SIRIA,
LA SITUAZIONE ATTUALE (4/3/2018)
Le
principali città siriane - Aleppo, Latakia, Tartus, Hama, Homs, Damasco,
Palmira, Abu Kamal - sono tornate sotto il controllo del governo centrale.
L’influenza dello Stato Islamico è
invece ridotta ad una piccola area a sud est, circondata da forze governative a
ovest e forze curde a est. Il controllo curdo si esercita su un’ampia area a
nord del Paese ed include le città di Afrin, Raqqa, Qamishli, Hasakah. Al
momento il conflitto in Siria si sviluppa su due fronti. Innanzitutto nella
parte orientale di Ghouta, un distretto che si trova a 10 km. dal centro di
Damasco. Per la sua prossimità alla capitale è di particolare importanza per le
forze governative la riconquista di questa enclave, al momento in mano ai
ribelli. Si tratta di un’area di 104 km2, che ospita
400.000 civili metà dei quali sono giovani che hanno meno di 18 anni, che è
sottoposta a violentissimi bombardamenti da parte dell’aviazione siriana e
russa. Il bilancio delle vittime è molto grave perché i raid aerei continuano
anche durante i momenti quotidiani di tregua (cinque ore) concordati per
introdurre gli aiuti destinati alla popolazione. I corridoi umanitari per
l’evacuazione dei civili non sono né sicuri né praticabili. Il 24 febbraio
scorso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato (con il consenso
anche della Russia) una risoluzione - che non ha avuto pratica applicazione -
per un cessate il fuoco di 30 giorni, escluse le operazioni contro formazioni
terroristiche; nella regione operano infatti anche miliziani di Al Nustra, il
gruppo armato jihadista salafita, affiliato fino al 2016 ad Al Qaeda. Nel 2017
Turchia, Russia e Iran avevano concordato di designare la Ghouta orientale ‘una
zona di de-escalation’, ovvero inibita ai jet da combattimento siriani e russi.
L’altra zona nella quale il conflitto è particolarmente acceso è l’enclave
curda di Afrin. Infatti nel gennaio del 2018 nella Siria nord-occidentale,
vicino alla città di Afrin, la Turchia e l'esercito libero siriano (FSA) hanno
intrapreso iniziative belliche contro la YPG, l'Unità di Protezione Popolare,
una milizia molto vicina al PKK, la principale organizzazione di
militanti curdi in Turchia. Nel conflitto sono impegnate anche forze filogovernative
a sostegno della resistenza curda. RR
L’ISLAM
IN MOZAMBICO (su L’Azione del 9.3.2018)
In
Mozambico la maggioranza (dal 30% al 45% della popolazione) pratica culti
animisti, i cristiani (prevalentemente cattolici) sono il 24%. I musulmani,
attualmente il 20%, sono in aumento. Il processo di islamizzazione in Mozambico
come nel resto del continente africano è favorito da alcune contingenze. Il proselitismo
è facilitato dai matrimoni misti fra musulmani e cristiane, a seguito dei quali
le donne normalmente abbandonano la loro fede e non possono condizionare
l’educazione religiosa dei figli. Alcuni Stati musulmani con borse di studio
consentono a studenti di recarsi nei loro Paesi per una formazione
professionale che ha sempre una marcata impronta confessionale. I giovani, che
possono avvalersi di queste opportunità, spesso si convertono all'Islam: al loro
ritorno sono destinati a integrare la futura classe dirigente. L’Arabia Saudita
inoltre, finanziando la costruzione di moschee e fornendo sostegno economico a
chi voglia intraprendere un’attività, facilita la diffusione del pensiero
islamico. Per evitare che un tale contesto possa essere il presupposto per lo
sviluppo di frange fondamentaliste, deve essere mantenuto e promosso il
carattere laico delle istituzioni. Anche il dialogo inter religioso consente di
contenere derive radicali. Negli ultimi
mesi il Mozambico è stato oggetto di alcuni attacchi di miliziani del gruppo jihadista Ansar al-Sunna, vicino al somalo Al-Shaabab e al nigeriano Boko
Haram. Le incursioni terroristiche sono avvenute nella parte settentrionale
del Paese, che è ricca di risorse minerarie ed è oggetto di interessi
occidentali: è inquietante che il proselitismo islamico proceda parallelamente
all’espansione fondamentalista. RR
I COLLOQUI PER LA PACE IN SIRIA (2/3/2018)
L’unico strumento in grado di garantire il ritorno della pace in Siria, è una soluzione negoziata. Tuttavia, le numerose e ambiziose iniziative diplomatiche promosse dalle Nazioni Unite o da alcuni Paesi direttamente o indirettamente coinvolti nel conflitto non hanno finora conseguito risultati apprezzabili. I colloqui fra il governo e l’opposizione hanno come obiettivo principale il raggiungimento di un definitivo ‘cessate il fuoco’ e la definizione di una transizione politica. Il punto più controverso è sempre stato e rimane la sorte di Bashar Al-Assad. Di seguito si evidenziano le tappe più significative. Dopo alcuni tentativi di mediazione intrapresi dalla Lega Araba, il primo incontro fra le parti si tenne a Ginevra nel giugno del 2012. Non ebbe esiti di rilievo. Nel 2014 Staffan de Mistura sostituì Kofi Annan come inviato speciale dell’Onu. Nella conferenza di Astana in Kazakistan nel maggio del 2017 le trattative furono mediati da Russia, Turchia ed Iran: i tre Paesi convennero sulla costituzione di una safe-zone nelle regioni di confine della Siria con la Turchia e la Giordania al fine di proteggere i profughi, particolarmente numerosi in quell’area. L’opposizione respinse il documento perché riteneva opportuno che il provvedimento riguardasse tutto il territorio siriano. I ribelli inoltre chiedevano anche il ritiro delle milizie sciite appoggiate dall’Iran. La Giordania non partecipò ai lavori, ma nell’occasione tenne contatti bilaterali con alcuni partner. Recentemente nel gennaio del 2018 le parti si sono incontrate a Sochi, sul Mar Nero. Si è raggiunto l’accordo sulla necessità di garantire la sovranità e l’integrità territoriale della Siria. Per la transizione verso un governo democratico si è ipotizzata la costituzione di un Comitato di 150 membri, composto da forze governative e dell’opposizione, con il mandato di promuovere le necessarie riforme. Potrebbe trattarsi di un primo passo significativo. Ottimisticamente l’inviato speciale delle Nazioni Unite Steffan De Mistura ha definito il punto un passaggio dalla teoria alla pratica. Questi accordi saranno la base dell’agenda dei prossimi incontri che si terranno a Ginevra. Poiché ai lavori non hanno partecipato alcune componenti ‘ribelli’ importanti con l’intento di boicottare la conferenza, l’intesa raggiunta in concreto ha poche prospettive di trovare attuazione. Inoltre le forze governative, sostenute da Mosca, considerati i recenti successi bellici, potrebbero essere meno disponibili a cedimenti di sovranità. Il processo di pace è complicato anche da concomitanti eventi che rilevano a livello geopolitico e regionale, come l’offensiva turca contro i curdi. La partita quindi resta ancora aperta: le ambizioni della Russia di raggiungere nel recente incontro a Sochi un accordo definitivo non si sono realizzate. Roberto Rapaccini
Rifugiati siriani (1 marzo 2018)
Il conflitto in Siria che a marzo entrerà
nel suo ottavo anno, ha creato una delle maggiori crisi umanitarie del nostro
tempo. Al momento si contano più di 465.000 vittime e oltre un milione di feriti; almeno
12 milioni di siriani - metà della popolazione ‘prebellica’ del Paese - sono morti
o sono stati costretti a fuggire dalle proprie case. Libano, Turchia e Giordania ospitano la maggior parte
dei rifugiati, molti dei quali tentano di partire per l'Europa in cerca di migliori
condizioni di vita. Per la Convenzione di Ginevra del 1951 è rifugiato “…chiunque nel
giustificato timore d'essere perseguitato per ragioni di razza,
religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o
per opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la
cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di
detto Stato…”. Secondo i rapporti di alcune
agenzie umanitarie nel 2017 sono tornati in Siria 66.000 siriani: con gran
parte del Paese in rovina ed una popolazione disperata e traumatizzata la
ricostruzione nella fase postbellica sarà un processo lungo e difficile. Questa crisi
umanitaria nei Paesi europei è spesso oggetto di strumentalizzazioni politiche.
I rifugiati dovrebbero essere distinti dalla più generica e problematica
categoria degli immigrati clandestini. Si tratta di persone, di uomini, donne e
famiglie che fuggono da genocidi o da scenari di guerra (in alcuni casi da morte
quasi certa). E’ innegabile che l’attuale flusso migratorio
verso l’Europa porti con sé importanti problematiche. Sono questioni, tuttavia,
che si deve avere il coraggio di
affrontare senza ricorrere ad affrettate e comode opposte soluzioni radicali. In
termini concreti è ingiustificato sia un
generale accoglimento di immigrati come il loro indiscriminato respingimento.
Le polarizzazioni ideologiche verso
posizioni estreme in questo caso allontanano da soluzioni ragionevoli. La
solidarietà, che va contemperata con concorrenti esigenze sociali e di
sicurezza, è una componente della civiltà occidentale e trova fondamento nelle
sue radici giudaico cristiane. Dice un proverbio africano, lo straniero è un fratello che non hai mai incontrato. RR
LE
PROSSIME ELEZIONI EGIZIANE E I CRISTIANI COPTI (Su L’Azione del 2/3/2018)
Le
vicende dell’Egitto vanno seguite con attenzione: l’esperienza storica ha
spesso dimostrato che tutto quello che avviene in quel Paese, epicentro del
mondo arabo, poi si diffonde nel resto della regione. La Primavera araba, punta
avanzata della crisi dell’Islam politico, ebbe inizio in Tunisia, ma dopo la
rivolta egiziana del 2011 cominciò ad interessare con effetto domino gli altri
Stati. A fine marzo si svolgeranno le
elezioni presidenziali che porteranno con molta probabilità al conferimento di
un nuovo mandato al gen. Al-Sisi (forse sarà sufficiente il primo turno). Il
leader non sembra avere rivali: con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale gli
sfidanti o hanno abbandonato la candidatura spontaneamente o sono stati in
qualche modo obbligati a farlo. La società civile, dopo i disordini degli anni
passati, teme una destabilizzazione: questo timore spinge ad optare per la
continuità dell’attuale governo che, nonostante la mancanza di democrazia e le
insufficienti riforme economiche, garantisce sicurezza e stabilità. L’affermazione di Al-Sisi viene vista con
favore dai circa 8 milioni di cristiani–copti, ovvero il 10% della popolazione.
Questa minoranza, vittima di violenti attacchi jihadisti, si sente da sempre protetta dai regimi militari che fin
dai tempi di Nasser con il loro indirizzo laico hanno consentito alla comunità
cristiano-copta di integrarsi nella vita del Paese. Il
buon rapporto fra il regime e i copti si fonda su un reciproco riconoscimento
di leadership, quella spirituale del patriarca e quella politica del presidente.
Per questo presumibilmente i copti appoggeranno la rielezione di Al-Sisi. RR
LA MINACCIA DELLA MAFIA NIGERIANA (su L’Azione del 23/2/2018)
L’omicidio
a Macerata di una ragazza tossicodipendente ha dato spazio nei mass media alla preoccupante presenza sul
nostro territorio di gruppi di presunti appartenenti alla mafia nigeriana. Il
fenomeno non è recente. Da anni questa consorteria ha superato i confini
africani per gestire in Paesi europei ed extraeuropei attività collegate allo
sfruttamento della prostituzione, all’immigrazione clandestina, al narcotraffico,
costituendo una delle più pericolose reti delinquenziali del mondo. La mafia
nigeriana è un sistema, non un’unica struttura: è caratterizzata da singole
bande reciprocamente indipendenti o specializzate in segmenti di un’attività
criminale. Come analoghe organizzazioni, la mafia nigeriana si avvale di
rituali esoterici per l’affiliazione di nuovi elementi e per imprimere ai delitti
un marchio di appartenenza. È noto che dopo la consumazione di alcuni omicidi i
corpi sono stati smembrati e sono
seguiti atti di cannibalismo (soprattutto relativi ad organi, in particolare
cuore e fegato, ritenuti fonti di coraggio ed energia) con finalità magiche e
propiziatorie. La ritualità mafiosa – il cui valore simbolico è particolarmente
utile per impressionare persone di bassa cultura meno sensibili alla
comunicazione dialettica - serve a rafforzare i vincoli associativi fra gli
affiliati che, in questo modo, si sentono destinatari del privilegio di far parte
di una comunità di iniziati. La ritualità delle mafie generalmente si ispira al
contesto etnico-culturale di provenienza. Pertanto, come la mafia italiana si
avvale del presunto avallo di una malintesa religiosità cristiana (con uso di
santini in cerimoniali nei quali sacro e
profano si contaminano reciprocamente), così la mafia nigeriana fa ricorso a riti
voodo e a superstizioni tribali, che
in alcuni reati, come la tratta di esseri umani, esercitano anche una potente
suggestione sulle vittime, strumentale al loro assoggettamento. RR
LA
CIRCOLAZIONE DELLE ARMI NEGLI STATI UNITI (su L'Azione del 17/2/2018)
Qualche
giorno fa, a Parkland, in Florida, negli Usa, c’è stata l’ennesima strage in un
liceo. Un giovane squilibrato, ex studente della scuola, ha fatto irruzione
nell’edificio armato con un fucile ed ha aperto il fuoco uccidendo 17 persone e
ferendone più di 50. È tornata attuale la questione delle libera circolazione negli
Usa delle armi da fuoco automatiche e semiautomatiche. In casi come questo le
lobby dei produttori hanno sempre precisato che non è opportuno affrontare il
problema emotivamente, cioè a caldo dopo
una sparatoria. Tuttavia, da questo punto di vista è difficile trovare il
momento giusto: negli Usa infatti le sparatorie con un numero di vittime pari o
superiore a 4 (questo elemento convenzionalmente in termini giornalistici
definisce la strage di massa) sono
quasi quotidiane. Da sondaggi risulta che negli Usa la percentuale dei contrari
alla libera vendita e detenzione di armi e quella dei favorevoli più o meno si
equivalgono; una piccola minoranza dichiara invece di volere leggi ancora più
permissive. Quando viene proposta una normativa più restrittiva, i politici e
le lobby dei produttori ricorrono al Secondo Emendamento della Costituzione
degli Stati Uniti, che dice che….essendo necessaria alla sicurezza di uno
Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di detenere
e portare armi non potrà essere infranto. Si dovrebbe precisare che la disposizione normativa risale al 1791 ed
è quindi lontana dal contesto attuale. Alla cosiddetta sindrome da Far West probabilmente non sono estranee esigenze di
autodifesa che, fuori dagli aggregati urbani, in quel Paese sono
particolarmente sentite: qui, infatti, a causa della vastità del territorio, le
case sono spesso isolate e molto distanti l’una dall’altra e, in caso di
emergenza, l’intervento della polizia non sempre può essere tempestivo. Sembra
trovare applicazione il principio citato nel film Una vita al massimo ovvero
che è meglio avere una
pistola e non averne bisogno, che non averla e averne bisogno. In linea di
massima negli Stati Uniti chi ha più di 21 anni può acquistare una pistola, mentre i
maggiori di 18 anni possono detenere un fucile a canna liscia. È sufficiente un
documento di identità: il venditore registra i dati dell’acquirente e li
associa all’arma; chi fa uso di stupefacenti o di particolari farmaci e gli
stranieri non possono acquistare o possedere armki. Gli Stati Uniti detengono
in occidente il triste record del maggior numero di decessi causati da armi da
fuoco. Da un punto di vista politico i produttori e i possessori di armi sono
rappresentati da lobby potenti che, avendo generalmente come riferimento
esponenti del Partito Repubblicano, cercano di influenzare le decisioni del
Congresso. RR
MORIRE PER UCCIDERE
A sedici anni dall’attentato
alle Torri gemelle il tema del terrorismo suicida continua ad essere di
particolare interesse. Esistono dei motivi forti che spingono un giovane islamico,
manipolato da predicatori più anziani, a scegliere di morire per ideali religiosi,
che nell’Islam hanno anche la funzione di collanti ideologici e politici. Diversamente
da quello cristiano il martirio islamico non si limita al sacrificio passivo di
sé stesso ma richiede iniziative per sopprimere
i presunti infedeli: la vocazione ad
immolarsi si fonde con quella omicida, la volontà di uccidere si unisce a quella di morire. Il martirio è un’attrattiva
perché consente la santificazione, cioè il diritto di entrare in
Paradiso con i privilegi che competono agli eroi della Jihad. L’importanza della morte è tale che, se l’attentatore sopravvive, la
missione può paradossalmente ritenersi fallita. Un altro dato da considerare è
la tenera età degli attentatori suicidi. I giovani, disorientati dal vuoto
etico cioè dall’assenza di valori di riferimento, essendo alla ricerca di
un’identità definita, sono vulnerabili alla propaganda jihadista, e ne subiscono la seduzione. Nell’atto suicida c’è
inoltre una componente narcisistica che predispone alla rinuncia della propria
vita: l’iniziativa terroristica trasforma un ordinario individuo in un angelo
vendicatore che godrà della gloria di una fama postuma. La sacralità rituale
che precede l’atto suicida, ben descritta nel film Paradise Now, attribuisce un duraturo protagonismo ad individui
educati nell’indifferenza, ed appaga un desiderio di affermazione e di autorealizzazione.
Da questo punto di vista quindi l’opzione suicida costituisce il compenso ad
una frustrazione piuttosto che fondarsi un richiamo religioso. Già nella
seconda metà dell’800, Dostoevskij scriveva che ….gli uomini
rifiutano i profeti e li uccidono. Ma adorano i martiri e onorano coloro che
hanno ucciso. RR
MALDIVE,
DA PARADISO A INFERNO (su L’Azione del 16/2/2018)
Siamo
abituati a considerare le Maldive una specie di Paradiso in terra, il mare è
uno splendido acquario, i cieli sono azzurri, la gente locale si mostra
bendisposta, premurosa, contenta di averci come ospiti. Il tempo scorre lento e
tranquillo, mentre per noi sono normali ritmi convulsi e frenetici. Quel mondo
sembra incredibilmente lontano dalla
nostra civiltà, soprattutto dalle immagini di guerra, di sangue e di attentati,
con le quali quotidianamente conviviamo. Non è così. In questi giorni nel Paese
è scoppiata una guerra civile di vaste proporzioni, che ha la sua origine
negli irriducibili contrasti fra il
governo e l’opposizione. Tutto questo sta avvenendo nella capitale Malè,
lontano dal contesto artificioso dei villaggi turistici ospitati in centinaia
di isolette sparse nell’Oceano Indiano.
I travagli che sta vivendo il Paese non sono una sorpresa. Da molti anni fuori
dai resort la Repubblica delle
Maldive, un Paese islamico nel quale vige una rigida applicazione della legge
coranica, è uno Stato insicuro. La
corruzione, la violenza, la criminalità, i traffici illegali sono fuori
controllo. La povertà, la miseria e le differenze sociali sono mali endemici.
