracce minori (diciamo minori, ma non lo sono) di riabilitazione che
trovano conferma nel modello bio-psico-sociale. La posizione dell’operatore non
è quella di esperto ma ha, principalmente, il compito di privilegiare
l’ascolto, non un ascolto qualunque: un ascolto orientato alla raccolta di significanti
(secondo la semantica lacaniana); un ascolto orientato all’attenzione;
orientato alla ricerca non dell’errore ma delle dissonanze; un
ascolto orientato alle fratture e discrepanze del discorso del Soggetto.
Soggetto che non è la persona (intesa come maschera, o ruolo …) ma è un soggetto
che emerge dal discorso ed emerge attraverso il sintomo,
esprimendo una domanda.
Centro Baobab
ll Centro Baobab, è un
contesto semiresidenziale collocato all’interno della S.C. di Neuropsichiatria
Infantile della Asl n.4 di Terni; è uno spazio operativo di accoglienza di
bambini e preadolescenti con problemi psicopatologici, disturbi dello sviluppo,
problemi comportamentali, gravi disturbi dell’attenzione, della comunicazione e
dell’apprendimento; è una casa pomeridiana dove il bambino compie insieme ad
altri attività quotidiane: artistiche, ricreative, di studio, uscite esterne,
preparazione dei pasti e delle merende (anche il cibo può diventare una condivisione
e un legame con gli altri). Bambini e preadolescenti, in tali varie
attività della vita quotidiana, possono incontrare dei momenti di difficoltà in
cui esprimono la loro solitudine, la rabbia, la fatica ad aprirsi a varie
forme di legami sociali. La partenza è avvenuta per caso (diciamo per
'irruzione'), non è stata programmata a tavolino: è arrivata di corsa e dai
bambini stessi, è stato un inizio breve e fugace. La partenza è accaduta
(penso all’accaduto psichico di cui parla Freud) nella palestra
adiacente al Baobab: il Baobab è un luogo che - per motivi organizzativi
- è proibito e, perciò, fortemente desiderato. Nonostante ci
fossero altre stanze, per la legge dell’attrazione, bambini e preadolescenti
erano incuriositi dalla palestra e, un giorno, hanno fatto irruzione.
La palestra
Una stanza ampia, luminosa,
ricca di specchi, tappeti, un pianoforte bianco e numerosi attrezzi ginnici
colorati: ogni mercoledì seguivo due gruppi con un intervallo di quaranta
minuti tra un gruppo e l’altro. Nell’intervallo, nel parco, avevo già corso con
gli ospiti del Centro la cui età variava dai cinque anni ai sedici anni.
Dal diario della cartella clinica colgo i seguenti elementi:
"…bambini e preadolescenti arrivano uno alla volta timidamente, oppure
tutti insieme irrompono di scatto e iniziano a toccare tutto, passano da un
gioco all’altro, non sanno usare gli strumenti, aprono le scatole, perdono i
campanelli degli strumenti musicali, disfanno l'ordine della
stanza. Sono contenti, ma possono fermarsi? Possono sostare?…"
Il posto
La questione di trovare un posto,
anche se limitato, sembra essere importante. Il posto scelto è una palestra, un
luogo regolato da una Legge. La palestra non è una risposta immediata, ma dovrà
essere contrattata (quanto, come, quando?) …I bambini potranno venire e
giocare, ma avranno soltanto un tempo di quaranta minuti. Avere un luogo
e un posto - scelti dai bambini - è un passaggio centrale, ma tra
luogo e posto " vi è una profonda differenza …", come ci ha
fatto notare Miller.
I bambini, nelle trame
riabilitative-educative, si muovono in vari luoghi: scuola, servizi, ecc. I luoghi
che incontrano sono molteplici e legati alla cultura, al linguaggio, all’ordine
simbolico…Il posto, invece, è quello scelto dal soggetto e legato
a una classificazione dove l’Altro non parla al posto del bambino. Il posto
limita l’eccesso di godimento ed è un limite all'angoscia
persecutoria. Il godimento, per Lacan, non è il piacere ma è
una istanza negativa: è una nozione complessa che rimanda al linguaggio.
Lacan afferma che solo se si perde un po’ di godimento si entra nel
linguaggio. Il desiderio viene dall’Altro, mentre il godimento viene
dalla Cosa (Das Ding). (N.B - Lacan afferma che il desiderio inconscio
ruota attorno ad un vuoto di senso: Freud lo chiama Das Ding -
Lacan lo chiama la Cosa). Freud ('Progetto di una psicologia') designa
la Cosa come un apparato psichico, una configurazione di neuroni
investita dal ricordo dell’oggetto: l’oggetto di soddisfacimento. Il
rapporto tra percezione e oggetto è rilevante nell’osservazione dei
comportamenti infantili. "La questione del posto è fondamentale, solo se
un bambino trova un posto in un Altro-regolato, che non gli si impone
e non sa per lui, ma lo sostiene in modo rigoroso nella sua posizione
soggettiva, è possibile un ancoraggio" (Martine Egge).
Il tempo
Un posto preliminare
alla parola ed un tempo : un tempo per guardare, capire, concludere. “Il
tempo della cura non è un tempo lineare e cronologico, ma è un tempo
intersoggettivo” (Lacan). Il posto occupato dai bambini del Baobab è stata la
palestra: un posto in cui buttarsi a capofitto sugli oggetti, sui tappetini,
sulle palle grandi e rotonde, affamati di stimoli e desiderosi di produrre
caos, rumori e suoni. Muoversi e produrre suoni è importante, perché la
voce si genera dal corpo in movimento e, inoltre, non è una voce “educata”: è
una voce rumorosa, esplosiva o soltanto sussurrata, impercettibile. Una voce
che nasce, come indicano le esperienze teatrali e vocali di Anna Maria Civico,
da un corpo reso strumento, se attivato da opportune e adeguate
pratiche. Ma prima di essere un corpo strumento, per quei bambini, il
corpo era una macchina da riparare:
· un corpo attraversato
dal linguaggio degli altri e fragile (morbido, rilassato) o rigido,
assente, piegato nel proprio isolamento;
· oppure era un
corpo pulsionale, agitato, iperattivo e senza
limite.
Bambini e preadolescenti,
per diversi incontri-scontri, hanno riempito l’ordine della palestra con
schemi di rottura: un farsi e disfarsi di un linguaggio non
ancorato a un discorso, fatto di agiti, passaggi all’atto…Ma chi sono i
protagonisti di questa storia?
I protagonisti
Presenterò alcuni
protagonisti attraverso le parole ascoltate lungo i corridoi dei servizi,
ascoltate in fretta e orientate sul mito di un romanzo-familiare, non
misurabile e confermato dai dati delle cartelle cliniche…Perché, come ha
sottolineato Miriam De Bernart (stupenda piscodrammatista): "Il bambino,
come effetto significante del discorso, non è il bambino reale e, perciò,
può assumere una funzione metaforica o metonimica ed occupare la
posizione di oggetto nei fantasmi dell’altro familiare …".
· Nofè, un bambino
africano di anni 8, con diagnosi di disturbo autistico, dimostra
fisicamente dodici anni per peso e altezza; figlio di genitori separati, padre
musicista e una madre che lo lava, lo profuma e lo accudisce come un bebè.
· Prato fiorito, un
bambino di 5 anni, assolutista e dispotico che presenta estrema povertà
linguistica.
· Andrej, un
bambino di 12 anni, diagnosticato dislessico; vive con il padre e la
nonna materna con problemi psichiatrici (disturbi dell’umore) sembra che
possieda (la nonna) grandi capacità d’osservatrice e analitiche.
· Titti-calze-lunghe, una
bambina di 9 anni, iperattiva, dislessica, ritenuta da più persone
“carismatica”, piena d’iniziative che - nei suoi tratti - ricorda il
personaggio di Viola (Calvino, Il Barone Rampante).
· Lolli, un bambino di 10
anni, è un bravissimo attore, riesce anche a cambiare la sua voce (potrebbe
fare il doppiatore).
· Emma, una ragazza
straniera di 17 anni, presenta un ritardo lieve, già convivente con un
coetaneo.
Dal caos al Tribunale della
Libertà
L’impressione era di
assistere a una scarica motoria collettiva, fatta di slanci, urla
incontrollate, energiche battaglie difficilmente riconducibili alla regola del far
finta: porte che si aprivano e si chiudevano all’entrata di altri ospiti
del Baobab, non invitati agli incontri. Tu sì e tu no era la parola
d’ordine, ma l’entrata di un nuovo arrivato generava un altro crollo (il
caos!). Il nuovo arrivato era una minaccia: ritornavano i terremoti, le sabbie
mobili, le onde pericolose. Per difendersi da questi attacchi violenti i
cuscini diventavano barche…Ma entrava l’acqua e le scialuppe erano fragili, non
tutti si salvavano. Nofè restava fuori dai cuscini ad ondeggiare con il grosso
corpo sulla palla e si rifletteva nello specchio; Prato Fiorito si chiudeva le
orecchie mentre si accendevano e si spegnevano le luci e le tapparelle si
alzavano e si abbassavano; Emma si metteva nel posto dell’autorità mancante:
sgridava, urlava silenzio e cercava di rincorrere i disubbidienti.
Sembrava una scena magica: gli oggetti animati da forze sopranaturali cadevano
e si rompevano, palline che rotolavano, una ricerca continua di nuovi oggetti,
una scena senza parola e senza senso. Una strana violenza poteva esplodere,
nessun personaggio, nessun pensiero ma solo oggetti malefici…del resto … il
gioco, secondo M. Klein, è come il sogno: E’ la via regia dell’
inconscio. Di fronte ad un adulto impotente a fermare il caos ma
potente nell’uso della parola sono iniziati altri movimenti dove l’oggetto, non
distrutto, ha la funzione di paletto, di ponte, di torre da difesa. I
protagonisti, spinti da Titti-calze-lunghe, iniziano delle costruzioni: i
tappeti diventavano letti e lettini o culle in cui dormire tutti insieme, ma di
fronte a quella calma pacificante … (o eccesso di godimento?). Arriva un contro-ordine:
“Devo uscire, devo stare zitta e non guardare”. Il Tribunale della Libertà,
al quale i bambini sono ricorsi per regolare le azioni (e regolamentarle
nell’ambito della Legge), aveva deciso che l’adulto - incapace a contenere il
caos, ma potente e sapiente nell’uso delle parole - doveva essere messo alla
porta.
Una scena rovesciata
La parola dei bambini presa
sul serio apre a un nuovo teatro della mente: apre un Tribunale della
Libertà. Un Tribunale che cosa tutela?
· E’ un Tribunale-giustiziere
di un danno fisico e psichico?
· E’ una buona
legge che sostiene il desiderio?
Se l’adulto sa giocare, come
ricorda Winnicott, si apre uno spazio creativo, uno spazio
transazionale; per Lacan è importante che l’operatore agisca nella
direzione della cura e, principalmente, sappia mantenere il suo posto.
Fuori dalla porta: inizia un tempo-lungo-d’attesa; in
palestra che cosa accade ?.. Andrej lancia l’invito: “Puoi
entrare … entra … entra … entra …” La scena è cambiata: il teatro dei
sogni si è materializzato attorno all’assenza-presenza … nessuna traccia
di battaglia … nessun protagonista … nessun mostro né acqua
minacciosa … nessun lettino-tappetino. Il lavoro, ormai, è partito attorno
a un vuoto nel quale si nascondono i soggetti
del gioco? “Dove sei ?” … “Eccomi Nofè” … “Eccomi Prato Fiorito” … “Andrej,
Titti … dove siete ?”…E’ soltanto un’altra scena, ora si può formulare
una nuova diagnosi: i Soggetti sono stati, finalmente, riconosciuti
e nominati…I Soggetti si sono appellati all’Altro e
proseguono il loro cammino tra un significante e l’altro. La diagnosi
è un lavoro che coinvolge: l’operatore, nell’approccio
bio-psico-sociale, incontra competenze e professionalità diverse; ora egli è in
grado di utilizzare la diagnosi intesa come traccia di una trama di
rete costituita da familiari, operatori, attori protagonisti principali e
minori. Tutto questo accade perché il concetto di cura, scienza, di
riabilitazione e d’arte passa attraverso livelli diversi (sociali,
biologici, intrapschici e interpsichici). Ogni professionalità - se
correttamente pensata e riconosciuta - ha un senso nel progetto riabilitativo.
La presa in carico del singolo non è un atto individuale, ma deve essere un
atto realizzato da un gruppo di lavoro che opera in piena armonia e
collaborazione. F. Stoppa sostiene che lo psicanalista ed il docente di
Clinica Istituzionale conducono una equipe curante: non rappresentano
soltanto la risposta tecnica ai problemi, ogni operatore esprime la sua vocazione
e realizza la costruzione e la manutenzione all’interno delle quali il
paziente dà forma al suo lavoro di cura. La diagnosi deve evidenziare
la posizione di un soggetto al lavoro: la diagnosi delinea e mette in luce la
posizione esistenziale del Soggetto che si apre al legame sociale.
Silvana LEALI
La
Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda.
(21-2-2016)
Da qualche mese con il
titolo di 'La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e
propaganda' è stata pubblicata l'edizione italiana dello studio 'Palestine in
Israeli school books: ideology and propaganda in education', elaborato
dalla professoressa israeliana Nurit Peled-Elhanan, che insegna presso la
facoltà di scienze dell’educazione linguistica dell’Università ebraica di
Gerusalemme. Il conflitto fra lo Stato di Israele e la componente
arabo-palestinese si riflette, in tutti gli ambiti della vita civile, nella
attività di propaganda delle due entità contrapposte, a cominciare dal sistema
educativo. Prescindendo dal carattere politico della questione - in merito alla
quale ognuno può essersi legittimamente formato una propria opinione - lo
scritto, che non intende essere esclusivamente un documento descrittivo del
sistema scolastico in Israele, è particolarmente interessante in quanto
evidenzia con dovizia di esempi pratici come i testi scolastici, apparentemente
neutri, possano costituire, come precisa l'autrice, "potenti mezzi
mediante cui lo Stato può configurare le forme di percezione, classificazione,
interpretazione e memoria necessarie a determinare identità individuali e
nazionali". La studiosa ritiene che attraverso i pregiudizi che maturano
in età scolare possano strutturarsi le future ostilità fra l'etnia ebraica e
quella palestinese: conseguentemente il sistema educativo contribuirebbe a
garantire la sopravvivenza di uno Stato sostanzialmente ingiusto e non
pienamente democratico. Più precisamente l'autrice senza mezzi termini dice che
il razzismo che ha riscontrato nei testi scolastici, che ha studiato per cinque
anni, preparerebbe i giovani alle modalità del servizio militare obbligatorio,
e questo spiegherebbe il comportamento brutale dei soldati israeliani verso i
palestinesi. Attualmente, se l'istruzione tende a screditare l'immagine dei
palestinesi che vivono in una condizione di sempre maggiore isolamento, nello
stesso tempo le istituzioni sembrano comprimere il diritto degli ebrei di
criticare e protestare contro il governo. Tutto questo potrebbe confermare
l'opinione, sostenuta da alcuni, circa la frattura fra una base popolare
israeliana stanca dei contrasti interetnici e favorevole ad una loro
composizione pur nel quadro di una grande varietà di soluzioni che riflette la
complessità politica interna di Israele, e il governo, che invece, anche
attraverso il nazionalismo di cui è permeata l'istruzione, alimenta con
rigidità la tesi dell'impossibilità di un accordo. La studiosa afferma che nei
testi scolastici non vengono negate le uccisioni di palestinesi, ma vengono
prospettate come fatti 'normali', in quanto necessari per la sopravvivenza di
Israele, creando così il presupposto per un'indifferenza nei confronti della
sofferenza e del sacrificio di esseri umani. Per dovere di obiettività aggiungo
che nelle scuole palestinesi una propaganda simmetricamente opposta scredita
gli ebrei, e molti insegnanti si rifiutano di parlare dell'Olocausto. In realtà
mi sembra sempre più evidente che il futuro di Israele dipenda anche da una
pace dignitosa che garantisca una pacifica coesistenza con i palestinesi.
Su Youtube - a questo indirizzo: https://youtu.be/1pB0AhGl9l4
o clicca qui - la professoressa
Claudia M. Tresso, nota docente di lingua araba alla Facoltà di Lingue
dell'Università di Torino, presenta questa problematica in maniera molto brillante
e con qualche spunto divertente. È un documento di cui si consiglia la visione.
RR
IL MONOPOLIO DELLE IDEE,
ISIS, YOUTUBE (19-2-2016)
Nella diffusione delle idee
e nel dibattito che ne segue la Rete ha ormai un ruolo centrale. Se ne serve
con professionalità lo Stato Islamico che richiama alla jihad milioni di
persone utilizzando il Web per il proselitismo, per la diffusione delle
notizie, per la rivendicazione delle azioni; per questo l'Isis recluta non solo
combattenti ma anche ingegneri informatici. Un'abile campagna mediatica
accompagna le vicende del Califfato fin dal momento della sua proclamazione. Lo
Stato Islamico infatti ha curato la pubblicitaria esposizione diretta di sè
stesso fin dall'inizio, anticipando l'Occidente nella possibilità di definirlo
da un altro e più obiettivo punto di vista. In generale propaganda e
pregiudizio sono termini simmetricamente opposti ma strettamente correlati fra
loro. Mentre la conoscenza dovrebbe fornire un’immagine oggettiva, la
propaganda produce una rappresentazione migliorativa; il pregiudizio invece ne
elabora una peggiorativa. In realtà etimologicamente il pregiudizio avrebbe
un’accezione neutra, sarebbe soltanto un giudizio anticipato e superficiale,
cioè non suffragato dal necessario approfondimento; tuttavia nella pratica il
termine viene considerato solo negativamente, ovvero come rappresentazione
preconcetta e denigratoria. Gli effetti della propaganda e il loro rapporto con
i media tradizionali sono stati approfonditi del linguista Noam Chomsky,
che ha evidenziato l’esistenza nel mondo occidentale di un monopolio delle idee
di cui dispone il potere economico attraverso l’influsso in grado di esercitare
sui mass media. Attualmente la Rete potrebbe essere un’entità
antagonista a questa situazione, perché ha la capacità di consentire a ognuno
la libera espressione del proprio punto di vista senza filtri e a basso costo.
In proposito, se la democraticità della Rete consiste principalmente nella
possibilità di sottoporre agli altri il proprio pensiero, con riferimento alla
situazione pratica questa opportunità è più teorica che reale. Penso agli
articoli che di tanto in tanto scrivo. Se riesco a piazzarli in qualche
rivista anche online, i miei scritti sono sottoposti all’attenzione di
un pubblico. Diversamente, è vero, posso pubblicarli in Rete, ma così facendo
si perdono nell’oceano digitale. Di fatto, quindi, non è cambiato nulla. Se la
libertà del Web può essere un baluardo della democrazia, la propaganda in Rete
dello Stato Islamico è espressione tuttavia di una fisiologica patologia di
questa nuova frontiera della comunicazione. Ad esempio la caratteristica
libertaria del video sharing - che è la principale funzione di
Youtube - ha dato a milioni di persone, Isis compreso, la possibilità di esprimersi
senza alcun limite e con effetti non sempre socialmente apprezzabili. Sono
centinaia i video in alta definizione sia in arabo che in inglese caricati in
Rete dall'Isis, che danno l'inquietante sensazione che pratiche medioevali si
declinino attraverso un moderno uso della tecnologia. In particolare destano
perplessità le immagini del video Flames of War, diffuso nel 2014, - già
il titolo sembra quello di un colossal - che, realizzato in perfetto stile
hollywoodiano, rappresenta le gesta di terroristi che inneggiano alle azioni di
guerra del Califfato. Inquietante è il messaggio di chiusura coming
soon (in arrivo), come se un conflitto prossimo e la morte potessero essere
oggetto di un trailer. È naturale chiedersi come può essere impedita su
Youtube la pubblicazione di materiale di dubbia liceità. Innanzitutto i
controlli sono finalizzati, attraverso l'automatico confronto con i contenuti
di un database, a verificare che il video non leda il copyright,
cioè il diritto d’autore, e non contenga riferimenti ad argomenti non
consentiti. Una successiva verifica riguarda il merito della conformità
del filmato a quanto prevede il regolamento della community, al quale
ogni utente deve aderire. Questa ulteriore verifica - che non riguarda una
formale violazione, ma la sostanziale infrazione del codice di comportamento -
è affidata principalmente alle segnalazioni degli utenti, in conseguenza delle
quali il video può essere bloccato dagli amministratori. Può quindi accadere
che un filmato che non leda il copyright, e non contenga o riesca a
mascherare indici di presunta illiceità, ma che abbia contenuti profondamente
offensivi, possa rimanere indisturbato in Rete finché nessuno lo segnali. La
segnalazione, a cui segue la rimozione, apre un contenzioso nel quale chi ha
caricato il video può precisare le sue ragioni. Queste considerazione
evidenziano che, se la illimitata libertà su Youtube può essere
ritenuta ormai un mito superato, la censura rimessa a segnalazioni e a
iniziative individuali può avere caratteri di arbitrarietà, eventualità, e
soprattutto di una dannosa tardività. Infatti la pubblicazione, anche seguita
dalla rimozione, è già un danno: nel frattempo tra la pubblicazione e la
rimozione, un video può essere visto, scaricato, copiato e può circolare. RR
CONSIDERAZIONI A MARGINE DI
"LETTERA AI TRUFFATORI DELL'ISLAMOFOBIA" DI STEPHANE CHARBONNIER.
(17-2-2016)
Ho letto recentemente con molto interesse il saggio 'Lettera ai truffatori dell'islamofobia' di Stephane Charbonnier, detto Charb, l'ex direttore del giornale satirico Charlie Hebdo, trucidato insieme ad una decina di collaboratori nell'attentato terroristico di matrice jihadista il 7 gennaio 2015. Lo scritto assume il senso di un testamento intellettuale, in quanto è stato chiuso per la stampa il 5 gennaio scorso, ovvero due giorni prima della tragica uccisione dell'autore. Il libro si articola su due direttive che sono strettamente connesse: da una parte viene elaborata una acuta revisione critica del concetto di lotta all'islamofobia, dall'altra viene esposta la filosofia che aveva ispirato fino ad allora le scelte satiriche del giornale.
Ho letto recentemente con molto interesse il saggio 'Lettera ai truffatori dell'islamofobia' di Stephane Charbonnier, detto Charb, l'ex direttore del giornale satirico Charlie Hebdo, trucidato insieme ad una decina di collaboratori nell'attentato terroristico di matrice jihadista il 7 gennaio 2015. Lo scritto assume il senso di un testamento intellettuale, in quanto è stato chiuso per la stampa il 5 gennaio scorso, ovvero due giorni prima della tragica uccisione dell'autore. Il libro si articola su due direttive che sono strettamente connesse: da una parte viene elaborata una acuta revisione critica del concetto di lotta all'islamofobia, dall'altra viene esposta la filosofia che aveva ispirato fino ad allora le scelte satiriche del giornale.
- L’Islamofobia, nel senso
di infondato timore dell’Occidente nei confronti dei musulmani e dell’Islam, è
una patologia della nostra società che si è sviluppata di recente; in
particolare è cresciuta negli ultimi decenni e si è intensificata dopo
l’attentato a New York dell’11 settembre 2001. Paradossalmente - come osserva
Charb - la lotta all'islamofobia può generare un razzismo 'di ritorno' causato
da una iperprotezione degli islamici rispetto ad altri individui. La
lotta all'islamofobia infatti condanna qualsiasi aggressione solo nei
confronti dei musulmani in quanto tali, e dei loro simboli religiosi. Mi spiego
meglio con un esempio. La condanna di chi insulta una donna abbigliata secondo
l'usanza musulmana non ha come presupposto l'attentato alla libertà di una
cittadina straniera di vestirsi - nei limiti consentiti dalla legge -
come meglio ritenga, ma è imposta esclusivamente dalla protezione degli usi
islamici. In altri termini, in questo caso la tutela non ha come condizione
necessaria e sufficiente l'essere destinatario/a di diritti di libertà, ma si
fonda sulla confessione religiosa praticata dal soggetto che subisce l'offesa.
In proposito Charb polemicamente osserva "....tra non molto le vittime del
razzismo di origini indiane, asiatiche, rom, africane, antillane, eccetera,
faranno meglio a trovarsi una religione se ci tengono ad essere
difese...". Charb sembra pertanto concludere che sarebbe più opportuno e
più giusto eliminare la categoria della lotta all'islamofobia ed includerla in
quella più generale della lotta al razzismo, ovvero nel contrasto a qualsiasi
forma di pregiudizio. Al contrario la lotta all'Islamofobia crea una specifica
categoria protetta, e quindi nella sostanza è essa stessa paradossalmente fonte
di discriminazione. In proposito, la satira irriguardosa di Charlie Hebdo nei
confronti della religione musulmana non tenendo conto della specifica
pericolosità della suscettibilità degli islamici sarebbe il corollario di
questo punto di vista.
- Charb precisa che la
satira nei confronti degli islamici in realtà vuole colpire solo il
fondamentalismo, opponendosi a quella visione che riconduce tutto l'Islam
all'accezione integralista. Al riguardo, la celebre vignetta che raffigurava
Maometto con un turbante a forma di bomba, non intendeva insultare tutti i
musulmani suggerendo di vedere in essi dei potenziali terroristi, ma era un
modo per denunciare la strumentalizzazione della religione da parte dei jihadisti. La
polemica che ne è scaturita è stata enfatizzata dal circuito mediatico, da
ognuno per propri fini. Charb si chiede in virtù di quale teoria l’umorismo,
che colpisce altre religioni, dovrebbe essere incompatibile con l’Islam.
Il linguaggio virulento,
sfacciato talvolta insultante di Charlie Hebdo - da questo punto di vista
la satira si distingue dalla critica che, anche quando è negativa, dovrebbe
rimanere lucida e priva di eccessi - sembra far proprio il principio più
volte affermato da Dario Fò secondo cui la prima regola della satira è che non
ci sono regole. In proposito personalmente non sono d'accordo. Credo che la
satira non possa mai essere offesa gratuita, soprattutto quando tratta materie
che possono essere oggetto di particolare sensibilità, come la religione. Nella
pratica naturalmente non è facile stabilirne i confini. Peraltro nella nostra
società i media digitali consentono una notevole amplificazione di qualsiasi
messaggio, e pertanto si deve tener presente nella questione anche l'eventuale
allargamento delle possibili vittime destinatarie di un atto di
satira. RR
IL CASO 'REGENI' (15-2-2016)
Il drammatico caso del
ricercatore italiano, Giulio Regeni, ucciso al Cairo, induce alcune riflessioni
sulla libertà di intelligence.
- Innanzitutto, dalle
modalità dell'uccisione che sembrano tutt'altro che accidentali sembra
probabile il coinvolgimento di organismi di sicurezza egiziani. Questo tuttavia
non equivale a ritenere scontato che l'iniziativa delittuosa sia stata
preventivamente conosciuta, approvata e voluta dagli organi centrali di
settore. Nonostante il generale Al Sisi sia un uomo di potere
particolarmente solido, tuttavia non sembra che il Paese e l'apparato di
governo siano completamente sotto il suo controllo. Conseguentemente non può
escludersi che il fatto sia stata commesso autonomamente da un'articolazione
della struttura senza una preventiva condivisione politica. Peraltro, la
gravità del fatto e delle modalità, le tracce evidenti lasciate sembrano
indicare un'operazione non pianificata, decisa al momento nelle sue tragiche
evoluzioni, ed effettuata con una rudezza ed un accanimento incompatibile con una
minima professionalità. In altri termini, purtroppo può ritenersi possibile
che i servizi di sicurezza di alcuni Paesi possano giungere all'uccisione di
una persona. Si pensi in proposito al controverso caso dell'ex agente prima del
KGB e poi dell'FSB Aleksandr Litvinenko ucciso dai suoi ex compagni. Tuttavia,
come dimostra questo caso, le modalità esecutive di un'iniziativa così
meritevole della più grande censura, se sono pianificate - è sicuramente molto
brutto usare questo termine per l'uccisione di un uomo da parte di organi
istituzionali, seppur stranieri -, dovrebbero essere tali da ridurre quanto più
possibile la prova dal momento che il fatto oltre ad essere in sé
particolarmente grave, è suscettibile di probabili ripercussioni
internazionali. Peraltro, i rapporti commerciali e politici fra Italia ed
Egitto sono ottimi e molto intensi; inoltre al momento del rinvenimento del
cadavere era in corso una missione governativa italiana in Egitto e quindi
sicuramente il fatto è avvenuto nel momento sbagliato. Da queste premesse può
legittimamente argomentarsi che, se Giulio Regeni per l'Egitto costituiva un
problema, gli apparati di sicurezza dei due Paesi probabilmente avrebbero
congiuntamente dialogato e non si sarebbe arrivati ad un tale esito così
drammatico. Pur escludendo un coinvolgimento ufficiale dell'Egitto nella
questione non può essere considerato un atteggiamento connivente il tentativo
delle autorità di accreditare l'ipotesi dell'incidente nella morte del ragazzo:
è stato un maldestro tentativo per evitare che venissero evocate responsabilità
istituzionali.