Nell’arcipelago abitano 350 mila persone, per lo più musulmani di confessione
sunnita salafita, molti dei quali stanno subendo un processo di
radicalizzazione. In rapporto alla popolazione le Maldive sono il Paese
islamico che ha fornito il maggior numero di foreign fighter. Nonostante questo, forse a causa delle distanze
dalla capitale e dall’isolamento, le strutture turistiche non sono state mai
oggetto di attentati. I turisti generalmente non si rendono conto delle
difficili condizioni del Paese, perché al loro arrivo a Malè vengono subito
prelevati e portati a destinazione. Forse
e in maniera paradossale si realizza in un certo senso la profezia di Maometto:
il paradiso è all’ombra delle spade. RR
Afghanistan: Mujaheddin, Talebani, stato islamico
(9/2/2018)
L’Afghanistan con le sue vicende internazionali è al
centro della jihad globale, ovvero è spesso una specie di trincea avanzata del
fondamentalismo violento sunnita. In proposito in questi anni si sono consumate
anche cruente guerre infra-islamiste, come
l’attuale conflitto fra i Talebani, originariamente provenienti da gruppi di Mujaheddin,
e lo Stato islamico. Con il generico termine di Mujaheddin si indicavano i
militanti della guerriglia islamica attivi soprattutto nell’Asia centrale. Il
termine ebbe notorietà nel corso della guerra russo-afghana (1979-89) durante
la quale i Mujaheddin, sostenuti da
Stati Uniti, Pakistan e Arabia Saudita, contrastarono l’intervento militare
sovietico favorevole al governo progressista afghano. Alla fine della guerra, i
Mujaheddin afghani (da distinguere da quelli iracheni e da quelli iraniani) si
divisero in due componenti, l’Alleanza del Nord e i Talebani. I Talebani,
vincitori nel 1995-6 della guerra civile afghana
successiva al ritiro dell’URSS, dopo aver conquistato il potere, imposero un
regime teocratico basato sulla rigida applicazione della legge coranica.
Rovesciati nel 2001 da una coalizione occidentale per i legami con Al Qaeda e
con l’eversione di matrice islamista, continuarono a svolgere attività
terroristica e di guerriglia. Dal 2015 i talebani ripresero a guadagnare
terreno con l’obiettivo di contrastare anche il concorrente potere dello Stato
Islamico all’interno della galassia jihadista.
I miliziani dello Stato Islamico, presenti in Afghanistan dal 2014, erano
confinati nel gruppo Islamic
State–Khorasan Province (nel sud
est del Paese). Inizialmente lontani dai principali centri abitati, progressivamente
aumentarono la loro influenza nel Paese fino ad attuare sistematici attentati
nella capitale Kabul. Il Califfato, infatti, dopo
aver perso una parte rilevante del proprio territorio in Iraq e Siria, cercava
di affermarsi negli Stati, come l’Afghanistan, che avevano una
stabilità precaria. Diversamente l’obiettivo dei Talebani - alleati
con importanti gruppi jihadisti estremisti come la rete
Haqqani particolarmente vicina ad Al Qaeda (e forse ai Servizi Segreti pakistani)
- era quello di minare la stabilità del governo afghano filo-occidentale,
compiendo attentati continui e costanti contro la popolazione civile, creando quindi
instabilità e caos. Si perseguivano così i fini di indebolire le istituzioni governative
e di scoraggiare le forze esterne a proseguire il loro impegno militare. In proposito
ci si riferisce soprattutto all’accresciuta
presenza americana in Afghanistan decisa dall’amministrazione Obama e
confermata da quella di Trump, anche se sembra che la lotta al jihadismo non sia più attualmente una priorità
degli USA dal momento che si attribuisce sempre più rilievo alla competizione geopolitica
e finanziaria con Cina e Russia. Le iniziative eversive violente probabilmente
si sono intensificate anche a causa di un conflitto, non sempre latente, fra Talebani,
Al Qaeda e Stato Islamico per la supremazia nel mondo jihadista violento, che si afferma attraverso la capacità di
imporre il terrore e la relativa propaganda. Le questioni politiche si
combinano con gli affari illeciti: i profitti della gestione del traffico di
droga frutta ai Talebani ingenti somme con le quali viene finanziato l’acquisto
di armi. Questi traffici sono ora
insidiati dall’Isis, che inoltre fa proselitismo e recluta militanti fra
i Talebani, allettati da un migliore compenso economico. L’Isis si potenzia
mentre i Talebani si indeboliscono: anche questa contingenza si traduce in un
motivo di reciproca avversione e diffidenza. Ulteriore causa di divisione è l’ottica
strategica che riguarda il proselitismo violento per l’imposizione della
Sharia: i Talebani sono nazionalisti e pertanto limitano la loro attenzione alle
vicende del proprio Paese. Diversamente lo Stato Islamico non è interessato a
confini nazionali, ma coltiva l’ambizione di estendere il Califfato quanto più
possibile. Gli interessi religiosi inoltre in questa regione sono recessivi rispetto
a quelli militari e strategici: l'Iran
sciita supporta i Talebani sunniti con l'obiettivo di mantenere debole il
vicino governo afghano. Purtroppo non sembrano esserci al momento prospettive
di pace per questa disgraziata area: nessuno degli attori di questo sanguinario
scenario di guerra ha attualmente la forza per imporsi sugli altri. Accanto
alla storia fatta asetticamente dalle vicende dello Stato afghano, ci sono le
sofferenze della gente comune alla quale è stata espropriata la possibilità di crescere
e di vivere in pace e in serenità la
normalità della vita quotidiana. Lo scrittore Khaled Hosseini nel romanzo ‘Il
cacciatore di aquiloni’ con una bella frase intensamente lapidaria descrive
bene questa condizione: “In Afghanistan ci sono
tanti bambini, ma non esiste più l'infanzia”. In un documentario, ‘La
vita in un giorno, un afghano dice: “Quando esco di casa al mattino, non
sono sicuro che tornerò a casa sano e salvo. Nessun afghano si aspetta di
tornare a casa sano e salvo”. RR
LA
NUOVA STAGIONE TERRORISTICA IN AFGHANISTAN (29/1/2918)
Un
nuovo atto terroristico si è verificato a Kabul oggi 29 gennaio presso un’accademia
militare dove un commando di cinque uomini ha ingaggiato uno scontro a fuoco
con i soldati. L'azione terroristica - il cui primo bilancio è superiore ad una
decina di morti - è stata rivendicata dall'Isis. La capitale dell’Afghanistan
continua ad essere teatro di gravi attentati dopo l’esplosione dell’autobomba
del 27 gennaio scorso che ha causato la morte di più di cento persone: questo
sanguinoso progetto criminoso è stato attuato da un gruppo di militanti
talebani. L’Afghanistan acquistò la piena indipendenza dal Regno Unito nel 1919
a seguito della conclusione della terza guerra anglo-afghana. Dopo un
affrettato tentativo di occidentalizzazione, dagli anni ‘30 agli anni ‘70 si
sono avvicendati regimi che hanno continuato una prudente modernizzazione del
Paese. La Costituzione del 1964 avrebbe dovuto istituire una democrazia
parlamentare, ma i contrasti tra le forze politiche ne impedirono l’attuazione.
Nel 1973 ci fu un colpo di Stato di militari ispirato da esigenze di riforma
che tuttavia rimasero disattese. Nel 1978 un nuovo colpo di Stato portò al
potere il segretario del Partito comunista; il nuovo regime era fortemente
osteggiato dai ceti islamici tradizionalisti e combattuto da una guerriglia da essi alimentata. Questa
situazione di confusione istituzionale motivò l’intervento militare sovietico nel 1979, a seguito del quale fu nominato
primo ministro B. Karmal. Questo governo non ottenne il riconoscimento
internazionale: l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite votò a larga
maggioranza una risoluzione che deplorava fortemente le iniziative dei militari
sovietici chiedendone il ritiro. Le gravi perdite subite a seguito delle
veementi azioni di guerriglia dei mujaheddin, inquadrati su base etnica e
territoriale, e l’isolamento internazionale nel quale venne a trovarsi l’URSS,
determinarono il graduale disimpegno sovietico, che si concluse nel febbraio
del 1989. Dopo alcuni anni di guerra civile e di incerte condizioni di anarchia,
nel 1996 Kabul cadde in mano ai talebani, che imposero misure radicali mutuate
da una letterale e dogmatica applicazione della Sharia. Il regime talebano, reo
di aver favorito la latitanza di Osama Bin Laden, venne rovesciato nel 2001 a
seguito di pesanti bombardamenti da parte dell’aviazione angloamericana.
La conferenza di Bonn convocata nel dicembre del 2001 stabilì l’avvio di un
processo di ricostruzione politica del Paese, che si sarebbe dovuto iniziare
con l’adozione di una nuova Costituzione. Nel dicembre 2004, Hamid Karzai,
gradito al governo statunitense, divenne il primo presidente dell'Afghanistan eletto
democraticamente. Dopo un secondo mandato, la presidenza di Karzai si
concluse nel 2014. Le successive travagliate e controverse elezioni
presidenziali del 2014, gravate da accuse di brogli, decretarono l’avvento
della presidenza, tuttora in atto, di Ashraf Ghani. Come provano le recenti
azioni terroristiche il Paese, politicamente instabile, è ostaggio dell’incombente
presenza clandestina talebana ed è minacciato dalle iniziative dei militanti di
gruppi fondamentalisti islamici. RR
LA RICCHEZZA
DI POCHI, LA POVERTA’ DI MOLTI (Su L’Azione del 2/2/2018)
Alla vigilia
del vertice di Davos (23-26 gennaio), l'annuale Forum
economico mondiale cui partecipano esponenti di primo piano
della politica e dell'economia internazionale, convocato per
discutere delle questioni più urgenti che il mondo si trova ad affrontare, è stato diffuso il rapporto annuale dell’Oxfam, un’associazione internazionale che
si occupa di misure per ridurre la povertà globale. È emerso un
quadro inquietante. L'1% della
popolazione mondiale detiene più ricchezza del restante 99%. Il rapporto
precisa che 42
persone possiedono la stessa ricchezza dei rimanenti 3,7 miliardi. Inoltre, l'82% dell'incremento
della ricchezza globale, registrata nel 2017, e' stata appannaggio dell'1%
della popolazione mondiale mentre il 50% non ha beneficiato di nessun
incremento. La
ricchezza dei miliardari è
legata molto più a posizioni di rendita, al monopolio e al clientelismo, che
alla fatica del lavoro. La
situazione va peggiorando dal momento che 7 cittadini su 10 vivono in un Paese
in cui la disuguaglianza e' aumentata negli ultimi 30 anni. La povertà è in
costante aumento e rende intollerabili queste sperequazioni sociali ed
economiche alle quali finora siamo stati supinamente abituati. Non dobbiamo
dimenticare che dietro questi numeri, così freddi e anonimi, ci sono persone, ovvero
delinquenti, trafficanti di droga e di armi, ricchi industriali, pluripagati fenomeni
dello sport e dello spettacolo, artisti, e tanta gente comune. In altri termini
il lavoro pericoloso e scarsamente pagato della maggioranza
della popolazione mondiale alimenta l’estrema ricchezza di pochi. La disuguaglianza sociale spinge
il gruppo dominante a sostenere la gerarchia esistente con ogni mezzo, anche
violento, per proteggere il proprio status. Tutto questo provoca un
consolidamento delle disuguaglianze. RR
LE EVOLUZIONI DEL
PENSIERO ARABO (su L'Azione del 26 gennaio 2018)
Il sito Global Influence ogni anno sulla
base di analisi compiute su media e social network arabi anche attraverso uno
specifico software individua i leader che maggiormente influenzano l’opinione
pubblica e ne determinano le aspettative. È una ricognizione importante perché
consente di conoscere i temi di particolare rilievo che si dibattono
pubblicamente nei Paesi di lingua araba. Nello scorso anno in questa speciale
classifica i primi tre posti erano occupati da teologi islamici. Quest’anno il
primo religioso ‘influente’ si trova al VII posto (i successivi sono al X e al
XII), mentre le prime posizioni sono occupate da poeti, da scrittori, da giornalisti,
e anche da attivisti per i diritti umani. Pertanto, sebbene la materia religiosa
continui ad avere un ruolo centrale, si è registrato attualmente un crescente
interesse per i punti di vista degli intellettuali laici. Questi dati sono
segnali che indicano che è in atto un’evoluzione culturale in senso laico. Nel
mondo musulmano, in relazione al monopolio ideologico religioso e al suo
carattere invasivo, il termine laico non è facilmente compreso e ad esso viene
frequentemente attribuito il significato di ateo. Nella storia dei Paesi arabi
è mancato un movimento analogo al nostro Illuminismo, che, oltre a stabilire il
primato della ragione per orientare le evoluzioni della società civile, ha
stabilito con chiarezza le relazioni fra religione e politica,
condizione essenziale per lo sviluppo di principi quali la tolleranza,
l’uguaglianza, il rispetto della libertà di pensiero, nonché la libertà di
culto. RR
LA
GUERRA PER IL COLTAN (Su L’Azione del 19 gennaio 2018)
Con
il termine Coltan si intende un minerale che fra i suoi elementi costitutivi ha
il tantalio, un conduttore di elettricità dalle qualità eccezionali, prezioso
in quanto è indispensabile per realizzare componenti per dispositivi quali
telefonini, computer portatili, videocamere e videogiochi. Conseguentemente
questo minerale è diventato particolarmente ricercato e prezioso. Le maggiori miniere di Coltan si trovano in Australia
e in alcune regioni del Centro Africa. In proposito la corsa per
l’accaparramento di questo minerale e delle
immense ricchezze custodite nel sottosuolo è tra le cause delle recenti
sanguinose guerre fra la Repubblica Democratica del Congo e i confinanti stati
del Ruanda, dell’Uganda e del Burundi, e
inoltre ha originato una serie di microconflitti locali. Tutto questo,
naturalmente, in difesa di interessi che non coincidono affatto con quelli
della popolazione, ma piuttosto con quelli di altri Stati stranieri, o di
multinazionali dell'industria estrattiva, che fomentano e finanziano gruppi di
mercenari. Queste infinite vicende belliche hanno
prodotto milioni di morti e sfollati, e hanno causato un disastro umanitario
senza precedenti. Sullo sfondo gli interessi di multinazionali che, per
perseguire i propri interessi, influiscono su equilibri politici ed economici.
L’indipendenza degli Stati africani di fatto resta solo formale: costituisce un
alibi per il perpetuarsi delle politiche di sfruttamento neocoloniale non solo di
Paesi capitalistici e industrializzati, ma anche da parte delle nuove potenze
economiche emergenti nel XXI secolo. RR
COSA PENSANO I
MUSULMANI? CHI PUO’ PARLARE PER LORO – 2. Sunniti e Sciiti (23-12-2017)
I divergenti punti
di vista nella valutazione dell’Islam, soprattutto per quanto riguarda il grado
di tolleranza dei fedeli nei confronti di altre realtà religiose o che si evidenziano
nelle differenti opinioni sulla sua pericolosità per il possibile ricorso alla
violenza come strumento di affermazione e di espansione della fede musulmana,
sono la conseguenza non solo di ambiguità contenute nei testi sacri, ma anche
della disomogeneità di questa religione. Il suo carattere aggressivo viene
enfatizzato nei media occidentali attraverso un ampio ricorso al termine jihad. Jihad correntemente viene tradotto guerra santa. Jihad in
arabo vuol dire sforzo ed è seguito spesso dall’espressione fi sabil Allah, cioè lungo il sentiero di Dio: pertanto, al
termine jihad dovrebbe essere
attribuito il significato di lotta interiore. L’Islam è spesso considerato una
monade dai tratti definiti. Innanzitutto manca un’autorità capace di esprimere
una posizione ufficiale su ogni specifica questione. (questa caratteristica
riguarda l’Islam di professione sunnita, l’80/90 % circa del mondo musulmano).
Nell’Islam convivono tante confessioni, come
avviene nel Cristianesimo. I fatti che hanno dato origine alla
scissione fra
Sunniti e Sciiti risalgono al periodo di poco posteriore
alla morte di Maometto; emerse un contrasto sui criteri per l’individuazione
del califfo, ovvero del successore del Profeta,
che avrebbe dovuto assumere il ruolo di capo politico e spirituale della
comunità musulmana. Per gli Sciiti, poiché Maometto non aveva figli maschi, il
primo successore andava individuato in Alì, cugino e genero del Profeta, che
sposò la figlia Fatima; in questo modo, la successione si sarebbe attuata
all’interno della discendenza del Profeta. Per i Sunniti era invece necessario
individuare il califfo mediante un’investitura che sarebbe dovuta provenire
dalla comunità dei fedeli, riconosciuta come una vera autorità religiosa. Il principio di autodeterminazione
della comunità dei fedeli si fa risalire all’affermazione di Maometto: “La
comunità dei credenti non si accorderà mai su un errore”. Attualmente
la differenza fondamentale fra queste due principali
componenti dell’Islam riguarda l’esistenza e il ruolo della gerarchia religiosa. Il Paese
più grande nel quale gli Sciiti sono al potere è l’Iran. La
rivoluzione del 1978, che trasformò la monarchia persiana in una
repubblica islamica, fu guidata dalle autorità religiose, fra le
quali ebbe particolare rilievo l’ayatollah Khomeini. Gli ayatollah sono le
guide spirituali dei fedeli sciiti iraniani: si tratta di un vero e proprio
clero. La Repubblica Islamica Iraniana è di fatto una teocrazia. In altri
Paesi, come il Bahrain, nonostante la maggioranza della popolazione sia
sciita, è al potere la minoranza sunnita. Per quanto riguarda i fondamenti della fede,
fra Sciiti e Sunniti non ci sono rilevanti differenze. La divisione fra Sciiti
e Sunniti non è la sola: il mondo musulmano è caratterizzato da molte altre
frammentazioni. Nella deriva fondamentalista e antioccidentale di alcuni Stati
arabi hanno avuto notevole influsso il movimento wahabita e quello salafita,
che promuovono un ritorno all’Islam delle origini. Il termine wahabita deriva da Muhammad bin Abd
al-Wahhab, vissuto all’inizio del XVIII secolo, alleato di Muhammad bin Saud,
principe di un’oasi della regione del Neged, capostipite della dinastia che nel
XX secolo unificherà l’Arabia e che tuttora governa il Paese. Punto
fondamentale della dottrina wahabita è
l’affermazione del tawhid, ovvero
l’assoluta unità di Dio e la lotta
con ogni mezzo contro tutte le forme di culto devianti o atipiche. Il buon
governo è adeguamento della prassi
politica e giuridica ai fondamentali principi della Sharia, che, con rigore, deve regolare ogni comportamento umano.
Per questo la dottrina wahabita
manifesta una radicale ostilità nei confronti di quei governi che si
allontanano dalla via tracciata dal Corano: non c’è spazio per forme di
legittimità democratica di tipo occidentale in quanto l’unica legittimità viene
dal letterale rispetto della legge divina. Il wahabismo ha sempre goduto del sostegno finanziario dei potentati
sauditi; oltre a quello dei regnanti sauditi,. È contraddittorio che l’Arabia Saudita, nonostante sia uno Stato nel quale la dottrina
wahabita,
contraria alle seduzioni del mondo occidentale, sia particolarmente
radicata, abbia sempre mantenuto ottimi rapporti politici e d’affari
con gli Stati Uniti. Analoghe posizioni anti-occidentali e di rifiuto di
qualsiasi modernità si riscontrano nel movimento salafita. Il salafismo
prende il nome dal termine arabo salaf al
ṣaliḥīn (i pii antenati) che identifica le prime tre generazioni dei
musulmani. Anche il Salafismo è di professione sunnita; il movimento fu fondato
dall’egiziano Rashid Rida verso la fine
dell’Ottocento. RR
Cosa pensano i Musulmani? Chi può parlare
per loro? – 1.Introduzione (18-12-2017)
SIRIA,
LA SITUAZIONE ATTUALE (4/3/2018)
Le
principali città siriane - Aleppo, Latakia, Tartus, Hama, Homs, Damasco,
Palmira, Abu Kamal - sono tornate sotto il controllo del governo centrale.