- Un tempo l'intelligence intesa come raccolta ed analisi delle informazioni su un fatto o un evento era un'attività per pochi iniziati. Oggi, complice il Web, disponiamo di una mole illimitata di dati, una information overloading, e la fatica di cercare informazioni è stata surrogata da quella di selezionare, filtrare, organizzare; per questo oggi rispetto al passato è possibile fare molta intelligence, anche al di fuori degli ambiti istituzionali, e, non raramente, anche di buona qualità. Tuttavia prioritario all'attività di analisi è la raccolta dei dati; in proposito il contatto diretto con le fonti di informazioni è un valore aggiunto di particolare importanza. Il povero Regeni aveva ben chiara questa situazione; trasferendosi in Egitto, aveva deciso di spostare sul campo le sue ricerche che pertanto avrebbero fatto salto qualitativo, pericoloso per qualche ente, forse istituzionale. O forse Regeni stesso era diventato una preziosa fonte di informazioni da estorcere con ogni mezzo. Per gestire situazioni così pericolose e ridurre i rischi per quanto possibile, è necessario essere strutturati, cioè avere un apparato alle spalle che sia al corrente delle specifiche iniziative e quindi di fatto funga da garante imponendo con la sua presenza ogni necessaria cautela nell'eventuale controparte. Al contrario Giulio Regeni era probabilmente un free lance e questo lo ha esposto a dei rischi fatali. Ogni onore al coraggio e all'amore per la verità e la giustizia di Giulio Regeni, nella speranza che i suoi carnefici siano individuati e subiscano la giusta condanna. RR
- Un tempo l'intelligence intesa come raccolta ed analisi delle informazioni su un fatto o un evento era un'attività per pochi iniziati. Oggi, complice il Web, disponiamo di una mole illimitata di dati, una information overloading, e la fatica di cercare informazioni è stata surrogata da quella di selezionare, filtrare, organizzare; per questo oggi rispetto al passato è possibile fare molta intelligence, anche al di fuori degli ambiti istituzionali, e, non raramente, anche di buona qualità. Tuttavia prioritario all'attività di analisi è la raccolta dei dati; in proposito il contatto diretto con le fonti di informazioni è un valore aggiunto di particolare importanza. Il povero Regeni aveva ben chiara questa situazione; trasferendosi in Egitto, aveva deciso di spostare sul campo le sue ricerche che pertanto avrebbero fatto salto qualitativo, pericoloso per qualche ente, forse istituzionale. O forse Regeni stesso era diventato una preziosa fonte di informazioni da estorcere con ogni mezzo. Per gestire situazioni così pericolose e ridurre i rischi per quanto possibile, è necessario essere strutturati, cioè avere un apparato alle spalle che sia al corrente delle specifiche iniziative e quindi di fatto funga da garante imponendo con la sua presenza ogni necessaria cautela nell'eventuale controparte. Al contrario Giulio Regeni era probabilmente un free lance e questo lo ha esposto a dei rischi fatali. Ogni onore al coraggio e all'amore per la verità e la giustizia di Giulio Regeni, nella speranza che i suoi carnefici siano individuati e subiscano la giusta condanna. RR
STRUTTURA TRIBALE E REGIMI
AUTORITARI NEL MONDO ARABO (14-2-2016)
Il mondo arabo-islamico è
sempre stato caratterizzato da regimi autoritari. Probabilmente la motivazione
di questa aspetto strutturale risiede nella genesi delle nazioni arabe, nate -
in generale e con modalità storicamente diversificate - dalla fusione di tribù.
Questi Stati fin dalle loro origini, articolandosi su base tribale e
attribuendo la gestione del potere periferico a locali clan considerati la più
elementare unità territoriale, non hanno recepito l’esigenza di sviluppare
un’organizzazione amministrativa. La tribù - che aveva una specifica autonomia
e omogeneità ed era caratterizzata da propri stili di vita, da autosufficienza,
da un forte legame con il proprio territorio e, in alcuni casi, da una propria
lingua o dialetto - esercitava una forma localizzata di gestione del potere.
Nella tribù mancava qualsiasi espressione di democrazia diretta o
rappresentativa; l’attribuzione del potere era fondata su meccanismi dinastici,
di anzianità o su forme pseudo-istituzionali che predeterminavano
automaticamente il destinatario di funzioni di governo sulla comunità: era del
tutto estraneo a questo modello organizzativo qualsiasi strumento che
assicurasse facoltà di libera scelta. La società tribale pertanto - e
conseguentemente gli Stati arabi che ne ereditarono la cultura giuridica - non
si fondava sui diritti di libertà e di uguaglianza prerogativa delle
democrazie; in essa rilevava solo che si governasse secondo giustizia. Infatti,
un membro della comunità tribale poteva aspirare a poteri di governo solo se
apparteneva a una specifica linea dinastica o fosse titolare di aspettative (di
poteri di governo) in virtù di meccanismi di automatica predeterminazione. Conseguentemente
la condizione di un qualsiasi individuo si esauriva nell’accettare
pacificamente di essere governato da altri purché tale supremazia venisse
esercitata con equità e giustizia. Gli Stati arabi al momento della loro
nascita, riconoscendo la preesistente struttura tribale e demandando alla tribù
la gestione locale del potere, ne ottenevano come corrispettivo la fedeltà e il
sostegno ai rispettivi regimi. Solo nel corso dei tumulti della Primavera Araba
per la prima volta i popoli arabi hanno richiesto sistemi politici che, oltre a
governare con giustizia, assicurassero libertà e democrazia, quasi a reclamare
l’avvento di un tardivo Illuminismo. Nella creazione di un nuovo Stato
prioritariamente si forma un’assemblea costituente e si indicono libere
elezioni. Tuttavia negli Stati arabi questi presupposti di democrazia sono
rimasti intrappolati in un circolo vizioso: infatti, fu subito evidente da un
punto di vista pratico che le elezioni non potevano essere il momento iniziale
della democrazia, ma il suo punto di arrivo, dal momento che il loro valido e
libero svolgimento richiede un apparato che rispetti la sovranità popolare e
una coscienza civica ben strutturata. I moti della Primavera Araba, per il loro
carattere e la loro articolazione, hanno in ogni caso contribuito a
ridimensionare fortemente il ruolo dei gruppi terroristici e dell'esercito nei
cambiamenti di regime, che in precedenza si erano prodotti solo a seguito di
iniziative di gruppi eversivi o colpi di Stato consolidando la
rassegnazione a subire governi nazionali autoritari ed iniqui. Precedentemente
alla Primavera Araba infatti solo il terrorismo o le iniziative militari
sembravano poter offrire concrete prospettive di cambiamento: purtroppo
l'illusione che la realtà fosse mutata ha avuto breve durata. Nel mondo arabo
l’ingiustizia sociale e la mancanza di libertà e di democrazia, anziché
scomparire, sembrano oggi essersi rafforzate: la storia anche in questo
caso dimostra che per un cambiamento radicale di un corso istituzionale serve
molto tempo. Le rivoluzioni, anche se sembrano improvvise e imprevedibili, per
avere effetti permanenti, devono essere il risultato della sedimentazione di un
processo lento. RR
(da Roberto Rapaccini,
Paura dell'Islam, Cittadella Editrice, 2012)
IL RECLUTAMENTO JIHADISTA IN
FRANCIA (13-2-2016)
Le considerazioni di cui al
commento precedente sull'islamizzazione del radicalismo formulate da Michel
Onfray - ovvero che il proselitismo musulmano in occidente trovi un fertile
terreno nelle fasce sociali nelle quali è forte il malessere per la crisi
economica, sociale e politica - ridimensiona le tesi che pongono alla base
della conflittualità in atto fra Islam e Occidente rispettivamente uno 'scontro
di civiltà', o gli errori, nel mondo arabo, della politica postcoloniale dei
Paesi europei. Queste due tesi, infatti, culturalista la prima, terzomondista
la seconda, pur restando interessanti chiavi interpretative, evidenziano un
limite: se il conflitto fra l'Islam e Occidente è strutturale (come dovrebbe desumersi
dalle due teorie), non si spiega perché l'affiliazione al radicalismo jihadista
riguardi solo una parte minima, circoscritta e ben definita dei musulmani che
vivono in occidente (mentre questa situazione è comprensibile in base alle
intuizioni sull'islamizzazione del radicalismo). La tesi di Michel Onfray
sull'islamizzazione del radicalismo trova di fatto una conferma pratica in
alcuni studi portati a termine lo scorso anno in Francia, che hanno evidenziato
che il reclutamento jihadista riguarda quasi esclusivamente due categorie
sociali, cioè i musulmani di seconda generazione e i neoconvertiti all'Islam.
Per quanto riguarda i musulmani 'francesi' di seconda generazione, si argomenta
che la prima generazione di musulmani immigrati nei Paesi europei ha cercato di
integrarsi abbandonando spontaneamente tra l'altro l’abitudine di portare
indumenti tradizionali. Nella seconda generazione invece è affiorato il
malessere per i problemi endemici della società, e per un esito insufficiente
delle politiche di integrazione che non sono state facilitate dalla
distribuzione e dall'alta concentrazione della minoranza islamica in quartieri
periferici, come le banlieue di Parigi, Lione, Marsiglia, dove spesso gli
islamici costituiscono la maggioranza degli abitanti. Dalla terza generazione
invece ha prevalso l'integrazione e l'omologazione dei giovani nella cultura
occidentale. In sintesi, i musulmani di seconda generazione non vogliono la
cultura dei genitori, ma nemmeno la cultura occidentale, nella quale identificano
l'origine dei mali e del loro disagio. Nello stesso tempo chi si converte
all'Islam di fatto manifesta un'avversione all'occidente. L'Islam infatti è una
religione 'politica', in quanto la fede produce gli effetti di un’ideologia,
poiché è tensione per l’affermazione di un nuovo assetto sociale ispirato a
un’etica confessionale. L’adesione alla fede musulmana è vissuta dai convertiti
come una militanza, come un impegno collettivo rivolto a cambiare, anche con il
ricorso alla violenza, le strutture della società. Conseguentemente chi si
converte all'Islam non opta per una religione 'di compromesso', ma sceglie la
'purezza' dell'estremismo dell'opzione salafita, che maggiormente esprime la
rottura e l'avversione per 'l'odiato' l'occidente, e integra uno strumento di
lotta politica. Sembrerebbe quindi desumersi che il fondamentalismo jihadista
sia il prodotto di una rivolta generazionale prodotta dalla mancata
integrazione di specifiche categorie di giovani. Si giunge così alla
paradossale conclusione che l'Islam, nella radicalizzazione dei musulmani, sia
solo un fattore contingente e non essenziale. Un'ulteriore prova che sia più
corretto parlare di islamizzazione del radicalismo piuttosto che di
radicalizzazione dell'islamismo, come afferma Mifchel Onfray. RR
L'ISLAMIZZAZIONE DEL
RADICALISMO (7-2-2016)
Dopo il controverso romanzo
'Sottomissione' di Houellebecq, nel quale si profetizza una Francia che,
oggetto di una progressiva islamizzazione, nel 2022 si ritrova ad essere
governata da una Fratellanza Musulmana, anche Michel Onfray, di diversa
formazione politico-filosofica, si è soffermato con un recente saggio, 'Pensare
l'Islam', sui presupposti che possono facilitare una capillare penetrazione
della cultura musulmana nella civiltà occidentale. Nel caso di Houellebecq il
nuovo ordine sociale di impronta teocratica si instaura attraverso un processo
silenzioso - quasi impercettibile - quanto progressivo e inesorabile.
Michel Onfray ritiene invece che, anziché considerare come antagonista della nostra
civiltà la radicalizzazione dell'Islam, dobbiamo ritenere che sia in atto una
islamizzazione del radicalismo. Più in dettaglio. Nella società occidentale -
notoriamente in una fase di diffuso malessere - non esistono più valori oggetto
di riferimento, e tutto sembra dominato da una asettica amoralità, precipitato
della mancanza di un'etica comune e di un vuoto ideologico; domina una generale
visione relativistica in un clima di diffuso nichilismo, nel quale si è
smarrita ogni forma di spiritualità sulla quale fondare il senso
dell'esistenza. A margine, è ben nota la difficoltà dell'Europa di riconoscersi
nelle comuni radici giudaico-cristiane. La collettività non è una entità
omogenea, ma è una realtà parcellizzata, integrata dalla somma di microcosmi
individuali nei quali le vite si articolano in base alle pulsioni del momento.
A conferma, la corrente trasversale a tutti i generi artistici maggiormente
espressiva del nostro tempo è il minimalismo, che enfatizza la ripetitività
uniforme delle vicende quotidiane. Questo clima radicalizza - soprattutto in
alcune fasce sociali, nelle frange dell'emarginazione, nei giovani che hanno
difficoltà ad orientarsi - un atteggiamento critico nei confronti della
società. Al contrario l'Islam offre un modello che, seppur discutibile, si basa
su valori definiti e solidi, e che pertanto possono esercitare una qualche
seduzione su chi è alla ricerca di una identità definita per arginare il senso
di insicurezza nel quale si materializza il disorientamento. Per questo
Michel Onfray parla di islamizzazione del radicalismo. In altri termini, la
penetrazione della cultura islamica non è il risultato di un'aggressione o, più
ordinariamente, di un confronto con i nostri valori, ma è resa possibile dal
vuoto etico, dal clima di costante contraddizione, da una generale crisi che si
declina nella cultura, nelle connotazioni sociali, in una dialettica che
con difficoltà produce convincenti esiti politici. Così Michel Onfray, nel
corso di un'intervista, ha sintetizzato questa sua visione: "..la nostra
civiltà giudaico-cristiana è sfinita, morta. Dopo duemila anni di esistenza, si
compiace nel nichilismo e nella distruzione, nella pulsione di morte e
nell’odio di sé, non crea più niente e vive solo di risentimento e rancore.
L’Islam manifesta quel che Nietzsche chiama “una grande salute”: dispone di
giovani soldati pronti a morire per esso. Quale occidentale è pronto a morire
per i valori della nostra civiltà: il supermercato e l’e-commerce, il consumismo
triviale e il narcisismo egotista, l’edonismo volgare e il monopattino per
adulti?". Come antitodo, dobbiamo ripristinare in ogni settore della
società una dialettica positiva e costruttiva, libera da pregiudizi. Diceva
Einstein: "....la mente è come un paracadute, funziona se si apre".
RR
LA MAPPA DELL'ISLAM. 3. La
galassia sciita. (4-2-2016)
Anche il mondo sciita,
sebbene più compatto, è frammentato in alcune correnti. La principale
confessione è quella duodecimana o imamita, che è la più numerosa ed è
considerata la più moderata. I Duodecimani credono nella successione di dodici
imam (da Alì alla figura messianica di Muhammad Al Mahdi che, scomparso
nell'874, mai morto, tornerà alla fine dei tempi per ripristinare l'Islam nella
purezza originaria). Sono presenti soprattutto in Iran (l'85% circa della
popolazione) e in Iraq. I Settimimani invece credono che Al Mahdi, l'ultimo
imam, avrà solo sette predecessori. Tra essi vi sono gli Zaiditi, presenti
soprattutto nello Yemen del Nord, e gli Ismailiti, tra i quali vi sono i
Carmati (in Bahrein, dove, pur essendo gli Sciiti il 75% circa della
popolazione, è al potere un'élite sunnita), i Fatimidi, e i gNizari, noti in
passato come 'Setta degli Assassini' (consumatori di hashish) e presenti nel
subcontinente indiano. Da un punto di
vista politico ha particolare importanza la setta alawita o alauita, che è
presente in Siria, dove, pur costituendo una minoranza, è al potere essendo la
confessione religiosa della famiglia Assad; la dottrina Alawita ha carattere
iniziatico e contiene elementi del Cristianesimo e dello Zoroastrismo. Comunità
sciite, soprattutto duodecimane, sono presenti anche in Azerbaigian, in
Libano, nello Yemen e in Afghanistan. I Drusi sono una setta musulmana di
derivazione sciita fondata nel XI secolo in Egitto. La dottrina drusa,
particolarmente complessa, è integrata da elementi dell'Islam, del Giudaismo,
dell'Induismo e del Cristianesimo, ed ha ormai assunto caratteri talmente
peculiari che la pongono al di fuori della galassia musulmana; inoltre, poiché
è caratterizzata da un forte misticismo e da un carattere esoterico non
facilmente accessibile, è rivelata con grande circospezione solo a chi
sia ritenuto pronto e degno d'accoglierla. Le comunità druse, dopo un lungo
periodo di persecuzioni sunnite, sono attualmente presenti in Giordania, in Libano,
nella Siria meridionale, nell'Alta Galilea in Israele; in questi Paesi i Drusi
- si ritiene che siano circa 700 mila - si sono integrati,
arruolandosi nell’esercito e partecipando attivamente alla vita politica
nazionale, senza però prendere parte a conflitti sociali probabilmente per un
pragmatico calcolo di sopravvivenza che li spinge a non esporsi. Tuttavia
in alcune occasioni i Drusi hanno avuto un peso politico importante, diventando
elemento determinante nei precari equilibri mediorientali. Questo è avvenuto
soprattutto in Libano mediante il loro leader Jumblatt. Pertanto, pur
trattandosi di piccole comunità, i Drusi hanno svolto e possono svolgere
funzioni decisive di mediazione politica, in piena applicazione del consolidato
principio geopolitico secondo il quale chi non ha una particolare forza che gli
consenta di comandare, può sopravvivere attraverso il potere che acquista
mediante un'abile attività diplomatica.RR
LA MAPPA DELL'ISLAM. 2. La galassia sunnita. (3-2-2016)
I Sunniti, che sono la confessione
del 90% circa di tutti i musulmani, sono divisi in quattro principali scuole
giuridico-teologiche: a) I Malikiti, che danno fondamentale importanza
interpretativa agli usi giuridici, religiosi e sociali praticati a Medina,
considerando questa città la prima depositaria degli insegnamenti di Maometto;
sono presenti nel Maghreb, in Egitto, in Sudan, nel nord ovest dell’Eritrea. b)
Gli Shafiiti, che danno particolare importanza all'approfondimento dei criteri
interpretativi oggettivi del Corano e della Sunna (la raccolta dei
comportamenti del Profeta) per escludere opinioni soggettive e arbitrarie; sono
presenti soprattutto in Africa Orientale, ma anche in Indonesia, in Egitto e in
Palestina. c) Gli Hanbaliti, che sono contrari alle speculazioni filosofiche e
alla libera interpretazione delle scritture; sono presenti in Arabia Saudita,
in Siria, in Egitto. d) Gli Hanafiti, che sono gli interpreti più elastici del
Corano e della Sunna in quanto attribuiscono significato al ragionamento
deduttivo e analogico; sono presenti in Siria, in Iraq, in Palestina, in
Afghanistan, in India, nei Balcani. Alla fine del XIX secolo si è diffuso il
Salafismo, il movimento fondamentalista particolarmente intransigente che
ritiene prioritario su ogni progetto politico la restaurazione dell’Islam delle
origini, e che rifiuta qualsiasi forma di occidentalizzazione. I Salafiti sono
presenti ed in preoccupante rapida ascesa in tutto il mondo musulmano: fin
dalla prima metà del Novecento hanno cominciato a tradurre le proprie posizioni
ideologiche in un concreto impegno politico anti-occidentale. Questo
atteggiamento è stato recepito nelle frange estreme degli ambienti
fondamentalisti che hanno ritenuto così di avere un conforto religioso nella
pianificazione di azioni violente, compreso il ricorso a iniziative
terroristiche suicide. I Wahabiti sono i seguaci di Muhammad bin Abd al-Wahhab,
vissuto all’inizio del XVIII secolo, alleato di Muhammad bin Saud, principe di
un’oasi della regione del Neged, capostipite della dinastia che nel XX secolo
unificherà l’Arabia e che tuttora governa il Paese. Punto fondamentale della
dottrina è l’affermazione del 'tawhid', ovvero l’assoluta unità di Dio e la
lotta con ogni mezzo contro tutte le forme di culto devianti o atipiche. Il
buon governo è l’adeguamento della prassi politica e giuridica ai fondamentali
principi della Sharia, che, con estremo rigore, deve regolare ogni
comportamento umano. Per questo la dottrina wahabita manifesta una radicale
ostilità nei confronti di quei governi che si allontanano dalla via tracciata
dal Corano: non c’è spazio per forme di legittimità democratica di tipo
occidentale in quanto l’unica legittimità viene dal letterale rispetto della
legge divina. Il wahabismo ha sempre goduto del sostegno finanziario dei potentati
sauditi; oltre ai regnanti sauditi, wahabita era anche Osama bin Laden. La
dottrina wahabita è particolarmente radicata in Arabia Saudita. I Fratelli
Musulmani sono invece un’organizzazione politica estremamente composita, nella
quale convivono posizioni divergenti. Prevale tuttavia una visione
integralista, che si manifesta principalmente nella ferma opposizione alla
secolarizzazione delle nazioni islamiche. Questo movimento, per la sua storia,
per la sua diffusione nel mondo arabo e per l’ampio consenso e prestigio di cui
ha sempre goduto, può essere considerato la madre di tutte le organizzazioni
islamiche, sia moderate sia fondamentaliste. I Fratelli Musulmani hanno spesso
intrapreso iniziative di carattere filantropico, concentrando il loro impegno
non solo nel settore politico, ma anche nell’insegnamento, nella sanità e in
attività sociali e religiose, come l’organizzazione di incontri di preghiera e
di spiritualità. Il Movimento fu fondato nel 1928 da un insegnante egiziano di
un villaggio sulle rive del Canale di Suez; il movimento dei Fratelli Musulmani
si colloca pertanto nel complesso quadro di un risveglio culturale e religioso
che nei primi decenni del XX secolo reagiva a iniziative di occidentalizzazione
della società islamica. Il fondatore si propose il conseguimento di obiettivi
politici concreti di tipo socialista, come la promozione della dignità e il
riscatto dei lavoratori arabi egiziani; questi fini, anziché dare impulso a uno
stato laico che avrebbe dovuto rifiutare la cristallizzazione dei rapporti
sociali che sarebbe conseguita dal carattere confessionale delle istituzioni,
furono collocati nel quadro della concezione morale e religiosa islamica. Per
il perseguimento di questi obiettivi infatti veniva attribuito particolare rilievo
all’educazione e alla sensibilizzazione ai precetti islamici in materia di
solidarietà. In relazione a questa classificazione viene naturale chiedersi
quali Paesi musulmani debbano essere considerate espressione di un Islam
moderato e quali invece siano il correlato politico dell'Islam fondamentalista.
In proposito, l'opinione dei Paesi occidentali risulta spesso arbitraria in
quanto il giudizio sulla corrente dell'Islam che prevale in un Paese musulmano
è influenzato dai rispettivi rapporti economici, commerciali, diplomatici,
culturali con quel Paese o dal clima amichevole delle località turistiche
arabe. Ad esempio l'Occidente sembra considerare moderate le monarchie saudite
in quanto alleate e importanti partner commerciali; in realtà, nella penisola
arabica predomina il Wahabismo, che - come detto - è una forma estremamente
rigorosa e intransigente di Islam. RR
LA MAPPA DELL'ISLAM. 1. La
prima divisione: Sunniti, Sciiti, Kharigiti. (2-2-2016)
Si è detto più volte in
questi commenti che sarebbe più corretto parlare degli Islam e non di Islam.
L’Islam infatti è erroneamente considerato una monade dai tratti
definiti. Al contrario manca un’autorità capace di esprimere una posizione ufficiale
su ogni specifica questione; nell'Islam conseguentemente convivono molte
confessioni - ovvero gli Sciiti, i Sunniti, i Wahabiti, i Salafiti, gli
Ismailiti, per menzionarne alcune - che assumono posizioni spesso divergenti
fra di loro. La principale divisione è fra Sciiti e Sunniti ed è tornata di
grande attualità negli ultimi mesi a seguito dell’uccisione di un importante leader
religioso sciita in Arabia Saudita e delle tensioni fra lo Stato saudita e
l'Iran che ne sono seguite. I fatti che hanno dato origine alla scissione fra
Sciiti e Sunniti risalgono al periodo di poco posteriore alla morte di
Maometto; emerse allora un contrasto sui criteri per l’individuazione del
califfo, ovvero del successore del Profeta che avrebbe dovuto assumere il ruolo
di capo politico e spirituale della comunità musulmana. Per gli Sciiti, poiché
Maometto non aveva figli maschi, il primo successore andava individuato in Alì,
cugino e genero del Profeta, che sposò la figlia Fatima; in questo modo, la
successione si sarebbe attuata all’interno della discendenza del Profeta. Per
i Sunniti era invece necessario individuare il califfo mediante una libera
investitura della comunità dei fedeli, riconosciuta come una vera autorità
religiosa. I Sunniti proposero pertanto come califfo Abu Bakr, uno dei primi
convertiti all’Islam nonché suocero di Maometto (era il padre di Aisha).
Seguirono vicende belliche che consolidarono i due fronti. Attualmente la
differenza fondamentale fra queste due principali componenti dell’Islam
riguarda l’esistenza e il ruolo della gerarchia religiosa, mentre per quanto
concerne i fondamenti della fede non ci sono rilevanti diversità. Nel Sunnismo
non c’è un vero e proprio clero: chiunque si sia preparato nella dottrina e
nella teologia islamica può proporsi o autoproclamarsi imam, ovvero
guidare la preghiera e il culto, mentre le predicazioni religiose in Internet e
nei media sono tenute generalmente dai saggi e dagli studiosi, cioè dagli
ulema, dai muftì, dai mullah. Chi è benestante, o anziano, o goda di
particolare visibilità, o prestigio, o responsabilità sociale, può anche
fregiarsi del titolo onorifico di sceicco. Lo Sciismo ha invece un clero
organizzato preparato in università specifiche di scienze islamiche o
nelle scuole teologiche: per diventare mullah o ayatollah è necessario quindi
svolgere studi. Gli ayatollah sono le guide spirituali dei fedeli sciiti iraniani;
anche se si tratta di un vero e proprio clero, non vi sono modalità uniformi
per raggiungere questo titolo. Generalmente l'elevato titolo di ayatollah è
attribuito a coloro che hanno ottenuto particolari meriti sia per proclamazione
che per nomina da parte di un altro ayatollah. Circa i rapporti fra religione e
politica, mentre secondo i sunniti Stato e religione non sono separabili, gli
sciiti hanno una tradizione di formale indipendenza fra leader religiosi e
politici; tuttavia lo Stato sciita è soggetto al clero, il quale monitora e
decide se un governante è degno di governare e se rispetta le linee guida
islamiche. Fra gli Stati a maggioranza sunnita (i Sunniti sono il 90% circa di
tutta la popolazione musulmana) hanno una particolare importanza strategica
l'Arabia Saudita, la Turchia, l'Egitto, la Giordania, il Sudan, la Somalia, lo
Yemen, i Paesi del Maghreb. Lo Sciismo è invece diffuso in Iran (il 90% della
popolazione), in Iraq (lo è un terzo della popolazione musulmana), in Pakistan
(20%), in Arabia Saudita (15%), in Bahrein (70%, ma è al potere la minoranza
sunnita), in Libano (27%), in Azerbaigian (85%), nello Yemen (50%). Minoranze
sono presenti in Turchia e in altre parti del mondo, compreso l’Occidente. La
Siria, pur essendo un Paese a maggioranza sunnita, prima dell'inizio
dell'attuale guerra civile, era governata dalla famiglia Assad (di fede
alawita-sciita) e da una potente burocrazia sciita. Il Paese di riferimento
politico e religioso degli Sciiti è l’Iran. La rivoluzione del 1978/1979, che
ha trasformato la monarchia persiana in una repubblica islamica, è stata
guidata dalle autorità religiose, fra le quali ebbe particolare rilievo
l’ayatollah Khomeini. La Repubblica Islamica Iraniana è di fatto una vera
teocrazia. In altri Paesi - come il Bahrain come già detto - nonostante la maggioranza
della popolazione sia sciita, è al potere la minoranza sunnita: anche in
questi casi le vicende storiche sono il fondamento di questa contraddizione.
Nel tempo pertanto si sono così consolidati due blocchi: quello sunnita che è
sotto la leadership saudita, che sembra attualmente non condivisa dalla
Turchia, e quello sciita, guidato dall'Iran, alleato storico della Siria e
sostenitore del movimento libanese Hezbollah, il cui ramo militare ha
come obiettivo la distruzione di Israele. Oltre alla divisione fra Sciiti e
Sunniti esiste una terza originaria confessione, attualmente di scarsa entità,
quella kharigita. I kharigiti sono una setta islamica la cui origine
risale al 657: dopo la battaglia di Siffin, il quarto califfo e
genero di Maometto Alì concluse un accordo con il suo rivale Muawiya I,
governatore della Siria e primo califfo degli Omayyadi. I Kharigiti non
accettarono il patto, che di fatto sanciva una tregua delle ostilità, e
abbandonarono il partito di Alì (il verbo kharagia in arabo significa
andare via). I Kharigiti ritengono che la carica di Califfo si debba attribuire
per via elettiva senza vincoli di casta, di tribù, di famiglia, e di razza.
Oggi i Kharigiti sopravvivono in piccoli nuclei in alcune località
dell'Algeria, della Tunisia, a Zanzibar e nell'Oman e non hanno particolare
rilevanza da un punto di vista politicoe religioso. Sciiti, Sunniti e Kharigiti
solo il risultato della prima scissione fra fedeli musulmani negli anni
successivi alla morte del profeta Maometto. Seguirono molte altre ed importanti
frammentazioni di cui si dirà. RR
Musei
Capitolini, Rohani, coperti i nudi. (28-1-2016)
In questi giorni si sta discutendo,
con spunti polemici, dell'iniziativa di occultare con dei pannelli, in
occasione della visita del leader iraniano Rohani, i nudi dei musei
capitolini. Credo che la questione sia molto più banale di quanto sia stata
enfatizzata. Le visite di Stato o di personalità straniere sono precedute da
missioni preparatorie e incontri diplomatici nei quali vengono evidenziati
tutti gli aspetti (di programma, di sicurezza, medici, conviviali, culturali,
religiosi, etc.,) che possono rendere ottimale lo svolgimento dell'evento. La
delegazione iraniana in proposito probabilmente ha espresso che fosse evitata
al Presidente, per motivi religiosi, la vista dei nudi artistici. I funzionari
italiani che hanno organizzato la visita hanno ritenuto conveniente accogliere
la richiesta per ragioni di ospitalità, conformemente a quello che avviene di
norma nella prassi consolidata. La scelta pertanto è stata di natura
esclusivamente diplomatica, ovvero dettata dal rispetto dell'ospite. Sarebbe
stato molto più controverso se fossero stati occultati i simboli che
appartengono alla nostra tradizione, religiosa e culturale. Naturalmente
si può discutere sulla questione, ovvero se sia stato il frutto di un eccesso
di zelo del cerimoniale; è legittimo avere pareri diversi, ma, per onestà
intellettuale, l'iniziativa deve essere considerata alla luce delle prassi
diplomatiche in atto, evitando quella strumentale dietrologia che ha
visto nel gesto una presunta nostra soggezione all'Islam o il ripudio della
nostra tradizione artistica. Senza false ipocrisie e con un po' di cinismo si
deve ricordare che queste visite sono strumentali ad accordi politici e/o
economici e lo Stato ospitante ha l'interesse che il soggiorno dell'ospite
straniero sia quanto più possibile gradevole; tutto, entro i confini del
lecito, può concorrere al carattere proficuo della visita e al buon esito dei
propositi. La diplomazia serve anche a questo. È significativo che il
presidente Rohani abbia apprezzato esplicitamente l'ospitalità italiana.