L’influenza dello Stato Islamico è
invece ridotta ad una piccola area a sud est, circondata da forze governative a
ovest e forze curde a est. Il controllo curdo si esercita su un’ampia area a
nord del Paese ed include le città di Afrin, Raqqa, Qamishli, Hasakah. Al
momento il conflitto in Siria si sviluppa su due fronti. Innanzitutto nella
parte orientale di Ghouta, un distretto che si trova a 10 km. dal centro di
Damasco. Per la sua prossimità alla capitale è di particolare importanza per le
forze governative la riconquista di questa enclave, al momento in mano ai
ribelli. Si tratta di un’area di 104 km2, che ospita
400.000 civili metà dei quali sono giovani che hanno meno di 18 anni, che è
sottoposta a violentissimi bombardamenti da parte dell’aviazione siriana e
russa. Il bilancio delle vittime è molto grave perché i raid aerei continuano
anche durante i momenti quotidiani di tregua (cinque ore) concordati per
introdurre gli aiuti destinati alla popolazione. I corridoi umanitari per
l’evacuazione dei civili non sono né sicuri né praticabili. Il 24 febbraio
scorso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato (con il consenso
anche della Russia) una risoluzione - che non ha avuto pratica applicazione -
per un cessate il fuoco di 30 giorni, escluse le operazioni contro formazioni
terroristiche; nella regione operano infatti anche miliziani di Al Nustra, il
gruppo armato jihadista salafita, affiliato fino al 2016 ad Al Qaeda. Nel 2017
Turchia, Russia e Iran avevano concordato di designare la Ghouta orientale ‘una
zona di de-escalation’, ovvero inibita ai jet da combattimento siriani e russi.
L’altra zona nella quale il conflitto è particolarmente acceso è l’enclave
curda di Afrin. Infatti nel gennaio del 2018 nella Siria nord-occidentale,
vicino alla città di Afrin, la Turchia e l'esercito libero siriano (FSA) hanno
intrapreso iniziative belliche contro la YPG, l'Unità di Protezione Popolare,
una milizia molto vicina al PKK, la principale organizzazione di
militanti curdi in Turchia. Nel conflitto sono impegnate anche forze filogovernative
a sostegno della resistenza curda. RRL’ISLAM IN MOZAMBICO (su L’Azione del 9.3.2018)
I COLLOQUI PER LA PACE IN SIRIA (2/3/2018)
L’unico strumento in grado di garantire il ritorno della pace in Siria, è una soluzione negoziata. Tuttavia, le numerose e ambiziose iniziative diplomatiche promosse dalle Nazioni Unite o da alcuni Paesi direttamente o indirettamente coinvolti nel conflitto non hanno finora conseguito risultati apprezzabili. I colloqui fra il governo e l’opposizione hanno come obiettivo principale il raggiungimento di un definitivo ‘cessate il fuoco’ e la definizione di una transizione politica. Il punto più controverso è sempre stato e rimane la sorte di Bashar Al-Assad. Di seguito si evidenziano le tappe più significative. Dopo alcuni tentativi di mediazione intrapresi dalla Lega Araba, il primo incontro fra le parti si tenne a Ginevra nel giugno del 2012. Non ebbe esiti di rilievo. Nel 2014 Staffan de Mistura sostituì Kofi Annan come inviato speciale dell’Onu. Nella conferenza di Astana in Kazakistan nel maggio del 2017 le trattative furono mediati da Russia, Turchia ed Iran: i tre Paesi convennero sulla costituzione di una safe-zone nelle regioni di confine della Siria con la Turchia e la Giordania al fine di proteggere i profughi, particolarmente numerosi in quell’area. L’opposizione respinse il documento perché riteneva opportuno che il provvedimento riguardasse tutto il territorio siriano. I ribelli inoltre chiedevano anche il ritiro delle milizie sciite appoggiate dall’Iran. La Giordania non partecipò ai lavori, ma nell’occasione tenne contatti bilaterali con alcuni partner. Recentemente nel gennaio del 2018 le parti si sono incontrate a Sochi, sul Mar Nero. Si è raggiunto l’accordo sulla necessità di garantire la sovranità e l’integrità territoriale della Siria. Per la transizione verso un governo democratico si è ipotizzata la costituzione di un Comitato di 150 membri, composto da forze governative e dell’opposizione, con il mandato di promuovere le necessarie riforme. Potrebbe trattarsi di un primo passo significativo. Ottimisticamente l’inviato speciale delle Nazioni Unite Steffan De Mistura ha definito il punto un passaggio dalla teoria alla pratica. Questi accordi saranno la base dell’agenda dei prossimi incontri che si terranno a Ginevra. Poiché ai lavori non hanno partecipato alcune componenti ‘ribelli’ importanti con l’intento di boicottare la conferenza, l’intesa raggiunta in concreto ha poche prospettive di trovare attuazione. Inoltre le forze governative, sostenute da Mosca, considerati i recenti successi bellici, potrebbero essere meno disponibili a cedimenti di sovranità. Il processo di pace è complicato anche da concomitanti eventi che rilevano a livello geopolitico e regionale, come l’offensiva turca contro i curdi. La partita quindi resta ancora aperta: le ambizioni della Russia di raggiungere nel recente incontro a Sochi un accordo definitivo non si sono realizzate. Roberto Rapaccini
Rifugiati siriani (1 marzo 2018)
Il conflitto in Siria che a marzo entrerà
nel suo ottavo anno, ha creato una delle maggiori crisi umanitarie del nostro
tempo. Al momento si contano più di 465.000 vittime e oltre un milione di feriti; almeno
12 milioni di siriani - metà della popolazione ‘prebellica’ del Paese - sono morti
o sono stati costretti a fuggire dalle proprie case. Libano, Turchia e Giordania ospitano la maggior parte
dei rifugiati, molti dei quali tentano di partire per l'Europa in cerca di migliori
condizioni di vita. Per la Convenzione di Ginevra del 1951 è rifugiato “…chiunque nel
giustificato timore d'essere perseguitato per ragioni di razza,
religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o
per opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la
cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di
detto Stato…”. Secondo i rapporti di alcune
agenzie umanitarie nel 2017 sono tornati in Siria 66.000 siriani: con gran
parte del Paese in rovina ed una popolazione disperata e traumatizzata la
ricostruzione nella fase postbellica sarà un processo lungo e difficile. Questa crisi
umanitaria nei Paesi europei è spesso oggetto di strumentalizzazioni politiche.
I rifugiati dovrebbero essere distinti dalla più generica e problematica
categoria degli immigrati clandestini. Si tratta di persone, di uomini, donne e
famiglie che fuggono da genocidi o da scenari di guerra (in alcuni casi da morte
quasi certa). E’ innegabile che l’attuale flusso migratorio
verso l’Europa porti con sé importanti problematiche. Sono questioni, tuttavia,
che si deve avere il coraggio di
affrontare senza ricorrere ad affrettate e comode opposte soluzioni radicali. In
termini concreti è ingiustificato sia un
generale accoglimento di immigrati come il loro indiscriminato respingimento.
Le polarizzazioni ideologiche verso
posizioni estreme in questo caso allontanano da soluzioni ragionevoli. La
solidarietà, che va contemperata con concorrenti esigenze sociali e di
sicurezza, è una componente della civiltà occidentale e trova fondamento nelle
sue radici giudaico cristiane. Dice un proverbio africano, lo straniero è un fratello che non hai mai incontrato. RR
LE
PROSSIME ELEZIONI EGIZIANE E I CRISTIANI COPTI (Su L’Azione del 2/3/2018)
Le
vicende dell’Egitto vanno seguite con attenzione: l’esperienza storica ha
spesso dimostrato che tutto quello che avviene in quel Paese, epicentro del
mondo arabo, poi si diffonde nel resto della regione. La Primavera araba, punta
avanzata della crisi dell’Islam politico, ebbe inizio in Tunisia, ma dopo la
rivolta egiziana del 2011 cominciò ad interessare con effetto domino gli altri
Stati. A fine marzo si svolgeranno le
elezioni presidenziali che porteranno con molta probabilità al conferimento di
un nuovo mandato al gen. Al-Sisi (forse sarà sufficiente il primo turno). Il
leader non sembra avere rivali: con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale gli
sfidanti o hanno abbandonato la candidatura spontaneamente o sono stati in
qualche modo obbligati a farlo. La società civile, dopo i disordini degli anni
passati, teme una destabilizzazione: questo timore spinge ad optare per la
continuità dell’attuale governo che, nonostante la mancanza di democrazia e le
insufficienti riforme economiche, garantisce sicurezza e stabilità. L’affermazione di Al-Sisi viene vista con
favore dai circa 8 milioni di cristiani–copti, ovvero il 10% della popolazione.
Questa minoranza, vittima di violenti attacchi jihadisti, si sente da sempre protetta dai regimi militari che fin
dai tempi di Nasser con il loro indirizzo laico hanno consentito alla comunità
cristiano-copta di integrarsi nella vita del Paese. Il
buon rapporto fra il regime e i copti si fonda su un reciproco riconoscimento
di leadership, quella spirituale del patriarca e quella politica del presidente.
Per questo presumibilmente i copti appoggeranno la rielezione di Al-Sisi. RR
LA MINACCIA DELLA MAFIA NIGERIANA (su L’Azione del 23/2/2018)
L’omicidio
a Macerata di una ragazza tossicodipendente ha dato spazio nei mass media alla preoccupante presenza sul
nostro territorio di gruppi di presunti appartenenti alla mafia nigeriana. Il
fenomeno non è recente. Da anni questa consorteria ha superato i confini
africani per gestire in Paesi europei ed extraeuropei attività collegate allo
sfruttamento della prostituzione, all’immigrazione clandestina, al narcotraffico,
costituendo una delle più pericolose reti delinquenziali del mondo. La mafia
nigeriana è un sistema, non un’unica struttura: è caratterizzata da singole
bande reciprocamente indipendenti o specializzate in segmenti di un’attività
criminale. Come analoghe organizzazioni, la mafia nigeriana si avvale di
rituali esoterici per l’affiliazione di nuovi elementi e per imprimere ai delitti
un marchio di appartenenza. È noto che dopo la consumazione di alcuni omicidi i
corpi sono stati smembrati e sono
seguiti atti di cannibalismo (soprattutto relativi ad organi, in particolare
cuore e fegato, ritenuti fonti di coraggio ed energia) con finalità magiche e
propiziatorie. La ritualità mafiosa – il cui valore simbolico è particolarmente
utile per impressionare persone di bassa cultura meno sensibili alla
comunicazione dialettica - serve a rafforzare i vincoli associativi fra gli
affiliati che, in questo modo, si sentono destinatari del privilegio di far parte
di una comunità di iniziati. La ritualità delle mafie generalmente si ispira al
contesto etnico-culturale di provenienza. Pertanto, come la mafia italiana si
avvale del presunto avallo di una malintesa religiosità cristiana (con uso di
santini in cerimoniali nei quali sacro e
profano si contaminano reciprocamente), così la mafia nigeriana fa ricorso a riti
voodo e a superstizioni tribali, che
in alcuni reati, come la tratta di esseri umani, esercitano anche una potente
suggestione sulle vittime, strumentale al loro assoggettamento. RR
LA
CIRCOLAZIONE DELLE ARMI NEGLI STATI UNITI (su L'Azione del 17/2/2018)
Qualche
giorno fa, a Parkland, in Florida, negli Usa, c’è stata l’ennesima strage in un
liceo. Un giovane squilibrato, ex studente della scuola, ha fatto irruzione
nell’edificio armato con un fucile ed ha aperto il fuoco uccidendo 17 persone e
ferendone più di 50. È tornata attuale la questione delle libera circolazione negli
Usa delle armi da fuoco automatiche e semiautomatiche. In casi come questo le
lobby dei produttori hanno sempre precisato che non è opportuno affrontare il
problema emotivamente, cioè a caldo dopo
una sparatoria. Tuttavia, da questo punto di vista è difficile trovare il
momento giusto: negli Usa infatti le sparatorie con un numero di vittime pari o
superiore a 4 (questo elemento convenzionalmente in termini giornalistici
definisce la strage di massa) sono
quasi quotidiane. Da sondaggi risulta che negli Usa la percentuale dei contrari
alla libera vendita e detenzione di armi e quella dei favorevoli più o meno si
equivalgono; una piccola minoranza dichiara invece di volere leggi ancora più
permissive. Quando viene proposta una normativa più restrittiva, i politici e
le lobby dei produttori ricorrono al Secondo Emendamento della Costituzione
degli Stati Uniti, che dice che….essendo necessaria alla sicurezza di uno
Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di detenere
e portare armi non potrà essere infranto. Si dovrebbe precisare che la disposizione normativa risale al 1791 ed
è quindi lontana dal contesto attuale. Alla cosiddetta sindrome da Far West probabilmente non sono estranee esigenze di
autodifesa che, fuori dagli aggregati urbani, in quel Paese sono
particolarmente sentite: qui, infatti, a causa della vastità del territorio, le
case sono spesso isolate e molto distanti l’una dall’altra e, in caso di
emergenza, l’intervento della polizia non sempre può essere tempestivo. Sembra
trovare applicazione il principio citato nel film Una vita al massimo ovvero
che è meglio avere una
pistola e non averne bisogno, che non averla e averne bisogno. In linea di
massima negli Stati Uniti chi ha più di 21 anni può acquistare una pistola, mentre i
maggiori di 18 anni possono detenere un fucile a canna liscia. È sufficiente un
documento di identità: il venditore registra i dati dell’acquirente e li
associa all’arma; chi fa uso di stupefacenti o di particolari farmaci e gli
stranieri non possono acquistare o possedere armki. Gli Stati Uniti detengono
in occidente il triste record del maggior numero di decessi causati da armi da
fuoco. Da un punto di vista politico i produttori e i possessori di armi sono
rappresentati da lobby potenti che, avendo generalmente come riferimento
esponenti del Partito Repubblicano, cercano di influenzare le decisioni del
Congresso. RR
MORIRE PER UCCIDERE
A sedici anni dall’attentato
alle Torri gemelle il tema del terrorismo suicida continua ad essere di
particolare interesse. Esistono dei motivi forti che spingono un giovane islamico,
manipolato da predicatori più anziani, a scegliere di morire per ideali religiosi,
che nell’Islam hanno anche la funzione di collanti ideologici e politici. Diversamente
da quello cristiano il martirio islamico non si limita al sacrificio passivo di
sé stesso ma richiede iniziative per sopprimere
i presunti infedeli: la vocazione ad
immolarsi si fonde con quella omicida, la volontà di uccidere si unisce a quella di morire. Il martirio è un’attrattiva
perché consente la santificazione, cioè il diritto di entrare in
Paradiso con i privilegi che competono agli eroi della Jihad. L’importanza della morte è tale che, se l’attentatore sopravvive, la
missione può paradossalmente ritenersi fallita. Un altro dato da considerare è
la tenera età degli attentatori suicidi. I giovani, disorientati dal vuoto
etico cioè dall’assenza di valori di riferimento, essendo alla ricerca di
un’identità definita, sono vulnerabili alla propaganda jihadista, e ne subiscono la seduzione. Nell’atto suicida c’è
inoltre una componente narcisistica che predispone alla rinuncia della propria
vita: l’iniziativa terroristica trasforma un ordinario individuo in un angelo
vendicatore che godrà della gloria di una fama postuma. La sacralità rituale
che precede l’atto suicida, ben descritta nel film Paradise Now, attribuisce un duraturo protagonismo ad individui
educati nell’indifferenza, ed appaga un desiderio di affermazione e di autorealizzazione.
Da questo punto di vista quindi l’opzione suicida costituisce il compenso ad
una frustrazione piuttosto che fondarsi un richiamo religioso. Già nella
seconda metà dell’800, Dostoevskij scriveva che ….gli uomini
rifiutano i profeti e li uccidono. Ma adorano i martiri e onorano coloro che
hanno ucciso. RR
MALDIVE, DA PARADISO A INFERNO (su L’Azione del 16/2/2018)
MALDIVE, DA PARADISO A INFERNO (su L’Azione del 16/2/2018)
Siamo
abituati a considerare le Maldive una specie di Paradiso in terra, il mare è
uno splendido acquario, i cieli sono azzurri, la gente locale si mostra
bendisposta, premurosa, contenta di averci come ospiti. Il tempo scorre lento e
tranquillo, mentre per noi sono normali ritmi convulsi e frenetici. Quel mondo
sembra incredibilmente lontano dalla
nostra civiltà, soprattutto dalle immagini di guerra, di sangue e di attentati,
con le quali quotidianamente conviviamo. Non è così. In questi giorni nel Paese
è scoppiata una guerra civile di vaste proporzioni, che ha la sua origine
negli irriducibili contrasti fra il
governo e l’opposizione. Tutto questo sta avvenendo nella capitale Malè,
lontano dal contesto artificioso dei villaggi turistici ospitati in centinaia
di isolette sparse nell’Oceano Indiano.
I travagli che sta vivendo il Paese non sono una sorpresa. Da molti anni fuori
dai resort la Repubblica delle
Maldive, un Paese islamico nel quale vige una rigida applicazione della legge
coranica, è uno Stato insicuro. La
corruzione, la violenza, la criminalità, i traffici illegali sono fuori
controllo. La povertà, la miseria e le differenze sociali sono mali endemici.
Nell’arcipelago abitano 350 mila persone, per lo più musulmani di confessione
sunnita salafita, molti dei quali stanno subendo un processo di
radicalizzazione. In rapporto alla popolazione le Maldive sono il Paese
islamico che ha fornito il maggior numero di foreign fighter. Nonostante questo, forse a causa delle distanze
dalla capitale e dall’isolamento, le strutture turistiche non sono state mai
oggetto di attentati. I turisti generalmente non si rendono conto delle
difficili condizioni del Paese, perché al loro arrivo a Malè vengono subito
prelevati e portati a destinazione. Forse
e in maniera paradossale si realizza in un certo senso la profezia di Maometto:
il paradiso è all’ombra delle spade. RR
Afghanistan: Mujaheddin, Talebani, stato islamico
(9/2/2018)
L’Afghanistan con le sue vicende internazionali è al
centro della jihad globale, ovvero è spesso una specie di trincea avanzata del
fondamentalismo violento sunnita. In proposito in questi anni si sono consumate
anche cruente guerre infra-islamiste, come
l’attuale conflitto fra i Talebani, originariamente provenienti da gruppi di Mujaheddin,
e lo Stato islamico. Con il generico termine di Mujaheddin si indicavano i
militanti della guerriglia islamica attivi soprattutto nell’Asia centrale. Il
termine ebbe notorietà nel corso della guerra russo-afghana (1979-89) durante
la quale i Mujaheddin, sostenuti da
Stati Uniti, Pakistan e Arabia Saudita, contrastarono l’intervento militare
sovietico favorevole al governo progressista afghano. Alla fine della guerra, i
Mujaheddin afghani (da distinguere da quelli iracheni e da quelli iraniani) si
divisero in due componenti, l’Alleanza del Nord e i Talebani. I Talebani,
vincitori nel 1995-6 della guerra civile afghana
successiva al ritiro dell’URSS, dopo aver conquistato il potere, imposero un
regime teocratico basato sulla rigida applicazione della legge coranica.