Ovviamente non concordo con i pregiudizi 'artistici' di Rohani, ma rispetto il
suo punto di vista che è il precipitato della sua cultura e della sua
religione. Peraltro non dobbiamo dimenticare che dopo il Concilio di Trento,
molte opere d'arte italiane vennero ritoccate per vestire nudità femminili, e,
solo dopo delicati restauri, è stato possibile ripristinare i dipinti nella
versione originale. Quanto alle critiche della stampa estera, ingenerose e
demagogiche, ognuno ha il proprio stile nell'accogliere gli ospiti stranieri a
casa propria e, al riguardo, la diplomazia italiana non ha nulla da imparare
dai collaterali colleghi stranieri. Personalmente non ho apprezzato che il
ministro Franceschini, anche in considerazione della sua posizione
istituzionale di vertice di un dicastero, si sia unito al generale dissenso per
l'iniziativa. RR
LA TURCHIA ATTUALE (27-1-2016)
LA TURCHIA ATTUALE (27-1-2016)
Com'è noto, lo scopo della
Nato fu la creazione, al termine della Seconda Guerra Mondiale, di
un’alleanza militare a carattere difensivo, che venne istituita in relazione
alle insorgenti tensioni fra il cosiddetto mondo occidentale e il fronte
costituito dall'Unione Sovietica e i suoi Stati satelliti. Con la 'caduta
del muro di Berlino' e la conseguente disgregazione del blocco sovietico è
venuto meno l'antagonista per in quale era stata costituita l'Alleanza
Atlantica. Fino a quando la realtà politica mondiale si era retta
sull’equilibrio Usa-Urss, era in atto una sorta di bilanciamento tra le due
potenze fondato su un ordine bipolare caratterizzato da uno stato
permanente di contrapposizione e di ostilità reciproche. La dissoluzione
dell’Unione Sovietica ha rotto questo equilibrio, creando un'egemonia degli Usa
rimasta di fatto l'unica reale superpotenza: il primato alimenta negli Usa
velleità interventiste in relazione a potenziali minacce alla sua sicurezza e a
quella dell’Occidente. Chi è cresciuto nel contesto politico della guerra
fredda può tuttavia ritenere che la contrapposizione fra il mondo islamico
fondamentalista e l’Occidente abbia sostituito il vuoto creato dal crollo
dell’Unione Sovietica, dal momento che l’Islam non è soltanto una religione ma
può rappresentare una realtà geopolitica. Pertanto, l'esistenza della Nato
potrebbe trovare una nuova giustificazione nel contesto di questo confronto,
ovvero nella guerra 'asimmetrica' con il terrorismo di matrice islamica. In
relazione a questo nuovo ruolo della Nato, la presenza dello Stato turco
all'interno del Patto Atlantico (peraltro, la frontiera della Turchia,
confinando nella regione nord-orientale con l'Urss, era sede di un'ideale
continuazione del muro di Berlino) assume un significato strategico
problematico. Mentre al momento dell'adesione al Patto, la posizione della
Turchia era di indubbia vicinanza politica agli Stati occidentali, l'attuale
processo di neoislamizzazione del Paese rende incerta la sua affidabilità dal
momento che la il Paese è chiaramente allineato in favore dell'islamismo
sunnita nel cui ambito si alimenta la deriva fondamentalista di matrice
islamica. Inoltre all'interno del Paese si sta affermando in maniera
inquietante una linea autoritaria che sta determinando un preoccupante
arretramento nella tutela dei diritti di libertà. Probabilmente il
problema di fondo è quello di comprendere se la Turchia attuale si identifichi
con la politica di Erdogan - che attraverso un processo di lungo periodo sta
trasformando l'identità geopolitica del Paese - o sia rimasta integra la sua
matrice laica e filo-occidentale. La Turchia di Erdogan, che ha un ambiguo
atteggiamento nei confronti dell'Isis, vuole tornare ad essere una grande
potenza mondiale cercando di acquisire un'incontrastata egemonia nell'ambito
dell'Islam sunnita - in concorrenza con le monarchie saudite - aspirando di
fatto alla ricostituzione di una aggiornata versione del grande Califfato (il
progetto neocaliffale quindi non è solo dello Stato Islamico). La
scomparsa dell’Unione Sovietica inoltre consente il ripristino degli antichi
collegamenti con i popoli di lingua turca dell’Asia centrale: conseguentemente,
sia da parte turca che da quella occidentale, sembra definitivamente
tramontato il pregresso interesse all'integrazione europea, dal momento che la
Turchia potrebbe diventare punto ideale di riferimento geopolitico per un
spazio che va dalla Mongolia al Corno d’Africa. Tuttavia gli Usa, per frenare
la deriva mediorientale di Ankara, sicuramente ritengono di vitale importanza
mantenere salde le relazioni fra il Paese e l'Occidente; in proposito la Nato
sicuramente è lo strumento più adeguato. Dopo il noto incidente con la Russia a
seguito dell'abbattimento del velivolo russo, la Nato, dopo essersi subito
dichiarata dalla parte della Turchia, sembra che si sia frettolosamente
impegnata ad aumentare la capacità di difesa del spazio aereo turco da
potenziali minacce russe. Il referente nel mondo islamico, che l'Occidente
riteneva di poter individuare nella Turchia kemalista, potrebbe essere in
futuro l'Iran che, in quanto sciita, non vive in una condizione di
soddisfacente integrazione nel cosmo islamico, notoriamente a prevalenza
sunnita, e che, dopo l’accordo di Vienna del 14 luglio scorso, inizia in questi
giorni l'implementazione concreta della fase che segnerà l’avvio del
superamento delle sanzioni, in vigore a vari livelli dal 2006, e che aspira ad
accreditarsi come partner affidabile dell'occidente. L'anima dell'Iran, anche
se ben mascherata da un islamismo militante, è moderna e occidentale. Teheran
pullula di grattacieli, torri e ponti avveniristici, simboli già
nell’architettura di una voglia di svolta, come ha notato acutamente un
giornalista di un noto quotidiano. Sarebbe auspicabile in futuro che l'Iran,
superando le spinte che provengono dalle frange radicali di probabile
estrazione popolare, ammorbidisca anche la sua acredine con Israele (e
viceversa lo stesso faccia Israele). Sarebbe una rivoluzione di grandi
prospettive. Fantapolitica? Se si sogna da soli, è solo un sogno, se si sogna
insieme, è la realtà che comincia, dice un proverbio africano. RR
LA TURCHIA FRA ISLAM
E LAICITA' (22-1-2016)
La Turchia ha un'importanza
centrale nell'attuale crisi siriana e più in generale nei precari equilibri
della regione mediorientale. Il suo ruolo spesso poco chiaro forse è il
corollario di un quesito di fondo: la Turchia è uno stato laico o islamico? E'
un'appendice dell'occidente in Asia o è la punta avanzata dell'oriente in
Europa? È un pezzo di medio oriente in occidente o un pezzo di occidente in
medio oriente? Probabilmente tutte queste opzioni hanno un fondo di verità in
quanto questo Stato è il diretto erede dell'impero ottomano che realizzò una
sintesi fra la realtà balcanica europea e la civiltà anatolica. Simbolicamente
sul Bosforo c'è un ponte lungo più di un chilometro, che unisce non solo due
parti distanti della città, ma due continenti, Asia ed Europa. Questo ponte è
il simbolo di quella doppia anima che pone spesso la Turchia al centro di
delicate questioni geopolitiche, che si ripercuotono sulle sue vicende
nazionali. La natura ambigua del Paese, oltre che attraverso la sua
collocazione geografica, può essere compresa anche ripercorrendo la storia
dello Stato turco nel XX secolo, nel quale, attraverso colpi di Stato e
rivolte, si sono alternati istanze di radicale laicizzazione, di cui i militari
furono i maggiori garanti, ad un periodico riemergere di un'anima conservatrice
fondamentalista che ha promosso processi di islamizzazione. In proposito, nel
Novecento la storia turca si è articolata attraverso queste tappe
fondamentali. Nel 1923 Mustafa Kemal Ataturk, divenuto leader del Partito Popolare
Repubblicano, dopo aver deposto il sultano Maometto VI sulle ceneri dell'Impero
Ottomano fondò la Repubblica turca, di cui fu il primo presidente. Kemal
Ataturk è considerato eroe nazionale e padre della Turchia moderna: avviò una
puntuale modernizzazione coniugando uno spiccato nazionalismo con una capillare
laicizzazione. Venne infatti abolito il califfato (ora ripristinato dallo Stato
Islamico), vennero chiuse le scuole coraniche e soppressi i tribunali
religiosi, venne esteso il diritto di voto alle donne, furono introdotti codici
e una legislazione di ispirazione europea, all'alfabeto arabo venne affiancato
quello integrato dai caratteri occidentali. Ataturk morì nel 1938, ma il
processo di avvicinamento culturale e politico all'occidente continuò con i
governi che seguirono: nel 1945 la Turchia divenne membro dell'Onu, nel 1952
entrò a far parte della Nato; durante la guerra fredda, la Turchia fu un fedele
alleato degli Stati Uniti. Tuttavia i governi laici che si alternarono
dovettero più volte fronteggiare i movimenti islamici che rivendicavano un
ruolo maggiore nelle vicende del Paese. Affiorarono quelle contraddizioni che
sono particolarmente evidenti nella realtà turca attuale. A tutela delle
istanze laiche nelle situazioni di maggiore conflittualità intervenne
l'esercito. In particolare, per porre fine ad un periodo di tumulti, nel 1980
il generale Evren prese il potere con un colpo di Stato, probabilmente con la
complicità del governo Usa che voleva contrastare lo sviluppo dei movimenti
popolari di sinistra. La dittatura militare durò due anni, nel corso dei
quali venne modificata la Costituzione e nella sostanza ci si allontanò dallo
spirito riformista kemalista. Il generale Kenan Evren avviò un processo di
normalizzazione della società turca, nella quale si realizzò una sintesi fra un
nazionalismo acceso e il conservatorismo dei fondamentalisti islamici, nel
quadro di un sistema ispirato a principi neo-liberisti, che si allontanavano
sempre più dalle istanze progressiste. Ristabilito il potere, ribadito il
carattere laico della Turchia, i militari, come già era avvenuto nel 1960, nel
1970, rinunciarono al potere politico - che pertanto il generale Evren mantenne
per il periodo strettamente necessario - e nel giro di due anni riconsegnarono
il Paese nelle mani dei civili convocando libere elezioni democratiche. Evren
lasciò successivamente l'esercito e venne eletto dal Parlamento Presidente
della Repubblica rimanendo in carica fino al 1989. Nel 2002 l'AKP, il Partito
per la Giustizia e lo Sviluppo, filo musulmano e conservatore - che si era
sviluppato nella tradizione dell'Islam politico virando tuttavia verso un
modello di democrazia conservatrice - si impadronì del potere. Il suo leader e
fondatore Recep Tayyip Erdogan divenne primo ministro: ebbe inizio un lungo
periodo di gestione del potere molto controverso, che dura ancora oggi. Questi
sono i precedenti storici che hanno preceduto l'ascesa al potere della ambigua
personalità di Recep Tayyip Erdogan. RR
RIFLESSIONI SULLA DIFFUSIONE DEL PREGIUDIZIO ANTISEMITA SUL WEB. (16-1-2016)
RIFLESSIONI SULLA DIFFUSIONE DEL PREGIUDIZIO ANTISEMITA SUL WEB. (16-1-2016)
L'approssimarsi del Giorno
della Memoria - il 27 gennaio p.v. - può indurrealcune riflessioni sulla
diffusione del pregiudizio antisemita sul Web, in particolare nei sui social
network. Analogamente al passaggio del Web da 1.0 a 2.0 è stato definito
antisemitismo 2.0 quello che si avvale di reti sociali come Twitter e Facebook.
Le reti sociali creano una comunità virtuale che può avere una dimensione
transnazionale; sono infiniti non solo le potenzialità, ma anche i rischi,
perché in questo ambito le informazioni circolano, si amplificano, e possono
essere facilmente manipolate e falsificate. L'antisemitismo nei social network
ha sottilmente determinato una banalizzazione dell’aggressione antiebraica.
Prima della nascita di Internet, l’antisemitismo era un fenomeno circoscritto
all’interno di una limitata cultura, se così può essere definita (si
manifestava «[…] in forma residuale e ridotta con graffiti sui muri delle città
o in certe pubblicazioni di nicchia» - dal Documento conclusivo
dell’indagine parlamentare conoscitiva sull’Antisemitismo, 2011).
L’avversione per gli ebrei in Internet è un fenomeno diffuso e si avvale anche
della costituzione di gruppi ad hoc a cui si aderisce per emulazione,
per solidarietà amicale, per superficiale suggestione. Con il Web, ma
soprattutto attraverso i social network, l’incremento di iniziative
antiebraiche, oltre a perseguire fini propagandistici, ha indotto la comunità
virtuale a considerare erroneamente l’antisemitismo un punto di vista
socialmente accettabile come tanti altri. L’ampiezza del fenomeno e la sua
espansione, banalizzando il pregiudizio razziale, lo fanno percepire al pari di
una qualsiasi ideologia politica o, peggio, al pari del tifo per un club
sportivo. Le autorità, considerata la natura estesa dei social network, hanno
difficoltà ad adottare nei loro confronti i provvedimenti di oscuramento,
facilmente applicabili per i siti che hanno un'identità più definita. L’unico
rimedio efficace è una fattiva collaborazione con i gestori delle reti sociali
per fini preventivi e repressivi, attraverso il monitoraggio, la rimozione dei
contenuti illeciti, l’acquisizione dei dati dei responsabili per avviare le
procedure sanzionatorie. Tuttavia non sempre è facile ottenere la collaborazione
dei gestori, che possono risiedere all’estero e sollevare eccezioni fondate
sulla normativa del proprio Paese. Anche se segue la rimozione, la
pubblicazione di messaggi che incitano all’odio razziale, pur temporanea, è di
già per sé un danno. In proposito nel 2008, in coincidenza con il settantesimo
anniversario della notte dei cristalli, sono apparsi su Facebook messaggi di
contenuto razzista; anche se i messaggi sono stati prontamente rimossi dal
gestore dalla rete, il direttore delle relazioni internazionali del Centro
Wiesenthal, Shimon Samuels, ha evidenziato l’opportunità di evitare la
pubblicazione di materiale di questo tipo, in quanto, anche se temporanea, la
pubblicazione costituisce già di per sé un danno. Di fronte alle informazioni
fornite da un sito o da un blog la prima rilevante questione è quella
dell’attendibilità. Per i mass media tradizionali questo problema si pone in
maniera molto più ridotta, in quanto essi dispongono di una soggettività dai
tratti definiti (ad esempio, è nota la proprietà dell’organo di informazione, e
può quindi essere presumibile il suo orientamento politico e ideologico).
L’informazione poi è in ogni tempo verificabile nei media tradizionali: nei
giornali scripta manent, nelle trasmissioni radiotelevisive si conservano
per un periodo di tempo le registrazioni. L’informazione sul Web è invece
facilmente rimovibile o manipolabile. L’avvento di Internet induce inoltre a
rivedere i meccanismi di formazione dell’opinione pubblica, che ha tratti
costitutivi differenti nei diversi Paesi occidentali: dove la democrazia ha un
carattere maggiormente diffuso e partecipativo, l'opinione pubblica è
sicuramente il risultato della somma dei punti di vista dei cittadini che
comunicano le loro convinzioni (soprattutto attraverso i sondaggi oltre che con
gli strumenti tipici delle relazioni umane). Al contrario, in alcuni Paesi
europei la popolazione sembra subire passivamente l’influsso dei media e del
potere politico; questo avviene negli Stati che sono definiti post-democrazie
proprio per sottolineare che le prassi democratiche in queste realtà si vanno
progressivamente svuotando della partecipazione attiva e dell’interesse dei
cittadini. Ivi, terminate le elezioni politiche, epilogo di un sistema gestito
da gruppi di potere e da professionisti esperti nelle tecniche persuasive, le
attività di governo sono amministrate come un fatto privato dalle componenti al
potere, che eventualmente interagiscono con lobby portatrici di interessi
economici nell’assenza di un coinvolgimento generale. In tali situazioni si
evidenzia un individualismo che impedisce l’emergere di una definita coscienza
collettiva: la democrazia si avvia al tramonto e la società civile è sempre più
lontana dalla società politica. L’opinione che ha come oggetto questioni di
interesse generale è collocata dall’individuo nei recessi della coscienza;
l’indifferenza rende i cittadini maggiormente permeabili agli influssi esterni
e per questo l’opinione pubblica in questi Stati è più facilmente
condizionabile dai media e dagli opinion-maker, anche se di basso profilo
culturale. Nelle democrazie partecipative, considerata la reattività del
singolo individuo, le campagne per influire sulle convinzioni dei cittadini
sono efficaci se sono particolarmente capillari. Al riguardo, si va riducendo
l’importanza dei mass media tradizionali, ovvero giornali e reti
radiotelevisive, mentre sono in forte ascesa, come strumento di diffusione
delle idee, web-site e social network: i presupposti del loro operare sono
completamente diversi rispetto a quelli dei media tradizionali. Il linguaggio
del Web è molto più sintetico e immediato rispetto a quello giornalistico e
televisivo, e l’informazione viene spesso diffusa senza la necessità di
particolari approfondimenti, avvalendosi però di opportunità multimediali, come
ad esempio di video, di foto, o di collegamenti vari. Inoltre, l’informazione
sulla stampa cartacea e su radio-tv ha mediaticamente una vita limitata
strettamente al tempo della diffusione dei contenuti; ad esempio, il quotidiano
ha una durata giornaliera, mentre un evento radiotelevisivo di norma viene
visto solo durante la sua trasmissione. Dopo, l’uno e l’altro sono archiviati
dalla nostra memoria. Diversamente, tutto quello che è su Internet è nella
costante disponibilità dei destinatari, in quanto si presta ad accessi ripetuti
e a letture successive; in concreto, ha maggiori occasioni di persuasione. I
media tradizionali inoltre vivono in una sorta di conchiusa individualità,
mentre la pagina web, come detto, può contenere collegamenti con materiale
multimediale, con altri siti e fonti di informazioni. Così, la pagina web può
apparire come una realtà inserita in un contesto più ampio e coerente, e questo
aspetto influisce positivamente sulla sua affidabilità persuasiva. Con un click
è possibile per il fruitore dell'informazione girare contenuti ad altrettanti
fruitori: il contenuto della notizia così, oltre ad avere un’ulteriore
diffusione, sarà implicitamente certificato dalla credibilità di chi lo
diffonde, che spesso è ignaro di questo valore aggiunto che apporta. (da R.
Rapaccini, Il pregiudizio religioso sul Web, 2013)
LA PREVISTA EVOLUZIONE DEL TERRORISMO DI MATRICE ISLAMICA (11-1-2016)
LA PREVISTA EVOLUZIONE DEL TERRORISMO DI MATRICE ISLAMICA (11-1-2016)
Come recentemente ha
precisato l'islamologo Gilles Kepel, massimo esperto francese di movimenti jihadisti,
l'attuale evoluzione del terrorismo di matrice religiosa era già profeticamente
esposta in un voluminoso testo, pubblicato nel 2005 e disponibile su Internet,
scritto dal Fratello Mussulmano Abu Mussab Al Suri, un ingegnere siriano un
tempo molto legato a Bin Laden. Il documento, il cui titolo, ampiamente
programmatico, è "The Call for a Global Islamic Resistance", cioè
appello alla resistenza islamica globale, probabilmente non è stato
sufficientemente considerato e studiato dagli analisti occidentali, mentre ha
costituito il testo di base sul quale si è formata la nuova generazione di
terroristi. Abu Mussab Al Suri all'indomani dell'11 settembre 2001, criticando
la strategia qaedista, sostenne che l'obiettivo del terrorismo non dovevano
essere gli Stati Uniti, ma l'Europa occidentale, nella quale poteva essere
esportato il Jihad valendosi anche della presenza di un numero
considerevole di immigrati non integrati e del malcontento delle nuove
generazioni. Inoltre Al Suri evidenziò la necessità che gli attacchi non
fossero attuati da gruppi rigidamente subordinati ad un comando centrale, ma da
cellule indipendenti espressione di una minoranza radicale, lasciate
libere di agire nell'ambito del solo indirizzo strategico di compiere azioni
finalizzate a creare incertezza, terrore, insicurezza e una generale discordia
civile, sia fra musulmani, sia fra musulmani e non (ovvero quelle generali
divisioni che in ambito arabo si definiscono con il termine omnicomprensivo di fitna).
Gli obiettivi delle azioni terroristiche dovevano essere gli ebrei fuori dai
loro contesti specifici, come, ad esempio, le sinagoghe. Così è avvenuto negli
attentati a Tolosa (2012), al Museo Ebraico di Bruxelles (2014), a Porte de
Vincennes a Parigi (2015). Si dovevano poi colpire i musulmani troppo legati
agli 'infedeli'. In effetti nel corso degli attentati jihadisti non sono
stati risparmiati gli islamici integrati nella società occidentale. Non
considerando alternative all'inevitabile scontro fra le due civiltà, avrebbero
dovuto essere colpiti anche gli intellettuali, gli artisti ed i politici
impegnati a favore del dialogo con l'Islam. L'utopia rivoluzionaria di Al Suri
fu probabilmente accolta tiepidamente dai vertici di Al Qaeda fedeli al
principio della verticalità da un punto di vista decisionale e contrari
all'autonomia operativa di cellule isolate. Il cosiddetto franchising
del terrorismo ha tuttavia confermato le previsioni auspicate da Al Suri in
quanto Al Qaeda, da organizzazione terroristica centralizzata con bersagli
globali, si è progressivamente ramificata in agenzie nelle diverse aree del
mondo con obiettivi locali. l'Isis nell'utopia rivoluzionaria di Abu Mussab Al
Suri ha rappresentato un importante salto qualitativo del jihadismo
violento: l'assenza di un territorio di sua specifica collocazione ha
consentito ad Al Qaeda di evitare bombardamenti o azioni belliche che
presupponevano l'elemento territoriale; tuttavia l'Isis, diventando Stato, ha
potuto concentrare in uno spazio tutte le forze antagoniste
dell'occidente costituendo anche un riferimento concreto per tutto il
fondamentalismo islamico. Al Suri, pubblicando il suo scritto in Rete, ha
inaugurato la strategia dello Stato Islamico di valersi del Web in maniera
massiccia per la propaganda, il reclutamento (attraverso il fishing
informatico) e la diffusione del terrore. L'attività di contrasto
dell'intelligence occidentale al riguardo è giunta in ritardo, quando
ormai lo Stato Islamico con numerosi siti e utilizzando i social network, aveva
occupato una parte rilevante delle potenzialità delle tecnologie digitali.
Tuttavia il 2016 si apre con alcune prospettive positive: lo Stato Islamico è
in difficoltà e sta perdendo terreno in Siria e in Iraq, mentre un timido
movimento di islamici comincia a dissociarsi esplicitamente dal terrorismo.
Speriamo che sia realtà e non calcolo politico e ipocrisia di convenienza. RR
Dal
Partito Ba'ath alla crisi dell'Islam politico (10-1-2016)
Il mondo arabo nella sua
storia ha avuto anche esperienze di governo laiche, legate soprattutto
all'ascesa al potere, in alcuni Stati, del Partito Ba'ath, un movimento i cui
riferimenti ideologici erano il socialismo, il sindacalismo, la visione laica
della società, e soprattutto il panarabismo, che, in concorrenza con i nazionalismi
locali, auspicava il potenziamento dei valori arabi comuni. Il movimento
politico Ba'ath nacque in Siria nel 1953 dalla fusione tra il Partito della Rinascita Araba e il Partito
Socialista Arabo. Il suo carattere panarabo ne favorì la diffusione dalla Siria
agli Stati vicini, in particolare in Iraq. Nel 1958 uno dei suoi
fondatori, Salah Al Din Bitar, allora ministro degli esteri siriano, promosse
la costituzione della RAU, la Repubblica Araba Unita, una formazione politica nata dall’unione dell'Egitto
con la Siria ed aperta all'allargamento ad altri Stati. La RAU, nonostante
l'ambizioso proposito di unificare la politica araba, fallì subito il suo primo
obiettivo ovvero quello di potenziare reciprocamente i due Stati aderenti.
L'unione si sciolse nel 1961 (anche se l’Egitto mantenne la denominazione
ufficiale di RAU fino al 1971) quando la Siria se ne distaccò a causa di
divergenze con l'altro Stato partner. Attualmente l'unico Paese ancora
governato da un regime baathista è la Siria di Bashar Al Assad. La
resistenza di Bashar Al Assad nella lunga e cruenta guerra civile, che da più
di cinque anni contrappone con alterne vicende il regime di Damasco - che ha
l'appoggio esterno di Russia, Iran e Siria - all' Esercito Siriano Libero e
alle milizie islamiche di Jabat Al Nusra, potrebbe indurre a ritenere che il baathismo
sia ancora un forte elemento di coesione capace di garantire equilibri politici
e religiosi. In realtà la sopravvivenza del regime baathista siriano si fonda
solo su quarant'anni di potere assoluto, che ha cancellato la coscienza critica
collettiva ed eliminato qualsiasi occasione di dialogo e di crescita politica.
A conferma di questa congettura, quando scoppiò la guerra civile in Siria,
mentre le forze sunnite si coalizzarono rapidamente contro Bashar Al Assad, le
altre comunità come quella dei Drusi e dei Cristiani rimasero incerte tra
l'appoggio o l'opposizione al regime, non per motivi ideologici o religiosi, ma
per il timore che una Siria senza Assad potesse compromettere la loro esistenza
e la loro sicurezza. Il Partito Ba'ath - dopo aver svolto nel periodo
post-coloniale una funzione significativa nella scena politica mediorientale,
in particolare in Siria, in Iraq, in Egitto (durante il regime di Gamal
Abd Al Nasser) e in Libia (durante la dittatura di Muhammar Gheddafi) -
attualmente non assume rilevanza politica. In particolare, a
seguito della fine dell'esperienza della Repubblica Araba Unita e dopo la
sconfitta, nel 1967, di Egitto, Siria e Giordania nella Guerra dei Sei Giorni,
tutti i partiti arabi di ispirazione socialista, come il Ba'ath, conobbero un
definitivo calo di consensi. Per supplire a questa diminuzione di
consenso, Hafiz Al Assad, enfatizzò nel suo governo la componente religiosa
(alawita) al fine di avvicinare la popolazione progressivamente
all'Islam, che veniva percepito come un elemento non compromesso dai fallimenti
della politica interna ed estera del Movimento Ba'th. Come è evidenziato dalla
vicenda siriana, il fallimento dell'esperienza laica del partito Ba'ath, fu una
delle premesse per l'ascesa dell'Islam politico, definito più sinteticamente
anche con il termine 'islamismo'. Questo processo è stato particolarmente
evidente con la Primavera araba: i moti rivoluzionari, sebbene ebbero un
carattere iniziale spiccatamente laico - in quanto i manifestanti non scesero
in piazza in nome dell'Islam, ma inneggiavano ai valori universali della
dignità, della giustizia e della libertà -, approdarono ad esiti
fondamentalisti ovvero a forme di Islam politico, in quanto, nel richiedere i
diritti, i popoli arabi non potevano considerare come riferimento le democrazie
laiche occidentali, da sempre demonizzate e ritenute corrotte e lontane da
valori spirituali, ma potevano essere reputati adeguate alternative solo i
regimi fondati su una piena e integrale applicazione dei valori dell'Islam.
Anche l'Afghanistan ebbe un'esperienza di governo socialista, ma fu solo per
giustificare la presenza militare sovietica, in quanto l'orientamento del
regime non ebbe incisività a livello amministrativo nell'organizzazione
politica e sociale, dal momento che il controllo del territorio rimase nelle
mani dei gruppi tribali. Inoltre solo in Iraq e in Siria - e non in Afghanistan
- in epoca coloniale si costituì un'elite in grado di elaborare una
cultura nella quale elementi del socialismo potessero associarsi a quelli della
cultura araba; va aggiunto che a differenza di quello che avvenne in occidente
(ad esempio in URSS, fonte di ispirazione per il partito Ba'ath), la visione
laica socialista diffusa nel mondo arabo non fu mai particolarmente ostile
all'Islam, limitandosi ad auspicare solo che la spiritualità rimanesse
confinata nella sfera privata. Pertanto al tramonto dell'ideologia laica del
partito Ba'ath, è subentrata l'ascesa del'Islam politico, che tuttavia sta
dimostrando tutti i suoi limiti di forza reazionaria incapace di coniugarsi con
la modernità. Potrebbe essere alle porte un post islamismo, caratterizzato dal
ritorno ad una visione politica di impronta laica mediata dall'Islam, ovvero
nella quale verrebbero difesi solo quei principi dell'Islam che non sono
negoziabili (in parziale analogia a quanto avviene nelle società occidentali
laiche nelle quali la maggioranza della popolazione è di fede cattolica).
RR
LA MUSICA
ARABA JAZZ (29-12-2015)
Parlare
di ‘musica jazz araba’ a prima vista può sembrare contraddittorio. La musica
araba ha una particolare solida omogeneità in quanto è tipica di popoli che
vivono in Paesi - come Iraq, Siria, Giordania, Libano, Egitto, Tunisia,
Algeria, Marocco, Mauritania e Sudan - che hanno in comune la cultura, la
lingua araba, la religione. Il tipico fluire di omofonie e fraseggi, senza
strutturazioni e architetture sonore, non sembrerebbe a prima vista conciliabile
con le caratteristiche del jazz, nel quale – a prescindere dalla difficoltà di
una sua definizione e tipizzazione unitaria – spesso la trasgressività e
l’improvvisazione si sublimano in un processo creativo che produce melodie che
si articolano su una linea prefissata di accordi, con armonie complesse, anche
dissonanti, mentre la base ritmica in genere manca della fluidità tipica della
musica araba, in quanto è caratterizzata da pause, accenti, anticipi e ritardi.
Al contrario, nonostante queste differenze, negli ultimi anni numerosi artisti
arabi hanno declinato con ottimi risultati la componente etnica delle sonorità
espresse dai loro strumenti, ricca di sfumature, con i ritmi e i passaggi
solistici tipici del jazz. Peraltro la musica araba ha una specifica
caratteristica che costituisce un importante valore aggiunto, che conferisce al
risultato finale un attributo di particolare pienezza sonora: le scale musicali
arabe non hanno solo i toni e i semitoni ma anche i quarti di tono.