Rovesciati nel 2001 da una coalizione occidentale per i legami con Al Qaeda e
con l’eversione di matrice islamista, continuarono a svolgere attività
terroristica e di guerriglia. Dal 2015 i talebani ripresero a guadagnare
terreno con l’obiettivo di contrastare anche il concorrente potere dello Stato
Islamico all’interno della galassia jihadista.
I miliziani dello Stato Islamico, presenti in Afghanistan dal 2014, erano
confinati nel gruppo Islamic
State–Khorasan Province (nel sud
est del Paese). Inizialmente lontani dai principali centri abitati, progressivamente
aumentarono la loro influenza nel Paese fino ad attuare sistematici attentati
nella capitale Kabul. Il Califfato, infatti, dopo
aver perso una parte rilevante del proprio territorio in Iraq e Siria, cercava
di affermarsi negli Stati, come l’Afghanistan, che avevano una
stabilità precaria. Diversamente l’obiettivo dei Talebani - alleati
con importanti gruppi jihadisti estremisti come la rete
Haqqani particolarmente vicina ad Al Qaeda (e forse ai Servizi Segreti pakistani)
- era quello di minare la stabilità del governo afghano filo-occidentale,
compiendo attentati continui e costanti contro la popolazione civile, creando quindi
instabilità e caos. Si perseguivano così i fini di indebolire le istituzioni governative
e di scoraggiare le forze esterne a proseguire il loro impegno militare. In proposito
ci si riferisce soprattutto all’accresciuta
presenza americana in Afghanistan decisa dall’amministrazione Obama e
confermata da quella di Trump, anche se sembra che la lotta al jihadismo non sia più attualmente una priorità
degli USA dal momento che si attribuisce sempre più rilievo alla competizione geopolitica
e finanziaria con Cina e Russia. Le iniziative eversive violente probabilmente
si sono intensificate anche a causa di un conflitto, non sempre latente, fra Talebani,
Al Qaeda e Stato Islamico per la supremazia nel mondo jihadista violento, che si afferma attraverso la capacità di
imporre il terrore e la relativa propaganda. Le questioni politiche si
combinano con gli affari illeciti: i profitti della gestione del traffico di
droga frutta ai Talebani ingenti somme con le quali viene finanziato l’acquisto
di armi. Questi traffici sono ora
insidiati dall’Isis, che inoltre fa proselitismo e recluta militanti fra
i Talebani, allettati da un migliore compenso economico. L’Isis si potenzia
mentre i Talebani si indeboliscono: anche questa contingenza si traduce in un
motivo di reciproca avversione e diffidenza. Ulteriore causa di divisione è l’ottica
strategica che riguarda il proselitismo violento per l’imposizione della
Sharia: i Talebani sono nazionalisti e pertanto limitano la loro attenzione alle
vicende del proprio Paese. Diversamente lo Stato Islamico non è interessato a
confini nazionali, ma coltiva l’ambizione di estendere il Califfato quanto più
possibile. Gli interessi religiosi inoltre in questa regione sono recessivi rispetto
a quelli militari e strategici: l'Iran
sciita supporta i Talebani sunniti con l'obiettivo di mantenere debole il
vicino governo afghano. Purtroppo non sembrano esserci al momento prospettive
di pace per questa disgraziata area: nessuno degli attori di questo sanguinario
scenario di guerra ha attualmente la forza per imporsi sugli altri. Accanto
alla storia fatta asetticamente dalle vicende dello Stato afghano, ci sono le
sofferenze della gente comune alla quale è stata espropriata la possibilità di crescere
e di vivere in pace e in serenità la
normalità della vita quotidiana. Lo scrittore Khaled Hosseini nel romanzo ‘Il
cacciatore di aquiloni’ con una bella frase intensamente lapidaria descrive
bene questa condizione: “In Afghanistan ci sono
tanti bambini, ma non esiste più l'infanzia”. In un documentario, ‘La
vita in un giorno, un afghano dice: “Quando esco di casa al mattino, non
sono sicuro che tornerò a casa sano e salvo. Nessun afghano si aspetta di
tornare a casa sano e salvo”. RR
LA NUOVA STAGIONE TERRORISTICA IN AFGHANISTAN (29/1/2918)
Un
nuovo atto terroristico si è verificato a Kabul oggi 29 gennaio presso un’accademia
militare dove un commando di cinque uomini ha ingaggiato uno scontro a fuoco
con i soldati. L'azione terroristica - il cui primo bilancio è superiore ad una
decina di morti - è stata rivendicata dall'Isis. La capitale dell’Afghanistan
continua ad essere teatro di gravi attentati dopo l’esplosione dell’autobomba
del 27 gennaio scorso che ha causato la morte di più di cento persone: questo
sanguinoso progetto criminoso è stato attuato da un gruppo di militanti
talebani. L’Afghanistan acquistò la piena indipendenza dal Regno Unito nel 1919
a seguito della conclusione della terza guerra anglo-afghana. Dopo un
affrettato tentativo di occidentalizzazione, dagli anni ‘30 agli anni ‘70 si
sono avvicendati regimi che hanno continuato una prudente modernizzazione del
Paese. La Costituzione del 1964 avrebbe dovuto istituire una democrazia
parlamentare, ma i contrasti tra le forze politiche ne impedirono l’attuazione.
Nel 1973 ci fu un colpo di Stato di militari ispirato da esigenze di riforma
che tuttavia rimasero disattese. Nel 1978 un nuovo colpo di Stato portò al
potere il segretario del Partito comunista; il nuovo regime era fortemente
osteggiato dai ceti islamici tradizionalisti e combattuto da una guerriglia da essi alimentata. Questa
situazione di confusione istituzionale motivò l’intervento militare sovietico nel 1979, a seguito del quale fu nominato
primo ministro B. Karmal. Questo governo non ottenne il riconoscimento
internazionale: l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite votò a larga
maggioranza una risoluzione che deplorava fortemente le iniziative dei militari
sovietici chiedendone il ritiro. Le gravi perdite subite a seguito delle
veementi azioni di guerriglia dei mujaheddin, inquadrati su base etnica e
territoriale, e l’isolamento internazionale nel quale venne a trovarsi l’URSS,
determinarono il graduale disimpegno sovietico, che si concluse nel febbraio
del 1989. Dopo alcuni anni di guerra civile e di incerte condizioni di anarchia,
nel 1996 Kabul cadde in mano ai talebani, che imposero misure radicali mutuate
da una letterale e dogmatica applicazione della Sharia. Il regime talebano, reo
di aver favorito la latitanza di Osama Bin Laden, venne rovesciato nel 2001 a
seguito di pesanti bombardamenti da parte dell’aviazione angloamericana.
La conferenza di Bonn convocata nel dicembre del 2001 stabilì l’avvio di un
processo di ricostruzione politica del Paese, che si sarebbe dovuto iniziare
con l’adozione di una nuova Costituzione. Nel dicembre 2004, Hamid Karzai,
gradito al governo statunitense, divenne il primo presidente dell'Afghanistan eletto
democraticamente. Dopo un secondo mandato, la presidenza di Karzai si
concluse nel 2014. Le successive travagliate e controverse elezioni
presidenziali del 2014, gravate da accuse di brogli, decretarono l’avvento
della presidenza, tuttora in atto, di Ashraf Ghani. Come provano le recenti
azioni terroristiche il Paese, politicamente instabile, è ostaggio dell’incombente
presenza clandestina talebana ed è minacciato dalle iniziative dei militanti di
gruppi fondamentalisti islamici. RR
LA RICCHEZZA DI POCHI, LA POVERTA’ DI MOLTI (Su L’Azione del 2/2/2018)
Alla vigilia
del vertice di Davos (23-26 gennaio), l'annuale Forum
economico mondiale cui partecipano esponenti di primo piano
della politica e dell'economia internazionale, convocato per
discutere delle questioni più urgenti che il mondo si trova ad affrontare, è stato diffuso il rapporto annuale dell’Oxfam, un’associazione internazionale che
si occupa di misure per ridurre la povertà globale. È emerso un
quadro inquietante. L'1% della
popolazione mondiale detiene più ricchezza del restante 99%. Il rapporto
precisa che 42
persone possiedono la stessa ricchezza dei rimanenti 3,7 miliardi. Inoltre, l'82% dell'incremento
della ricchezza globale, registrata nel 2017, e' stata appannaggio dell'1%
della popolazione mondiale mentre il 50% non ha beneficiato di nessun
incremento. La
ricchezza dei miliardari è
legata molto più a posizioni di rendita, al monopolio e al clientelismo, che
alla fatica del lavoro. La
situazione va peggiorando dal momento che 7 cittadini su 10 vivono in un Paese
in cui la disuguaglianza e' aumentata negli ultimi 30 anni. La povertà è in
costante aumento e rende intollerabili queste sperequazioni sociali ed
economiche alle quali finora siamo stati supinamente abituati. Non dobbiamo
dimenticare che dietro questi numeri, così freddi e anonimi, ci sono persone, ovvero
delinquenti, trafficanti di droga e di armi, ricchi industriali, pluripagati fenomeni
dello sport e dello spettacolo, artisti, e tanta gente comune. In altri termini
il lavoro pericoloso e scarsamente pagato della maggioranza
della popolazione mondiale alimenta l’estrema ricchezza di pochi. La disuguaglianza sociale spinge
il gruppo dominante a sostenere la gerarchia esistente con ogni mezzo, anche
violento, per proteggere il proprio status. Tutto questo provoca un
consolidamento delle disuguaglianze. RR
LE EVOLUZIONI DEL
PENSIERO ARABO (su L'Azione del 26 gennaio 2018)
Il sito Global Influence ogni anno sulla
base di analisi compiute su media e social network arabi anche attraverso uno
specifico software individua i leader che maggiormente influenzano l’opinione
pubblica e ne determinano le aspettative. È una ricognizione importante perché
consente di conoscere i temi di particolare rilievo che si dibattono
pubblicamente nei Paesi di lingua araba. Nello scorso anno in questa speciale
classifica i primi tre posti erano occupati da teologi islamici. Quest’anno il
primo religioso ‘influente’ si trova al VII posto (i successivi sono al X e al
XII), mentre le prime posizioni sono occupate da poeti, da scrittori, da giornalisti,
e anche da attivisti per i diritti umani. Pertanto, sebbene la materia religiosa
continui ad avere un ruolo centrale, si è registrato attualmente un crescente
interesse per i punti di vista degli intellettuali laici. Questi dati sono
segnali che indicano che è in atto un’evoluzione culturale in senso laico. Nel
mondo musulmano, in relazione al monopolio ideologico religioso e al suo
carattere invasivo, il termine laico non è facilmente compreso e ad esso viene
frequentemente attribuito il significato di ateo. Nella storia dei Paesi arabi
è mancato un movimento analogo al nostro Illuminismo, che, oltre a stabilire il
primato della ragione per orientare le evoluzioni della società civile, ha
stabilito con chiarezza le relazioni fra religione e politica,
condizione essenziale per lo sviluppo di principi quali la tolleranza,
l’uguaglianza, il rispetto della libertà di pensiero, nonché la libertà di
culto. RR
LA GUERRA PER IL COLTAN (Su L’Azione del 19 gennaio 2018)
Con
il termine Coltan si intende un minerale che fra i suoi elementi costitutivi ha
il tantalio, un conduttore di elettricità dalle qualità eccezionali, prezioso
in quanto è indispensabile per realizzare componenti per dispositivi quali
telefonini, computer portatili, videocamere e videogiochi. Conseguentemente
questo minerale è diventato particolarmente ricercato e prezioso. Le maggiori miniere di Coltan si trovano in Australia
e in alcune regioni del Centro Africa. In proposito la corsa per
l’accaparramento di questo minerale e delle
immense ricchezze custodite nel sottosuolo è tra le cause delle recenti
sanguinose guerre fra la Repubblica Democratica del Congo e i confinanti stati
del Ruanda, dell’Uganda e del Burundi, e
inoltre ha originato una serie di microconflitti locali. Tutto questo,
naturalmente, in difesa di interessi che non coincidono affatto con quelli
della popolazione, ma piuttosto con quelli di altri Stati stranieri, o di
multinazionali dell'industria estrattiva, che fomentano e finanziano gruppi di
mercenari. Queste infinite vicende belliche hanno
prodotto milioni di morti e sfollati, e hanno causato un disastro umanitario
senza precedenti. Sullo sfondo gli interessi di multinazionali che, per
perseguire i propri interessi, influiscono su equilibri politici ed economici.
L’indipendenza degli Stati africani di fatto resta solo formale: costituisce un
alibi per il perpetuarsi delle politiche di sfruttamento neocoloniale non solo di
Paesi capitalistici e industrializzati, ma anche da parte delle nuove potenze
economiche emergenti nel XXI secolo. RR
COSA PENSANO I
MUSULMANI? CHI PUO’ PARLARE PER LORO – 2. Sunniti e Sciiti (23-12-2017)
I divergenti punti
di vista nella valutazione dell’Islam, soprattutto per quanto riguarda il grado
di tolleranza dei fedeli nei confronti di altre realtà religiose o che si evidenziano
nelle differenti opinioni sulla sua pericolosità per il possibile ricorso alla
violenza come strumento di affermazione e di espansione della fede musulmana,
sono la conseguenza non solo di ambiguità contenute nei testi sacri, ma anche
della disomogeneità di questa religione. Il suo carattere aggressivo viene
enfatizzato nei media occidentali attraverso un ampio ricorso al termine jihad. Jihad correntemente viene tradotto guerra santa. Jihad in
arabo vuol dire sforzo ed è seguito spesso dall’espressione fi sabil Allah, cioè lungo il sentiero di Dio: pertanto, al
termine jihad dovrebbe essere
attribuito il significato di lotta interiore. L’Islam è spesso considerato una
monade dai tratti definiti. Innanzitutto manca un’autorità capace di esprimere
una posizione ufficiale su ogni specifica questione. (questa caratteristica
riguarda l’Islam di professione sunnita, l’80/90 % circa del mondo musulmano).
Nell’Islam convivono tante confessioni, come
avviene nel Cristianesimo. I fatti che hanno dato origine alla
scissione fra
Sunniti e Sciiti risalgono al periodo di poco posteriore
alla morte di Maometto; emerse un contrasto sui criteri per l’individuazione
del califfo, ovvero del successore del Profeta,
che avrebbe dovuto assumere il ruolo di capo politico e spirituale della
comunità musulmana. Per gli Sciiti, poiché Maometto non aveva figli maschi, il
primo successore andava individuato in Alì, cugino e genero del Profeta, che
sposò la figlia Fatima; in questo modo, la successione si sarebbe attuata
all’interno della discendenza del Profeta. Per i Sunniti era invece necessario
individuare il califfo mediante un’investitura che sarebbe dovuta provenire
dalla comunità dei fedeli, riconosciuta come una vera autorità religiosa. Il principio di autodeterminazione
della comunità dei fedeli si fa risalire all’affermazione di Maometto: “La
comunità dei credenti non si accorderà mai su un errore”. Attualmente
la differenza fondamentale fra queste due principali
componenti dell’Islam riguarda l’esistenza e il ruolo della gerarchia religiosa. Il Paese
più grande nel quale gli Sciiti sono al potere è l’Iran. La
rivoluzione del 1978, che trasformò la monarchia persiana in una
repubblica islamica, fu guidata dalle autorità religiose, fra le
quali ebbe particolare rilievo l’ayatollah Khomeini. Gli ayatollah sono le
guide spirituali dei fedeli sciiti iraniani: si tratta di un vero e proprio
clero. La Repubblica Islamica Iraniana è di fatto una teocrazia. In altri
Paesi, come il Bahrain, nonostante la maggioranza della popolazione sia
sciita, è al potere la minoranza sunnita. Per quanto riguarda i fondamenti della fede,
fra Sciiti e Sunniti non ci sono rilevanti differenze. La divisione fra Sciiti
e Sunniti non è la sola: il mondo musulmano è caratterizzato da molte altre
frammentazioni. Nella deriva fondamentalista e antioccidentale di alcuni Stati
arabi hanno avuto notevole influsso il movimento wahabita e quello salafita,
che promuovono un ritorno all’Islam delle origini. Il termine wahabita deriva da Muhammad bin Abd
al-Wahhab, vissuto all’inizio del XVIII secolo, alleato di Muhammad bin Saud,
principe di un’oasi della regione del Neged, capostipite della dinastia che nel
XX secolo unificherà l’Arabia e che tuttora governa il Paese. Punto
fondamentale della dottrina wahabita è
l’affermazione del tawhid, ovvero
l’assoluta unità di Dio e la lotta
con ogni mezzo contro tutte le forme di culto devianti o atipiche. Il buon
governo è adeguamento della prassi
politica e giuridica ai fondamentali principi della Sharia, che, con rigore, deve regolare ogni comportamento umano.
Per questo la dottrina wahabita
manifesta una radicale ostilità nei confronti di quei governi che si
allontanano dalla via tracciata dal Corano: non c’è spazio per forme di
legittimità democratica di tipo occidentale in quanto l’unica legittimità viene
dal letterale rispetto della legge divina. Il wahabismo ha sempre goduto del sostegno finanziario dei potentati
sauditi; oltre a quello dei regnanti sauditi,. È contraddittorio che l’Arabia Saudita, nonostante sia uno Stato nel quale la dottrina
wahabita,
contraria alle seduzioni del mondo occidentale, sia particolarmente
radicata, abbia sempre mantenuto ottimi rapporti politici e d’affari
con gli Stati Uniti. Analoghe posizioni anti-occidentali e di rifiuto di
qualsiasi modernità si riscontrano nel movimento salafita. Il salafismo
prende il nome dal termine arabo salaf al
ṣaliḥīn (i pii antenati) che identifica le prime tre generazioni dei
musulmani. Anche il Salafismo è di professione sunnita; il movimento fu fondato
dall’egiziano Rashid Rida verso la fine
dell’Ottocento. RR
Cosa pensano i Musulmani? Chi può parlare per loro? – 1.Introduzione (18-12-2017)
Uno dei
temi più dibattuti quando si valuta la contrapposizione fra mondo occidentale e
Islam (pur considerato in tutte le sue varianti) riguarda l’individuazione degli
atteggiamenti e dei modi di pensare dominanti all’interno delle società islamiche.