Conseguentemente le note sono ventiquattro invece delle nostre dodici. Gli
intervalli tra le note inoltre non sono tutti fissi ma la loro ampiezza varia.
Inoltre l’armonia generalmente manca, in quanto la musica araba si articola su
un’unica linea melodica nel contesto di un accompagnamento ritmico, mentre
altri strumenti eseguono la stessa melodia all'unisono o a distanza di
un'ottava. Questi musicisti del cosiddetto ‘arabian jazz’ inoltre
esaltano la componente timbrica dei loro strumenti, tra i quali il più tipico è
l’oud, uno strumento cordofono, simile a un liuto a manico corto, di probabile
origina persiana. Questo per quanto riguarda gli aspetti formali. Da un punto
di vista ‘contenutistico’ la musica araba riproposta in chiave jazz sembra
ispirarsi talvolta a silenziosi paesaggi desertici, in altri casi ai chiassosi
mercati arabi. RR
Alcuni
esempi particolarmente riusciti (clikka sul titolo):
Il piano di pace dell'Onu per la Siria (22-12-2015)
Finalmente
il 18 dicembre 2015 l'Onu è uscito dal suo fisiologico immobilismo e si è
accesa la speranza di una soluzione per il conflitto siriano. Il Consiglio di
Sicurezza ha raggiunto un accordo mediante un approccio più costruttivo e
neutrale sulla questione: è stata infatti adottata una risoluzione che chiede
un cessate il fuoco su tutto il territorio siriano e promuove fin da gennaio
negoziati di pace. Il Consiglio di sicurezza, prendendo atto
dell'insostenibile situazione umanitaria che, già terribile, continua a
peggiorare, ha ritenuto che l'unica possibile soluzione sia un processo
politico guidato dagli stessi siriani, che risponda alle legittime aspirazioni
del popolo siriano e che promuova una transizione politica guidata da
un’autorità che abbia pieni poteri esecutivi, istituita sulla base di un comune
accordo fra le parti in conflitto, e che operi in condizioni che assicurino la
continuità delle istituzioni statali. In questo contesto svolgerà un ruolo
centrale il Gruppo di Sostegno Internazionale per la Siria, formato da 17 Paesi
e tre organizzazioni multilaterali. Fin dal prossimo gennaio il Segretario
Generale delle Nazioni Unite e il suo Inviato per la Siria, Staffan de Mistura,
adotteranno tutte le iniziative necessarie per riunire i rappresentanti del
governo siriano e dell’opposizione, e per intraprendere con urgenza dei
negoziati formali. L'insediamento di un governo di transizione credibile
dovrebbe in breve convocare libere elezioni alle quali dovrebbero partecipare
tutti i siriani, compresi quelli della 'diaspora'. Con riferimento ai tanti
conflitti locali e alle speculazioni finanziarie che li alimentano, Papa
Francesco ha precisato che "...stiamo vivendo una Terza Guerra Mondiale a
pezzi, a capitoli, dappertutto...". Il conflitto siriano per l'ampio
coinvolgimento di Stati nelle operazioni belliche e per la contrapposizione fra
il fronte occidentale e la Russia è sicuramente parte di questo amaro mosaico.
L'eventuale successo della via negoziale sotto la mediazione dell'Onu avrebbe
un secondario ma non meno importante risvolto: dopo anni di immobilismo
l'Organizzazione delle Nazioni Unite riacquisterebbe la pienezza del suo
ruolo. RR
LA GEOPOLITICA DELLE EMOZIONI (20-12-2015)
LA GEOPOLITICA DELLE EMOZIONI (20-12-2015)
Cercando
di interpretare le contrapposizioni che hanno caratterizzato lo scenario
internazionale nell'anno che si sta chiudendo, mi capita spesso di pensare alla
geopolitica delle emozioni, oggetto di un fortunato saggio scritto
qualche anno fa dallo studioso francese Dominique Moisi. Negli anni
immediatamente precedenti alla pubblicazione del saggio stava acquisendo sempre
più credito la tesi di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà:
secondo lo studioso statunitense in futuro le fonti fondamentali di conflitto
fra i popoli non sarebbero state né di natura ideologica né legate a
rivendicazioni economiche, ma avrebbero trovato la loro origine nelle
differenti identità religiose e culturali, che avrebbero diviso nazioni, Paesi,
gruppi ed etnie. Da queste premesse risulta naturale collocare il confronto in
atto fra Islam e Occidente nello scenario previsto da Huntington; tuttavia
questa tesi, che accomuna indiscriminatamente la religione musulmana al
fondamentalismo, viene smentita nell'auspicio che fedi e culture diverse
possano coesistere pacificamente e cooperare. Purtroppo i fatti mostrano un
incremento dell'islamismo jihadista, che fomenta divisioni anche
all'interno del mondo arabo, mentre negli ambienti politici statunitensi ed
europei cresce come reazione un generalizzato pregiudizio islamofobo. Inoltre
l'aumento degli attacchi contro cristiani, indù e musulmani sciiti prova che
tutti i conflitti religiosi si stanno radicalizzando. La possibile veridicità
della tesi di Huntington sullo scontro di civiltà spaventa perché il
multiculturalismo - cioè la pacifica convivenza di religioni e culture - non è
un'ingenua aspirazione buonista, ma è l'unica alternativa alla violenza, al
terrorismo, alle persecuzioni, alle stragi. La geopolitica delle emozioni
fornisce una chiave di lettura diversa, meno apocalittica ma altrettanto
suggestiva; secondo questa tesi i conflitti attuali sarebbero radicati
soprattutto su pregresse specifiche contingenze storiche, che avrebbero
determinato la creazione di zone omogenee sotto il profilo delle motivazioni
emozionali. In particolare l'Occidente - considerato non in senso geografico ma
come l'insieme delle aree tradizionalmente definite industrializzate, e quindi
Europa occidentale, Usa, Giappone - sarebbe dominato dalla cultura della paura;
i Paesi arabi e il mondo musulmano sarebbero condizionati dalla cultura
dell'umiliazione, mentre la Cina, l'India e gli altri Paesi emergenti sarebbero
animati dalla cultura della speranza. Lo scontro di civiltà è sostituito dallo
scontro delle emozioni. Più in dettaglio, il mondo occidentale vive nel timore
di perdere la propria identità a causa dei flussi migratori e delle concorrenti
culture diverse. L'Europa, anche se è ossessionata dall'oblio delle proprie
origini, è assillata dal rispetto per chi è portatore di valori diversi, e non
raramente, in virtù di una non richiesta dissociazione dal patrimonio delle
acquisizioni storiche, rinnega le proprie radici, nello specifico quelle
giudaiche e quelle cristiane. A livello globale, poi, la società occidentale
convive con il terrore di perdere la propria posizione etnocentrica maturata
nei secoli. I disperati che vengono dai confini del mondo fuggendo una miseria
inumana e le atrocità delle guerre insidiano, con una competitività dettata
dalla lotta per la sopravvivenza che può degenerare in aggressività e violenza,
l'ordine sociale consolidato che, seppur discutibile, inadeguato, iniquo e
presupposto della cristallizzazione di conflittualità irrisolte, ha garantito
nel tempo stabilità e sicurezza al sistema. Inoltre il capitalismo finanziario
e speculativo non regge l'impatto con le economie emergenti, più solide in
quanto fondate su produttività e risorse, e questo crea un generale clima di
precarietà. Alla paura dell'Occidente si contrappone l'umiliazione della Russia
che ha vissuto il crepuscolo di un grande impero: accanto al rimpianto per un
passato nel quale lo sterminato universo sovietico ha dominato la scena
mondiale, c'è la volontà di riemergere, di ritrovare la grandezza pregressa, di
non arrendersi al tramonto definitivo di un'indiscussa centralità nelle vicende
politiche mondiali, di non soccombere alla perdita di una leadership condivisa
alla pari solo con gli Stati Uniti. Anche i Paesi arabi, e più in generale il
mondo musulmano, sono dominati da un sentimento di umiliazione. Questi popoli
si sentono defraudati dalla Storia che non ha riconosciuto il ruolo centrale
che avrebbero meritato per la loro civiltà e per l'essere portatori di una
verità rivelata, quella fissata nel Corano. È maturata in essi la
consapevolezza di essere stati emarginati negli ultimi decenni dalla politica
mondiale, e, in ultimo, dalla globalizzazione, mentre il baricentro di
qualsiasi vicenda si consumava in Occidente. Purtroppo l'umiliazione può essere
il presupposto di reazioni devastanti, può degenerare in odio come le derive jihadiste
dimostrano. L’Asia, invece, anche se versa in condizioni di capillare
arretratezza e povertà, è animata dalla speranza che si radica sulla fondata
aspirazione ad una prosperità futura, alimentata da un'economia in pieno
sviluppo, mentre quella delle altre aree del mondo vive una pericolosa
stagnazione; questo sostiene la voglia di progresso e la volontà di riuscire,
mentre l'ottimismo è un prezioso tonico per i mercati finanziari. Cina e India
sono le punte avanzate di questa condizione; sembra che abbiano fatto propria
la suggestiva massima di Lao Tse, che rivolgo ad ognuno come augurio per il
prossimo anno: "Un viaggio di mille chilometri incomincia sempre con un
piccolo passo". RR
UN PO’ DI ORDINE SULLA QUESTIONE DEL VELO ISLAMICO (8-12-2015)
Torna periodicamente di attualità la nota questione della compatibilità, con le normative vigenti nei Paesi occidentali, dell’abbigliamento delle donne musulmane, genericamente indicato con l’espressione di ‘velo islamico’, che in alcune sue versioni è in grado di occultare l’identità di chi lo indossa. Il tema è particolarmente attuale in questi giorni in cui la sicurezza dei cittadini e il mantenimento delle condizioni che ne costituiscono il presupposto sono di primaria importanza anche in relazione all’inizio del Giubileo della Misericordia e alle minacce che provengono dallo Stato islamico. Innanzitutto l’uso di determinate tipologie di velo sembra essere una questione culturale e non solo religiosa. Il Corano infatti non prescrive un determinato tipo di velo. Nella Sura XXIV si dice: “…di’ alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere una copertura fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri, che ai loro mariti, ai loro padri…”. Pertanto non si menziona espressamente la copertura del viso, ma si prescrive di sottrarre allo sguardo degli altri le bellezze tipicamente femminili ovvero le forme del corpo; si tratta in sintesi di un generico invito alla modestia nel vestire, di un dovere che, pur esprimendo l’identità islamica della donna, va declinato culturalmente. Nell’originale arabo del versetto si usa il termine ‘khumur’, che genericamente indica il velo che copre la testa. In proposito, le donne di Medina nell’era pre-islamica erano solite indossare il ‘khumur’ sulla testa con i due estremi legati dietro il collo. Nella Sura XXXIII si prescrive di coprirsi con i ‘jalabib’. Il ‘jilbab’ (singolare di ‘jalabib’), era una camicia ampia, un abito più lungo del velo: quindi l’abbigliamento completo non consisterebbe soltanto in un velo che copre la testa, il collo e il seno, ma includerebbe anche l’abito completo che deve essere lungo e largo. Al riguardo un sito islamico precisa che la combinazione di una maglia corta e stretta e jeans attillati con un velo sulla testa non rispetterebbe i requisiti del codice di abbigliamento prescritto dalle Sure XXIV e XXXIII. In concreto si contrappone anche su questo terreno un’interpretazione fondamentalista che privilegia l’uso di un abbigliamento particolarmente ‘rigoroso’ prescrivendo veli che celano anche il viso, ad una lettura meno ‘invasiva’, più adeguata ai tempi. Pertanto l’uso in occidente di un determinato tipo di velo non trova fondamento solo nell’adempimento di un dovere religioso, ma è un mezzo per rivendicare l’appartenenza a una cultura diversa e per manifestare il rifiuto dell’omologazione occidentale. A conferma di quanto si afferma in Francia molte donne algerine che ormai sono in Europa da diverse generazioni si sono adeguate ai costumi occidentali pur essendo di fede islamica, mentre fra molte giovani studentesse di origine maghrebina c’è un ritorno all’uso del velo islamico al fine di ricordare ed evidenziare le proprie origini. Per quanto riguarda le tipologie di velo con il termine burqa si intendono due tipi di abbigliamento: il primo è un telo, che copre l'intera testa permettendo alla donna di vedere solo attraverso un’apertura all'altezza degli occhi; l’altra forma, chiamata anche burqa completo o burqa afghano, solitamente di colore blu, copre sia la testa sia il corpo; all'altezza degli occhi può anche essere posta una retina che permette di vedere senza scoprire gli occhi; è diffuso principalmente in Afghanistan. Lo chador è invece un indumento tradizionale originario dell'Iran simile ad una mantella ed è un velo indossato dalle donne quando devono comparire in pubblico; ricopre il capo e le spalle, ma lascia scoperto il viso, tenuto chiuso sotto il mento ad incorniciare il volto; oltre che in Iran è molto diffuso in Medio Oriente. Il tessuto può essere chiaro o con fantasie stampate; tuttavia in Iran le autorità religiose consigliano che il velo sia scuro. Il niqab è un tipo di velo che copre la figura della donna lasciando scoperti solo gli occhi. Si compone in due parti: la prima è formata da un fazzoletto di stoffa leggero che viene collocato al di sotto degli occhi a coprire naso e bocca, legato al di sopra delle orecchie, mentre la seconda parte è formata da un pezzo di stoffa molto più ampio del primo, che nasconde i capelli e buona parte del busto; è molto usato dalle donne saudite. È di colore nero. Esistono poi varianti locali, come il niqab yemenita, che differiscono di poco dal modello ‘base’. L' hijab, diffuso soprattutto in Egitto, copre solo i capelli. Ognuna di queste tipologie di abbigliamento è dunque fortemente legata all'area di appartenenza geografica della donna che lo indossa. Si pone il problema della compatibilità di questo abbigliamento con gli usi occidentali in quanto il travisamento che ne può risultare, potrebbe essere contrario all'ordine pubblico, in quanto, oltre ad impedire la riconoscibilità della persona, potrebbe costituire un mezzo per l'occultamento di materiale esplodente, armi o, in ogni caso, oggetti o sostanze non consentiti. In proposito, per quanto riguarda la legislazione italiana l'art. 2 della Legge 8/8/1977 così recita: “….è vietato l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo.…”. Pertanto, il travisamento può essere consentito solo per giustificati motivi. Ad esempio, il casco per i motociclisti o le protezioni per determinate attività pericolose sono fuori dalla portata dell'applicazione delle norme in quanto finalizzate al prevalente interesse della salute. La matrice religiosa può costituire un giustificato motivo? L'interesse individuale al rispetto delle manifestazioni esteriori del proprio credo religioso può prevalere sulle esigenze di sicurezza e di ordine pubblico della collettività? In proposito, sulla interpretazione della clausola ‘senza giustificato motivo’ si è espresso il Consiglio di Stato, che ha ritenuto che la matrice religiosa possa essere un giustificato motivo per circolare indossando un niqab, un burqa, o un altro tipo di velo islamico che copra il viso. Probabilmente alla luce delle attuali priorità di sicurezza, questo parere andrebbe rivisto; non dovrebbe essere consentito il travisamento in queste circostanze. Peraltro in uno stato laico nell’ipotesi di conflitto fra le norme prescritte da una fede religiosa e precetti dello Stato, generalmente questi ultimi dovrebbero prevalere. Attualmente in Belgio e in Francia è vigente il divieto di indossare il velo islamico in tutti i luoghi pubblici. Nel 2014 la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha dichiarato che questi provvedimenti non ledono la libertà di religione. RR
LE PERICOLOSE DIVISIONI DELL’OCCIDENTE (3-12-2015)
UN PO’ DI ORDINE SULLA QUESTIONE DEL VELO ISLAMICO (8-12-2015)
Torna periodicamente di attualità la nota questione della compatibilità, con le normative vigenti nei Paesi occidentali, dell’abbigliamento delle donne musulmane, genericamente indicato con l’espressione di ‘velo islamico’, che in alcune sue versioni è in grado di occultare l’identità di chi lo indossa. Il tema è particolarmente attuale in questi giorni in cui la sicurezza dei cittadini e il mantenimento delle condizioni che ne costituiscono il presupposto sono di primaria importanza anche in relazione all’inizio del Giubileo della Misericordia e alle minacce che provengono dallo Stato islamico. Innanzitutto l’uso di determinate tipologie di velo sembra essere una questione culturale e non solo religiosa. Il Corano infatti non prescrive un determinato tipo di velo. Nella Sura XXIV si dice: “…di’ alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere una copertura fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri, che ai loro mariti, ai loro padri…”. Pertanto non si menziona espressamente la copertura del viso, ma si prescrive di sottrarre allo sguardo degli altri le bellezze tipicamente femminili ovvero le forme del corpo; si tratta in sintesi di un generico invito alla modestia nel vestire, di un dovere che, pur esprimendo l’identità islamica della donna, va declinato culturalmente. Nell’originale arabo del versetto si usa il termine ‘khumur’, che genericamente indica il velo che copre la testa. In proposito, le donne di Medina nell’era pre-islamica erano solite indossare il ‘khumur’ sulla testa con i due estremi legati dietro il collo. Nella Sura XXXIII si prescrive di coprirsi con i ‘jalabib’. Il ‘jilbab’ (singolare di ‘jalabib’), era una camicia ampia, un abito più lungo del velo: quindi l’abbigliamento completo non consisterebbe soltanto in un velo che copre la testa, il collo e il seno, ma includerebbe anche l’abito completo che deve essere lungo e largo. Al riguardo un sito islamico precisa che la combinazione di una maglia corta e stretta e jeans attillati con un velo sulla testa non rispetterebbe i requisiti del codice di abbigliamento prescritto dalle Sure XXIV e XXXIII. In concreto si contrappone anche su questo terreno un’interpretazione fondamentalista che privilegia l’uso di un abbigliamento particolarmente ‘rigoroso’ prescrivendo veli che celano anche il viso, ad una lettura meno ‘invasiva’, più adeguata ai tempi. Pertanto l’uso in occidente di un determinato tipo di velo non trova fondamento solo nell’adempimento di un dovere religioso, ma è un mezzo per rivendicare l’appartenenza a una cultura diversa e per manifestare il rifiuto dell’omologazione occidentale. A conferma di quanto si afferma in Francia molte donne algerine che ormai sono in Europa da diverse generazioni si sono adeguate ai costumi occidentali pur essendo di fede islamica, mentre fra molte giovani studentesse di origine maghrebina c’è un ritorno all’uso del velo islamico al fine di ricordare ed evidenziare le proprie origini. Per quanto riguarda le tipologie di velo con il termine burqa si intendono due tipi di abbigliamento: il primo è un telo, che copre l'intera testa permettendo alla donna di vedere solo attraverso un’apertura all'altezza degli occhi; l’altra forma, chiamata anche burqa completo o burqa afghano, solitamente di colore blu, copre sia la testa sia il corpo; all'altezza degli occhi può anche essere posta una retina che permette di vedere senza scoprire gli occhi; è diffuso principalmente in Afghanistan. Lo chador è invece un indumento tradizionale originario dell'Iran simile ad una mantella ed è un velo indossato dalle donne quando devono comparire in pubblico; ricopre il capo e le spalle, ma lascia scoperto il viso, tenuto chiuso sotto il mento ad incorniciare il volto; oltre che in Iran è molto diffuso in Medio Oriente. Il tessuto può essere chiaro o con fantasie stampate; tuttavia in Iran le autorità religiose consigliano che il velo sia scuro. Il niqab è un tipo di velo che copre la figura della donna lasciando scoperti solo gli occhi. Si compone in due parti: la prima è formata da un fazzoletto di stoffa leggero che viene collocato al di sotto degli occhi a coprire naso e bocca, legato al di sopra delle orecchie, mentre la seconda parte è formata da un pezzo di stoffa molto più ampio del primo, che nasconde i capelli e buona parte del busto; è molto usato dalle donne saudite. È di colore nero. Esistono poi varianti locali, come il niqab yemenita, che differiscono di poco dal modello ‘base’. L' hijab, diffuso soprattutto in Egitto, copre solo i capelli. Ognuna di queste tipologie di abbigliamento è dunque fortemente legata all'area di appartenenza geografica della donna che lo indossa. Si pone il problema della compatibilità di questo abbigliamento con gli usi occidentali in quanto il travisamento che ne può risultare, potrebbe essere contrario all'ordine pubblico, in quanto, oltre ad impedire la riconoscibilità della persona, potrebbe costituire un mezzo per l'occultamento di materiale esplodente, armi o, in ogni caso, oggetti o sostanze non consentiti. In proposito, per quanto riguarda la legislazione italiana l'art. 2 della Legge 8/8/1977 così recita: “….è vietato l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo.…”. Pertanto, il travisamento può essere consentito solo per giustificati motivi. Ad esempio, il casco per i motociclisti o le protezioni per determinate attività pericolose sono fuori dalla portata dell'applicazione delle norme in quanto finalizzate al prevalente interesse della salute. La matrice religiosa può costituire un giustificato motivo? L'interesse individuale al rispetto delle manifestazioni esteriori del proprio credo religioso può prevalere sulle esigenze di sicurezza e di ordine pubblico della collettività? In proposito, sulla interpretazione della clausola ‘senza giustificato motivo’ si è espresso il Consiglio di Stato, che ha ritenuto che la matrice religiosa possa essere un giustificato motivo per circolare indossando un niqab, un burqa, o un altro tipo di velo islamico che copra il viso. Probabilmente alla luce delle attuali priorità di sicurezza, questo parere andrebbe rivisto; non dovrebbe essere consentito il travisamento in queste circostanze. Peraltro in uno stato laico nell’ipotesi di conflitto fra le norme prescritte da una fede religiosa e precetti dello Stato, generalmente questi ultimi dovrebbero prevalere. Attualmente in Belgio e in Francia è vigente il divieto di indossare il velo islamico in tutti i luoghi pubblici. Nel 2014 la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha dichiarato che questi provvedimenti non ledono la libertà di religione. RR
LE PERICOLOSE DIVISIONI DELL’OCCIDENTE (3-12-2015)
Le
divisioni dottrinali e politiche sono sempre state una fisiologica
caratteristica del mondo arabo, che spesso è stata causa di debolezza e di
mancanza di coesione strategica. È nota la massima che dice: “Gli arabi
sono d’accordo nel non essere d’accordo”; in proposito, la ‘Lega degli Stati
arabi’, che aveva come obiettivo il Panarabismo ovvero la volontà di unificare
la ‘nazione araba’ opponendosi ai nazionalismi locali attraverso il
potenziamento dei valori comuni e la difesa dalle ingerenze delle potenze
straniere, fin dalla sua creazione nel 1945 da parte di sette Paesi arabi tra
cui la Siria fu caratterizzata da insanabili discordie intestine che ne
indebolirono o paralizzarono le iniziative. Nell’attuale crisi relativa al
contrasto dell’Isis sembra invece che pericolosi contrasti dividano il fronte
che si oppone allo Stato Islamico, che nel frattempo può consolidarsi e
continuare a fare affari con le istituzioni finanziarie di alcuni dei suoi
presunti nemici. Più in particolare, mentre gli Stati sunniti sembrano solo
formalmente opporsi a Daesh, una clima di tensione da rinnovata guerra fredda
coinvolge i Paesi delle due coalizioni anti-Isis; questa situazione si traduce
in un vantaggio per il terrorismo di matrice islamica, che ha compiuto in
questi ultimi anni un salto qualitativo, avendo ora come riferimento uno Stato
- seppur ibrido - che ha un territorio e un’economia, e che propone il modello
di un regime confessionale e teocratico, che di fatto riprende e rafforza
la prospettiva mai abbandonata della ricostituzione del
Califfato. Già le accese e polarizzate discussioni in Occidente sul concetto di
Fondamentalismo e Islam ‘moderato’ non solo sembrano superate dai fatti, ma
costituiscono un vantaggio che si concede al Jihadismo, che
può attribuire la dignità ideologica di scontro di civiltà ad un conflitto che
è esclusivamente nei confronti di terroristi. Come già specificato in altri
commenti, separare l’Islam - come confessione religiosa - dall’Isis non è una
scelta solo garantista - talvolta ingenerosamente definita ‘buonista’ - ma è
un’opzione di natura strategica, perché serve a circoscrivere un nemico
evitando che possa valersi di una più ampia base ideologica in grado di
suggestionare, coalizzare e mobilitare parte del mondo arabo e islamico. Per
quanto riguarda la guerra all’Isis, al di là delle dichiarazioni ufficiali dei
singoli Stati coinvolti, la situazione è di un generalizzato totale disaccordo
a vantaggio dello Stato Islamico. Gli Stati arabi e la Turchia temono che
l’Iran possa continuare ad avere nella Siria del dopo Assad un prezioso
referente nella regione e a valersi di un passaggio verso il Mediterraneo, la
Russia difende i suoi affari con l’attuale governo siriano, gli Stati Uniti e
l’Europa non hanno una chiara strategia e di fatto si oppongono ai nemici
dell’Isis, cioè combattono i nemici del nemico. Nel frattempo i turchi ne approfittano per bombardare i curdi, i russi per
indebolire l’opposizione siriana. Di fatto la coalizione guidata dagli
Stati Uniti e la Russia si trovano pericolosamente contrapposte. Il conflitto
da latente è divenuto manifesto con l’incidente fra Russia e Turchia, che ha
instaurato un crisi da guerra fredda destinato ad acuirsi con la possibile
espansione della Nato in Montenegro. RR
FONDAMENTALISMO E TERRORISMO (27-11-2015)
Il Fondamentalismo è un
atteggiamento conservatore e di reazione nei confronti di qualsiasi forma di
modernità al fine di proteggere con ogni mezzo l’ortodossia. Nel linguaggio
comune i termini Fondamentalismo, Integralismo e Radicalismo possono essere
considerati sinonimi quando esprimono un atteggiamento acritico e dogmatico nei
confronti di testi o teorie non necessariamente religiose. Comunemente la
parola ‘fondamentalismo’, usata per definire un attivismo politico di tipo
religioso, viene associata all’Islam. Tuttavia il Fondamentalismo ha avuto la
sua origine alla fine del XIX secolo in ambito protestante, per designare
all’interno della Chiesa Battista una corrente che si opponeva al razionalismo
e al modernismo, e affermava l’opportunità di un’interpretazione letterale dei
fondamenti della fede cristiana. Il termine è stato poi esteso a tutti i punti
di vista che, insistendo sull’interpretazione letterale di testi sacri quali la
Bibbia o il Corano, avevano carattere antimodernista all’interno delle
rispettive religioni. Il filosofo Juergensmeyer ha evidenziato la genericità del
termine ‘Fondamentalismo’, troppo vago e scarsamente connotato dal punto di
vista politico, ritenendo più significativo l’uso della locuzione ‘nazionalismo
religioso’. Il ‘nazionalismo religioso’ è infatti la sintesi fra il
nazionalismo, inteso come l’insieme dei valori del patrimonio culturale e
spirituale espressione di una collettività omogenea, e un particolare credo
religioso. È questa relazione che può in concreto determinare la
politicizzazione della religione e l’influenza della religione sulla politica
nazionale. Nella Chiesa Cattolica nel secolo scorso è stata espressione di
un’istanza fondamentalista la condotta dell’arcivescovo Marcel Lefebvre, che
era profondamente ostile allo spirito innovatore del Concilio Vaticano II. Il
Fondamentalismo quindi non è una caratteristica esclusiva degli ambienti
islamici Sicuramente in ambiente islamico il Fondamentalismo può essere
incoraggiato dal tipo di formazione che si riceve nelle madrase, che
induce o rafforza sentimenti dai connotati fortemente anti-occidentali, che
tuttavia non possono essere considerati il presupposto necessario e sufficiente
delle iniziative terroristiche. Il terrorismo è un fenomeno degenerativo
della contrapposizione fra Islam e mondo occidentale; si manifesta a livello
internazionale avvalendosi anche di ambigui equilibri geopolitici e di
discutibili motivazioni culturali; ha una particolare genesi, che è complessa e
articolata. Il terrorismo presuppone la disponibilità di ingenti capitali per
la formazione e l’addestramento dei militanti e per l’attuazione dei progetti
criminosi; è necessario il contributo di personalità aventi particolari
capacità organizzative e carismatiche, nonché la connivenza di alcuni Stati che
forniscano rifugio e supporto organizzativo (i così detti ‘Stati canaglia’). È
inquietante tuttavia che dagli ambienti fondamentalisti islamici provenga non
raramente una simpatia per le iniziative terroristiche, che sono percepite come
strumentali alla prevalenza dell’Islam sull’Occidente infedele e miscredente.
In proposito, un efficace contrasto del terrorismo richiede che ne vengano meno
le giustificazioni politiche e ideologiche, e il sostegno popolare. Pertanto,
il Fondamentalismo si distingue dal terrorismo perché si esaurisce nello
sviluppo di una cultura di forte opposizione all’Occidente, purché sia chiara
la sua dissociazione dalle derive violente. In proposito come corollario di
chiusura va anche precisato che la libertà di culto non può mai costituire una
malintesa area franca che assicuri l’impunità, ma presuppone per il suo
legittimo esercizio il rispetto dei principi di giustizia e di democrazia
strutturati nei rispettivi ordinamenti nazionali. Probabilmente si dovrebbe
riflettere anche su questo; negli ultimi 20 anni, negli Stati Uniti sono
stati compiuti attentati contro centri per omosessuali, nei confronti di medici
abortisti e delle loro cliniche, da terroristi che si sono dichiarati o
di fede cattolica, o luterana, o presbiteriana. Tuttavia a nessuno
(giustamente) è venuto in mente di avviare una riflessione sulla compatibilità
tra fede cristiana e democrazia, o confondere queste iniziative estremistiche e
i metodi violenti per supportarle con le posizioni delle corrispondenti
Chiese. In altri termini è facile cedere alla tentazione di usare la religione
come alibi per giustificare la violenza contro un proprio nemico, ma è assurdo
confondere tutto questo con la religione stessa. Inoltre, come i
terroristi di Parigi urlavano ‘Allahu akbar’, anche gli appartenenti al Ku Klux
Klan, quando commettevano i loro misfatti, dicevano di ispirarsi a specifici
versetti della Bibbia, che menzionavano nei loro documenti farneticanti; ma
nessuno confonderebbe il Ku Klux Klan con il pensiero cristiano. In altri
termini, anche se si va radicando una diversa convinzione, confondere il
terrorismo e il radicalismo con l’ordinaria professione della fede musulmana -
a prescindere dalle dispute sull’interpretazione del Corano - non sembra
ragionevole. Ed è anche un errore strategico perché considerare tutto il mondo
islamico coalizzato e contrapposto all’Occidente alimenta la congettura che sia
in atto uno scontro di civiltà fra Islam e Occidente, del quale la guerra
asimmetrica con il terrorismo è la punta avanzata. Ed il terrorismo è alla
ricerca di una base ideologica sempre più ampia e condivisa; al contrario, come
tante esperienze pregresse dimostrano, la sconfitta del terrorismo presuppone
il suo isolamento. RR
LA MANIFESTAZIONE NOT IN MY NAME (22-11-2015)
La manifestazione di ieri Not
in my name ripropone il tema dei rapporti fra l’Islam e lo Jihadismo,
soprattutto se quest’ultimo, ovvero una ridotta frangia che pratica il ricorso
alla violenza come strumento di affermazione di una malintesa fede religiosa,
possa essere considerato una fisiologica espressione dell’Islam. I gruppi
di matrice integralista - a maggior ragione se violenti - di norma non sono il
correlato della corrispondente religione, soprattutto qualora questa abbia
un’ampia e complessa articolazione. Per quanto l’esempio sia improprio e non corretto
poiché si riferisce ad un fenomeno sostanzialmente diverso, considerare lo Jihadismo
coincidente con l’Islam sarebbe come ritenere un limitato gruppo
tradizionalista, come i lefebvriani, il precipitato del cattolicesimo
ufficiale. La questione è un’altra, ovvero quella di riuscire a conoscere la
reale valutazione del Fondamentalismo da parte delle comunità dei
musulmani. Infatti ad essi viene rimproverato un atteggiamento di non chiara e
adeguata dissociazione dal terrorismo, in particolare dai progetti sanguinari
del neocaliffato islamico. La partecipazione non particolarmente consistente in
relazione all’entità della comunità musulmana in Italia, di musulmani
‘moderati’ alle manifestazioni di sabato può indurre in alcuni il sospetto
dell’esistenza di una riserva mentale di parte degli islamici, cioè di una
divergenza fra le dichiarazioni e i reali convincimenti. Questa congettura
purtroppo potrebbe trovare conferma nell’ignobile comportamento di quei tifosi
turchi che in occasione dell’incontro di calcio Turchia - Grecia hanno
fischiato sonoramente durante il minuto di silenzio in ricordo delle vittime
degli attentati di Parigi intonando anche il coro ‘Allahu Akbar’ (Allah è
grande). Non si è trattato di una voce isolata o dei soliti ‘quattro teppisti
stupidi’, ma di una parte consistente dello stadio. Una vergogna, senza nessuna
giustificazione, che crea dubbi sulla reale entità dei musulmani ‘moderati’.
Tuttavia la manifestazione ‘not in my name’ resta un segnale positivo in quanto
ha lanciato un appello ad una svolta nei rapporti fra Islam e società civile
italiana, di cui i musulmani affermano di sentirsi parte integrante. Sono
altresì molto timidi i segnali di solidarietà nei confronti delle
discriminazioni e del martirio che i cristiani subiscono in alcune aree del
mondo non di rado sotto l’influenza di regimi islamici. Il confronto fra Islam
e Occidente risale alla nascita di questa religione. L’Islam, come detto più
volte, prescrive il jihad, che fra le varie interpretazioni ha quella di
una mobilitazione collettiva per la sottomissione, con ogni mezzo, degli
infedeli. Questo principio religioso supportato da una collaudata combattività
spinse i popoli arabi fin dal VII secolo a intraprendere iniziative di
conquista territoriale sia verso oriente, sia verso occidente. Queste
incursioni furono irrefrenabili: gli arabi nei secoli successivi crearono un
immenso dominio dirigendosi in Asia, in Africa e in Europa. Conquistarono la
Siria, l’Egitto e smembrarono l’Impero persiano; si spinsero in India, in Africa
del Nord, e occuparono la Spagna. Con le conquiste militari si è nello stesso
tempo diffusa la fede musulmana. Questo impero, a seguito della disfatta del
califfato ottomano subita nella Prima Guerra Mondiale, fu definitivamente
sciolto nel 1922. Le Crociate furono un momento di grande crisi nei rapporti
fra mondo occidentale cristiano e mondo musulmano. Le vicende storiche hanno
reso palese che Islam e Occidente sono mondi completamente diversi.
L’Occidente, venendo a contatto con la società musulmana, ha avuto il limite di
stimare la nuova civiltà con i propri parametri di valutazione. Si è così
consolidata l’immagine di un Islam dispotico e violento, nonostante la
convivenza pacifica in molte zone d’Europa – come in Spagna – con le altre due
religioni monoteiste, ovvero l’Ebraismo e il Cristianesimo; si è radicata anche
la congettura che l’Islam sia rozzo, nonostante l’apporto arabo alla cultura e
all’arte. Tuttavia, come ha precisato la scrittrice somala Ayaan Hirsi Ali,
criticare l’Islam non significa rifiutare i fedeli, ma soltanto quei precetti
islamici che, ove tradotti in comportamenti, hanno conseguenze disumane. In
altri termini la libertà di culto non può costituire un’area franca, che
assicura l’impunità, ma presuppone, per il suo legittimo esercizio, il rispetto
delle norme dell’ordinamento giuridico. Come dire che piuttosto che di Islam
‘tollerante’, sia più pragmatico parlare di Islam ‘tollerato’, intendendo con
questa poco felice espressione l’Islam che legittimamente si esprime entro i limiti
positivi della legge. RR
BOMBARDARE LO STATO ISLAMICO? (20-11-2015)
BOMBARDARE LO STATO ISLAMICO? (20-11-2015)
In questi giorni è sempre
più insistente la voce di chi nei mass media e nei contesti politici
manifesta la necessità di una reazione forte nei confronti dell’Isis, che si
rende ulteriormente necessaria dopo l’iniziativa criminale jihadista in
Mali, che si concreti almeno in azioni operative come bombardamenti nelle zone
siriane e irachene occupate dallo Stato Islamico. In proposito, la questione va
affrontata cercando di evitare l’influenza della comprensibile emotività del
momento. Prescindendo dalle considerazioni etiche relative all’incidenza del
lancio di bombe su civili e dalle valutazioni relative all’efficacia di
bombardamenti alla cieca – tali sarebbero se non fossero supportati
dalle necessarie informazioni sugli obiettivi da colpire che possono essere
fornite solo da una presenza militare on the ground –, devono essere
svolte alcune valutazioni strategiche. Innanzitutto va considerato che, se in
questi anni l’Italia non ha subito gravi atti terroristici a differenza di
altri Paesi (Usa, Francia, Regno Unito, Spagna, etc.,), tutto questo è dovuto
probabilmente non solo alla professionalità dell’apparato di sicurezza, ma
anche ad una politica estera che, fin dai tempi dei governi Andreotti, ha
mantenuto una prudente e talvolta pilatesca equidistanza nella questione
israelo –palestinese, e non ha mai intrapreso crociate nei confronti del
mondo islamico. Emblematico il famoso episodio di Sigonella. Naturalmente
questo non significa che l’Italia per opportunismo politico e interessi
egoistici debba sottrarsi ai suoi impegni internazionali, tuttavia ci si deve
chiedere se valga la pena esporsi facendo parte di una coalizione che non ha
una strategia e una vera leadership, che è guidata da un Paese, gli Usa,
che ha responsabilità sulla nascita dello Stato Islamico e sulla carriera
di Al Baghdadi e che ha un ruolo ambiguo nella questione, che comprende 5 Stati
arabi sunniti (Giordania, Arabia Saudita, Barhein, Emirati Arabi Uniti e Qatar)
che, a parte un atteggiamento di facciata, non si sa da che parte stiano (o
forse si sa), e che è integrata dalla Turchia che preferisce colpire i curdi o
il PKK (che combattono l’Isis) piuttosto che lo Stato Islamico. In realtà,
oltre alla Francia, all’Iran e ai curdi, solo la Russia sta svolgendo una
coerente e lineare politica di contrasto nei confronti dell’Isis. Il cinico e
sinistro Putin può essere il reale alleato dell’Occidente contro l’Isis?
Sicuramente Putin non è un benefattore né un filantropo, ha un suo progetto in
testa. Ma gli alleati in politica estera non devono essere belli, buoni,
migliori degli altri, ma è necessario e sufficiente che condividano
l’avversione per uno stesso nemico. RR
DICHIARAZIONE DI GUERRA E CLAUSOLA DI SOLIDARIETA’ (19-11-2015)
Probabilmente quando il Presidente francese a poche ore dai tragici fatti di Parigi ha annunciato che la Francia era in guerra, aveva già in mente la possibile applicazione della clausola di solidarietà contenuta nell’articolo 42 paragrafo 7 introdotto nella versione consolidata del Trattato dell’Unione Europea a seguito dell’accordo di Lisbona (firmato il 13 dicembre 2007), che così recita: “Qualora uno Stato membro subisca un'aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite…” In altri termini dire che la Francia era in guerra perché aveva ricevuto un’aggressione equivaleva a dire che tutta l’Unione Europea era in guerra al suo fianco. Per quanto il problema sia irrilevante e superato poiché la responsabile della politica estera comunitaria Federica Mogherini ha già annunciato il sostegno del Consiglio di Difesa della Unione all'attivazione della cosiddetta ‘Clausola di difesa collettiva" così come richiesto dai vertici istituzionali francesi, tuttavia l’applicazione della solidarietà prevista dalla norma comunitaria presenta profili non chiari. Il principio dell’articolo 42.7 (del Trattato dell’Unione Europea) in qualche modo è mutuato dall’art. 5 del Trattato istitutivo della Nato del 1949 che così dispone: “Le Parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o nell'America settentrionale, costituirà un attacco verso tutte, e di conseguenza convengono che se tale attacco dovesse verificarsi, ognuna di esse, nell'esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall'art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'impiego della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell'Atlantico settentrionale.”; l’art. 5 del trattato istitutivo della Nato a sua volta riafferma alcuni principi consacrati nella carta delle Nazioni Unite, in particolare quello sulla legittima difesa dell’art. 51, cioè il diritto di uno Stato di opporre una reazione armata, anche con l’assistenza di Stati terzi, a difesa della propria integrità territoriale e dell’indipendenza politica. Pertanto la genesi della norma comunitaria sembrerebbe indicare che il presupposto della solidarietà sia un attacco armato esterno, sferrato da forze regolari attraverso una frontiera internazionale o attraverso l’invio di bande armate sul territorio di un altro Stato. In altri termini sembra che l’aggressione esterna di cui all’art 42 UE debba essere portata da un Paese nemico. In proposito l’aggressione terroristica di matrice islamica configura l’attacco armato 'esterno' di cui alla norma? Se è provato che i terroristi siano emissari dell’Isis, lo Stato Islamico, non riconosciuto e combattuto da tutta la comunità internazionale, può essere considerato un soggetto di diritto internazionale? Comunque è sicuramente positivo che le esigenze di difesa dell’Unione abbiano prevalso sui cavilli dell’interpretazione giuridica. L’importanza dell’art. 42.7 non va tuttavia enfatizzata in quanto la norma non impone ‘di bombardare’, ma di concordare a livello bilaterali le forme di supporto allo Stato aggredito, che possono essere le più varie e soprattutto anche ‘pacifiche’. Aggiungerei che la coalizione anti-Isis, amica del mondo sunnita e guidata dagli Usa, non sembra abbia una chiara volontà di annientare l’Isis, semmai di contenerne l’espansione, in applicazione al Medio Oriente - come già suggeriva Henry Kissinger - del vecchio principio ‘divide et impera’. Un esempio. Quando si decise di combattere e sconfiggere Al Qaeda, a livello internazionale - dalle Nazioni Unite all’Unione Europea - vennero intraprese serie iniziative per interrompere i flussi di denaro di finanziamento del terrorismo di matrice islamica, come, ad esempio, il congelamento di capitali ‘sospetti’. l’Isis invece oggi continua indisturbato a fare transazioni che hanno per oggetto la vendita sottocosto del petrolio con banche e mondo occidentale. Un ultima considerazione a margine. Fra le segnalazioni allarmistiche che vengono ‘confidenzialmente’ raccolte dai media e comunicate, alcune hanno un carattere particolarmente generico (del tipo: sarà colpito il Vaticano, etc.). Solo alcune segnalazioni hanno questo carattere, la maggior parte sono il frutto di un serio lavoro di analisi e di ‘intelligence’. Le segnalazioni generiche di norma non hanno un grande valore, anche da un punto di vista operativo, perché non aggiungono molto alla misure di sicurezza già predisposte. Se i fatti che ne sono oggetto si verificano servono a dire: “l’avevamo previsto”. Se non si verificano, è grazie alla segnalazione che gli eventi temuti sono stati impediti. In altri termini, non si sbaglia mai. RR
DICHIARAZIONE DI GUERRA E CLAUSOLA DI SOLIDARIETA’ (19-11-2015)
Probabilmente quando il Presidente francese a poche ore dai tragici fatti di Parigi ha annunciato che la Francia era in guerra, aveva già in mente la possibile applicazione della clausola di solidarietà contenuta nell’articolo 42 paragrafo 7 introdotto nella versione consolidata del Trattato dell’Unione Europea a seguito dell’accordo di Lisbona (firmato il 13 dicembre 2007), che così recita: “Qualora uno Stato membro subisca un'aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite…” In altri termini dire che la Francia era in guerra perché aveva ricevuto un’aggressione equivaleva a dire che tutta l’Unione Europea era in guerra al suo fianco. Per quanto il problema sia irrilevante e superato poiché la responsabile della politica estera comunitaria Federica Mogherini ha già annunciato il sostegno del Consiglio di Difesa della Unione all'attivazione della cosiddetta ‘Clausola di difesa collettiva" così come richiesto dai vertici istituzionali francesi, tuttavia l’applicazione della solidarietà prevista dalla norma comunitaria presenta profili non chiari. Il principio dell’articolo 42.7 (del Trattato dell’Unione Europea) in qualche modo è mutuato dall’art. 5 del Trattato istitutivo della Nato del 1949 che così dispone: “Le Parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o nell'America settentrionale, costituirà un attacco verso tutte, e di conseguenza convengono che se tale attacco dovesse verificarsi, ognuna di esse, nell'esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall'art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'impiego della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell'Atlantico settentrionale.”; l’art. 5 del trattato istitutivo della Nato a sua volta riafferma alcuni principi consacrati nella carta delle Nazioni Unite, in particolare quello sulla legittima difesa dell’art. 51, cioè il diritto di uno Stato di opporre una reazione armata, anche con l’assistenza di Stati terzi, a difesa della propria integrità territoriale e dell’indipendenza politica. Pertanto la genesi della norma comunitaria sembrerebbe indicare che il presupposto della solidarietà sia un attacco armato esterno, sferrato da forze regolari attraverso una frontiera internazionale o attraverso l’invio di bande armate sul territorio di un altro Stato. In altri termini sembra che l’aggressione esterna di cui all’art 42 UE debba essere portata da un Paese nemico. In proposito l’aggressione terroristica di matrice islamica configura l’attacco armato 'esterno' di cui alla norma? Se è provato che i terroristi siano emissari dell’Isis, lo Stato Islamico, non riconosciuto e combattuto da tutta la comunità internazionale, può essere considerato un soggetto di diritto internazionale? Comunque è sicuramente positivo che le esigenze di difesa dell’Unione abbiano prevalso sui cavilli dell’interpretazione giuridica. L’importanza dell’art. 42.7 non va tuttavia enfatizzata in quanto la norma non impone ‘di bombardare’, ma di concordare a livello bilaterali le forme di supporto allo Stato aggredito, che possono essere le più varie e soprattutto anche ‘pacifiche’. Aggiungerei che la coalizione anti-Isis, amica del mondo sunnita e guidata dagli Usa, non sembra abbia una chiara volontà di annientare l’Isis, semmai di contenerne l’espansione, in applicazione al Medio Oriente - come già suggeriva Henry Kissinger - del vecchio principio ‘divide et impera’. Un esempio. Quando si decise di combattere e sconfiggere Al Qaeda, a livello internazionale - dalle Nazioni Unite all’Unione Europea - vennero intraprese serie iniziative per interrompere i flussi di denaro di finanziamento del terrorismo di matrice islamica, come, ad esempio, il congelamento di capitali ‘sospetti’. l’Isis invece oggi continua indisturbato a fare transazioni che hanno per oggetto la vendita sottocosto del petrolio con banche e mondo occidentale. Un ultima considerazione a margine. Fra le segnalazioni allarmistiche che vengono ‘confidenzialmente’ raccolte dai media e comunicate, alcune hanno un carattere particolarmente generico (del tipo: sarà colpito il Vaticano, etc.). Solo alcune segnalazioni hanno questo carattere, la maggior parte sono il frutto di un serio lavoro di analisi e di ‘intelligence’. Le segnalazioni generiche di norma non hanno un grande valore, anche da un punto di vista operativo, perché non aggiungono molto alla misure di sicurezza già predisposte. Se i fatti che ne sono oggetto si verificano servono a dire: “l’avevamo previsto”. Se non si verificano, è grazie alla segnalazione che gli eventi temuti sono stati impediti. In altri termini, non si sbaglia mai. RR
JIHADISMO E FANATISMO RELIGIOSO. (17-11-2015)
A seguito di alcuni
riflessioni critiche di un caro amico e stimato collega, mi sembra opportuno
integrare il commento di ieri. Non vi è una perfetta e simmetrica assimilazione
fra terrorismo ‘politico’ e terrorismo ‘religioso’, nello specifico di matrice
‘islamica’. I terroristi che agiscono per l’affermazione di una fede si sentono
mandatari di un disegno divino; conseguentemente le loro iniziative criminose
sono sempre il precipitato di un fanatismo religioso - che è un modo esasperato
di vivere il proprio credo - che fornisce una base di consenso, più o meno esplicito,
ai fenomeno degenerativi. Il fanatismo religioso rende più difficile
l’isolamento ideologico e operativo dei terroristi - auspicato nel precedente
commento - che possono contare su un limitato ambiente favorevole o almeno non
ostile, e che non si dissocia adeguatamente, con chiarezza e decisione
dai loro crimini. Nei contesti nei quali il fanatismo ha il sopravvento non
raramente si riscontrano connivenze che, anche attraverso atteggiamenti
omertosi, di fatto intralciano le attività istituzionali degli apparati di
sicurezza. La lotta al terrorismo di ispirazione religiosa inizia quindi con il
contrasto del fanatismo e delle interpretazioni fondamentaliste che non
rispettano il pluralismo che integra uno dei connotati essenziali del carattere
laico degli Stati occidentali. Questo atteggiamento ambiguo nei confronti
del terrorismo riguarda naturalmente solo una parte del mondo musulmano, che
quindi non va demonizzato nel suo complesso. Tuttavia è indubbio che la
collaterale e contigua componente del fanatismo religioso renda il terrorismo
di matrice islamica particolarmente difficile da contrastare. Peraltro gli
stessi musulmani ne sono vittime, in quanto non raramente sono anch’essi
vittime degli integralisti. In generale, il terrorismo può essere definito di
matrice religiosa quando è animato da motivazioni che trascendono la realtà
materiale; conseguentemente gli obiettivi delle singole azioni sono mezzi per
la progressiva affermazione di un progetto che si ispira a un ordine
soprannaturale che si ritiene di dover affermare ad ogni costo, anche
attraverso la perpetrazione di crimini crudeli e sanguinosi come i tragici
fatti di Parigi di qualche sera fa dimostrano. Il terrorismo di matrice
religiosa ha sempre carattere radicale poiché non ammette alternative alla
prevalenza dell’assetto socio-politico che costituisce il corollario del credo
religioso. In proposito, la fede religiosa può essere vissuta in due modi: o
come rapporto individuale tra l’uomo e il trascendente, o come dimensione
afferente la collettività. In questo secondo caso la fede produce gli effetti
di un’ideologia in quanto diviene tensione per l’affermazione di un società
‘nuova’ ispirato a un’etica confessionale. L’adesione a una fede religiosa,
anche quando rimane confinata nella sfera individuale, può avere rilevanza
esterna in quanto spesso il credo religioso impone al fedele il proselitismo al
fine di estenderne la condivisione. La fede, quando è vissuta come ideologia,
richiede invece un impegno collettivo rivolto al cambiamento sociale. In questo
caso, il correlato delle iniziative di proselitismo (che generalmente hanno
carattere individuale in quanto si articolano all’interno di una relazione
personale) è la militanza, cioè la partecipazione a gruppi (anche armati) nei
quali i fedeli si strutturano in maniera para militare per promuovere con ogni
mezzo, compreso il ricorso alla violenza più cruda, l’instaurazione di un
ordine nel quale le leggi civili sono sostituite da un ordinamento giuridico
plasmato sulla legge divina. Il terrorismo di matrice islamica è una
degenerazione di questo atteggiamento: l’uso della violenza e della minaccia
sono infatti una scorciatoia per l’instaurazione di una società ispirata ai
precetti del Corano, interpretato nella maniera fondamentalista. Concettualmente
non vi è soluzione di continuità tra fanatismo e terrorismo; come dicevano gli
illuministi, dal fanatismo alla barbarie c’è solo un passo. RR
PARIGI, ISLAM, OCCIDENTE, JIHADISMO. (16-11-2015)
In questi due giorni che
sono seguiti ai fatti criminali di Parigi il dibattito anche in sedi
qualificate è stato spesso ricondotto ai problematici rapporti fra Islam e
Occidente, fornendo peraltro informazioni imprecise spesso conseguenza di un
approccio parziale ed etnocentrico. Questo modo di affrontare la questione
credo che sia sbagliato. Non mi riferisco al solito e forse insolubile problema
circa la reale natura della religione musulmana, alle diverse interpretazioni
del Corano, o a come il messaggio di Maometto sia vissuto dai suoi adepti. È noto
che la mancanza di una gerarchia religiosa, il cui vertice possa esprimere un
punto di vista ufficiale, impedisca di individuare quale Islam – da quello più
tollerante a quello più fondamentalista e anti-occidentale – sia quello reale.
Gli imam peraltro, che hanno un peso notevole nella formazione dei
fedeli ed esercitano su di essi una leadership spirituale, non
sono né chierici, né destinatari di una designazione, ma spesso
acquisiscono questo titolo per attribuzione da parte della comunità o per auto-proclamazione,
dopo aver approfondito solo lo studio dei testi sacri senza aver maturato una
cultura più ampia e globale. È anche vero che sicuramente nel mondo musulmano
non è maturata nel tempo la percezione della necessità di stabilire con
chiarezza le relazioni fra religione e politica, condizione essenziale per lo
sviluppo di principi quali la tolleranza, l’uguaglianza, il rispetto della
libertà di pensiero, nonché la libertà di culto. È anche vero che la società
islamica è permeata da una religione particolarmente invasiva, caratterizzata
da aspetti che, travisati, possono facilmente produrre manifestazioni violente
e anti-occidentali. Tuttavia, tutto questo con la lotta al terrorismo non
c’entra molto, in quanto le iniziative di contrasto di questa eversione
criminale di matrice religiosa prescindono dalle diverse e non raramente
opposte opinioni che si abbiano sull’Islam. In generale l’approccio dell’intelligence
nei confronto del terrorismo è diverso da quello verso la criminalità sia
comune che organizzata, in quanto il terrorismo, diversamente da altre
fenomenologie illecite, ha sempre una base ‘culturale’ - per quanto discutibile
e deprecabile - che deve essere oggetto di approfondimento e analisi per essere
efficacemente contrastata. In altri termini i fenomeni eversivi sono sempre il
prodotto sbagliato di una ideologia, della quale il movimento terrorista che ne
è il promotore mira ad estenderne la condivisione quanto più possibile,
cercando di creare intorno ad essa il sostegno di un consenso. Per questo
collocare il terrorismo jihadista nel contesto del confronto fra
Occidente ed Islam è un errore strategico in quanto equivale a favorire quella
mobilitazione generale contro il mondo occidentale a cui mirano i terroristi.
La sconfitta dei movimenti eversivi del secolo scorso, tutti di matrice
politica, ha avuto il suo momento più importante nell’isolamento ideologico dei
terroristi dal resto della comunità. Ad esempio, l’atteggiamento neutrale degli
intellettuali italiani che si riassumeva nell’inciso ‘né con le Brigate Rosse,
né con lo Stato’ finì per favorire i Brigatisti di fatto legittimati a
combattere ‘quello’ Stato. In realtà ‘quello’ Stato doveva essere difeso, in
quanto, seppur carente, assicurava una vita democratica: quando tutto questo
fu chiaro, attraverso l’isolamento ideologico, furono poste le premesse per la
sconfitta dell’eversione rossa. Seppure il terrorismo jihadista abbia
peculiarità proprie, le precedenti esperienze maturate nel contrasto ai
movimenti terroristici di varia natura sono lessons learned (come si
dice nei contesti internazionali) che costituiscono preziose esperienze di cui
tenere conto. RR
GLI ATTENTATI A PARIGI DI
IERI SERA. Alcune riflessioni ‘tecniche’. (14-11-2015)
Purtroppo ieri sera è stata un’indimenticabile serata di sangue nella capitale francese. In rapida successione sono stati perpetrati otto attentati terroristici al grido di Allah akbar (‘Allah è grande’) con un bilancio al momento di 139 morti e di circa 350 feriti (di cui molti in gravissime condizioni). I fatti sono noti a tutti, le agenzie di stampa hanno fornito dettagliati e puntuali resoconti. In questo momento i maggiori nemici sono l’emotività e lo sciacallaggio politico che si polarizza intorno a principi estremi che costituiscono un ostacolo anziché un contributo per intraprendere ferme misure che sono ormai indifferibili per fronteggiare questa grave minaccia: da una parte è dannoso alimentare la congettura che l’Occidente sia in ipi e meritevole di essere approfondita. A prescindere daguerra con tutto l’Islam, che sia in atto uno scontro di civiltà, che debba essere visto in ogni musulmano un potenziale terrorista: questo è un modo per supportare involontariamente il jihadismo che vuole coalizzare tutto il mondo musulmano sunnita contro di noi, mentre al contrario - come dimostra anche l’esperienza italiana degli apparati di sicurezza contro le Brigate Rosse - è necessario innanzitutto isolare i terroristi ed evitare che altri (in questo caso di religione islamica), vittime di una propaganda che demonizza la società occidentale comprese le conquiste di libertà e di democrazia, solidarizzino con i criminali. È altrettanto dannoso un cieco e non circostanziato garantismo che rifiuta di prendere atto che siamo in uno stato di guerra che richiede misure emergenziali, e che fa della grave patologia una situazione di ordinaria fisiologia. Seguono alcune riflessioni:
Purtroppo ieri sera è stata un’indimenticabile serata di sangue nella capitale francese. In rapida successione sono stati perpetrati otto attentati terroristici al grido di Allah akbar (‘Allah è grande’) con un bilancio al momento di 139 morti e di circa 350 feriti (di cui molti in gravissime condizioni). I fatti sono noti a tutti, le agenzie di stampa hanno fornito dettagliati e puntuali resoconti. In questo momento i maggiori nemici sono l’emotività e lo sciacallaggio politico che si polarizza intorno a principi estremi che costituiscono un ostacolo anziché un contributo per intraprendere ferme misure che sono ormai indifferibili per fronteggiare questa grave minaccia: da una parte è dannoso alimentare la congettura che l’Occidente sia in ipi e meritevole di essere approfondita. A prescindere daguerra con tutto l’Islam, che sia in atto uno scontro di civiltà, che debba essere visto in ogni musulmano un potenziale terrorista: questo è un modo per supportare involontariamente il jihadismo che vuole coalizzare tutto il mondo musulmano sunnita contro di noi, mentre al contrario - come dimostra anche l’esperienza italiana degli apparati di sicurezza contro le Brigate Rosse - è necessario innanzitutto isolare i terroristi ed evitare che altri (in questo caso di religione islamica), vittime di una propaganda che demonizza la società occidentale comprese le conquiste di libertà e di democrazia, solidarizzino con i criminali. È altrettanto dannoso un cieco e non circostanziato garantismo che rifiuta di prendere atto che siamo in uno stato di guerra che richiede misure emergenziali, e che fa della grave patologia una situazione di ordinaria fisiologia. Seguono alcune riflessioni:
- La perfetta regia degli
attentati consente di escludere che l'operazione sia stata posta in essere da
locali e isolate cellule dormienti. Al contrario, le modalità esecutive
suggeriscono che ci sia stato un accurato coordinamento esterno. Probabilmente
gli autori dei crimini sono foreign fighters, ovvero volontari stranieri
di ritorno dalla guerra siriana: i terroristi infatti avevano un’ottima
conoscenza del territorio parigino e della lingua francese, e una disinvoltura
operativa probabile risultato delle esperienze belliche maturate in Siria o in
Irak. Il loro modus operandi sembrerebbe di tipo qaedista.
- Non sembra particolarmente
rilevante discutere se i terroristi fossero emissari dell'Isis o di Al-Qaeda.
In realtà, a parte i non chiari rapporti fra le due organizzazioni, Al-Qaeda di
fatto agisce come il braccio armato dell’Isis in Occidente, mentre lo Stato
Islamico rivolge le sue attenzioni prevalentemente al mondo musulmano.
- Il fine perseguito dai
terroristi di matrice islamica è quello di colpire la vita ordinaria di normali
cittadini, allo scopo di diffondere la convinzione che nessuno in Occidente
possa sentirsi al sicuro. Gli attentati infatti sono stati perpetrati
all'inizio del fine settimana, quando cioè ognuno si rilassa dopo una settimana
di lavoro, e in luoghi di aggregazione alla portata di tutti, ovvero dei
ristoranti, lo stadio, un noto e popolare teatro.
- E’ evidente che l'intelligence
francese sia stata colta di sorpresa. Al riguardo è sempre più necessario un
efficiente cooperazione internazionale fra gli apparati di sicurezza, rendendo
più ampio lo ‘scambio di informazioni’, soprattutto quello che riguarda
l'universo jihadista di difficile ‘penetrazione’ per le diversità
linguistiche locali nelle quali si declina l'arabo standard, e anche in
relazione alla difficoltà di contrastare il terrorismo suicida. Una nota
positiva è che i nostri apparati di sicurezza e di polizia sono probabilmente
tra i più efficienti in Europa.