Naturalmente devono essere tenute al di fuori di questo scenario le
manifestazioni del fondamentalismo violento che alimentano le derive
terroristiche: le relative notizie, come tutte le altre che esulino dalla
normalità, occupano ampio spazio nei mass
media e quindi influenzano in maniera non obiettiva i messaggi che emergono
dal mondo musulmano. Anche se non si aderisce alla visione dello scontro di
civiltà fra Islam e Occidente corollario delle tesi proposte dal politologo americano
Huntington[1],
è indubbio che il vasto, complesso e diversificato universo musulmano sia
caratterizzato da elementi di conflittualità con la società occidentale, strutturata
sulla tradizione illuminista in tema di laicità e di tutela di libertà e
diritti. Tanto premesso, ci si chiede se negli ambienti musulmani prevalgano
pensieri estremisti o la moderazione; in altri termini ci si domanda in che
cosa credano la maggioranza dei musulmani. Dai contesti islamici non provengono
segnali omogenei. È noto il vergognoso episodio avvenuto nel novembre del 2015
prima della partita amichevole tra Turchia e Grecia in occasione della quale
una frangia di tifosi turchi presenti allo stadio di Istanbul ha fischiato e
urlato ‘Allah Akbar’ durante il minuto di silenzio osservato per le vittime
degli attentati di Parigi avvenuti qualche giorno prima[2].
Nello stesso tempo in quei giorni però numerose comunità islamiche hanno
manifestato per condannare quella strage. Il nome delle
manifestazioni, Not in my name, derivava da una
campagna lanciata dopo l'attentato alla redazione del settimanale
francese Charlie Hebdo[3]. Not in my name equivaleva a
dire: il mio Islam non è questo. Anche nelle reazioni dopo i fatti dell’11 settembre
2001 sono emersi atteggiamenti non univoci: in alcuni casi le comunità
islamiche hanno preso le distanze da questo grave atto, in altri si è assistito a una significativa
indifferenza o a veri e propri festeggiamenti in luoghi pubblici (i mass
media hanno diffuso immagini di gente in festa provenienti da Gerusalemme
Est, da Nablus e dal Libano): questi esternazioni
hanno fatto dubitare che l’Islam in concreto sia una religione di pace. Le
maggiori istituzioni islamiche hanno diffuso invece dichiarazioni di ferma
condanna. A questo quadro va aggiunta l’esistenza di una maggioranza silenziosa
di musulmani che integra le comunità che vivono in Europa. Premesso che ogni
situazione andrebbe valutata specificamente, rimane il dubbio circa la natura
di questo atteggiamento passivo, ovvero se l’assenza di reazione alla notizia
di fatti terroristici equivalga ad una reale dissociazione, o a una scelta di
convenienza dettata da esigenze pratiche di convivenza, o ad un tacito assenso. Il combinato
disposto delle politiche di integrazione con il monitoraggio dell’intelligence svolgono una funzione
importante al fine di evitare le suggestioni della propaganda jihadista. In questo contesto va
considerata l’iniziativa delle
istituzioni tedesche di creare nelle proprie università delle facoltà di
Teologia islamica per formare chi pronuncerà i sermoni nelle moschee locali. RR
LA POSIZIONE DI TRUMP SU GERUSALEMME (11-12-2017)
Ha suscitato scalpore la decisione del presidente
USA di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Al di là delle ovvie
reazione di censura o di plauso a seconda dei punti vista, è opportuno
chiedersi come siano cambiati gli equilibri geopolitici. Come primo effetto è
montata una palese ostilità di tutto il mondo arabo compatto nel manifestare la
propria avversione: conseguentemente gli
Stati Uniti potrebbero avere la necessità di rivedere la complessa politica nel
Golfo, ovvero in concreto potrebbe essere opportuno ridefinire l’equivoca alleanza
con la monarchia saudita e ripensare i
controversi rapporti con l’Iran, che cerca di accrescere la sua influenza nella
regione mediorientale. La risoluzione non riguarda solo il Medio Oriente, ma si
riflette su un universo più grande, innanzitutto sull’intero cosmo islamico,
più di un miliardo di persone. C’è di
positivo che la questione palestinese – la relativa trattativa stava vivendo da
anni un momento di stallo - ha riacquistato centralità nell’agenda
internazionale, un’importanza che aveva perso a seguito delle vicende siriane. Trump
ha cercato di ridimensionare questo passo, affermando che dal 1995 il Congresso
aveva impegnato il Governo a compiere questo riconoscimento; temporeggiare per
20 anni non aveva avuto effetti positivi. Il presidente USA, se da una parte ha
voluto dare un segno forte di appoggio ad Israele e alla politica di Netanyahu,
nello stesso tempo ha precisato che questo
gesto non equivale all’abbandono dell’impegno degli Stati Uniti per facilitare
un durevole accordo di pace. Gli Usa restano favorevoli alla soluzione ‘dei due
Stati’ non escludendo che una parte di Gerusalemme possa diventare la capitale
palestinese. Anche se utopistico, sarebbe auspicabile uno ‘status’ neutro di
Gerusalemme considerata la sua rilevanza per le tre religioni ‘del libro’
(ebraica, cristiana, musulmana). In conclusione, a parte i disordini che ne sono
seguiti, la portata della decisione di Trump, dagli effetti ambigui, forse va
ridimensionata. In questo caso avrebbe ragione chi ritiene che la
determinazione sia motivata dalla necessità del governo americano di accreditarsi
come imprescindibile attore internazionale dopo l’insuccesso siriano. RR
NELLA BREXIT SCENARI INESPLORATI E FALLIMENTI DELL’UNIONE (su L’Azione del 1 dicembre 2007)
Rientra nei poteri di uno Stato membro decidere di
ritirarsi dall'Unione Europea. La previsione in una disposizione del
Trattato esclude che per la procedura di recesso ci si possa avvalere di altre
azioni desunte dai principi del diritto internazionale. La Brexit, cioè il
ricorso britannico a questa clausola, è il naturale esito del referendum
consultivo del giugno 2016. I risultati, oltre a mostrare una spaccatura nel Paese giacché il voto
favorevole all’uscita ha ottenuto solo il 51,9%, hanno evidenziato gravi
problemi politici interni: gli elettori scozzesi infatti hanno votato con ampio
margine per la permanenza nell’UE. Nel marzo del 2017 con la presentazione della
relativa richiesta da parte del Governo britannico la procedura ha avuto inizio
ufficialmente. Da quel momento si è evidenziata la necessità di negoziazioni per
definire le regole della separazione e per delineare il quadro di riferimento
per i futuri rapporti fra Regno Unito e Unione Europea. L'art. 50 del Trattato prevede
che le prescrizioni comunitarie cessino di essere applicabili a decorrere dall’entrata
in vigore delle intese propedeutiche al recesso; in mancanza di un accordo gli
effetti dell'uscita si producono due anni dopo la notifica dell'istanza, salvo
che il Consiglio Europeo decida di prorogare tale termine. Il processo
strumentale alla Brexit ha avuto una pausa per le elezioni anticipate indette
dal governo britannico nella vana speranza di ottenere un più solido consenso
interno che potesse rafforzare la propria posizione politica in previsione
delle negoziazioni, riprese poi nel luglio 2017 e tuttora in corso. Alcuni
problemi pratici da risolvere. Sono 3 milioni i cittadini comunitari che
risiedono nel Regno Unito e che quindi dovranno ottenere una residenza
definitiva. Potrebbe essere previsto un periodo di permanenza di alcuni anni in
seguito al quale si potrebbe conseguire il diritto di cittadinanza. Sarà
sicuramente più complicato per i lavoratori e costoso per gli studenti
trasferirsi nelle sedi britanniche. Nel bilancio europeo dovranno essere
previste entrate che compensino l’apporto britannico. Anche la libera
circolazione delle merci dovrà essere oggetto di specifiche trattative. In
proposito è stato ipotizzato dalla stampa inglese che la Gran Bretagna possa
chiedere di entrare nel Nafta, il trattato di
libero scambio commerciale tra Stati Uniti, Canada e Messico. Si prospettano
problemi anche sul fronte interno. La Scozia, ora che il governo inglese
sarà libero dai vincoli di Bruxelles, potrebbe essere privata delle
innumerevoli competenze che la devolution del 1997 le aveva
attribuito. Perderà inoltre i fondi europei di cui finora ha largamente
beneficiato. Il confine fra Irlanda del Nord e Irlanda, oggetto quotidianamente
di un notevole passaggio di lavoratori, potrebbe eccezionalmente diventare una
zona di libero transito, una specie di piccola ‘area Schengen’. Siamo
sicuramente alla vigilia di cambiamenti epocali. L'Europa non si caratterizza
solo per la sua dimensione territoriale, ma come teatro di vicende che si
articolano in un comune contesto storico, culturale e politico. La 'Brexit'
apre scenari mai esplorati; è il prodotto di aspettative deluse, di un
malessere diffuso, di insuccessi imprevisti sui quali i 27 Paesi dovranno
riflettere congiuntamente. RR
COME ESSERE UNA SUPERMADRE PALESTINESE (su L’Azione del 24 novembre)
Il network qatariota Al Jazeera ha di recente pubblicato un
cortometraggio, How to be a Palestinian supermom, visibile anche su Youtube (https://youtu.be/T2G8tz0joQY), che mostra
con crudo realismo alcuni aspetti della vita ordinaria nei territori
palestinesi occupati (segnatamente Nabi Saleh, West Bank). In questo periodo esiste
in Israele una frattura fra i rappresentanti dell’etnia ebraica e di quella
palestinese e le rispettive basi popolari: alla rigidità delle istituzioni
governative israeliane (ma anche dei leader
palestinesi) corrispondono numerosi
segnali che provengono dalla società civile che esprimono il desiderio di una
normalizzazione della vita quotidiana, che ha come premessa la pacificazione. Tuttavia il tema del video
non è politico, ma è la de-umanizzazione
che si vive in queste difficili realtà. Con de-umanizzazione
si intende l’esclusione di individui o gruppi dalla società non solo
attraverso barriere fisiche ma anche con strategie psicologiche e sociali di delegittimazione,
o con azioni di propaganda mediatica atte a sminuire e rendere meno umana una
persona, cosicché la violenza su di essa possa essere più facilmente accettata.
Vivere nei territori occupati significa essere continuamente sottoposti a
controlli, non essere in grado di muoversi liberamente nella propria città,
mostrare per ogni spostamento un documento al soldato di turno sperando che non
sollevi problemi. Ancor più difficile - come mostra il video - è essere madre,
cioè proteggere i figli mantenendo integra la propria vocazione islamica e di
attivista. Essere madre nei territori occupati - si comprende dal video -
significa spiegare la vita ai propri figli che hanno avuto amici o familiari picchiati,
arrestati o in qualche caso uccisi dalla violenza etnica. RR
LACRISI DELL’ARABIA SAUDITA E IL TRAVAGLIO DEL LIBANO (pubblicato su L’Azione del 17 novembre 2017)
Il principe Mohamed Bin Salman, reggente dello Stato saudita ancora formalmente guidato dall’ultraottantenne padre, ha intrapreso una decisa azione per contrastare la corruzione. Nel corso dell’operazione sono stati arrestati miliardari, principi, ministri, membri della famiglia reale. Apparentemente si tratta di tentativi di cambiare il volto del Paese,cacciando corrotti e fondamentalisti wahabiti allo scopo di promuovere un Islam moderato. Questi provvedimenti giudiziari sarebbero propedeutici ad un progetto di moralizzazione finalizzato alla modernizzazione del Paese attraverso riforme radicali. In realtà queste clamorose iniziative sono articolazioni della lotta di potere in atto per la successione al trono: gli aspiranti sono più di una dozzina, e Salman sta cercando di liberarsi di scomodi pretendenti. L’attuale instabilità dell’Arabia Saudita conseguente all’attuale situazione istituzionale interna, oltre a preoccupare gli investitori, ha generato una grave crisi finanziaria causata dalla fuga dei capitali a rischio di congelamento da parte delle autorità. Nel contesto mediorientale l’Arabia Saudita sta vivendo un momento di difficoltà: di fatto ha perso la guerra in Siria, quella nello Yemen si è cronicizzata in un conflitto dagli esiti imprevedibili, la leadership regionale sunnita nell’area del Golfo è pericolosamente insidiata da quella sciita iraniana. Il tentativo di destabilizzare il Libano - che probabilmente è dietro alle strane dimissioni del primo ministro libanese Hariri mentre si trovava a Ryad - è quindi presumibilmente uno strumento della monarchia per riacquistare un ruolo internazionale di primo piano. ROBERTO RAPACCINI
FLUSSI
MIGRATORI ED ESPANSIONE DEMOGRAFICA MUSULMANA (su L’Azione del 10 novembre 2017)
Negli ultimi giorni sono giunti in Italia più di duemila migranti nonostante il progressivo calo dei flussi dalla Libia dopo che l’Italia ha stretto accordi con il governo di Fayez al-Sarraj. Molti di loro sono giovani convinti che l’Occidente, secondo l’immagine veicolata dai media e alimentata dai trafficanti (che per promuovere i loro affari hanno tutto l’interesse ad illudere i loro clienti), sia talmente ricco che basta arrivarci per fare fortuna. Questa convinzione si impone sui rischi del viaggio e sulla paura di morire prima di arrivare a destinazione. Negli ultimi due giorni oltre un migliaio di clandestini sono stati riportati a Tripoli e affidati alle agenzie internazionali che li accoglieranno e provvederanno al loro rimpatrio. Complessivamente gli sbarchi sono diminuiti sensibilmente (forse del 30%) rispetto allo stesso periodo di gennaio-ottobre del 2016. Il tema dell’immigrazione è strettamente connesso al timore di un’inesorabile espansione demografica delle etnie di religione islamica. Alcuni anni fa fu pubblicato in Rete ‘Muslim Demographics’, un cortometraggio di circa 7 minuti che diffondeva l’idea di un’Europa che presto sarebbe diventata musulmana a seguito della fertilità delle famiglie islamiche, sempre più numerose a causa dell’incremento dei flussi migratori. Il tasso di natalità delle famiglie islamiche è infatti intorno all’8 circa, mentre quello medio delle famiglie dell’area comunitaria oscilla fra 1,2 e 1,3. Tuttavia nel caso in questione questa tesi allarmistica, radicata esclusivamente sulla simulazione di situazioni future in base a dati estrapolati dal passato, presenta punti deboli. Innanzitutto a distanza di una generazione i modelli riproduttivi tra le popolazioni ospiti e quelle ospitanti convergono su medesimi valori; ovvero, se il vantaggio riproduttivo degli immigrati di prima generazione sugli autoctoni è sensibile, per le successive discendenze la differenza si riduce fino a essere vicina allo zero, poiché le due componenti generazionali tendono a crescere alla stessa velocità. Questo trend si comprende se si tiene presente uno scenario più ampio che considera l'incidenza concreta di fattori ‘esterni’ come l’influenza di modelli familiari occidentali, i matrimoni misti, l’istruzione scolastica, le ristrettezze economiche, le difficoltà occupazionali, cioè valutando gli effetti di componenti che determinano la discontinuità o la rottura con il passato. A conferma di quanto detto, in Francia nel periodo dal 1991 al 1998 il numero medio di figli nati da donne immigrate dal Maghreb era di 2,8 contro il 3,3 nei Paesi di origine; le percentuali di fertilità delle donne provenienti dal resto dell’Africa e di quelle di etnia asiatica erano rispettivamente di 2,9 e di 1,8 (contro il 5,9 e il 2,9 registrate nelle regioni di origine). Secondo le stime dell'autorevole agenzia Pew Center, poiché la popolazione musulmana è aumentata in Europa da 10,4 a 19,1 milioni tra il 1990 e il 2010 (in Italia da 0,8 a 1,5) con un tasso medio di incremento intorno al 3%, nel ventennio 2010-2030 i musulmani saliranno probabilmente a 30,2 milioni, con un incremento che scenderebbe a 1,5%. Potrebbe essere fondato quindi ritenere che l’incremento demografico della popolazione islamica si ridurrà gradualmente nel corso dei prossimi decenni. Sullo sfondo resta la sinistra profezia del defunto leader libico Gheddafi (pronunciata nell'aprile 2006): "Ci sono segni che Allah concederà la vittoria all’Islam in Europa, senza spade, senza armi, senza conquista.”RR
UNA SERATA COME TANTE (su L’Azione del 27 ottobre 2017)
Tra qualche giorno saranno cento anni
dalla dichiarazione di Balfour, un passo importante verso la fondazione dello
Stato di Israele. In occasioni come questa mi piace ricordare la serata di
alcuni anni fa, che mia moglie ha descritto in uno dei suoi racconti dal quale
ho estratto alcuni stralci, che esprimono
efficacemente il clima discreto nel quale vivono gli appartenenti alla comunità
israelitica a Roma, la riservata profondità dei loro reciproci rapporti, il
radicato legame con la loro patria ideale. Eravamo al Teatro dell’Opera, si
celebravano 25 anni dalla nascita di Israele. Al Ministero dell’Interno ho
lavorato in un ufficio che tra le sue competenze si occupava della sicurezza
delle sedi diplomatiche straniere in Italia. Da qui alcuni contatti con i collaterali
colleghi stranieri, anche israeliani. "... in quel periodo gli incarichi
di mio marito ci portavano spesso a Roma, ospiti di ambasciate, di spettacoli
teatrali, di cene al Grand Hotel. Stasera
si va al teatro dell'Opera ... in un
paio d'ore eravamo lì, pronti a trascorrere una serata come tante. Ma qualcosa
di profondamente diverso già mi colpì nella fila per entrare: così composta e ordinata.
Centinaia di persone silenziose che si salutavano con minimi cenni del capo.
Tutt'al più qualche sorriso. Sembrava si conoscessero tutti. Dopo aver esibito
gli inviti, un giovane, deferente, ci accompagnò ai nostri posti riservati... di
fronte al grande palco che si andava popolando di strumenti e di musicisti. Da qui non ci perderemo niente, pensai.