- Prendendo atto di questa
situazione emergenziale, sarebbe opportuno che anche altri Stati europei cedano
alla tentazione di prendere gli stessi provvedimenti adottati dalla Francia,
ovvero leggi speciali e ripristino di controlli alle frontiere. Infatti in
questo momento le Forze dell'Ordine, già in sofferenza per carenze di organici
e penuria di mezzi, devono essere messe nella condizione di operare nella maniera
migliore possibile per affrontare questa condizione di crisi. Le leggi
speciali, che consentono di operare più liberamente, sono una contingenza
negativa per la loro straordinarietà e per la loro incidenza sui diritti di
libertà, ma sono in questo particolare momento necessarie come analogamente
avvenne al tempo delle Brigate Rosse, o negli Stati Uniti con il Patriot Act
dopo l'11 settembre 2001, che rafforzò il potere dei corpi di polizia e di
spionaggio statunitensi. Per quanto riguarda invece la chiusura delle
frontiere, pur non essendoci un collegamento fra immigrazione e terrorismo
(diversamente un nesso da precisare sicuramente sussiste fra immigrazione e
criminalità) tuttavia in questa situazione di emergenza il ripristino dei
controlli alle frontiere appare opportuno in quanto le attività istituzionali
connesse al flusso migratorio contribuiscono a sottrarre energie alle forze
dell'ordine e a rendere più complesso il loro operare, mentre appare opportuno
che ci si concentri in maniera sempre più massiva sulla prevenzione
dell'eversione jihadista.
- Si deve sempre mantenere
alta l’attenzione per la via diplomatica nei confronti della crisi siriana ed
irachena, che non esclude iniziative belliche, e che costituisce la fonte della
destabilizzazione internazionale di cui i fatti di Parigi sono una conseguenza.
- L'Isis ha dichiarato di
aver voluto punire la Francia per le sue decise iniziative militari in Siria.
Probabilmente dietro agli attentati vi è anche il risentimento sunnita per un
avvicinamento dell’Occidente al mondo sciita, di cui l'Iran, ‘riabilitato’ dopo
il noto accordo sul nucleare, è il massimo esponente. Già da domani infatti
avrebbe dovuto aver inizio una serie di visite del Presidente iraniano Hassan
Rouhani in Europa (lunedì sarebbe dovuto essere a colloquio con Hollande). Il tour
è stato rinviato. In altri termini ancora una volta sullo sfondo del disastro
c'è l'annoso conflitto fra mondo sciita e mondo sunnita.
RR
Ulteriori considerazioni sul disastro aereo in Egitto (10-11-2015)
In questi giorni si va consolidando l’ipotesi che dietro il disastro dell’Airbus proveniente da Sharm El-Sheik, ci sia un attentato posto in essere da una cellula terroristica affiliata all’Isis, denominata ‘Isis per la provincia del Sinai’ (Isis – Sinai Province), che è una frazione del gruppo jihadista Ansar Bayt Al-Maqdis, ed è guidata dall’egiziano Abu Osama Al-Masri, già responsabile, tra l’altro, dell’attacco al Consolato italiano del Cairo nel luglio scorso, del rapimento e della decapitazione di un ostaggio croato nell’agosto passato, e di altre numerose iniziative criminose. Si ipotizza la collocazione di una bomba nella stiva del velivolo russo attraverso la collaborazione di qualche funzionario corrotto e infedele dell’aeroporto di Sharm El Sheik. Responsabili della deflagrazione sarebbero stati probabilmente congegni esplosivi di nuova generazione, segnatamente i temuti ‘undetectable device’, che sono ordigni che non hanno parti metalliche, studiati appositamente per sfuggire ai controlli aeroportuali, e al cui confezionamento al Qaeda stava lavorando da qualche anno; questi dispositivi sarebbero già nella disponibilità di foreign fighters britannici in Iraq e Siria. Purtroppo questa ricostruzione dei fatti, se fondata, dimostrerebbe che è possibile, soprattutto in certi Paesi, aggirare facilmente alcune misure predisposte per la sicurezza dei voli civili, come il cosiddetto ‘riconcilio dei bagagli’, ovvero la corrispondenza fra bagagli caricati a bordo e passeggeri imbarcati. Peraltro il principio su cui si fonda il ‘riconcilio dei bagagli’ - cioè che nessuno farebbe saltare l’aereo sul quale viaggia - non funziona con il terrorismo suicida. Naturalmente ci sono tanti altri controlli finalizzati ad evitare atti di interferenza illecita sulla regolarità del traffico aereo. Sicuramente lo strumento preventivo di contrasto del terrorismo di matrice islamica di maggior efficacia è un’attenta attività di intelligence. È nota in proposito e rassicurante la professionalità dell’apparato di sicurezza italiano. L’attività di intelligence può essere potenziata attraverso una maggiore condivisione a livello internazionale delle acquisizioni informative. La cooperazione di polizia in ambito europeo ha sempre attribuito grande importanza alla collaborazione a questo fine fra collaterali organismi. Per le caratteristiche specifiche e peculiari dei numerosi dialetti arabi locali, presumibilmente non sempre è facile l’intelligibilità della forma e la comprensione dei contenuti delle conversazioni fra presunti attentatori islamici intercettati. Con specifico riferimento alla sicurezza in ambito aeroportuale si deve anche considerare che incaricati dei relativi controlli, anche all’estero, non sono esclusivamente militari o forze di polizia, istituzionalmente più affidabili, ma anche imprese private certificate. È auspicabile che, previ accordi, in alcuni Paesi ‘a rischio’ alle operazioni di sicurezza dei voli concorra personale delle compagnie aeree e funzionari degli organi di sicurezza e di polizia di altri Stati, in particolare di quello relativo alla nazionalità del volo, e/o di altri eventualmente interessati, che potrà effettuare anche verifiche aggiuntive in via precauzionale. Ogni tragedia aerea ha insegnato qualcosa. Dopo il dramma di Lockerbie sono stati incrementati i controlli ai bagagli in stiva, dopo l’11 settembre 2001 si è prestata più attenzione ai passeggeri e ai bagagli a mano, dopo questa tragedia è probabile che maggiori verifiche riguarderanno il personale aeroportuale. RR
RR
Ulteriori considerazioni sul disastro aereo in Egitto (10-11-2015)
In questi giorni si va consolidando l’ipotesi che dietro il disastro dell’Airbus proveniente da Sharm El-Sheik, ci sia un attentato posto in essere da una cellula terroristica affiliata all’Isis, denominata ‘Isis per la provincia del Sinai’ (Isis – Sinai Province), che è una frazione del gruppo jihadista Ansar Bayt Al-Maqdis, ed è guidata dall’egiziano Abu Osama Al-Masri, già responsabile, tra l’altro, dell’attacco al Consolato italiano del Cairo nel luglio scorso, del rapimento e della decapitazione di un ostaggio croato nell’agosto passato, e di altre numerose iniziative criminose. Si ipotizza la collocazione di una bomba nella stiva del velivolo russo attraverso la collaborazione di qualche funzionario corrotto e infedele dell’aeroporto di Sharm El Sheik. Responsabili della deflagrazione sarebbero stati probabilmente congegni esplosivi di nuova generazione, segnatamente i temuti ‘undetectable device’, che sono ordigni che non hanno parti metalliche, studiati appositamente per sfuggire ai controlli aeroportuali, e al cui confezionamento al Qaeda stava lavorando da qualche anno; questi dispositivi sarebbero già nella disponibilità di foreign fighters britannici in Iraq e Siria. Purtroppo questa ricostruzione dei fatti, se fondata, dimostrerebbe che è possibile, soprattutto in certi Paesi, aggirare facilmente alcune misure predisposte per la sicurezza dei voli civili, come il cosiddetto ‘riconcilio dei bagagli’, ovvero la corrispondenza fra bagagli caricati a bordo e passeggeri imbarcati. Peraltro il principio su cui si fonda il ‘riconcilio dei bagagli’ - cioè che nessuno farebbe saltare l’aereo sul quale viaggia - non funziona con il terrorismo suicida. Naturalmente ci sono tanti altri controlli finalizzati ad evitare atti di interferenza illecita sulla regolarità del traffico aereo. Sicuramente lo strumento preventivo di contrasto del terrorismo di matrice islamica di maggior efficacia è un’attenta attività di intelligence. È nota in proposito e rassicurante la professionalità dell’apparato di sicurezza italiano. L’attività di intelligence può essere potenziata attraverso una maggiore condivisione a livello internazionale delle acquisizioni informative. La cooperazione di polizia in ambito europeo ha sempre attribuito grande importanza alla collaborazione a questo fine fra collaterali organismi. Per le caratteristiche specifiche e peculiari dei numerosi dialetti arabi locali, presumibilmente non sempre è facile l’intelligibilità della forma e la comprensione dei contenuti delle conversazioni fra presunti attentatori islamici intercettati. Con specifico riferimento alla sicurezza in ambito aeroportuale si deve anche considerare che incaricati dei relativi controlli, anche all’estero, non sono esclusivamente militari o forze di polizia, istituzionalmente più affidabili, ma anche imprese private certificate. È auspicabile che, previ accordi, in alcuni Paesi ‘a rischio’ alle operazioni di sicurezza dei voli concorra personale delle compagnie aeree e funzionari degli organi di sicurezza e di polizia di altri Stati, in particolare di quello relativo alla nazionalità del volo, e/o di altri eventualmente interessati, che potrà effettuare anche verifiche aggiuntive in via precauzionale. Ogni tragedia aerea ha insegnato qualcosa. Dopo il dramma di Lockerbie sono stati incrementati i controlli ai bagagli in stiva, dopo l’11 settembre 2001 si è prestata più attenzione ai passeggeri e ai bagagli a mano, dopo questa tragedia è probabile che maggiori verifiche riguarderanno il personale aeroportuale. RR
L'INCIDENTE SUL SINAI ALL'AEREO RUSSO (5-11-2015)
Se verrà confermata la
matrice terroristica dell'incidente all'Airbus A321 della compagnia aerea russa
Kogalymavia, avvenuto durante il sorvolo della penisola del Sinai e nel quale
sono morte 224 persone, il relativo attentato sarà di facile lettura: l'Isis (o
il gruppo jihadista responsabile della fase esecutiva del crimine - al
riguardo nel Sinai è attiva una filiale dello Stato Islamico) avrebbe colpito
due 'odiati' nemici: l'Egitto e la Russia. Per quanto riguarda l'Egitto,
nonostante le dichiarazioni rassicuranti delle autorità, risulterebbe
confermata la sua natura di meta per i turisti poco affidabile e pericolosa. Il
danno che ne deriverebbe al regime egiziano, già in difficoltà, sarebbe
ingente: il turismo è uno dei settori più importanti nell'economia del Paese.
In particolare nel 2014 l'Egitto ha accolto più di 3 milioni di russi. Già nel
luglio scorso la Farnesina, dopo l'esplosione di un'autobomba contro il
consolato italiano al Cairo e in considerazione del deterioramento della
generale situazione, aveva cautamente sconsigliato i viaggi in quel Paese non
indispensabili, soprattutto nelle località diverse dai resort dei più
frequentati siti turistici; inoltre era stato raccomandato in ogni
caso di mantenere elevata la soglia di attenzione in quanto, nonostante
i controlli delle autorità, non potevano essere escluse possibili minacce
alla propria sicurezza. L'Egitto, infatti, pur essendo uno Stato con una salda
maggioranza sunnita, per la sua politica estera moderata e per le sue
relazioni politiche ed economiche con il mondo occidentale è particolarmente
inviso all'Isis e al fondamentalismo sunnita. In proposito l'Egitto è anche il
Paese che maggiormente 'sdogana' in Occidente la cultura araba (ad
esempio, attraverso la letteratura e il cinema); per questo fra le lingue
nazionali a matrice araba l'egiziano è l'idioma più popolare all'estero.
L'attentato colpirebbe particolarmente il regime di Al Sisi, che ha fatto della
lotta al fondamentalismo islamico uno dei suoi principali obiettivi. La
Russia pagherebbe invece il suo impegno in Siria in appoggio al fronte sciita e
l'alleanza con l'Iran, l'unico Paese realmente impegnato 'sul campo' a
contrastare l'avanzare dello Stato Islamico (mentre le iniziative degli
'alleati' occidentali sono blande e poco coordinate). Naturalmente queste
considerazioni presuppongono la natura terrorista del disastro aereo sul Sinai.
RR
LA LEGITTIMA DIFESA 2.
Legittima difesa putativa ed eccesso colposo di legittima difesa (3-11-2015)
Questo commento fa seguito
al precedente del 28 ottobre u.s.Prima di passare ad un esame critico del
quadro complessivo delle disposizioni vigenti sulla legittima difesa si deve
accennare alla legittima difesa putativa e all'eccesso colposo di legittima
difesa. Nel caso di legittima difesa putativa sono presenti tutti gli elementi
della legittima difesa reale con la differenza che, in questo caso, la
situazione di pericolo non esiste, ma è erroneamente supposta dal presunto
aggredito in base ad un errore nella valutazione dei fatti, determinato da una
situazione obiettiva che giustifica la convinzione del soggetto.
Conseguentemente, fattori esclusivamente soggettivi, come il timore e in
generale uno stato d’animo, non sono sufficienti per integrare il carattere
putativo della legittima difesa. L'eccesso colposo di legittima difesa si
verifica invece quando venga meno per colpa del reagente la proporzione tra
difesa ed offesa; in termini più chiari, sussistendo tutte le altre condizioni
per l'applicazione della scriminante, si eccedono colposamente - cioè per un
difetto non scusabile di conoscenza della situazione concreta, ovvero per altre
forme di inosservanza di regole di condotta - i limiti stabiliti dalla legge
nella reazione, che risulta così esuberante rispetto allo scopo di difendere il
proprio diritto. In questo caso alla reazione si applicano le disposizioni
concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto
colposo. Si distinguono due forme di eccesso colposo: la prima ricorre quando,
a causa dell'erronea valutazione della situazione di fatto, il reagente abbia
realizzato volutamente un determinato risultato; la seconda è l'ipotesi
simmetricamente opposta, ovvero si configura quando nonostante la corretta
valutazione della situazione di fatto, il reagente commette un errore esecutivo
che produce un effetto più grave. Non si applica l'eccesso colposo nell'ipotesi
in cui il reagente sia a conoscenza della situazione concreta e superi
volontariamente i limiti dell'agire scriminato; in tale ipotesi la volontà non
è diretta alla realizzazione dell'obiettivo consentito, ma ad un fine criminoso
e conseguentemente l'eccesso dovrà ritenersi doloso ed il soggetto dovrà
rispondere dei corrispondenti reati a titolo doloso. Qualora si ritenga - con
giusto senso pratico - che l'adeguatezza della difesa debba essere valutata
tenendo conto non solo del rapporto tra il male subito (o che vi era il
pericolo di subire) ed il male inflitto per reazione, ma anche del rapporto fra
i mezzi che l'aggredito aveva a disposizione e quelli in concreto utilizzati,
non si verificherebbe l'eccesso quando, ad esempio, chi sia stato aggredito da
una persona armata di coltello, per difendersi, spari con una pistola, qualora
quest'arma fosse l'unico mezzo efficace che il reagente avesse a propria
disposizione per difendersi. In questo caso non si configurerà l'eccesso
colposo, bensì la giustificante della legittima difesa. In conclusione, non
suscita perplessità l'istituto della legittima difesa putativa, che è
un'applicazione del principio generale per cui la responsabilità penale
presuppone un fatto proprio colpevole, cosicché nell’ipotesi simmetricamente
opposta in cui il soggetto ritenga per errore scusabile di agire in presenza di
determinate circostanze che escludono l’elemento della colpa nella causazione
del fatto costituente reato, la legge privilegia la rappresentazione soggettiva
del soggetto stesso. L'eccesso colposo di legittima difesa è invece
un'applicazione della controversa questione della proporzione fra offesa e
difesa, di cui si dirà prossimamente. RR
LA LEGITTIMA DIFESA 1. Le disposizioni vigenti (28-10-2015)
LA LEGITTIMA DIFESA 1. Le disposizioni vigenti (28-10-2015)
Se il diritto fosse solo un
esercizio sofistico la norma del codice penale italiano sulla legittima difesa
avrebbe un'architettura perfetta, quasi geniale per le sottigliezze che
contiene. Diversamente le leggi hanno finalità concrete, devono disciplinare la
vita sociale, e il disposto dell'articolo 52 del Codice Penale ha alcune
potenzialità di difficile applicazione. La scriminante - sono scriminanti le
disposizioni, tassativamente individuate dalla legge, che escludono l’illiceità
di una condotta che, in loro assenza sarebbe penalmente rilevante e
sanzionabile -, integrata e rinominata 'Difesa Legittima' dalla legge 59/2006,
è attualmente così disciplinata dal diritto positivo: "Non è punibile chi
ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere
un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta,
sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa. Nei casi previsti dall'art.
614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo
comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi
ivi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine
di difendere: a) la propria o la altrui incolumità; b) i beni propri o altrui,
quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione. La disposizione di
cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto
all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale,
professionale o imprenditoriale." Quindi, nei limiti della situazione
prevista si consente - in deroga al monopolio statuale dell’uso della forza -
una forma di autotutela privata nei casi in cui, in presenza di un’aggressione
contro beni individuali, l’intervento pubblico non possa essere tempestivo ed
efficace. Esaminando gli elementi costitutivi della fattispecie astratta si
evidenziano alcuni suoi limiti e le prospettive di un'eventuale riforma.
Innanzitutto il legislatore prevede che si debba essere in presenza di un
pericolo attuale di un offesa ingiusta ad un diritto proprio o altrui. Nulla
quaestio per questi elementi: il pericolo deve essere riconducibile ad una
condotta umana, attiva o omissiva (e non necessariamente colpevole, cioè
sorretta da dolo o colpa). L'offesa deve essere ingiusta, cioè contra ius
ovvero deve concretarsi in una condotta commissiva e omissiva contraria ai
precetti dell’ordinamento giuridico, o non iure ovvero non espressamente
autorizzata (ad esempio, non può invocare tale scriminante il ladro che
reagisce contro il pubblico ufficiale che tenti legittimamente di trarlo in
arresto). L’aggressione può riguardare qualunque diritto, non solo
dell’autore della reazione difensiva, ma anche di un terzo (si parla in questo
caso di 'soccorso difensivo'). È sufficiente che ricorra il pericolo
dell’evento lesivo, che però deve essere attuale, cioè imminente
(ovvero incombente al momento del fatto) e persistente (ovvero l'aggressione
iniziata non deve essere ancora conclusa; diversamente, se l'offesa si è
prodotta, il danno arrecato dalla difesa ha solo natura ritorsiva). Le
difficoltà interpretative e applicative riguardano invece alcuni elementi della
reazione difensiva. Nessun problema per quanto concerne l'esigenza di
difendersi: cioè è necessario che il pericolo possa essere efficacemente
contrastato solo reagendo contro l’aggressore. Come corollario la scriminante
non si applica se c'è la possibilità di un 'commodus discessus', cioè quando il
soggetto può sottrarsi al pericolo senza esporre al rischio la sua integrità
fisica (ad esempio con la fuga). La prima difficoltà applicativa riguarda il
requisito della proporzionalità: la reazione difensiva deve essere
proporzionata all’offesa minacciata. Il raffronto deve essere svolto tra offesa
e difesa tenendo conto dei beni su cui le stesse incidono. Nel caso di beni
omogenei è sufficiente confrontare l’intensità dell’offesa con quella della
difesa. Nell'ipotesi di beni disomogenei si deve fare ricorso alla gerarchia
dei valori dell’ordinamento giuridico e poi al grado di intensità dell’offesa.
La proporzionalità va valutato con un giudizio ex ante, cioè confrontando le
offese che l’aggredito poteva ragionevolmente temere dall’aggressore con quelle
da lui prodotte al suo antagonista. In relazione alle rapine negli
appartamenti, nel 2006 il legislatore ha aggiunto che: "...nei casi
previsti dall’art. 614, 1 e 2 comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui
al primo comma, se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi
indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di
difendere: a) la propria o l’altrui incolumità; b) i beni propri o altrui
quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione. La disposizione di
cui al 2 comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto
all’interno di un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”.
Presupposto di questa integrazione è la riconsiderazione del requisito della
proporzionalità nel caso di violazione di domicilio. Nel prossimo commento
saranno esaminati gli aspetti applicativi critici della scriminante, le
analoghe previsioni vigenti in alcuni Paesi occidentali, le prospettive di
riforma. RR quando il soggetto può sottrarsi al pericolo senza esporre al
rischio la sua integrità fisica (ad esempio con la fuga). La prima difficoltà
applicativa riguarda il requisito della proporzionalità: la reazione difensiva
deve essere proporzionata all’offesa minacciata. Il raffronto deve essere
svolto tra offesa e difesa tenendo conto dei beni su cui le stesse incidono.
Nel caso di beni omogenei è sufficiente confrontare l’intensità dell’offesa con
quella della difesa. Nell'ipotesi di beni disomogenei si deve fare ricorso alla
gerarchia dei valori dell’ordinamento giuridico e poi al grado di intensità
dell’offesa. La proporzionalità va valutato con un giudizio ex ante, cioè
confrontando le offese che l’aggredito poteva ragionevolmente temere
dall’aggressore con quelle da lui prodotte al suo antagonista. In relazione
alle rapine negli appartamenti, nel 2006 il legislatore ha aggiunto che:
"...nei casi previsti dall’art. 614, 1 e 2 comma, sussiste il rapporto di
proporzione di cui al primo comma, se taluno legittimamente presente in uno dei
luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al
fine di difendere: a) la propria o l’altrui incolumità; b) i beni propri o
altrui quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione. La disposizione
di cui al 2 comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto
all’interno di un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”.
Presupposto di questa integrazione è la riconsiderazione del requisito della
proporzionalità nel caso di violazione di domicilio. Nel prossimo commento
saranno esaminati gli aspetti applicativi critici della scriminante, le
analoghe previsioni vigenti in alcuni Paesi occidentali, le prospettive di
riforma. RR
FEMMINISMO E ISLAM (26-10-2015)
Femminismo e Islam sembrano
a prima vista un ossimoro, cioè una contraddizione in termini. In realtà, la
questione femminile nel mondo musulmano è molto varia e complessa. Per la prima
volta ne ho preso atto qualche anno fa leggendo un libro di Lilli Gruber,
'Figlie dell'Islam', che conteneva gli esiti dell'indagine con la quale la nota
giornalista aveva esplorato l'universo femminile nel mondo arabo. Accanto a
donne - ed erano la maggioranza - vittime di profondi e, talvolta, drammatici
condizionamenti - come un'egiziana che a quattro anni aveva subito la recisione
del clitoride con un rasoio - ce ne erano altre che avevano percorso
positivamente un cammino di emancipazione, come una Yemenita, docente
universitaria, che era riuscita a rifiutare il marito scelto per lei. Sono
state intervistate inoltre alcune donne che occupavano posti di vertice e di
responsabilità perfino in realtà istituzionalmente arretrate e maschiliste come
quella saudita. Successivamente, da uno sguardo affrettato alla cinematografia
mediorientale (compresa quella israeliana) mi sono reso conto che spesso
protagonisti di quei film erano personaggi femminili. Alcuni esempi: 'Caramel'
e 'Ora dove andiamo?' della regista libanese Nadine Labaki, 'Il Giardino dei
Limoni' dell'israeliano Eran Riklis e 'Free zone' del suo connazionale Amos
Gitai, gli iraniani 'Il Cerchio' di Jafar Panahi, 'Persepolis' di Marjane
Satrapi e 'Donne senza uomini' di Shirin Neshat; solo per citarne alcuni.
Pertanto, pur non potendo disconoscere la subordinazione della donna nella società
araba, tuttavia la problematica mi è sembrata spesso risolta
semplicisticamente, banalizzata dagli stereotipi delle specifiche realtà
nazionali particolarmente influenzate dalle tradizioni locali, il femminismo
islamico è un movimento trasversale di tutta la comunità musulmana - in virtù
del presunto carattere universale degli ideali coranici - che approfondisce
l'esegesi del Corano al fine di evidenziare le disposizioni che dichiarano
l'uguaglianza di tutti gli uomini: in altri termini, si sostiene la parità di
genere come corollario del proclamato principio di uguaglianza di tutti gli
'insan' (gli esseri umani). Si evidenzia pertanto anche in questo ambito la
sovrapposizione, ricorrente nell'Islam, fra religione e politica, in quanto la
soluzione di una questione sociale, quale la precisazione dei contenuti del
rapporto uomo - donna, richiede un approfondimento teologico, ovvero una
rilettura del Sacro Testo, a differenza degli analoghi movimenti occidentali
che avevano e hanno estrazione laica. Il femminismo islamico sostiene infatti
che non è il Corano ad essere contro le donne, ma l'interpretazione che ne è
stata data e le tradizioni patriarcali consolidate nel tempo. Le prime voci di
scrittrici e intellettuali che hanno sollevato la questione femminile nel mondo
arabo risalgono alla fine dell'Ottocento: anche se è innegabile che nei Paesi
islamici le donne subiscano ancora gravi discriminazioni, questo dato storico
contrasta con il convincimento di noi europei di detenere in maniera esclusiva
il monopolio dei movimenti di liberazione ed il primato nella promozione della
democrazia e dei diritti di libertà. Tutto questo mentre in Europa il
femminismo è spiazzato da una 'femminilizzazione' del modello maschile, che già
dall'aspetto estetico (depilazione, orecchini ed orpelli vari, uso di creme di
bellezza) si ispira a stereotipi attribuiti, per pregiudizi consolidati,
all'universo femminile. RR
La
banalizzazione in Rete del pregiudizio antisemita (23-10-2015)
Il recente film ironico-surreale 'Pecore in erba' - che racconta con lo stile del (falso) documentario la paradossale vicenda di un attivista del diritto alla libera professione del razzismo, di un antisemita che trova difficoltà ad essere compreso in una società nella quale il razzismo, sebbene in forma latente, è saldamente e insidiosamente radicato - è un esperimento spericolato e stravagante che mi ha fatto riflettere su come l'Antisemitismo cambi forme, si mimetizzi, ma rimane una costante della nostra società. Anche nelle reti sociali l’avversione per gli Ebrei è un fenomeno diffuso che si avvale anche della costituzione di gruppi 'ad hoc' a cui si aderisce per emulazione, per solidarietà amicale, per superficiale suggestione (questi meccanismi operano soprattutto nelle fasce adolescenziali). Prima della nascita di Internet, l’Antisemitismo era un fenomeno circoscritto all’interno di una limitata cultura, se così può essere definita. Con il Web, ma soprattutto con i 'social network', si è assistito purtroppo ad un incremento di iniziative antiebraiche: una diffusa deprecabile propaganda induce sottilmente nella comunità virtuale - sopratutto nei giovani che non hanno avuto una conoscenza diretta delle persecuzioni nazifasciste - la convinzione che l’Antisemitismo sia un punto di vista socialmente accettabile come tanti altri; in concreto i social network, oltre ad amplificare il pregiudizio, hanno determinato una banalizzazione dell’aggressione antiebraica. L’ampiezza del fenomeno e la sua espansione comunicano una superficiale e inconsapevole accettazione del pregiudizio razziale: così viene recepito dai cybernauti al pari di una qualsiasi ideologia politica o, peggio, del tifo per un club sportivo. Così, nel contesto virtuale, seppur non condiviso, l’odio antisemita viene 'normalizzato': è inquietante che materiale razzista sia proposto in un contesto di apparente normalità come se si trattasse di una normale espressione di pensiero. Anche i videogiochi sono un altro ambito nel quale il pregiudizi può essere alimentato dalle relazioni con la realtà virtuale. In essi si interagisce con le immagini riprodotte in un monitor. Inizialmente il 'partner' del gioco era soltanto il software e l’hardware del dispositivo elettronico; successivamente i videogiochi si sono evoluti fino a prevedere la possibilità di interagire e quindi di misurarsi con un altro giocatore collegato online e quindi lontano e non fisicamente presente. I videogiochi sono oggetto di un complesso dibattito, per i loro contenuti che in alcuni casi coincidono con simulazioni di attività particolarmente violente, offensive, o, più in generale, diseducative, e per le forme di dipendenza che possono generare. Ne sono fruitori non solo gli appartenenti a fasce giovanili, ma anche adulti alla ricerca di momenti di relax, di evasione, o di un passatempo che possa creare una soluzione della routine quotidiana. Un’indagine effettuata nel 2008 ha rivelato che i videogiochi sono principalmente praticati dagli individui compresi fra i 16 e i 29 anni. Con riferimento al pregiudizio assumono rilievo alcuni videogiochi che alimentano o contribuiscono a creare stereotipi offensivi di una fede religiosa, dei suoi fedeli, o di un'etnia. Purtroppo la Rete offre molti casi di questo genere, nei confronti dei quali, anche nelle ipotesi più gravemente lesive, non esistono di fatto forme interdittive giustificabili per i contenuti diffamatori dell'esercizio ludico. Anche in questo contesto il pregiudizio, lo stereotipo, l’odio razziale quando divengono l’oggetto di un’attività ludica vengono banalizzati e attraverso la ripetitività dell’evento sono inconsapevolmente accettati come una realtà normale, mentre scompare qualsiasi giudizio critico, del tutto incompatibile con le dinamiche 'superficiali' del gioco. RR
Il recente film ironico-surreale 'Pecore in erba' - che racconta con lo stile del (falso) documentario la paradossale vicenda di un attivista del diritto alla libera professione del razzismo, di un antisemita che trova difficoltà ad essere compreso in una società nella quale il razzismo, sebbene in forma latente, è saldamente e insidiosamente radicato - è un esperimento spericolato e stravagante che mi ha fatto riflettere su come l'Antisemitismo cambi forme, si mimetizzi, ma rimane una costante della nostra società. Anche nelle reti sociali l’avversione per gli Ebrei è un fenomeno diffuso che si avvale anche della costituzione di gruppi 'ad hoc' a cui si aderisce per emulazione, per solidarietà amicale, per superficiale suggestione (questi meccanismi operano soprattutto nelle fasce adolescenziali). Prima della nascita di Internet, l’Antisemitismo era un fenomeno circoscritto all’interno di una limitata cultura, se così può essere definita. Con il Web, ma soprattutto con i 'social network', si è assistito purtroppo ad un incremento di iniziative antiebraiche: una diffusa deprecabile propaganda induce sottilmente nella comunità virtuale - sopratutto nei giovani che non hanno avuto una conoscenza diretta delle persecuzioni nazifasciste - la convinzione che l’Antisemitismo sia un punto di vista socialmente accettabile come tanti altri; in concreto i social network, oltre ad amplificare il pregiudizio, hanno determinato una banalizzazione dell’aggressione antiebraica. L’ampiezza del fenomeno e la sua espansione comunicano una superficiale e inconsapevole accettazione del pregiudizio razziale: così viene recepito dai cybernauti al pari di una qualsiasi ideologia politica o, peggio, del tifo per un club sportivo. Così, nel contesto virtuale, seppur non condiviso, l’odio antisemita viene 'normalizzato': è inquietante che materiale razzista sia proposto in un contesto di apparente normalità come se si trattasse di una normale espressione di pensiero. Anche i videogiochi sono un altro ambito nel quale il pregiudizi può essere alimentato dalle relazioni con la realtà virtuale. In essi si interagisce con le immagini riprodotte in un monitor. Inizialmente il 'partner' del gioco era soltanto il software e l’hardware del dispositivo elettronico; successivamente i videogiochi si sono evoluti fino a prevedere la possibilità di interagire e quindi di misurarsi con un altro giocatore collegato online e quindi lontano e non fisicamente presente. I videogiochi sono oggetto di un complesso dibattito, per i loro contenuti che in alcuni casi coincidono con simulazioni di attività particolarmente violente, offensive, o, più in generale, diseducative, e per le forme di dipendenza che possono generare. Ne sono fruitori non solo gli appartenenti a fasce giovanili, ma anche adulti alla ricerca di momenti di relax, di evasione, o di un passatempo che possa creare una soluzione della routine quotidiana. Un’indagine effettuata nel 2008 ha rivelato che i videogiochi sono principalmente praticati dagli individui compresi fra i 16 e i 29 anni. Con riferimento al pregiudizio assumono rilievo alcuni videogiochi che alimentano o contribuiscono a creare stereotipi offensivi di una fede religiosa, dei suoi fedeli, o di un'etnia. Purtroppo la Rete offre molti casi di questo genere, nei confronti dei quali, anche nelle ipotesi più gravemente lesive, non esistono di fatto forme interdittive giustificabili per i contenuti diffamatori dell'esercizio ludico. Anche in questo contesto il pregiudizio, lo stereotipo, l’odio razziale quando divengono l’oggetto di un’attività ludica vengono banalizzati e attraverso la ripetitività dell’evento sono inconsapevolmente accettati come una realtà normale, mentre scompare qualsiasi giudizio critico, del tutto incompatibile con le dinamiche 'superficiali' del gioco. RR
Gli esiti della crisi siriana. Verso una soluzione? (18-10-2015)
Con riferimento ai tanti
conflitti locali e alle speculazioni finanziarie che li alimentano, Papa
Francesco ha precisato che "...stiamo vivendo una Terza Guerra Mondiale a
pezzi, a capitoli, dappertutto...". Il conflitto siriano e la guerra
all'Isis fanno sicuramente parte di questo amaro mosaico. In proposito,
per sottolineare l'ampio coinvolgimento di Stati nelle operazioni belliche in
quell'area e la contrapposizione fra il fronte occidentale e la Russia (che con
l'Iran sostiene il regime di Damasco), si è parlato di una Terza Guerra
mondiale siriana. Quali sono i possibili esiti della crisi?
Probabilmente, se si ragionasse in termini razionali, mettendo da parte gli
interessi economici e geopolitici dei singoli Paesi, sarebbe opportuno
distinguere - anche se non è facile farlo da un punto di vista concreto - la
questione siriana dalla lotta all'Isis. Per la Siria l'unica via da
percorrere, per uscire da questo sanguinoso stallo diplomatico, è quella
negoziale; nonostante i fallimenti dei precedenti tentativi, è necessario
rilanciare su basi nuove la possibilità di un accordo, convocando una
nuova conferenza di pace fra gli attori dei due fronti, comprensiva anche
dell'Iran, della Turchia e delle altre potenze regionali, e con l'esclusione
dei gruppi jihadisti come lo Stato islamico, il Fronte al Nusra e gli
Hezbollah. La conferenza dovrebbe riguardare esclusivamente la Siria, e
dovrebbe stabilire le condizioni per l'eventuale permanenza al potere del
dittatore siriano o per la sua uscita di scena attraverso la formazione di un
governo di transizione. Sarebbe opportuno che questo avvenisse sotto la
mediazione dell'Onu (che riacquisterebbe la pienezza del suo ruolo) e della
Russia e degli Usa (così le due superpotenze verrebbero responsabilizzate
in ordine agli esiti della trattativa e metterebbero da parte le loro
divergenze). In effetti sembra che il Gruppo di Contatto sulla Siria (una
specie di missione esplorativa) stia lavorando su questa ipotesi, anche
nella convinzione che la soluzione della guerra passi attraverso un
accordo fra Teheran e Riad, i grandi rivali strategici del Golfo, rispettive
punte esponenziali dei fronte sciita e sunnita. E' un esercizio difficile, se
si considera la ferma volontà della Russia di non scaricare Bashar Al Assad e
la posizione della Coalizione Nazionale Siriana, il principale polo
dell'opposizione al regime di Damasco, che richiede la fine dell’aggressione
russa come presupposto per la ripresa del processo negoziale. Un altro
problema è l'individuazione di chi possa parlare a nome dei ribelli
(considerato anche il coinvolgimento di Al Nusra, emissario di Al Qaeda).
Rimane in ombra il ruolo dell'Unione Europea, ma si deve prendere atto
dell'attuale momento di non grande rilievo della mediazione internazionale
delle istituzioni comunitarie. Per quanto riguarda invece la guerra all'Isis,
il fronte che contrasta lo Stato Islamico dovrebbe essere globale e
unitariamente coordinato. In concreto, l'alleanza composta dagli Stati Uniti,
dai Paesi Europei e dalle monarchie sunnite dovrebbe essere integrata dalla
Russia e dalla componente sciita, in particolare dall'Iran. La distinzione fra
le questioni 'Siria' e 'Isis' sarebbe un modo non solo per esplorare specifiche
e differenti soluzioni concrete, ma anche uno strumento pratico per
evitare possibili speculazioni attuate con il pretesto di combattere l'Isis: ad
esempio, la Turchia sembra maggiormente interessata ai ribelli curdi
piuttosto che all'Isis, come anche la Russia, in maniera simmetricamente
analoga, viene accusata di rivolgere la sua prevalente 'attenzione' alla
coalizione anti-Assad. RR
Il
confronto Usa - Russia in Siria; il clima di una nuova guerra fredda
(13-10-2015)
Dopo le tensioni in Ucraina
si sta ricreando il desueto clima della guerra fredda a seguito della
contrapposizione in Siria fra gli Usa, che guidano la coalizione
occidentale, e la Russia, indirettamente appoggiata dalla Cina che
ha posto il veto sulla risoluzione dell'Onu che avrebbe portato il Paese
mediorientale davanti alla Corte Penale Internazionale dell'Aia, e supportata
anche dall'Iran, suo storico alleato che tuttavia ha ripreso recentemente
a dialogare con gli Stati Uniti. Come ai vecchi tempi, le due superpotenze si
accusano reciprocamente: per gli Usa la Russia appoggiando il dittatore siriano
viola il diritto internazionale, per la Russia, alludendo presumibilmente alla
discussa genesi dello Stato Islamico e agli aiuti che provengono dal Kuwait e
dalle monarchie del Golfo, l'Isis non è nato dal nulla ma è stato finanziato e
sostenuto. Putin ha anche ufficialmente affermato polemicamente che è
pericoloso dare le armi ai ribelli e giocare con i terroristi. Poi c'è la
ripetuta violazione dello spazio aereo della Turchia da parte di aerei Mig
russi: la Nato ha respinto le giustificazioni di Mosca che ha parlato di errore
dovuto a condizioni meteo sfavorevoli; le scuse sono state respinte
probabilmente ritenendo che i due sconfinamenti siano state provocazioni
premeditate all'indirizzo di Ankara, che aveva criticato l'impegno russo a
fianco del regime siriano, e nei confronti dell'Alleanza Atlantica (in virtù
della solidarietà reciproca, che lega i Paesi aderenti al Patto, l'Alleanza è
obbligata ad intervenire in difesa di ogni membro che subisca un attacco).
Inoltre Putin è animato da un forte nazionalismo antiamericano. La Russia è
reticente circa la quantificazione del suo impegno militare in quello scenario,
che probabilmente è anche on the ground.
Gli Usa hanno chiesto alla Grecia di vietare il transito ai Mig russi diretti
in territorio siriano. La Bulgaria lo ha disposto autonomamente. Nell’agosto
del 2014 la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti ha iniziato i
bombardamenti di obiettivi dell'Isis in Iraq. Al momento, della coalizione internazionale
che combatte l’Isis in territorio iracheno fanno parte ventidue Paesi, ovvero
gli Stati Uniti, i principali Paesi europei - tra cui Francia, Regno Unito,
Germania e Italia - l'Australia, il Canada, e alcuni Stati arabi e africani.
Gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia dal settembre 2014 hanno
cominciato ad 'operare' anche in Siria. Probabilmente prossimamente 'passeranno
a vie di fatto' anche i tornado italiani. È importante che siano compiute
operazioni nel territorio siriano occupato dall'Isis, al fine di evitare che lo
Stato Islamico consideri questa area (nella quale si trova anche la capitale
Raqqa) una zona 'franca' e sicura. Si parla di una Terza Guerra Mondiale. Mi
piace in proposito ricordare una frase di Albert Einstein: "Non ho idea di
quali armi serviranno per combattere la Terza Guerra Mondiale, ma la quarta
sarà combattuta coi bastoni e con le pietre". RR
Il conflitto siriano: i due
fronti (10-10-2015)
Qualche anno fa lessi un saggio, 'Geopolitica delle emozioni',
già dal titolo molto intrigante, che conteneva un'ipotesi suggestiva, a tratti
geniale, che tuttavia mi sembrò un po' astratta: nel libro si sostiene, come
alternativa alla teoria dello scontro di civiltà di cui parlava Huntington, che
i rapporti fra le aree geopoliticamente omogenee - come l'Occidente, l'Oriente,
il Mondo Musulmano - sono caratterizzati da uno scontro di motivazioni
emozionali. In particolare l'Occidente sarebbe dominato dalla cultura della
paura, i Paesi arabi e il mondo musulmano sarebbero condizionati dalla cultura
dell'umiliazione, la Cina, l'India e gli altri Paesi emergenti sarebbero
animati dalla cultura della speranza. In proposito, nella comprensione della
complessa e confusa situazione siriana le speculazioni apparentemente astratte
della geopolitica delle emozioni forniscono un prezioso supporto interpretativo
concreto. La Russia, alleata di Assad, ormai da giorni sta bombardando la Siria
con l'obiettivo di colpire sia le postazioni jihadiste dello Stato Islamico,
sia le basi del Fronte di Al Nustra e Ahrar al Sham, che sono formazioni
islamiche di ispirazione fondamentalista salafita, che hanno l'obiettivo di
rovesciare il governo di Bashar al Assad e creare uno stato basato sulla
Sharia. La propaganda americana accusa i Russi di colpire i civili, ma questo
purtroppo è l'ordinario effetto collaterale di quasi tutti gli attacchi
bellici, anche quelli occidentali: ci sono spesso dei civili in prossimità di
bersagli che è legittimo colpire, salvo che questi si trovino isolati in mare
aperto o in pieno deserto. In realtà la vera critica degli alleati occidentali
ai Russi è quella di bombardare la parte sbagliata. Eppure la Russia - che
siamo abituati a criticare per il cinismo delle sue scelte strategiche e della
sua realpolitik - sta combattendo l'Isis con efficacia e risultati
apprezzabili, forse mossa anche dal movente emozionale di accreditarsi
moralmente come potenza impegnata a contrastare il terrorismo. Tuttavia, a
conferma che in politica gli ideali sono più apparenti che reali, è evidente
che i russi, con il loro impegno militare, stanno difendendo gli interessi
economici ed energetici propri e degli iraniani contro la minaccia dell'Isis.
La Russia comunque, alleandosi con il fronte sciita siro-iraniano supportato dagli
Hezbollah, ha compiuto una scelta coraggiosa, in quanto rischia di diventare il
principale odiato nemico dell'estremismo terrorista sunnita. Meno lineare è la
posizione emozionale degli Usa e del fronte occidentale. Gli Stati Uniti,
insistendo sulla necessità di abbattere il regime di Assad per i crimini di cui
si è reso responsabile, sembrano mossi da una duplice paura: la prima è quella
di non perdere la credibilità nel ruolo di nazione impegnata a svolgere una
funzione di difesa dell'ordine internazionale e di promozione della democrazia
e dei diritti delle genti, la seconda paura, molto concreta, è quella di
rassicurare, con il proprio impegno contro lo Sciismo, dopo la conclusione
dell'accordo sul nucleare con l'Iran, le monarchie sunnite del Golfo da sempre
strategicamente alleate. Nello stesso tempo gli Usa schizofrenicamente
combattono l'Isis, ovvero il nemico del loro nemico Assad, come se in Siria
fosse possibile insediare un regime contrario ad Assad ma nello stesso tempo
anche al jihadismo sunnita e all'Isis. Forse non si deve riflettere troppo
sulla lungimiranza delle strategie delle potenze (soprattutto quelle
occidentali) impegnate nella crisi siriana: più semplicemente stanno
navigando a vista. RR
LA SIRIA PRIMA DEL CONFLITTO (8-10-2015)
“La democrazia è un prodotto della cultura occidentale
e non può essere applicata per il Medio Oriente, che ha un diverso background
culturale, religioso, sociologico e storico”. Questa frase, pronunciata dal
leader politico turco Erdogan, pur non sancendo, come lo stesso Primo Ministro
turco precisò successivamente, un’inconciliabilità fra la cultura islamica e le
forme di governo democratiche, tuttavia sottolinea che le peculiarità delle
realtà geopolitiche del vicino oriente non possono essere comprese attraverso
un’applicazione indiscriminata dei parametri occidentali. L'instabilità
che caratterizza la regione mediorientale ha una prima causa nella ripartizione
di quei territori: la delimitazione dei confini degli Stati di quell'area fu
un’invenzione della politica piuttosto che il risultato di un accorpamento di
zone affini per motivi etnici, politici e amministrativi. In linea di massima,
non vi fu coincidenza fra la configurazione amministrativa dell’impero
ottomano, e i confini degli Stati mediorientali definiti dagli accordi
internazionali. La Siria in particolare fu il risultato di un compromesso
politico fra due potenze coloniali, la Francia e il Regno Unito, che
procedettero ad una globale distribuzione delle aree del levante arabo che fino
a quel momento - il 1914 - erano state formalmente componenti dell’impero
ottomano. Oggetto di un mandato francese fino al 1945, la Siria raggiunse
l’indipendenza nel 1946, nascendo con una configurazione territoriale ridotta
rispetto alla dimensione politica e amministrativa che aveva come regione
dell’impero ottomano. Alcune zone della Siria ottomana oggi sono parte
dei territori della Giordania e del Libano, mentre ad oriente furono attribuite
al nuovo Stato siriano zone precedentemente sotto l’influenza irachena. Nel '46
in Siria si instaurò un regime dittatoriale. Il Paese attraversò per alcuni
decenni momenti di instabilità politica; poi nel '70 si impadronì del potere
Hafiz Al Assad, esponente del partito Bath. La dittatura di Hafiz Al Assad, pur
non essendo stata particolarmente diversa da quella del suo successore il
figlio Bashar, tuttavia godette di un apprezzabile consenso. Vi fu una
stretta continuità fra i regimi dei due Assad: entrambi fondati su un rigido
controllo della popolazione, sulla repressione di qualsiasi accenno di moti
contrari e su criteri personalistici nella gestione del potere. La dinastia
degli Assad, essendo di estrazione sciita - alawita, è espressione di una
minoranza poiché la popolazione siriana è in prevalenza sunnita. Gli Alawiti
vivono in tutte le grandi città della Siria e sono 2 milioni circa, ovvero il
20% della popolazione. Dopo le prime manifestazioni che reclamavano
condizioni di vita più eque, nel 2011 il regime di Bashar Al Assad intraprese
apertamente la via della repressione, con una conseguente drastica riduzione
del consenso popolare soprattutto nelle regioni lontane dalla capitale,
distanti non solo geograficamente ma anche politicamente, e divenute
particolarmente ostili al regime essendo penalizzate da una gestione del potere
che privilegiava altre aree del Paese. Nelle attività di repressione anche la
tecnologia e l'istruzione hanno svolto un ruolo importante: dopo
essere stati promossi l’apprendimento e l’uso di Internet e dell’inglese, si è
intrapreso un controllo capillare dell’informazione e della Rete. La Siria ha
una grande importanza strategica per l’Iran. L’Iran, com'è noto, pur essendo la
maggiore potenza islamica, soffre una condizione di isolamento dovuta
all’assoluta prevalenza nel suo territorio del credo sciita (in Iran gli Sciiti
sono il 95% della popolazione, mentre il rimanente 5% è sunnita; diversamente
nel cosmo islamico i Sunniti sono il 90% circa, mentre i seguaci dello Sciismo
sono il 10% circa). Così, mentre gli altri Stati arabi mediorientali, che sono
di confessione sunnita, hanno come polo di riferimento politico e religioso
l’Arabia Saudita, potenza egemone dell’area, la Siria, il cui sovrano Bashar al
Assad - come si è detto - è sciita di confessione alawita, ha per l’Iran
una particolare importanza, in quanto è l’unico modo per il Paese persiano di
essere presente e attivo nello scenario mediorientale. L’Iran sostiene
Assad, ma, nella malaugurata ipotesi della sua caduta o ritiro, è pronto ad
un’eventuale transizione che gli sia favorevole e che gli consenta di
proteggere i propri interessi nell’area, anche contando su una rete di milizie
fedeli di stanza in Siria. Con la crisi siriana è cresciuta l’importanza
strategica del gruppo Hezbollah, un movimento fondamentalista islamico libanese
di fede sciita, alleato dell’Iran, che ha sede nel Libano. Gli Hezbollah - il
termine significa in arabo Partito di Dio - sono strutturati come un partito
politico, ma sono dotati di un’ala militare; nacquero nel 1982 come milizia
armata per contrastare l’invasione israeliana del Libano. Il partito Hezbollah
svolge una funzione filantropica finanziando servizi sociali, come scuole e
ospedali; esercita una particolare influenza politica e amministrativa
soprattutto nella parte meridionale del Libano. Gli Hezbollah sono
considerati da Stati Uniti, Egitto, Israele, Australia e Canada
un’organizzazione terroristica. Nella crisi siriana la milizia sciita
Hezbollah, che combatte al fianco del regime di Assad, è finanziata
dall’Iran. Il Libano, essendo nato dall’unione di zone eterogenee, è sempre
stato politicamente e militarmente debole, e ha spesso costituito lo scenario
nel quale si sono consumate fasi di scontri fra altri Stati. Anche il conflitto
siriano attualmente sconfina nei territori libanesi. La Siria, in proposito,
permeata da uno spirito nazionalista, ha sempre rivendicato di fatto
un’egemonia sul Libano, in parte costituito da zone in origine legate
amministrativamente alla Siria ottomana. Nel Libano vivono anche circa 100 mila
Alawiti. Attualmente il Libano vive un’emergenza sociale dovuta all’afflusso di
profughi provenienti dalla vicina Siria. Il modello multiculturale libanese può
ambiziosamente indicare che l’evoluzione della società musulmana può conseguire
l'obiettivo del superamento della concezione dello Stato confessionale, ovvero
è possibile che maturi una nuova coscienza sociale, politica e religiosa, che
favorisca la definizione di una via araba alla democrazia, mediante la
costituzione di “una società del vivere insieme”, come l'ha definita il noto
intellettuale e politico libanese cristiano-maronita Samir Frangieh. RR
La situazione siriana e l'Onu
(6-10-2015)
L'Onu dovrebbe essere la sede nella quale si discutono
le questioni che travalicano gli interessi dei singoli Stati. Una delle cause
di mancanza di autonomia operativa dell'organismo è l'istituto del diritto di
veto. Infatti, quando è all'attenzione dell'istituzione un interesse di almeno
uno dei Paesi titolari del diritto di veto, l'esercizio del veto spesso blocca
le relative eventuali risoluzioni contrarie a questo interesse, sebbene
esprimano la libera volontà del consesso. Il veto più precisamente è il potere
di impedire l'attuazione di una deliberazione della maggioranza, riservato a
ciascuno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, ovvero agli
Stati Uniti, alla Russia - che l'ha ereditata dall'Urss - al Regno Unito, alla
Francia e alla Cina. Conseguentemente è improbabile l'adozione da parte
dell'Onu di una decisione contraria ad uno di questi Stati. Un altro
esempio dell'immobilismo causato da questa opzione: le più di 200 risoluzioni
riguardanti Israele e Palestina, approvate nel tempo con significative
maggioranze, non sono state attuate per l'esercizio del diritto di veto
soprattutto da parte statunitense. Dalla fondazione dell'Onu questa facoltà è
stata usata più di 260 volte. Durante la Guerra fredda l’attività del Consiglio
di Sicurezza è stata paralizzata dai veti incrociati. Pertanto, la prima
riforma per far funzionare l'Onu dovrebbe essere l'eliminazione del diritto di
veto, ormai, anacronistico e ingiustificato. Bisogna anche uscire dall'equivoco
che alimenta la convinzione secondo la quale in seno agli organismi
internazionali le posizioni dei Paesi occidentali sono sempre strumentali
alla democrazia, mentre le grandi potenze orientali, cioè Cina e Russia, sono
sempre paladine della repressione e dei regimi totalitari. In proposito, si
devono però considerare le recenti varianti della geografia del dualismo
occidente-oriente, alla luce di nuovi equilibri che non raramente hanno solo
valenza regionale e non più globale, con la conseguenza paradossale che in
alcuni casi Paesi che sono alleati in un area, sono avversari in un'altra: ad
esempio, gli Usa nello Yemen sono indirettamente contrapposti all'Iran, che di
fatto è invece un suo alleato nella guerra contro l'Isis in Iraq e con il quale
sta nascendo un possibile idillio politico ed economico a seguito del noto
accordo sul nucleare. Inoltre i 'blocchi' caratterizzati da aggregazioni
politico-militari bipolari si sono frantumati e la politica internazionale è
sempre più caratterizzata da intese bilaterali. La realtà è che tutti gli
attori dello scenario internazionale sono mossi da mire individuali ed
egoistiche più o meno nobili che hanno il fine di espandere la propria egemonia
o la propria influenza geopolitica, geoeconomica e geofinanziaria. Con
riferimento alla specifica situazione siriana, Cina e Russia hanno opposto il
proprio veto congiunto all’inasprimento delle sanzioni contro di regime di
Bashar al-Assad. La scelta è stata fortemente criticata dalle autorità
statunitensi che con durezza hanno accusato Cina e Russia di ignorare le
richieste di democrazia per sostenere dittatori crudeli. Il veto
russo-cinese riflette la volontà dei due Paesi di contrastare l'influenza degli
Usa e dell'occidente in un’area in cui essi hanno importanti interessi che
sarebbero compromessi da una brusca uscita di scena del dittatore siriano. La
risoluzione oggetto di veto tra le varie disposizioni conteneva infatti il
divieto di vendere armi e di fornire assistenza tecnica e finanziaria al regime
siriano, e quindi avrebbe di fatto compromesso la cooperazione in materia in
atto fra Russi e Cinesi da una parte e Siria dall'altra. Inoltre la Siria,
essendo appoggiata da tutto il mondo islamico sciita, ha un'importanza centrale
negli equilibri mediorientali. Da parte americana invece il veto è uno
strumento per alimentare la propaganda antirussa e anticinese. Mentre le grandi
potenze decidono le strategie da seguire in Siria modulandole sui propri
interessi, la Siria continua a pagare il suo pesante tributo di sangue civile.
RR
IMMIGRAZIONE E CRISI DELL'UNIONE EUROPEA - Politica
migratoria ed Est europeo (30-9-2015)
La versione consolidata del Trattato sul Funzionamento
dell'Unione Europea prevede agli articoli 79 e 80 lo sviluppo da parte degli
Stati membri di una politica comune in materia di gestione dell'immigrazione
legale e di contrasto di quella clandestina; l'attuazione di queste politiche -
si precisa - deve essere governata da un'equa ripartizione delle responsabilità
tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario. Si desume chiaramente da
questi principi che la politica migratoria europea non è ispirata né da un
accoglimento indiscriminato né da un respingimento generalizzato, ma deve
essere caratterizzata da un approccio equilibrato, lungimirante e globale.
L'atteggiamento dei Paesi dell'Est europeo in occasione dell'attuale pressione
migratoria contrasta decisamente con la linea sancita dal Trattato. Questi
Stati hanno adottato autonomamente misure 'protezionistiche',
anche a danno di altri, animate esclusivamente da egoismi 'difensivi'
nazionali: sembra che la cultura della reciproca e coordinata solidarietà
europea non appartenga al loro patrimonio. Nel respingere le misure che
tardivamente sono state proposte nelle sedi istituzionali comunitarie - in
particolare la ripartizione in quote dei migranti - i Paesi dell'Est hanno
voluto evidenziare che l'immigrazione non è una questione comune,
ma è un problema dei singoli Stati. Peraltro l'arrivo di migranti dal
Mediterraneo e dai Balcani non riguarda solo il Paese di arrivo ma tutta
l’Europa, in quanto la maggior parte di essi vuole trasferirsi dove c’è lavoro,
ovvero nel Nord Europa. Maliziosamente si potrebbe supporre che per Paesi come
la Polonia, l'Ungheria, la Romania, la richiesta di adesione all'Unione Europea
sia stata motivata dalla possibilità di attingere a fondi strutturali e di
percepire altre forme di finanziamento, ma quando è necessario condividere
oneri e difficoltà con altri Paesi - come con l'Italia e la Grecia
nell'emergenza profughi -, ognuno deve badare a sé stesso e deve essere
lasciato solo di fronte a contingenze che pur essendo comuni lo riguardano
direttamente o in prima battuta. Anziché cercare soluzioni condivise vengono
prese opinabili e arbitrarie misure nazionali prive di spirito di cooperazione,
che vanno dai muri alzati alle frontiere dall'Ungheria, alla 'marchiatura' con
numero identificativo, di antica triste memoria, operata sui profughi dalla
polizia ceca. Per non parlare della breve guerra commerciale, scoppiata sullo
scenario della crisi dei rifugiati, tra la Croazia, membro dell'Unione Europea,
e la Serbia, che ha presentato domanda di adesione nel 2009, e che si
è concretizzata in un blocco delle frontiere tra i due Paesi durato qualche
giorno. Nel rimpiangere lo spirito di coesione dell'Unione Europea a 15 Stati
(fino al 2004) a fronte delle discordie fra gli attuali 28 membri, viene da
chiedersi se la politica comunitaria di allargamento sia stata frettolosa e
inopportuna, avendo accolto Paesi che non sono animati da spirito europeo. RR
IMMIGRAZIONE E CRISI DELL'UNIONE EUROPEA - La
Revisione di Schengen (29-9-2015)
Dal Trattato di Roma del 1957 che istituì la Comunità
Economica Europea ad oggi l'Europa ha compiuto un importante cammino verso la
sua unificazione economica e politica. Fra tanti successi, sono particolarmente
emblematici l'istituzione (forse strutturalmente prematura) dell'Euro - ovvero
di una comune valuta che avrebbe dovuto assicurare il consolidamento
dell'economia degli Stati membri attraverso una maggiore stabilità monetaria e
mediante un coordinato rafforzamento delle loro iniziative imprenditoriali - e
il Trattato di Schengen, che attraverso l'abolizione dei controlli sistematici
alle frontiere interne degli Stati aderenti avrebbe consentito la libera
circolazione delle persone. In proposito si ricorda che le disposizioni su Euro
e Schengen, pur essendo state oggetto di specifiche negoziazioni, sono parte
integrante della normativa comunitaria: infatti la transizione alla
moneta unica era già prevista dal Trattato di Maastricht vigente dal 1993,
mentre la cooperazione in ambito Schengen è stata incorporata, attraverso
gli accordi di Amsterdam entrati in vigore nel 1999, nell'Acquis
comunitario, ovvero nell'insieme dei diritti, degli obblighi giuridici e degli
obiettivi politici che accomunano e vincolano gli Stati membri dell'Unione
Europea. È significativo che proprio queste due istituzioni, moneta unica e
spazio Schengen (le più evidenti su cui si fonda l'Unione Europea), siano
attualmente oggetto di riconsiderazione. Com'è noto, per quanto riguarda la
Convenzione di Schengen è prevista la possibilità del ripristino dei controlli
alle frontiere interne per motivi di sicurezza e di ordine pubblico. Talvolta
il ricorso a questo dispositivo straordinario è sembrato essere strumentale a
scopi diversi da quelli ipotizzati (e cioè la minaccia grave per l'ordine
pubblico o la sicurezza interna); in particolare è sembrato che il ripristino
in concreto sia stato utilizzato al fine di fermare persone -
generalmente gli extracomunitari - che non avevano titoli giuridici per varcare
frontiere controllate. Questa circostanza si è evidenziata nel caso di alcuni
summit di Capi di Stato e di Governo durati poche ore o solo qualche giorno in
occasione dei quali il ripristino dei controlli ai valichi è durato anche più
di una settimana (così, ad esempio, è avvenuto in occasione del G7 di
Garmisch-Partenkirchen in Germania che si è tenuto il 7-8 giugno 2015).