E così andò. Poco dopo iniziò la serata e solo allora appresi dalla voce
commossa e asciutta di Arnoldo Foà che si commemoravano i cinquant'anni della fondazione
dello Stato di Israele. Venivano proiettati stralci di filmati d'epoca:
testimonianze di vita vissuta, morte annunciata, sofferenza, disperazione e
speranza... ricordo la foto ingiallita di un gruppo di deportati. In primo
piano una bambina rinsecchita che per nulla aveva rinunciato alla sua innata
civetteria e davanti all'obiettivo sfoggiava il suo sorriso migliore. Chissà perché i bambini, davanti ad una
macchina fotografica, si mettono sempre in posa e sorridono! Il resto
furono cose note a tutti: ossa, cadaveri, divise a righe, occhiali, denti,
forni e fumi. Uscimmo composti così come eravamo entrati. Niente taxi per
tornare alla macchina. Niente parole. Tutto era diventato stupidamente
superfluo. Solo il rumore dei nostri passi che ci ancorava saldamente alla
terra... " RR
IL MARTIRIO DEI CRISTIANI NEL QUADRO DELLE RELAZIONI CON I
PAESI ISLAMICI (su l'Azione del 20.10.2017)
La Storia del Cristianesimo è stata segnata da persecuzioni fin
dall’inizio. Tuttavia le violenze di questi anni – come spesso ammonisce Papa
Francesco - sembrano essere più gravi e numerose di quelle che si sono
consumate in passato. Un noto giornalista ha precisato che se il martirio non è
sufficiente a conferire grandezza alla vittima, basta però ad attribuire i
connotati del criminale a chi lo infligge[1]. Se
si considera che questo accade in alcuni dei Paesi asiatici e del continente
africano nei quali la legge coranica è direttamente o indirettamente fonte di
diritto, viene naturale affermare che è in atto un conflitto di religione fra Islam
e Cristianesimo; questo confronto sarebbe uno corollario dello scontro di
civiltà ipotizzato da Huntington. Sul piano geopolitico la contrapposizione si
tradurrebbe in un contrasto fra Paesi islamici e Occidente cristiano. Alcune precisazioni
dimostrano l’infondatezza di questa tesi. Prescindendo dal fatto che l’Islam è
caratterizzato da tante correnti con punti di vista divergenti e dall’assenza
di un’autorità sovraordinata in grado di esprimere posizioni ufficiali, la
religione musulmana e il Cristianesimo hanno una natura profondamente
differente che li rende incomparabili: l’Islam infatti è anche un’ideologia
politica, e perciò determina la natura confessionale degli Stati nei quali si
afferma. Al contrario in Occidente il Cristianesimo nelle sue varianti può solo
influenzare le scelte governative: raramente si impone come religione di Stato
in quanto il carattere pluralista, democratico e liberale della società è
incontrovertibile. Diversamente da quanto proclama la retorica islamista, non è
corretto definire ‘cristiano’ il mondo occidentale. Nei Paesi occidentali è
forte l’influenza illuminista e quindi è particolarmente radicata la natura
laica delle istituzioni; inoltre, in relazione alla capillare diffusione di
un’etica relativistica e alla conseguente perdita di valori di riferimento
univoci, il Cristianesimo, diversamente dai secoli scorsi, non può più essere
considerato un centrale fattore identitario. Va aggiunto che gli esiti delle
conflittualità fra Islam e Cristianesimo hanno carattere asimmetrico in quanto
alle ostilità nei confronti dei Cristiani in alcune regioni con una popolazione
a maggioranza musulmana, non corrisponde un analogo atteggiamento dei Cristiani
nelle situazioni opposte. Sembrerebbe più fondato affermare che esistono Paesi
nei quali vige una forte e manifesta intolleranza religiosa, in genere di
matrice islamista, spesso avallata da regimi compiacenti. Concettualmente le religioni, seppur
differenti, dovrebbero essere fattori di unione fra gli uomini, e non di
divisione. Sembra invece che oggi si stia avverando la profezia di Tocqueville,
che diceva che la religione, se si allea con la politica, aumenta il suo potere
su alcuni uomini ma perde la speranza di regnare su tutti. Roberto Rapaccini
CATALOGNA: AUTONOMIA O INDIPENDENZA? (su L'Azione del 6 ottobre)
A
parte le reazioni emotive, non è facile pronunciarsi obiettivamente
sul non negoziabile contrasto fra la Generalitat de Catalunya
(le istituzioni amministrative autonomistiche della Catalogna) e il
governo centrale spagnolo. Sicuramente il primo termine di
riferimento per affrontare la questione sono le norme di diritto
internazionale vigenti. In proposito però si deve tenere presente
l'incidenza su di esse del principio di effettività; il principio di
effettività si fonda sulle valutazioni attribuite dalla comunità
internazionale alla situazione che si è concretamente determinata,
che possono divergere dal giudizio formulato asetticamente in base al
formalismo dei parametri normativi. Un esempio: i moti
rivoluzionari se esitano positivamente nella costituzione di uno
Stato o in un cambiamento di regime, sono considerati spesso
legittime realtà fondative di una nazione; se invece sono repressi e
falliscono vengono inseriti nell'ambito dei tentativi eversivi
illegittimi. In altri termini, nel diritto internazionale non
raramente la legalità scaturisce dalla situazione concreta ed
effettiva che si è consolidata, e dal giudizio della comunità
internazionale, che non sempre coincide con quanto prescritto dal
diritto. Ciò premesso, nello scontro in atto nella penisola iberica
sono contrapposte a prima vista due posizioni soggettive: il diritto
all'autodeterminazione della Catalogna e il diritto all'integrità
territoriale della Spagna. L'autodeterminazione è il principio -
sancito in documenti e trattati internazionali - in base al
quale i popoli hanno il diritto di scegliere liberamente e in
autonomia il proprio sistema di governo. Il principio fu formulato
per dare supporto ai moti di decolonizzazione, ovvero per proteggere
i popoli dall'occupazione straniera e giustificarne le reazione
volte a mantenere o a ristabilire la propria sovranità. Il principio
era anche un mezzo per
garantire ai popoli sottomessi al dominio coloniale di recuperare la
propria indipendenza.
In altri casi - come nella fattispecie in questione - le
rivendicazioni secessioniste di una comunità sono interne ad uno
Stato, e si rivolgono nei confronti dell'autorità centrale. In
queste ipotesi le pretese dovrebbero esitare solo in una più
soddisfacente autonomia e non nell'indipendenza: diversamente gli
Stati nazionali in forza delle istanze locali sarebbero facilmente e
sovente esposti a processi di smembramento. Si deve pertanto
concludere che l'affermazione del principio di autodeterminazione
all'interno di uno Stato sovrano generalmente non richiede la
secessione dallo Stato centrale, ma la concessione di più ampi
poteri autonomistici. Perciò in base a quanto esposto sembrerebbe
che sul piano del diritto internazionale la Spagna resista
legittimamente alle istanze indipendentiste della Catalogna. Questo
naturalmente non preclude un giudizio di grave censura sulle modalità
ingiustificatamente violente e autoritarie adottate dalle forze
dell'ordine del governo spagnolo per reprimere le velleità
indipendentiste catalane. RR
UN PO’ DI ORDINE
NEL CAOS IRACHENO (su L’Azione del 29
settembre)
L’Iraq ha
un’importanza centrale negli equilibri del vicino oriente. Dopo la guerra con
l’Iran, iniziata nel 1980, il Paese affrontò una difficile crisi economica. Nel
1990 il deterioramento dei rapporti con il Kuwait fu all’origine della ‘Guerra
del Golfo’ – che si concluse con la sconfitta delle truppe irachene - alla
quale seguirono le accuse statunitensi di sostenere il terrorismo
internazionale e di possedere un arsenale di armi chimiche, batteriologiche e
nucleari, costituendo così una minaccia per la comunità internazionale. Per questo motivo – che si rivelò poi
infondato - nel 2003 gli Stati Uniti, a capo di una coalizione di alleati (formata da 28 Paesi,
compresi 9 arabi), intervennero in Iraq, e dopo una lunga e logorante guerra
posero fine al regime di Saddam Hussein. Iniziò un periodo di grave
instabilità. Dilagarono violenze di ogni genere aggravate da divisioni
politiche, religiose ed etniche, ovvero fra Sunniti, Sciiti e Kurdi. Nel 2011
gli Stati Uniti decisero di ritirarsi dal Paese, che era tutt’altro che
pacificato: i diversi governi che si erano succeduti dal 2005, anno nel quale
si tennero le prime elezioni - e quelli successivi al 2011- non riuscirono a
ripristinare la normalità, l’ordine e la sicurezza pubblica. Nel giugno 2014
venne proclamata la costituzione di uno Stato Islamico sui territori della
Siria e dell’Iraq che erano caduti sotto l’influenza di un gruppo di jihadisti, che nominarono come loro
leader il ‘califfo’ Abu Bakr Al Baghdadi. Dopo alterne vicende l’offensiva
militare irachena conseguì una progressiva riduzione dei territori dello Stato
Islamico; nel giugno 2017 alcune istituzioni irachene troppo ottimisticamente
dichiararono la definiva disfatta dello Stato Islamico. In realtà, l’ISIS, quando
verrà definitivamente sconfitto e quindi privato del suo territorio, rimarrà
un’organizzazione terroristica che, sebbene frammentata e ridimensionata, sarà
in grado di esercitare la sua influenza destabilizzante. Attualmente il
presidente del Paese è Fu’ad Ma’sud di origine curda, mentre il primo ministro
è Haydar al-'Abadi. Il 25 settembre
scorso nel Kurdistan iracheno si è tenuto uno storico referendum consultivo - perciò non vincolante – sull’indipendenza da
Baghdad, promosso dal presidente della regione autonoma curda Masoud Barzani. L’esito
fortemente favorevole all’opzione indipendentista apre scenari problematici,
suscitando le preoccupazioni non solo delle autorità irachene, ma anche delle
potenze confinanti Siria, Iran e Turchia, che ospitano consistenti comunità
curde. La consultazione referendaria – come auspicano i promotori -
dovrebbe essere il presupposto per la negoziazione di un distacco dall’Iraq e
la nascita di uno stato indipendente. Sono lontani i tempi in cui il noto leader
militare e politico Abd Al-Karim Qasim (1914 - 1963) sosteneva che il popolo iracheno consiste di etnie fraterne
che si sono amalgamate per difendere l'esistenza di questa eterna nazione. RR
Luci e ombre nel cammino verso la democrazia – Albania, dopo le elezioni di giugno 2017 DI ALBERTO FRASHER
Siamo a quasi trent’anni dalla caduta del muro di Berlino. Un evento epocale che avrebbe dovuto spianare la strada verso la democrazia ai tanti paesi dell’Est Europa. Si tratta di molti paesi e nazioni, vittime a pieno titolo, della seconda guerra mondiale. Loro non avevano conosciuto né sognato il comunismo come ordine di giustizia e di progresso, ma purtroppo furono gli accordi del dopoguerra a decidere le loro sorti. Sofferenti e rassegnati, umiliati e violentati nelle loro identità culturali, vissero un letargo di mezzo secolo e una delle forme più spietate dei totalitarismi del secolo scorso. La loro esistenza fu nient’altro che un triste calvario di privazioni su ogni aspetto della vita. Ogni minuscolo frammento della vita era dominato dal primato di un’ideologia che non condividevano, ma che riuscì a vigilare le loro anime e di censurare i loro pensieri. Fu una totale alterazione di intere nazioni e delle loro tradizioni culturali. La religione subì persecuzioni inaudite per lasciar spazio libero alla propaganda e all’ideologia del regime. Per i totalitarismi dell’Est Europa la distribuzione della povertà in porzioni uguali avrebbe dovuto rendere felice e libero il cittadino. Felicità e libertà virtuali. Erano solo in pochi a ritenere difficile il loro cammino verso una reale democrazia. Il progresso e la democrazia, invece, non si possono costruire in un batter d’occhio a prescindere dalla realtà culturale della nazione. Questo, penso, succede perché pure l’ideale della democrazia di un qualsiasi paese si matura nell’ambito dell’universo filosofico e culturale della sua nazione. In Albania i più grandi nuovi partiti facevano capo a ex comunisti mai pentiti. In tutti i paesi dell’Est, la formazione culturale dei cittadini risentiva profondamente i limiti posti dall’ideologia dominante del totalitarismo. I nuovi partiti erano guidati da leader, la cui formazione culturale era di stampo comunista nei metodi di lavoro che non conoscevano la collegialità e neanche la tolleranza. Oggettivamente non era facile scegliere, fare da zero una classe politica in grado di guidare il cammino verso la democrazia. Nel 1993 pubblicai un articolo sulla transizione dell’Albania dal comunismo alla democrazia, nella rivista dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” di Roma. In quel occasione ebbi una lunga conversazione 2 con il direttore dell’Istituto. Mi disse che avevano la disponibilità di un finanziamento per creare a Scutari un istituto universitario in grado di sostenere la formazione di una nuova classe politica per il paese, quindi una facoltà di studi politici e di filosofia. Avevano aspettato inutilmente l’approvazione del progetto da parte del governo albanese senza mai una risposta. Allora, mi disse il direttore, deragliamo il fondo in Romania, il cui governo ci mise subito in condizioni di realizzare il progetto. La formazione di una classe politica all’altezza delle esigenze di una società democratica era e continua a essere un serio problema per il paese. L’Albania rappresentava una delle forme più caratteristiche dei totalitarismi dell’Europa Orientale. Disumano e ermeticamente chiuso a ogni apertura culturale. Nonostante le difficoltà, i governi hanno fatto varie riforme, necessarie in via di principio, ma molto frettolosamente e con errori non trascurabili. Le privatizzazioni, per farne un esempio, hanno premiato visibilmente i ranghi degli ex comunisti e non hanno fatto attenzione alle capacità produttive esistenti. Inevitabile la conseguenza logica di un sensibile aumento della disoccupazione. Nella fase iniziale i nuovi ricchi non erano interessati al consolidamento di un eventuale stato di diritto, poiché sarebbe andato subito in conflitto con le loro ambizioni del momento. Diceva un mio amico ricercatore: “Quando i nuovi signori avranno consolidato le loro ricchezze, vorranno vivere in uno stato di diritto, per non rischiare i loro trofei.” Sostanzialmente questo è successo quasi in tutti i paesi dell’Est Europa. L’Albania ha visto una crescita considerevole del suo prodotto interno lordo e questo per il merito indiscusso dei suoi cittadini, che sin dalle prime battute si sono organizzati in imprese piccole e grandi facendo uso intelligente delle opportunità che il mercato dei paesi occidentali offriva. Probabilmente nella concorrenza del mercato interno ha avuto migliori risultati la fascia dei cittadini ben istruiti. Secondo una statistica del 2010 risultava che tra i primi cento imprenditori più ricchi del paese circa novanta erano laureati. Probabilmente nella fase iniziale dello sviluppo economico del paese il principio di merito ha avuto un ruolo importante. Il settore delle costruzioni edili ha vissuto una crescita enorme, ma spesso procurando danni notevoli agli aspetti urbanistici dei centri abitati. Nei primi 25 anni, dopo il crollo indecoroso del regime 3 totalitario, l’Albania è riuscita a moltiplicare la sua rette stradale e molte altre infrastrutture. Oggi il settore dell’edilizia in un anno costruisce più abitazioni per i suoi cittadini di quanto non avesse costruito l’ancien régime in quarant’anni. La qualità media della vita ha subito una crescita rilevante, mentre aumenta l’inquinamento ambientale. Il vero problema dell’Albania credo che sia l’attività della classe politica e la corruzione dilagante che ne deriva, nel bene e nel male. Livelli preoccupanti di corruzione compromettono gravemente il presente e anche il futuro del paese. Il binomio di questi due aspetti, sostanzialmente, ha un rapporto conflittuale con la società. Il cittadino, a sua volta, è pienamente consapevole del suo ruolo importante e anche del male che una gestione impropria del potere e la conseguente corruzione possano procurare alla nazione. La vita politica è caratterizzata da una litigiosità continua e dall’incapacità di poter condividere idee e progetti che riguardano aspetti fondamentali della vita della nazione. La litigiosità è anche figlia dell’incapacità di dialogare e di rispettare il pensiero diverso dal tuo. Basterebbe far riferimento alla saggezza popolare. I canoni medioevali dei principati albanesi chiedono ai suoi cittadini di non amare l’avversario, ma di doverlo rispettare. Due o più partiti giustificano la loro presenza nella vita politica del paese in virtù delle differenze che segnano l’individualità di ciascuno. I partiti, però, non possono governare il paese se non hanno, oltre le differenze, anche idee in comune. L’assenza delle idee e dei progetti condivisi rende caotica la realtà socio economica del paese. Il governo di oggi distrugge quanto i governanti di ieri abbiano fatto. Così si avrà una sequenza fatale che ci riporta in mente la tela di Penelope, il celebre stratagemma narrato da Omero. Il moltiplicarsi dei partiti e la loro litigiosità sembra essere un sintomo preoccupante della vita politica non solo dell’Albania, ma anche di tanti altri paesi. Da dove arrivano le idee e i progetti per oggi e soprattutto per il futuro del paese? Credo che non sia difficile individuare il radicamento della vita politica nell’universo filosofico e culturale della nazione, come il fondamento che determina e definisce il profilo di un partito. Non è la politica a definire il futuro del paese. Gli ideali di una nazione nascono come espressione delle tradizioni secolari e fondano le loro radici nella propria identità che, a sua volta, è la più eloquente immagine dell’universo culturale della nazione. Allora se i partiti si riconoscono negli ideali della nazione, non avranno difficoltà di individuare idee, percorsi e progetti condivisi per il futuro della nazione. 4 Questo è un grande problema della vita di una nazione e non riguarda solo l’Albania. Quest’ultima, però, ne ha un’esigenza particolare. Gli albanesi sono una delle nazioni più antiche del continente e parlano una lingua che non è slava né latina, ma molto originale e che insieme all’armeno costituiscono le prime due lingue più antiche del gruppo indoeuropeo, come indicato dall’albero genealogico inserito nella pubblicazione “Websters New Twentieth Century Dictionary” [2a edizione, William Collins and World Publishing Co., inc., London 1975]. L’arcivescovo francese Brocard dell’arcidiocesi di Tivar (NordAlbania) in una relazione dell’anno 1332, scritta in latino e trovata nella Bibioteca Nazionale di Parigi, sottolineava: “La lingua albanese è completamente diversa dal latino, ma nei loro libri gli albanesi usano il carattere latino.” Lo storico di Scutari, brillante umanista del XV secolo, nella sua opera “Assedio di Scutari” (1508) parla di libri in albanese del XIII secolo. Purtroppo la classe politica non ha una piena consapevolezza del background storico culturale della nazione e, spesso, anche buona parte dei cittadini. Il missionario italiano Severino Consolaro, dopo una permanenza di dieci anni in Albania, nel 2005 scriveva: “Nell’Albania di oggi la vera povertà non è la fame; io vedo una nazione tranquilla, non ricca né particolarmente povera, ma con tanta dignità. A volte si ha l’impressione che egli abbiano perduto la memoria storica sui potenziali umani notevoli che hanno, anche se nei secoli questa terra è stata esempio di coraggio, di eroismo e di santi. In questo meraviglioso Paese non esistono differenze. Sant Antonio ha unito in un'unica comunità: cattolici, ortodossi, musulmani e bektascì, tutti insieme.” Perché analizzare anche aspetti di ordine storico e culturale? Ci sono paesi e nazioni che attraversano crisi apparentemente economiche, ma il loro protrarsi nel tempo significa la presenza anche di una componente culturale tra i motivi delle crisi. Una nazione ha bisogno di esperienze e modelli di altri paesi più evoluti, ma non può mai ripetere mot à mot modelli e schemi standard senza far riferimento alle sue radici culturali. Tra tutti i paesi occidentali, per fare un esempio, non esistono due realtà identiche. Questo succede perché ogni sistema, teoricamente ammissibile, non può dare frutti in un determinato paese se non è compatibile con la realtà culturale della sua nazione. Il pomodoro, se vogliamo, conosce tantissime specie, ognuna formata compatibilmente con un determinato terreno e un particolare clima. Nel mondo di oggi le società sono assai più complesse del passato. Ho l’impressione che non sia cosa facile avere una classe politica che abbia la necessaria compatibilità con l’universo culturale della 5 nazione. Al di fuori di questa compatibilità difficilmente un governo può guidare la nazione verso gli ideali della democrazia e dello sviluppo. Le elezioni di giugno in Albania sono state difficili e senza un minimo di dialogo sereno e costruttivo tra i partiti maggiori. Sono gli stessi leader, sulla cresta dell’onda da almeno un ventennio e che i cittadini continuano a dare loro la fiducia. Dobbiamo sperare in un miglioramento dell’azione politica non solo nel campo strettamente economico, ma anche e soprattutto culturale. Perché il futuro trova il suo sostegno nel passato, secondo George Orwell, quindi nell’universo culturale della nazione. Un problema clou delle aspiranti democrazie è senza dubbio la formazione delle nuove generazioni. Intendo la formazione culturale che ha come strumento fondamentale la scuola. La verità è che mai i problemi della scuola hanno fatto parte del dibattito politico durante le campagne elettorali. Perché la scuola? Samì Fràsheri (1850–1904), filosofo, linguista e una delle figure più importanti del Rinascimento Nazionale Albanese, considerava di fondamentale importanza il problema della scuola. Una sua massima esprime il ruolo della scuola per lo sviluppo di una nazione, anche se nel suo tempo in Albania c’erano già anche scuole e classi comuni per maschi e femmine. Scriveva S.Fràsheri: “Se volete una buona raccolta per la prossima stagione seminate il grano, ma se volete prosperare per i prossimi cento anni, costruite buone scuole.” Questa convinzione ha delle radici profonde nella saggezza della nazione. Già dal XVI secolo i vescovi della chiesa cattolica albanese, P.Budi e P.Bogdani, nei loro scritti ritenevano l’ignoranza causa principale dell’infelicità e della povertà dell’Uomo. Il vescovo cattolico G.Buzuku tradusse in albanese e pubblicò il Messale. Correva l’anno 1555. Nei primi anni del Seicento il vescovo P.Budi ordinò ai parroci della sua diocesi di fare le preghiere in albanese. «Dio, disse lui, vuole conversare con i fedeli solo nella lingua materna.» Nell’immaginazione collettiva, come dai proverbi medioevali, “l’Uomo con la penna è più venerato dell’Uomo con fucile”. Questa interessante sensibilità trova conferma nei codici medioevali provenienti da diverse città o principati, come Drisht, Scutari, Beràt, Prizren, ecc. Nel capitolo XLI del codice della città di Drisht (sec. XIV) troviamo le norme che garantivano aiuti ai giovani che frequentavano sia le scuole pubbliche, che quelle private. La saggezza delle tradizioni popolari ha da sempre trasmesso alle nuove generazioni la forte convinzione sul primato della scuola. Per 6 l’Albania, che appena ha lasciato alle spalle cinque secoli di dominio ottomano feroce e mezzo secolo di totalitarismo spietato, il ruolo della scuola è fondamentale, quindi non può essere dimenticato nel silenzio colpevole della politica. La cittadinanza osserva impotente e amareggiata il declino della scuola. Molti specialisti europei, e non solo, hanno offerto modelli di riforma per la scuola albanese che loro non hanno potuto conoscere, soprattutto gli aspetti culturali e la relativa tradizione. La scuola, in questo modo, ha subito cambiamenti che non trovano un equilibrio né armonia con la tradizione né con il suo tessuto culturale. Le scuole dei paesi occidentali sono simili per quanto riguarda i contenuti nelle materie scientifiche e la conoscenza dell’illuminismo e dell’identità culturale europea. D’altronde non esistono due sistemi educativi identici, poiché ogni nazione orienta la scuola verso il proprio universo filosofico e culturale. Le scuole, tedesca e francese, olandese e svedese sono ben distinte a causa dell’aspetto culturale la cui componente nazionale resta fondamentale per ogni sistema di educazione. In Albania questo non è successo e la scuola continua perdere colpi nell’indifferenza imperdonabile della classe politica. I regimi totalitari non hanno mai trasformato i sistemi d’istruzione pubblica in macrosistemi di educazione, dove la formazione del cittadino di una società emancipata e democratica sia uno dei compiti principali. Solo una scuola così concepita può garantire la formazione dei giovani come cittadini liberi e indipendenti in grado di comprendere le esigenze di una società democratica e di poter valutare l’operato della classe politica. L’emancipazione e la democratizzazione della società necessitano una scuola libera, non indottrinata. Il cittadino con una formazione culturale scarsa diventa facile preda della propaganda dei partiti e del potere; lui è meno consapevole delle libertà individuali. La democrazia è un ideale che ha bisogno dell’armonizzazione delle libertà individuali con lo stato di diritto. Ed è in questo equilibrio, appunto, che consiste il fulcro della democrazia, di cui il pluralismo è uno degli aspetti principali, non inteso nel sua natura ideologica o politica, ma soprattutto culturale. Io mi auguro che il cittadino abbia nel futuro un ruolo consapevole e qualificato da poter incidere sulle scelte della classe politica. Io voglio credere che il giovane albanese si meriti un futuro prospero e sereno in armonia con le ricche tradizioni storiche culturali e con i potenziali umani notevoli della sua nazione. ALBERTO FRASHER
Femminismo islamico, forza inesplorata del mondo
arabo (su L’Azione del
22 settembre)
Il
mondo musulmano – ovvero l’insieme degli Stati nei quali le disposizioni
coraniche influenzano con diversa intensità le leggi - ha una potenzialità
inesplorata: il contributo positivo che le donne potrebbero fornire alla vita
sociale, economica e politica dei loro Paesi. La condizione femminile al contrario
è penalizzata dai precetti islamici declinati in modo diverso a seconda delle
correnti maggiormente diffuse nella relativa regione: è inquietante che questo
status di inferiorità sia spesso vissuto con pacifica rassegnazione, cioè sia
considerato la conseguenza di una situazione culturale consolidata, ordinaria,
e quindi inevitabile. Paradossalmente, se si esplorano i rapporti di genere
nella società araba preislamica (fino al VII sec.), si scopre che Maometto ha
migliorato la condizione delle donne prevedendo in loro favore diritti fino ad allora
inesistenti (il loro contenuto concreto previsto nel Corano è tuttavia limitato
rispetto a quanto in vigore per l’uomo). Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli
anni ’90 in Paesi come l’Iran e il Marocco si è affermato un timido movimento
femminista: a fondamento delle rivendicazioni femminili si è sostenuta la necessità
di una corretta esegesi del Corano, che sancirebbe la sostanziale uguaglianza
fra uomo e donna. Pertanto questo movimento femminista – similmente a quanto
avviene in analoghe situazioni nel mondo arabo – non critica o contesta
l’Islam, ma auspica una corretta interpretazione che ne recuperi lo spirito
originario. Le donne islamiche non si sentono vittime dell’Islam, ma dell’affermazione
di un sistema patriarcale che è il risultato di vicende storiche: sono convinte
- diversamente da quello che si sostiene in occidente - che l’Islam garantisca
loro sufficienti diritti e opportunità. Non sarebbe il Corano ad imporre la
sottomissione femminile, ma gli uomini mediante erronee letture e manipolazioni
dei testi sacri. Il rapporto con la religione è ciò che maggiormente
differenzia questo movimento rispetto al femminismo occidentale: mentre il
femminismo islamico infatti svolge la sua funzione senza rinnegare il proprio
retaggio confessionale – avvertendo tuttavia la necessità di una ridefinizione
di alcuni valori fondanti per liberare l’Islam dalle sovrastrutture che lo hanno
allontanato dai contenuti originari – quello occidentale ha radicate
connotazioni laiche. In questo contesto culturale il ritorno all’uso del velo da
parte di giovani donne musulmane europee può essere considerato il simbolo di
una ritrovata moderna identità femminile islamica, mentre l’affermazione di
donne come Benazir Bhutto in Pakistan prova l’importanza delle potenzialità delle
donne nei contesti islamici nonostante la loro generale concreta subalternità.
RR
L’UNIONE,
SOGNO INCOMPIUTO & PREZIOSA OPPORTUNITA’ (pubblicato su Studi Cattolici di settembre 2017)
Introduzione
Gli ultimi lustri del XX secolo e l’inizio del XXI
sono stati caratterizzati da grandi cambiamenti. Con la caduta del muro di
Berlino (1989) e la conseguente disgregazione del blocco sovietico, è venuto
meno l'antagonista per il quale era stata costituita l'Alleanza Atlantica. Fino
a quando la realtà politica mondiale si era retta sul precario equilibrio
Usa-Urss (l’Europa occidentale era saldamente integrata nel fronte americano),
era in atto una sorta di bilanciamento tra le due potenze fondato su un ordine
bipolare caratterizzato da uno stato permanente di ostilità reciproche. La
dissoluzione dell’Unione Sovietica ha rotto questo equilibrio, creando
un'egemonia degli Usa rimasta di fatto l'unica reale superpotenza. La
contrapposizione fra il mondo islamico fondamentalista e l’Occidente ha
sostituito il vuoto creato dal crollo dell’Unione Sovietica, dal momento che
l’Islam non è soltanto una religione ma è anche un’ideologia politica. Da
questa contrapposizione si sono poi sviluppati la deriva jihadista e il terrorismo di matrice islamica. A tutto questo si è
aggiunta la difficile individuazione di una strategia efficace per il contrasto
della pressione dei flussi migratori provenienti dal nord Africa. Queste contingenze sono fonti di emergenze
che mettono a dura prova la coesione dell’Europa.
La dittatura delle minoranze
Negli Stati democratici occidentali il principio cardine
è quello di maggioranza, in base al quale nell’assunzione delle determinazioni
di governo la volontà espressa dai più deve essere considerata come il volere
di tutti. Per evitare gli abusi delle maggioranze il principio maggioritario è
sottoposto a correttivi a tutela delle minoranze. Un intellettuale libanese,
spesso controcorrente, Nassim Nicolas Taleb, con un recente saggio[1] ha rilevato che i regimi
occidentali attualmente sono soggetti ad un rischio opposto, ovvero a quello di
essere eccessivamente condizionati dalle minoranze, che si affermano in virtù
di un malinteso uso della democrazia. Attraverso alcuni rilevamenti empirici lo
studioso ha concluso che alcune minoranze particolarmente attive e
intransigenti necessitano solo di un’esigua percentuale (3-4%) per imporre con
le loro rimostranze le proprie preferenze all’intera popolazione. Così
l’improbabile può governare la nostra vita. Nello stesso tempo si produce
un altro effetto, ovvero che quelle scelte sembrino volute dalla maggioranza
stessa. Tali possibili derive dell’ordine democratico possono limitare l’intera
collettività: questo avviene quando vere e proprie corporazioni, come
specifiche categorie di lavoratori o di professionisti, per perseguire i propri
obiettivi causano disagi a tutta la comunità. Ma le istanze di pochi possono
anche condizionare le dinamiche istituzionali: non è raro infatti che piccoli
gruppi politici con iniziative ostruzionistiche paralizzino l’iter parlamentare
di provvedimenti normativi o ostacolino il normale svolgimento delle attività
istituzionali. Tutto nel rispetto formale delle regole vigenti. Senza entrare
nel merito delle specifiche questioni, queste condotte sono un corollario dell’assenza
di un maturo senso dello Stato: nei momenti di crisi sarebbe opportuno
sforzarsi di anteporre la prioritaria esigenza di un dialogo costruttivo fra
poli opposti agli interessi di parte strutturati su differenti presupposti ideologici.
Inoltre una vera democrazia non deve diventare lo scudo di chi vuole imporre
con la forza la propria volontà. Paradossalmente il potere di una minoranza non
sempre ha un esito negativo, ovvero l’egoistica ipertutela di interessi
particolari: la creazione o l’evoluzione di valori morali nella società infatti
non necessariamente deriva da una più ampia base di consenso su di essi, ma può
scaturire anche dalle iniziative di un ristretto numero di persone che con
consentite pressioni impongono a tutti una maggiore rettitudine. Il potere
delle minoranze, secondo le deduzioni politicamente scorrette di Taleb,
troverebbe fondamento in un’eccessiva tolleranza e flessibilità della
maggioranza. Forse questa dinamica è anche conseguenza dell’avvento della post
democrazia, che ha come corollario una generale crescente passività e
disaffezione dei cittadini. Come è stato rilevato da un politologo britannico[2] nei sistemi occidentali si
stanno instaurando prassi che comportano una progressiva diminuzione di
interesse per le vicende delle istituzioni. In un tale contesto si afferma un
individualismo che impedisce l’emergere di una definita coscienza collettiva:
la democrazia si avvia al tramonto mentre la società civile è sempre più
lontana dalla società politica.
Delusioni e speranze
Il 25 marzo scorso (2017) si sono festeggiati 60
anni dagli accordi istitutivi della Comunità Economica Europea. Gli anniversari
sono sempre occasione per un bilancio. Questa ricorrenza è caduta in un momento
di crisi delle istituzioni comunitarie. È oggetto di riflessione innanzitutto
l'influenza che negli ultimi tempi hanno esercitato le scelte finanziarie della
Germania, che, per favorire la propria economia, ha promosso una politica di
austerità imponendo ai Paesi membri pesanti manovre fiscali e tagli alla spesa
pubblica. La conseguente spinta deflazionistica ha prodotto una riduzione della
circolazione del denaro e una contrazione dei consumi, cause di una generale
recessione economica e di un diffuso impoverimento. L'Unione Europea ha inoltre
intrapreso con disinvoltura un allargamento verso ‘est’ passando in poco tempo
da 15 a 28 Stati senza che si realizzasse una reale reciproca integrazione. In
qualche occasione i nuovi Paesi hanno evidenziato un'assenza di cultura della
solidarietà, componente indissolubile dello spirito comunitario. Molte
aspettative che i Trattati avevano alimentato sono rimaste deluse. Con
l'Accordo di Maastricht (1992) l'Europa, che in quel momento era solo una
realtà economica, sarebbe dovuta diventare un'istituzione politica; questa
evoluzione, che aveva come presupposto la cessione da parte di ciascun Paese di
una quota della propria sovranità, non si è sufficientemente realizzata a
causa di alcune egoistiche resistenze nazionali. L'introduzione
della moneta unica non preceduta dalla creazione delle opportune
sovrastrutture ha penalizzato alcune economie, quella italiana in particolare.
Il ritorno alla lira tuttavia comporterebbe pericolosi dissesti finanziari.
L'ingresso nell'Euro e più in generale nell'Unione Europea ha avviato processi
irreversibili che non consentono un indolore ritorno al passato. Va
ripristinato il ruolo di governo della Commissione Europea, che da esecutivo
comunitario si è trasformata nel tempo in uno sterile e burocratico gendarme
concentrato sul controllo della condotta degli Stati membri. Nel Consiglio
Europeo del 22-23 giugno scorso (2017) gli Stati Membri hanno concordato sulla
necessità di avviare una cooperazione strutturata in campo militare, non solo
per rafforzare la sicurezza e la difesa esterna, ma anche per fornire un
contributo alla pace e alla stabilità globale. La partecipazione degli Stati
aderenti all’iniziativa dovrà essere coerente con i rispettivi impegni
nazionali assunti nell’ambito dell’ONU e della NATO. La mancanza di
cooperazione in questo ambito ha un grave costo economico in termini di
duplicazioni di iniziative difensive.
Se i Paesi dell’Unione potessero condividere mezzi, risorse, e condurre insieme
anziché separatamente attività di ricerca, ne trarrebbero vantaggio
l’efficienza e il risparmio delle finanze. Pertanto la Commissione Europea ha
proposto l’istituzione di un fondo per la difesa comune, la cui finalità quindi
non sarà la creazione di un esercito europeo da impiegare anche in scenari di
crisi - obiettivo ambizioso che necessita tuttavia della definizione di una più
precisa base giuridica - ma la razionalizzazione dell’impiego delle risorse
degli Stati in questo settore attraverso incentivi alla collaborazione. Questa
iniziativa, il cui principale valore aggiunto consisterà nell’unire gli sforzi
per permettere che le attività siano pianificate in maniera coordinata,
costituisce un nuovo efficiente approccio che potrà essere eventualmente esteso
anche ad altre aree di competenza. Ci saranno molte difficoltà da superare, non
solo di carattere tecnico. Le attività in questo ambito, anche se hanno intenti
solo difensivi, comportano valutazioni che per essere condivise dai Paesi
membri presuppongono coesione politica e solidarietà, mentre l’Europa appare
sempre più divisa. In ultimo, il malcontento può generare la tentazione di
uscire dall'Unione seguendo l'esempio britannico. Si tratta di pericolose
derive dagli effetti imprevedibili. L'Unione Europea resta un'irrinunciabile
opportunità, che richiede tuttavia un incisivo e coraggioso processo di
riforma. Come molte realtà, l'Unione Europea è un meccanismo perfetto in tempi
di pace e prosperità, ma evidenzia i suoi limiti nei periodi di crisi.
Il politicamente scorretto
Con l'espressione politicamente corretto si indica comunemente un atteggiamento di
preconcetta adesione a principi di consolidata considerazione sociale ritenuti
incomprimibili ed il contestuale aprioristico rigetto di qualsiasi presunto
pregiudizio che contrasti con asserite conquiste della civiltà; questi
presupposti spesso bloccano il libero confronto su alcuni temi. Ne è un esempio
l'ipersensibilità per le problematiche razziali o di genere che impedisce
un'aperta discussione su argomenti che coinvolgono tali questioni. Al politicamente corretto si oppone il politicamente scorretto, che consiste in
opzioni che si oppongono al conformismo benpensante. Un esempio pratico: da più
di un decennio le società occidentali stanno attraversando una crisi economica
che si riflette sulle comunità con fenomeni indotti come la diminuzione delle
risorse disponibili a livello individuale e l'aumento della criminalità. Come
corollario di questa situazione parte dell'opinione pubblica propone che
principi etici che si ritengono aprioristicamente intangibili, come
l'accoglienza indiscriminata di migranti stranieri, debbano essere rinegoziati.
Molti leader politici occidentali stanno investendo su questo tratto della
psicologia collettiva, cioè sulla esigenza anche subliminale di una ridefinizione
del nucleo dei fondamenti che integrano il politicamente
corretto. Lo fanno adottando un linguaggio aspro, brutale, fuori dagli
schemi della politica tradizionale e formalmente in linea con il carattere non
convenzionale dei contenuti. Queste strategie riscuotono un successo popolare:
lungi dall'essere estemporanee, sono espressione di un disegno che pone in
diretta correlazione il diffuso malcontento con le derive del politicamente corretto. Tuttavia questi
movimenti sono esposti ad una crisi di credibilità, che deriva dalla
consapevolezza che una visione critica del politicamente
corretto non possa essere imposta dall'alto, ma richiede un cambiamento
culturale che maturi il discernimento individuale.
Flussi migratori e multiculturalismo
La convivenza multiculturale, che a causa del
costante flusso migratorio caratterizza i Paesi occidentali, impone continue
negoziazioni fra i vari gruppi etnici al fine di evitare conflitti fra le
diverse identità. Queste negoziazioni non possono riguardare i precetti
dell’ordinamento giuridico vigente, che sono un parametro di riferimento per
valutare le conseguenze della propria condotta a cui tutti devono
indistintamente sottostare. A tutti gli appartenenti alla comunità deve invece essere
garantita l’uguaglianza, che insieme agli altri principi illuministici della
libertà e della giustizia, è il cardine delle democrazie occidentali;
l’uguaglianza per essere realmente tale deve essere integrata da alcuni
correttivi necessari per assicurare una reale giustizia nei casi concreti. In
particolare non possono essere trattate allo stesso modo situazioni
apparentemente uguali ma in concreto diverse, mentre in maniera simmetricamente
opposta non possono essere considerate diversamente situazioni uguali. In altri
termini va perseguita l’uguaglianza sostanziale, non quella meramente formale.
Spesso si fa riferimento alla tolleranza per indicare la predisposizione
individuale da privilegiare nei rapporti interpersonali. Voltaire fondava la
tolleranza sulla comprensione dell’imperfezione umana. Tutti gli uomini sbagliano,
senza distinzioni di razza, di sesso, di religione, di condizioni personali e
sociali; per questo, per convivere in armonia si deve essere reciprocamente
indulgenti. Paradossalmente il concetto di tolleranza ha delle sfumature
vagamente discriminatorie. Nella pratica infatti dietro la benevolente
accettazione dell’altro si cela un implicito giudizio di superiorità, di
diffidenza, o addirittura di biasimo o di condanna. La convivenza dovrebbe
invece essere strutturata sul riconoscimento della pari dignità dell’altro.