L'emergenza legata al terrorismo di matrice islamica viene da alcuni
considerato un valido motivo per la revisione della Convenzione di
Schengen: in particolare gli ambienti politici della destra europea (e quindi
non solo francese) affermano che la prima risposta al terrorismo è il
controllo delle frontiere. L'attentato a Parigi alla rivista Charlie Hebdo
(gennaio 2015) contraddice questa asserzione: i terroristi che ne furono autori
erano cresciuti in Francia e pertanto con quegli atti criminali si è
concretizzata una minaccia interna al sistema, e non proveniente
dall'esterno. Destano maggiori perplessità le iniziative unilaterali di alcuni
Paesi che, motivate dai flussi migratori, si sono tradotte in concreto in
una ostacolo alla libera circolazione delle persone (un esempio è stata la
recente sospensione da parte della Germania del traffico ferroviario
proveniente dall'Austria; una condotta analoga è stata tenuta dalla Francia nei
confronti dell'Italia). Prendendo atto di comportamenti simili di altri Stati,
non è improbabile in futuro la proposta - già sommessamente ipotizzata in
alcune sedi istituzionali comunitarie - di un progetto di riforma degli accordi
di Schengen che introduca la possibilità di ristabilire temporaneamente i
controlli alle frontiere interne in caso di eccessive pressioni migratorie
sulle frontiere esterne. È indubbio che il dibattito sulla revisione di
Schengen segna una regressione nel cammino comunitario. Ma questo è solo un
aspetto della attuale crisi dell'Unione Europea. RR
ISLAM E DEMOCRAZIA - V parte - Conclusioni (16-9-2015)
Alla luce dei precedenti approfondimenti può essere
nuovamente affrontato il quesito iniziale: la religione islamica è compatibile
con la democrazia intesa in senso occidentale? La domanda, se formulata in
termini così assoluti, è superficiale e mal posta: infatti le variabili dei
rapporti fra Islam e democrazia sono così numerose che non è possibile fornire
una risposta univoca, ma sono necessarie precisazioni articolate.
Pertanto possono essere fissati i seguenti punti.
- Uno Stato in cui è in vigore la Sharia
difficilmente può coesistere con una società pluralista e democratica. Il
primato dell'Islam innanzitutto esclude la tutela dei fedeli di altre
religioni. Significativo è il desueto (ma 'riesumato' dall'Isis) istituto
della Dhimma, che, prevedendo un'eccezione al principio che vietava ai non
musulmani di risiedere nella terra dell’Islam, consentiva ad Ebrei e Cristiani
di vivere nello Stato islamico subordinando tuttavia questa possibilità al
pagamento di un'imposta. L'alternativa all'adeguamento all'istituto era la
conversione (all'Islam) o la morte. In altri termini Ebrei e Cristiani godevano
di diritti maggiori rispetto a quelli di altri soggetti non-musulmani, ma
minori di quelli previsti in favore dei musulmani. Inoltre, l'Islam, oltre a
quella religiosa, giustifica altre forme di discriminazione, come quella
tra i sessi. In conclusione, l'ingerenza della Sharia sulla società civile è
incompatibile con il pluralismo politico e religioso (politica e religione
nell'Islam sono inscindibili); è incompatibile con la tutela delle
minoranze; è incompatibile con l'uguaglianza e i diritti di libertà. In
sintesi, è incompatibile con la democrazia.
- Diversamente, se lo Stato in cui risiede una
maggioranza musulmana ha leggi laiche, non ci sono pregiudiziali ostative alla
democrazia. Questo principio ha riscontri concreti, come ad esempio il regime
tunisino. In Tunisia il 98 % della popolazione è di religione musulmana. Questo
Paese nel 2014 ha adottato una Costituzione che è stata il frutto di un
compromesso tra il partito islamista Ennahda e le forze dell'opposizione. La
Carta Costituzionale accorda un posto politicamente contenuto all'Islam e
introduce in vari settori della società la parità fra uomo e donna; prevede
inoltre la libertà di coscienza ("lo Stato è custode della religione,
garante della libertà di coscienza e di fede e del libero esercizio del
culto"); garantisce la libertà d'espressione e vieta la tortura fisica e
morale. L’Unione Europea attraverso un programma di assistenza finanziaria sta
sostenendo questo processo di transizione democratica.
- Fra queste due posizioni - ovvero lo Stato
governato dalla Sharia e quello con leggi laiche pur caratterizzato da una
popolazione in maggioranza musulmana - ci sono sfumate situazioni
intermedie.
- Sullo sfondo il ricorrente problema della
definizione del così detto 'Islam moderato', dal momento che, come già detto,
fra le varie interpretazioni dell'Islam, è impossibile individuare una versione
'ufficiale' mancando un'autorità religiosa gerarchicamente superiore. Questo ha
consentito la nascita di più ortodossie, alcune delle quali violente e
intolleranti. RR
I TRIBUTI IMPOSTI DALL'ISIS AI CRISTIANI. IL
RIPRISTINO DELLA DHIMMA. (8-9-2015)
Lo Stato islamico da
alcuni mesi ha cominciato ad imporre il pagamento di un tributo ai cristiani
residenti in alcune zone del territorio sotto la propria sovranità.
L'alternativa al pagamento è la conversione all'Islam o la morte. Non si
tratta di una novità, ma dell'applicazione di un desueto istituto previsto
dalla Sharia. Nel periodo islamico classico (VII-XVI secolo) infatti non
potevano far parte della Umma - cioè della comunità islamica - i fedeli di
altre religioni, che pertanto non avevano il diritto di risiedere nella terra
dell’Islam. Tuttavia la stessa legge islamica prevedeva un’eccezione per i
fedeli delle religioni monoteiste, principalmente per gli ebrei e i cristiani
(ma anche per gli zoroastriani, i sabei, gli induisti e ogni altro seguace di
culti basati su testi sacri considerati dall’Islam di origine divina), ovvero
veniva loro riconosciuta la possibilità di risiedere nella terra dell’Islam;
questa opportunità però era subordinata al pagamento di una imposta personale
e di una fondiaria, che avrebbero assicurato agli individui gravati dai
tributi anche una protezione. La jizya era il termine arabo che indicava
questi gravami. Questo quadro normativo era compreso nella Dhimma o
Dhimmitudine (Dhimma in arabo significa ‘accordo di protezione’), che
pertanto in concreto era un patto tra un’autorità di governo musulmana e
fedeli non musulmani - generalmente cristiani ed ebrei - tenuti anche a un comportamento
di subordinazione ai soggetti con capacità giuridica piena, ovvero ai
musulmani. I Dhimmi erano gravati anche dal divieto di proselitismo e dal
massimo rispetto della fede musulmana; il Corano quindi non imponeva loro di
convertirsi all’Islam, ma li penalizzava con il pagamento di un tributo.
Questo principio venne osservato nei primi secoli che seguirono l’espansione
islamica; successivamente, questo patto venne occasionalmente disatteso e i
dhimmi furono forzati a scegliere tra l’Islam e la morte. La condizione
inerente a questo istituto si perdeva a seguito di violazioni delle norme
relative allo status (da esse poteva conseguire anche la pena capitale), o
per la conversione all’Islam. Quest’ultima non era vista con particolare
favore perché comportava la cessazione dall’esazione dei tributi conseguenti
la dhimmitudine. Il fondamento dell’istituto della Dhimma era la convinzione
dei fedeli musulmani della loro superiorità rispetto ai fedeli di altre
religioni; l’eccezione prevista per gli ebrei e i cristiani aveva radici nel
carattere monoteista delle due fedi e nella discendenza dal comune padre
Abramo. Inoltre per gli islamici, convinti della superiorità della propria
fede, l’istituto era un atto di liberalità e tolleranza. Per ebrei e cristiani
era fonte di una condizione minorata, di limitazioni e di una costante
esposizione alle pesanti sanzioni conseguenti alle violazioni delle
condizioni imposte dalla legge islamica (da R. Rapaccini, 'Paura
dell'Islam'). L'Isis, con il ripristino di questo istituto (la dhimmitudine),
ha rimesso indietro l'orologio della Storia di alcuni secoli. RR
ISLAM
E DEMOCRAZIA - III parte - Alcune
precisazioni. (3-9-2015)
Stabilire con chiarezza le
relazioni fra religione e politica è la condizione essenziale per lo sviluppo
di principi che sono il presupposto della democrazia nell'accezione
occidentale, quali la tolleranza, l’uguaglianza, il rispetto della libertà di
pensiero, nonché la libertà di culto. Corollario dell'inesistenza nella
cultura araba di una demarcazione fra fede e politica è la mancanza di
una corretta elaborazione del concetto di 'laicità', al quale viene
spesso erroneamente attribuito - come conseguenza dell'assenza di pluralismo
religioso - il significato di 'ateismo'. Fino a qualche decennio fa in arabo
la parola 'laicità' nemmeno esisteva. Attualmente con un neologismo si dice
al maniyya, ma questo termine nel suo esatto significato è generalmente
compreso solo dai musulmani che hanno avuto contatti con la cultura
occidentale. Il difetto di laicità ha come conseguenza che i poteri dello
Stato islamico sono considerati legittimi solo se sono rispettosi della
religione, diversamente dallo Stato moderno che si fonda sul principio
di legalità, ovvero sulla sovranità della legge. La parola 'libertà'
aveva invece in passato solo un significato legale e non politico, in quanto
indicava l'assenza di limitazioni o restrizioni individuali: il suo opposto
era quindi la schiavitù. Il contrario della tirannia non era libertà e la
democrazia, ma la giustizia, con la precisazione che al dovere del capo di
amministrare equamente non corrispondeva il diritto del suddito di essere
trattato giustamente. La libertà da un punto di vista politico era solo una
condizione collettiva e non personale, e quindi coincideva con il concetto
occidentale di 'indipendenza' dello Stato, che è cosa diversa dalla
democrazia. Quando gli echi della Rivoluzione Francese giunsero nel mondo
arabo la parola libertà assunse anche un'accezione politica, tuttavia con
connotazioni negative in quanto gli autori musulmani la adottarono come
sinonimo di libertinaggio, licenziosità ed anarchia, e quindi, in sintesi,
come potenziale strumento di eversione dell'ordine morale religioso. Il
principio della separazione dei poteri venne introdotto in alcuni Paesi
islamici nei primi anni del Novecento (a partire dalla Turchia). Con il
nazionalismo, per porre l'accento sulla necessità che la sovranità dello
Stato fosse svincolata dalle tentazioni imperialiste di nazioni straniere, la
libertà tornò ad essere sinonimo di indipendenza dello Stato. Il pluralismo
partitico, presupposto della democrazia parlamentare, viene tuttora
considerato dal pensiero fondamentalista in contrasto con l'unità e la
compattezza della Umma, la comunità musulmana; la libertà di opinione avrebbe
infatti una connotazione negativa perché sarebbe causa di disorientamento
politico e religioso, premessa di un ritorno al caotico mondo pagano
precedente alla nascita dell'Islam. In ultimo, l'intangibilità della
tradizione religiosa unita alla sua continua invasività sulla sfera politica
costituisce un freno all'iniziativa individuale e collettiva
strumentale alla modernizzazione istituzionale. RR
ISLAM E DEMOCRAZIA - II
Parte - Democrazia e libertà (1-9-2015 )
Il concetto di democrazia
è strettamente correlato a quello di libertà. La nozione di libertà
nella tradizione araba è di recente acquisizione in quanto storicamente
l’aspirazione di questi popoli è sempre stata prevalentemente la giustizia.
L’organizzazione tribale che è alla base delle società arabe infatti implica
l’accettazione - come realtà ineludibile - dell’esistenza di un potere
superiore a cui ci si sottopone pacificamente purché venga esercitato con
equità. Come corollario gli Stati arabi non hanno avvertito nel tempo
la necessità di elaborare una struttura amministrativa decentrata in quanto
era sufficiente al potere centrale - per poter governare - garantirsi
l’appoggio delle comunità stanziate su specifici territori (le tribù), nelle
quali - come già detto - si accettava che il potere centrale non fosse
esercitato democraticamente, ma amministrato secondo giustizia. La
tribù, che aveva una specifica autonomia e omogeneità, era caratterizzata da
propri stili di vita, da autosufficienza, da un forte legame con il
territorio e, in alcuni casi, da una sua lingua o dialetto. In essa
mancava qualsiasi espressione di democrazia diretta o rappresentativa;
l’attribuzione del potere era fondata su meccanismi dinastici, di anzianità o
su forme pseudo-istituzionali che predeterminavano automaticamente il
destinatario di funzioni di governo sulla comunità: era del tutto estraneo a
questo modello organizzativo qualsiasi strumento che assicurasse facoltà di
libera scelta. La società tribale pertanto - e gli Stati arabi che ne
ereditarono la cultura giuridica - non si fondava sui diritti di libertà e di
uguaglianza prerogativa delle democrazie. Un membro della comunità tribale
poteva aspirare a poteri di governo solo se apparteneva a una specifica
linea dinastica o fosse titolare di aspettative di poteri di governo in virtù
di meccanismi di automatica predeterminazione; la condizione di un qualsiasi
altro individuo si esauriva invece nell’accettare pacificamente di essere
governato purché tale supremazia venisse esercitata con equità. Gli Stati
arabi, al momento della loro nascita, riconoscendo la preesistente struttura
tribale e demandando alle tribù la gestione locale del potere, ne ottenevano
come corrispettivo la fedeltà e il sostegno. In questi ultimi anni si
assiste in molte aree del mondo musulmano a un processo di re-islamizzazione.
Per poter avere un quadro completo della concreta rilevanza della normativa
islamica nei Paesi musulmani non è sufficiente considerare l’eventuale
promulgazione di principi laici, ma il modo in cui queste normative vengono
applicate: ad esempio, anche laddove è stata proclamata la libertà religiosa,
tuttavia la concreta professione di atti di fede diversi dall’Islam o la
conversione di un musulmano ad altra fede vengono di fatto sanzionati in
quanto equiparati ad atti contrari all’ordine pubblico. Fatta eccezione per
la Turchia (in questi anni anche in Turchia è in atto un attacco allo Stato
laico) in nessuno Stato musulmano viene tutelata sufficientemente la libertà
di coscienza. La tolleranza per le scelte religiose e politiche individuali
nella cultura giuridica occidentale trova fondamento principalmente nella
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (firmata a Parigi il 10
dicembre 1948 - clikka qui), che
non è riconosciuta dagli Stati arabi i quali in maniera specularmente
contraria ritengono che le posizioni giuridiche soggettive individuali
debbano essere sacrificate in favore delle esigenze della comunità islamica;
pertanto, per rapportare i diritti e le libertà individuali alle esigenze
religiose e culturali di quei Paesi, è stata elaborata una
Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo (proclamata il 19
settembre 1981 a Parigi - clikka qui). Un
altro strumento attraverso il quale, pur essendo in corso un processo di
modernizzazione, si è assicurata la vigenza dei principi della tradizione
islamica, è stato quello di affermare la necessaria non contraddittorietà tra
le nuove leggi e i principi fondamentali dell’Islam, non suscettibili di
essere modificati dalla normativa positiva. In conclusione, il mondo
arabo-islamico è sempre stato caratterizzato da regimi autoritari e
probabilmente la motivazione di questa caratteristica risiede nella genesi
degli Stati arabi, nati con modalità storicamente diversificate dalla
fusione di tribù. (da R. Rapaccini, Paura dell'Islam, 2012) RR
ISLAM E DEMOCRAZIA - I
Parte - Premessa (31-8-2015)
Il tema della
compatibilità fra Islam e democrazia - così sensibile e complesso - sarà
oggetto di più commenti. Preliminarmente è necessario precisare che il
concetto di democrazia sarà considerato da un punto di vista 'occidentale',
ovvero come quel sistema politico fondato sulla divisione dei poteri e che
garantisce l'esercizio dei diritti di libertà a livello individuale e
collettivo, nonché la tutela delle minoranze. L'interesse per i sistemi
politici islamici si evidenziò con l'ascesa del terrorismo jihadista
culminato nei tragici fatti dell'11 settembre 2001: si ritenne infatti che la
deriva fondamentalista e i conseguenti problemi di stabilità e sicurezza
potessero essere arginati dal dialogo democratico all'interno dei regimi ad
impronta teocratica musulmana. Inoltre, poteva così essere evitato quello
'scontro di civiltà' ipotizzato dal politologo Huntington, che già in un suo
saggio del 1996 ('Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale')
aveva scritto: "...la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo
mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le
grandi divisioni dell'umanità e le fonti principali di conflitto saranno legate
alla cultura". La questione e la sua analisi vanno esaminate
obiettivamente, cioè - per quanto possibile - in modo scevro da preconcetti e
pregiudizi influenzati da una visione 'etnocentrica'. In proposito, quale
democrazia si auspica per i Paesi musulmani retti da regimi autoritari?
Preliminarmente è infatti necessario chiedersi se sia sufficiente - per
definire democratici i Paesi islamici - l'esistenza di libere elezioni che
garantiscano una adeguata partecipazione popolare, o invece debba essere
assicurata una base politica, giuridica, culturale, sociale che consenta il
rispetto dei diritti individuali e collettivi, l'eguaglianza tra i generi, la
separazione tra i poteri, il pluralismo, la legalità integrata dalla
supremazia del diritto positivo. Per quanto riguarda le libere elezioni
questa strada è ormai percorsa da vari Paesi islamici (Tunisia, Egitto,
Turchia, ad esempio); il problema è semmai garantire poteri all'opposizione,
ovvero evitare la 'tirannia della maggioranza', cioè un autoritarismo
'legalizzato'. È più difficile invece assicurare il rispetto di alcuni
diritti e libertà civili, dal momento che la religione 'codifica' forme
di disuguaglianza, come quella tra i sessi, e più in generale le
aspirazioni laiche delle istituzioni sono condizionate dall'ingerenza
dei principi della Sharia. Come detto più volte, manca nell'Islam una
versione 'ufficiale' in quanto non c'è un'autorità religiosa
gerarchicamente superiore - come nella Chiesa cattolica - legittimata a
decidere ciò che è dogma o meno. L'assenza di un'autorità centrale ha
permesso la nascita di più ortodossie, alcune delle quali violente e
intolleranti. Quindi Islam e democrazia sono compatibili se il primo resta
solo fonte di ispirazione etica per l'azione di individui e gruppi nella
società e non ci sia sottomissione del potere statuale alla sovranità divina:
così le sorti della politica e della religione rimangono distinte. Se,
invece, l'Islam coincide con una concezione globale del mondo totalizzante,
cui lo Stato deve ispirarsi assumendo un carattere etico e rinunciando alla
laicità, la strada per la democrazia è segnata da ostacoli insormontabili. RR
IL GILGUL EBRAICO
(29-8-2015)
Sto leggendo il
libro 'Scintille' di Gad Lerner. E' la storia dell'affascinante
epopea delle peregrinazioni della sua famiglia di origine ebraica, il
viaggio di anime nomadi costrette ad un transito errante in molte patrie,
emblematico del destino ancestrale di continuo esilio dell'etnia semita. In
proposito, mi ha interessato molto il concetto di 'Gilgul', di cui Lerner
parla in maniera poetica e personale nel secondo capitolo. Con il
termine 'Gilgul' - questa parola significa 'ciclo', 'ruota' - o
più precisamente 'Gilgul Neshamot' parte della cultura ebraica indica
la 'reincarnazione', o meglio la 'metempsicosi', cioè il frenetico movimento
degli spiriti. Questo lemma poi avrebbe secondo Gad la stessa radice di
'Galuth', che significa 'diaspora'. Così, nella originale e lirica visione
dell'autore, attraverso questa associazione, la condizione di permanente
trasmigrazione delle anime è il correlato dell'ineludibile esilio dei corpi.
Poi le anime si agiterebbero in maniera così violenta che il loro moto
conseguente alla separazione dai corpi causerebbe delle scintille: da qui il
titolo del libro. Dice a riguardo Gad Lerner: "Il mio intento qui è
ricostruire il mio Gilgul e capire le scintille della mia anima, di coloro
che mi hanno preceduto, di coloro che mi accompagnano in questa vita, di
coloro che non ho mai conosciuto". È come dire, assolutizzando il senso
di questa precisazione, che la comune identità ebraica è il risultato
di laceranti migrazioni che sono geografiche e culturali, ovvero è l'esito di
componenti che la vivacità intellettuale individuale e le vicende personali
fanno dialetticamente convergere e divergere costantemente. Su questo
scenario si articolano le storie delle famiglie paterna e materna
dell'autore, l'eco del dramma universale della Shoah, che ha coinvolto alcuni
antenati, e il continuo atavico malessere dell'antisemitismo. Il libro sembra
riconoscere alle anime erranti nel 'Gilgul' la possibilità di esigere di
partecipare ancora alla vita con la loro memoria. RR
LA NUOVA POLITICA DELLE
FATWA (24-8-2015)
Le fatwa (naturalmente si
tratta di una parola araba) sono sentenze o pareri su una questione
riguardante l’interpretazione o l’applicazione della legge islamica emessi da
un’autorità religiosa. La fatwa normalmente contiene una motivazione che può
essere anche ancorata a precedenti pronunce; questo non esclude che alcune
fatwa possano essere in contraddizione fra di loro. La nota fatwa emessa
dall’ayatollah Khomeini nel 1989 che disponeva la morte dello scrittore
Salman Rushdie ha diffuso in Occidente la convinzione errata che tutte le
fatwa contengano condanne o ordini di esecuzione. La condanna a morte è un
caso raro: si emettono fatwa su argomenti di ogni tipo, dal matrimonio agli
affari economici. In Egitto esistono dei call center dove si propongono fatwa
quotidianamente su qualunque argomento. Alcune fatwa hanno poi riguardato
programmi televisivi: milioni di telespettatori, che seguivano un'edizione
del 'Grande Fratello' trasmessa da un'emittente libanese, hanno
ricevuto una fatwa perché il programma è stato censurato in quanto ritenuto
inadeguato. Il gioco del calcio ha ricevuto una fatwa perché sarebbe
monopolio di ebrei e cristiani. Uno sceicco sembra che abbia emesso una
fatwa sul sesso dicendo che non lo si può fare da nudi; ma un altro sceicco
avrebbe risposto che si può fare da nudi purché i partner non si
guardino fra loro. La mancanza nell’Islam di una gerarchia ufficialmente
riconosciuta rende generalmente i contenuti delle fatwa non pienamente
vincolanti per i fedeli, che dovrebbero valutarne il carattere cogente
soprattutto dall’autorevolezza di chi la ha emessa. L'assenza, in ambiente
sunnita, di un clero, com'è noto, è fondata sull’assunto che non si ritiene
che possa esistere un intermediario fra Dio e le sue creature. Pertanto, non
sono gerarchia religiosa gli imam, incaricati dalla comunità dei fedeli -
per le loro conoscenze religiose - di guidare la preghiera, gli ulema,
studiosi esperti nell’applicazione pratica del Corano, i muftì, che formulano
pareri sulle fattispecie giuridiche astratte e quindi senza entrare nel
merito di una questione concreta, i qadì, che sono i giudici dei tribunali
sciaraitici, che giudicano avendo come riferimento la Sharia - la legge
islamica - e che oggi sono quasi integralmente sostituiti dai tribunali di
Stato. Carattere ufficiale hanno invece gli ayatollah, che in ambito
sciita costituiscono un vero e proprio clero. Le fatwa purtroppo hanno svolto
'di fatto' anche una funzione di promozione del terrorismo. Il terrorista di
matrice islamica, infatti, poiché i suoi atti sono ispirati dalla fede
sebbene malintesa, deve essere rassicurato circa la conformità delle sue
iniziative ai principi religiosi. In proposito, i contenuti delle fatwa,
ampiamente discrezionali e talvolta arbitrari e in contraddizione fra di
loro, consentono di trovare una giustificazione a qualsiasi condotta, anche
la più violenta. Per quanto è stato detto si comprende l'importanza della
notizia riportata qualche giorno fa nell'editoriale del quotidiano di lingua
inglese 'The National' pubblicato a Dubai, negli Emirati Arabi. L'editoriale
ha reso noto che la scorsa settimana al Cairo si sono riuniti esperti di
diritto islamico e religiosi musulmani sunniti per dare ordine al mondo
anarchico e spesso estremistico delle fatwa. È stata evidenziata innanzitutto
l’importanza che le fatwa abbiano un carattere moderato al fine di
contrastare chi cerca di giustificare le atrocità commesse in nome
dell’Islam. Le fatwa dovranno pertanto enfatizzare gli insegnamenti islamici
più moderati, ed essere espresse in modo da coinvolgere le persone più
giovani, che normalmente sono l’obiettivo del reclutamento fondamentalista.
Per ogni fatwa ispirata al fondamentalismo violento dovrebbe esserci
una contro-fatwa che metta in luce il vuoto morale della precedente.
Analogamente per ogni sito internet creato dagli islamisti radicali dovrebbe
essercene uno con un contro-messaggio. In questo modo - dicono gli esperti -
si promuove la conoscenza del vero volto dell’Islam. Se gli esperti di
diritto hanno un ruolo fondamentale nell’interpretazione del credo islamico,
ogni fedele ha altresì il dovere di disseminare messaggi dai contenuti
pacifici. Questa nuova politica delle fatwa ha un'ulteriore corollario
positivo: contrastando l'anarchia interpretativa del Corano, si afferma
l'immagine unitaria di un Islam moderato. RR
L'UNIVERSALISMO DI NAGIB
MAFUZ (22-8-2015)
Uno degli scrittori
che negli ultimi tempi ho letto con maggiore piacere (e che consiglierei a
chi è interessato ad essere introdotto alla realtà egiziana come estrema
sintesi e precipitato del contesto storico e politico arabo) è il
premio Nobel cairota Nagib Mahfuz (11 dicembre 1911 – 30 agosto 2006), che
avvia con dolce malinconia e con uno stile essenzialmente sobrio alla
conoscenza della ricchezza della cultura, delle emozioni, dei rumori, dei
colori e dei profumi del mondo musulmano. Le sue perfette coinvolgenti
ricostruzioni storiche e ambientali mi fanno pensare ad un brillante scritto
di Piero Dorfles, che vede nelle potenzialità del libro anche quella di
essere un'efficace macchina che fa viaggiare nel tempo e nello spazio, e ad
Umberto Eco che analogamente afferma che chi legge può vivere infinite epoche
diverse. Nagib Mahfuz è stato anche uno sceneggiatore e uno dei maggiori
intellettuali egiziani: devo ammettere che io lo conosco solo come scrittore
avendo letto alcuni suoi romanzi. Nelle opere mi ha colpito particolarmente
il senso dell'universalismo del mondo arabo. Mi spiego meglio. La
contestualizzazione delle sue storie, anche mediante la componente religiosa,
è molto intensa al punto che il realismo dell'impianto narrativo sembra
superare la realtà. Tuttavia i personaggi arabi, che popolano i romanzi,
nelle loro emozioni, nelle loro aspettative, nei loro affetti, nelle loro
passioni, anche nella violenza interpersonale e nel fanatismo religioso, o
nella disperazione della miseria, attingono ad un immaginario collettivo che
è comune a tutti gli uomini, a significare che gli uomini, al di là delle
differenze di superficie, ovvero che siano bianchi o neri o gialli,
chiari o scuri, cristiani o ebrei o musulmani, sono animati dalle stesse
pulsioni che caratterizzano in generale la società umana. Contro
l'intolleranza e i pregiudizi dell'etnocentrismo si deve ricordare che ogni
verità, anche se circoscritta localmente ed etnicamente, è pur sempre una
verità e perciò ha validità universale. Al di là del valore letterario e
artistico delle sue opere, questo è quello che ho imparato da Nagib Mahfuz.
RR
DEMOCRAZIA E ISRAELE
(20-8-2015)
Ricordo che qualche anno
fa Roberto Saviano venne da alcuni aspramente criticato per aver affermato il
carattere democratico dello Stato di Israele. Credo che quelle censure
fossero frutto di ignoranza se non di malafede. Infatti Israele è
oggettivamente una democrazia, l'unica oasi di pluralismo in una regione
caratterizzata da regimi autoritari. Naturalmente affermare questo
aspetto positivo non implica necessariamente la condivisione delle scelte di
politica estera o interna della nazione israeliana ma semplicemente
riconoscere che queste sono l'esito di un libero dibattito in seno alla vita
istituzionale. Ad esempio, personalmente mi sembra inopportuna e fuori tempo
la rigidità politica di Netanyahu, che tuttavia è legittimamente ai vertici
istituzionali del Paese in quanto è il leader del Likud, il partito che ha
vinto le elezioni. Le perplessità sulla democraticità di Israele derivano
anche da un pregiudizio sul suo diritto di autodeterminazione, sulle modalità
attraverso le quali esercita le sue esigenze di difesa, nonché sull'approccio
alla questione palestinese; più precisamente in quest'ultimo caso sono
oggetto di critica l’insediamento di Israele nei territori arabi e
l’atteggiamento nei confronti dei Palestinesi. In proposito, l’Onu ha
adottato risoluzioni che chiedono il ritorno di Israele alle frontiere del
1967. L’avversione che alcuni nutrono nei confronti della politica del
governo israeliano può essere fonte di antisemitismo per chi erroneamente
identifica lo Stato di Israele con lo Stato degli Ebrei. In realtà gli
Ebrei in Israele sono poco più del 75% circa, mentre i rimanenti non ebrei
sono principalmente arabi. Questi cittadini israeliani vengono definiti
cittadini arabi di Israele. Si tratta per lo più di palestinesi di lingua
araba e di religione generalmente musulmana o cristiana. Non vi è quindi
coincidenza fra la parola israeliano - che esprime la nazionalità - ed ebreo,
che indica l’appartenenza a un contesto religioso e culturale oltre che ad
una etnia. La confusione fra antisraelismo e antisemitismo è evidente quando
all’estero sono oggetto di insulti razzisti antiebraici le rappresentanze o i
team sportivi israeliani: in teoria un team sportivo israeliano potrebbe
anche essere composto da elementi di sola etnia araba. Il Gutman Center
presso l’Israel Democracy Institute - un ente di studio indipendente - ha
effettuato in passato un monitoraggio della società israeliana
per stabilire, in base a oggettivi 'indici di democrazia', se vengono attuati
gli ideali democratici fondamentali. Nello studio comparativo con altri
Paesi, Israele si piazza tra nazioni come Danimarca, Olanda e Finlandia e
risulta quindi del tutto assimilabile alle democrazie occidentali. Va
aggiunto che non è facile conservare una struttura democratica quando si vive
in una condizione di costante emergenza. Un altro pregiudizio da rivedere è
considerare un monolite antiarabo la società di quel Paese, che al contrario
è composita, articolata e animata, sebbene condizionata dalle esigenze di
sicurezza. A conferma, recentemente il Capo dello Stato Reuven Rivlin ha
denunciato debolezze nella lotta delle autorità contro il terrorismo ebraico
e condannato con grande determinazione l'uccisione del bimbo palestinese Ali
Dawabseh. Per tutto questo le censure mosse a Roberto Saviano per aver
affermato la democraticità dello Stato di Israele sono infondate. Per dovere
di verità.RR
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