Segnatamente in materia di immigrazione la demagogia politica, rigidamente
polarizzata sui principi simmetricamente opposti dell’accoglienza generalizzata
o del respingimento indiscriminato, strumentalizza le possibili derive
conseguenti ai due atteggiamenti, rendendo difficili approcci costruttivi che
possano conciliare i principi di civile solidarietà, con i problemi di
sovraffollamento e di criminalità indotta. L’integrazione è un dovere
civile, ma ha senso qualora sia reale e non si esaurisca in affermazioni di
facciata da spendere per fini politici o elettorali. I mutamenti delle
condizioni di vita e i costi sociali che richiede la dimensione multiculturale
devono essere tali da non alimentare una contrapposizione fra i cittadini del
Paese ospitante e i nuovi arrivati. Solo tenendo presenti questi presupposti e
rinunciando ad alimentare l’enfasi populista di un facile buonismo o
all’opposto quella ad effetto di un’inconsistente intransigenza, le questioni
connesse alla convivenza multirazziale, seppur non risolte, potranno essere
affrontate seriamente.
I rapporti con l’Islam
Il XXI secolo è iniziato con il grave attentato di
matrice islamica alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. Questo articolo non è
la sede per un’analisi dei controversi rapporti fra terrorismo e Islam. Considerando
a parte gli attentati terroristici, la strumentalizzazione mediatica unita a
qualche latente tentazione islamofoba con un po' di approssimazione ha
trasformato vicende che avvengono nelle nostre realtà urbane, nelle quali sono coinvolti
elementi provenienti da Paesi islamici, in casi paradigmatici di una manifesta
conflittualità fra la cultura islamica e quella occidentale, supportando così
la tesi di Samuel Huntington sullo scontro
di civiltà. Secondo le deduzioni dello studioso statunitense le fonti
attuali dei conflitti fra i popoli non sarebbero né di natura ideologica né
legate a rivendicazioni economiche, ma troverebbero la loro origine nelle
differenti identità religiose e culturali: in questo scenario andrebbe
collocato questo confronto ideologico. Tale interpretazione è supportata da
alcune evoluzioni che si sono manifestate nelle comunità islamiche. Negli anni
’60 i musulmani immigrati nei Paesi europei aspiravano ad integrarsi
abbandonando spontaneamente l’abitudine di indossare gli indumenti tipici dei
contesti nazionali di provenienza. Attualmente il ritorno da parte delle nuove
generazioni all’uso del niqab, dello chador, del burqa e
del qamis, non trova fondamento nell’adempimento di un dovere religioso,
ma è un mezzo per rivendicare l’appartenenza a una cultura diversa e per
manifestare il rifiuto dell’omologazione occidentale. Questo comportamento di
ritorno alle tradizioni sembrerebbe il prodotto di un conflitto generazionale,
analogamente a quello che accade nelle famiglie occidentali quando i genitori
non comprendono le condotte dei figli a causa di differenti abitudini ed
esperienze, o di una diversa formazione culturale o religiosa. Peraltro in
generale nei giovani si riscontrano due esigenze confliggenti che non raramente
alimentano un acceso rapporto dialettico con i genitori: la necessità di
ribellarsi per affermare l'originalità della propria individualità, e il
bisogno autoconservativo di
conformarsi ai canoni della società. Va comunque precisato che l’Islam non è
soltanto una religione ma è anche una realtà geopolitica con peculiari
contenuti ideologici; non può essere considerato una monade unitaria, essendo
un universo estremamente articolato e composito.
Sotto attacco terroristico
Nel
secolo precedente il terrorismo di matrice islamica, sebbene già attentamente
seguito negli Stati Uniti, non era considerato in Europa una questione di
particolare rilevanza. Le iniziative comunitarie si esaurivano nel monitorare
le situazioni nazionali degli Stati membri. L’attacco agli USA nel settembre
del 2001 ha evidenziato che il terrorismo di matrice islamica aveva compiuto
una pericolosa evoluzione diventando una minaccia di primaria importanza per
tutto il mondo occidentale, come poi la successiva lunga sequenza di attentati
in Europa ha tragicamente confermato. La fede, quando è vissuta come ideologia,
richiede un impegno collettivo rivolto a cambiare le strutture della società. A
questo fine gruppi jihadisti si sono
strutturati per promuovere con ogni mezzo, l’instaurazione di un ordine sociale
nel quale le leggi civili potessero essere sostituite da un ordinamento giuridico
plasmato sulla legge divina. Il terrorismo di matrice islamica è una
degenerazione di questo atteggiamento: l’uso della violenza e della minaccia
sono infatti una scorciatoia per l’instaurazione di una società ispirata ai
precetti del Corano. È in atto una guerra asimmetrica caratterizzata
dall’azione spietata e senza regole del terrorismo, che con i suoi attacchi ha
l’obiettivo di modificare la normalità della nostra vita quotidiana
trasformando tutti i momenti di ordinaria serenità in occasioni di paura e
sofferenza. Per contrastare
efficacemente questa minaccia non è sufficiente la coordinata risposta
operativa e preventiva degli apparati di intelligence
e sicurezza dei Paesi occidentali, ma è opportuno che i popoli europei
ritrovino solidarietà e coesione intorno ai loro valori fondanti. RR
[1] Nassim Nicolas Taleb, Il più intollerante vince: la dittatura
delle minoranze, online (sito Medium), 2016.
[2] Colin
Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2003.
Dalle indagini relative agli attentati di Barcellona
e Cambrils è emersa – come in analoghe occasioni - l’origine marocchina di
quasi tutti i componenti della cellula jihadista
responsabile. Ancora una volta il Marocco, insieme alla Tunisia, si
conferma una fucina di terroristi di matrice fondamentalista. In proposito il
Regno maghrebino ritiene di essere ingiustamente accusato di esportare
l’eversione islamista: ambienti governativi hanno precisato con toni duri che
criminali di questo genere sono o solo nati in Marocco, o lo hanno lasciato nei
primi anni di vita stabilendosi poi in Paesi europei, che pertanto sarebbero i
reali responsabili della loro radicalizzazione (che sarebbe quindi il prodotto
del fallimento delle politiche di integrazioni). Il Marocco nell’ambito delle
nazioni del Maghreb è un’oasi particolarmente felice. Non è stato teatro dei devastanti
tumulti delle Primavere arabe. Il Re del Marocco Mohammed VI gode di una
oggettiva popolarità, di un diffuso consenso e del costante apprezzamento dei media: avendo realizzato adeguate seppur
prudenti riforme economiche il monarca è considerato il garante della pace
sociale e della stabilità politica. Esiste nel Paese anche un contenuto
malcontento, che ha la sua punta esponenziale nel movimento ’20 febbraio’ che ha
animato le moderate manifestazioni del 2011, motivate dalla parziale assenza di
democrazia, da un generale aumento dei prezzi, dalla volontà di contrastare la corruzione.
Le proteste hanno avuto come esito alcuni emendamenti costituzionali che hanno
limitato il dispotismo del regime. Il governo investe seriamente nella lotta al
terrorismo: pertanto, se i risultati della prevenzione sono modesti, questo non
dipende da uno scarso impegno delle istituzioni, ma dalla vastità e dalla
complessità del fronte integralista, nonché dalla peculiare varietà del
territorio che consente a malavitosi di occultarsi facilmente. Qualche anno fa
è stato istituito il Bureau Central des Investigations Judiciaires, che ha
centralizzato le indagini sul radicalismo islamico sino ad allora rese
scarsamente efficaci dall’assenza di un coordinamento fra le polizie
territoriali. È di palese evidenza che per la prevenzione di episodi criminali
come quelli avvenuti in Catalogna è fondamentale che sia implementata la
collaborazione internazionale, in particolare quella informativa e operativa fra
le autorità dei Paesi europei e quelle marocchine, già avviata con molte
iniziative bilaterali. Inoltre con la prossima probabile definitiva disfatta
dello Stato Islamico, il Regno del Marocco presumibilmente dovrà affrontare la
difficile gestione del rientro, dai territori dello sconfitto Stato Islamico, di
circa duemila foreign fighters marocchini. RR
RIFLESSIONI
SUI FATTI DI BARCELLONA E DI CAMBRILS
È
passata una settimana dai due attacchi di matrice jihadista di Barcellona e Cambrils, rivendicati dallo Stato
Islamico. Le vittime coinvolte
appartengono a 35 nazionalità. I fatti sono noti, come peraltro le successive
acquisizioni investigative. Da quanto emerso possono essere fissati alcuni
punti.
·Anche se può
sembrare paradossale, questi attentati confermano - come ha osservato uno
stimato analista[1]
- che le capacità offensive dell’Isis sono in sensibile declino. Questo non ci garantisce
che in futuro non ci saranno fatti criminali, o che eventuali prossimi attacchi
saranno meno cruenti. Al contrario l’estemporanea organizzazione di progetti
criminali accrescerà la loro imprevedibilità, e questo renderà particolarmente
complessa l’attività preventiva. Dobbiamo acquisire la consapevolezza che è in
atto un conflitto. Tuttavia, analizzando la sequenza degli attentati
pianificati o ispirati dallo Stato Islamico, registriamo che si sono dilatati i
tempi fra un crimine e un altro; notiamo che dalla infallibile progettazione e dalla
perfetta esecuzione di piani delinquenziali si è passati a iniziative isolate e
più approssimative (come si evince dalla
facile neutralizzazione dei jihadisti
autori dei fatti di Cambrils); osserviamo
che anziché ricorrere all’uso di strumenti con una micidiale potenza di fuoco, cinture
esplosive e kalashnikov, come è avvenuto in pregresse analoghe circostanze,
oggi si utilizzano coltelli e van
lanciati contro la folla inerme, strumenti ugualmente letali ma indici di una
maggiore difficoltà dei terroristi a procurarsi adeguati armamenti. Inoltre, mentre i fatti di Parigi sono stati
commessi da militanti addestrati nei territori siriani e iracheni in mano
all’Isis, gli autori dei crimini di Barcellona e Cambrils sono giovani non in
possesso di un significativo ‘curriculum criminale’. Questi cambiamenti,
sebbene non possano tranquillizzarci, sono motivo di riflessione e vanno
oggettivamente valutati.
· Non dobbiamo illuderci che la fine
prossima dell’Isis, ovvero la sua definitiva sconfitta militare segnerà il
ritorno alla normalità. Al contrario il Jihadismo
è un’ideologia diffusa che continuerà a persistere con una forte e
destabilizzante determinazione, forse accresciuta da una più difficile
sopravvivenza. Anzi il carattere acefalo del radicalismo islamico, cioè
l’assenza di un riferimento ideologico e operativo - come attualmente è Daesh -
e di una minima omogeneità strutturale, renderanno più impegnativa l’attività
preventiva delle intelligences nazionali.
· Non sembra che
possano essere mosse critiche all’intelligence
e alle forze di polizia spagnole. Esistono
alcune analogie fra la Spagna e l’Italia. Entrambi i Paesi sono maturati nel
contrasto del terrorismo interno attrezzandosi adeguatamente (a parte qualche
grave gaffe politica, come l’attribuzione
in un primo momento all’organizzazione indipendentista dell’Eta dell’attentato
di Atocha del 2004). Nei due Paesi sono molto puntuali le misure di ordine e
sicurezza pubblica, con un ampio impiego di personale in uniforme e di mezzi
militari nei dispositivi preventivi con finalità dissuasive e deterrenti, Sia l’intelligence spagnola che quella italiana
hanno una riconosciuta oggettiva professionalità. Com’è noto, in Spagna le
istanze autonomistiche sono molto forti; il contrasto del terrorismo è una
competenza dello Stato centrale, ma questo non esclude difficoltà di intesa con
le polizie regionali (come quella catalana). Qualche polemica di questi giorni
ne è la conferma.
· È
plausibile che l’Italia possa essere in un futuro prossimo teatro di un attacco
terroristico, solo tentato si spera. Questo non dipenderà da deficit nelle predisposizioni di sicurezza,
che, per quanto efficienti, non possono garantirci in termini assoluti. L’Isis
ha sempre più difficoltà a mantenere contatti con le sue ramificazioni
periferiche, e perciò lancia ‘in chiaro’ i suoi messaggi utilizzando i suoi
strumenti mediatici, sperando che questi ordini siano recepiti da cellule
nazionali o da isolati aspiranti terroristi. E la direttiva che è stata diffusa
è quella di colpire il nostro Paese. Depone a nostro favore che ‘proclami’ di
questo genere sono stati già emessi in passato senza conseguenze. Inoltre si
registra in Italia una minore presenza di jihadisti
rispetto a quella che si riscontra in altri Stati europei: questa circostanza
indubbiamente facilità l’attività di prevenzione, già qualitativamente elevata
grazie alla professionalità dei nostri apparati.
·A
margine e integrazione del precedente punto, si aggiunge che in relazione
all’attuale ampio ricorso alle iniziative dei cosiddetti lupi solitari uno studioso norvegese[2] sostiene che questa realtà
rappresenterebbe una scelta strategica dell’Isis. Infatti lo stesso Stato Islamico alimenterebbe
una tale propaganda al fine di riuscire ad attivare centinaia di individui
privi di connessioni tra loro e con i loro vertici operativi e ideologici, che
passando da una fase dormiente all’attività
sarebbero più difficili da intercettare per i servizi di sicurezza nazionali.
Questo garantirebbe una miriade di piccoli attacchi. In altri termini i lupi solitari non esisterebbero.
·Perché
la Spagna? Sono state formulate tante teorie, con riferimenti storici, sociologici,
politici, culturali: tutte molto interessanti e da leggere attentamente come
prezioso contributo alla comprensione delle peculiarità della presenza islamica
nella penisola iberica. Molto più semplicemente si deve rilevare che l’iniziativa
criminale a Barcellona è stata facilitata da una massiccia presenza jihadista
in Spagna come peraltro le tante iniziative investigative degli apparati di
sicurezza e le condanne giudiziarie confermano.
· Si
osserva ancora una volta che il Marocco insieme alla Tunisia sono fucine del
terrorismo di matrice fondamentalista. Il Marocco nell’ambito dei Paesi del
Maghreb è un’oasi particolarmente felice sotto molti punti di vista, ma resta
un dato di fatto che molti terroristi sono marocchini. Al di là delle
spiegazioni di questa contraddizione, che è un dato non trascurabile, è
fondamentale che sia implementata la cooperazione informativa e operativa fra
le nostre autorità e quelle marocchine. Peraltro con la probabile prossima fine
dell’Isis il Regno del Marocco dovrà gestire circa duemila foreign fighters di ritorno dai territori dello sconfitto Stato
Islamico[3].
RR
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[1] Alessandro Orsini.
[2] Petter Nasser.
[3] I rapporti fra Fondamentalismo
violento e Regno del Marocco saranno oggetto di un prossimo esame.
SEMPRE PIU’ RICCHI, SEMPRE PIU’ POVERI..(pubblicato su L’Azione del 22 agosto 2017)
Qualche mese fa l’Oxfam – una ONG che, attraverso aiuti umanitari e progetti di sviluppo, intraprende iniziative per ridurre la povertà globale - ha diffuso un inquietante rapporto sulla distribuzione della ricchezza mondiale. È emerso che meno di una decina di uomini detengono la stessa ricchezza di più di tre miliardi e mezzo di persone. E il trend è negativo, ovvero la forbice fra ricchi e poveri in linea di massima si va sempre più allargando: l’esigua minoranza che detiene il potere economico, avvalendosi di evasioni fiscali e di altre illegalità, ha ampie opportunità per influenzare i processi politici che consolidano questo sistema. Una ricerca di un noto economista (Thomas Piketty) ha evidenziato che negli ultimi trent’anni la crescita dei salari del 50 per cento della popolazione mondiale è stata pari a zero, mentre quella dell’1 per cento è aumentata del 300 per cento. Il quadro delle inaccettabili sperequazioni economiche e sociali si completa se consideriamo gli stellari guadagni di calciatori, personaggi televisivi, imprenditori di successo ed altre numerose categorie professionali particolarmente fortunate. La loro situazione finanziaria fa dubitare che esista realmente una recessione economica, o meglio, fa ritenere che esista solo per chi è nato nel posto sbagliato. Pur volendo evitare facili demagogie, non si può non rilevare che anche il grave problema di difficile soluzione dei flussi migratori che si originano nel sud del mondo probabilmente sarebbe fortemente dimensionato se i Paesi di provenienza fossero stati supportati in passato con iniziative finalizzate a garantire una loro autonoma crescita economica. Al contrario il periodo coloniale ha attuato un sistematico sfruttamento e un sistematico saccheggio di queste regioni, che sono state impoverite e ridotte in una condizione di subordinazione. La democrazia, da garanzia dei diritti di tutti, è diventata un narcotico che ci ha abituato a pensare che la ricchezza di pochi e la povertà di molti siano normali, siano patologie fisiologiche di un sistema che, nella sua versione peggiore, resta pur sempre preferibile alla migliore tirannia. In pratica le nostre democrazie sono diventate un alibi per la cristallizzazione di privilegi. La Chiesa cattolica cerca di rivitalizzare il messaggio evangelico che invita gli uomini a non ricercare ossessivamente beni immediati e contingenti, che procurano una felicità fugace e transitoria e ci allontanano da quel dovere di servire gli altri che costituisce il principio etico fondamentale del cristiano. È necessario che i nobili propositi si traducano in progetti politici concreti. RR
Martirio e Islam (17
agosto
2017)
Il
sacrificio degli attentatori suicidi di matrice jihadista ci ha abituati a ritenere che sia molto forte nell’Islam
la vocazione al martirio (lo Shaidismo)
come testimonianza di fede. Va in senso opposto l’istituto coranico della Taqiyya, che consente al musulmano di
dissimulare esteriormente la propria fede fino a rinnegarla quando una tale
condotta sia necessaria per sfuggire ad una persecuzione o ad un pericolo attuale
o imminente[i]. Anche il Kitman[ii], il silenzio, cioè semplicemente tacere, è un atteggiamento difensivo
consentito dal Corano. Più in particolare la Sura XVI (versetto 106) stabilisce
che la collera di Allah si abbatterà sul credente che si è lasciato contaminare
dalla miscredenza, salvo che ne sia stato costretto da un pericolo e abbia
conservato nell’intimo una fede salda e convinta[iii]. Peraltro la tradizione
riferisce che secondo il Profeta la guerra è inganno; mentire è consentito
quando il fine giustifichi i mezzi. In un passo della Sura II (versetto 225) Allah
dà il permesso di prestare falsa testimonianza e di spergiurare[iv]. Il versetto 28 della
Sura III prescrive invece ai credenti di non allearsi con gli infedeli salvo
che ci sia il timore di qualche male da parte loro[v]. Quindi in sintesi il
musulmano può dire menzogne e dissimulare con ogni mezzo il proprio stato
religioso per allontanare una minaccia o per sfuggire ad una punizione. Poiché
Maometto mette sullo stesso piano l’inviolabilità della proprietà con
l’inviolabilità della vita, la Taqiyya
è consentita sia per la protezione della propria persona e sia per quella dei
beni materiali: questa ipocrisia legale quindi si applica anche a tutela di
interessi economici. Gli Sciiti hanno spesso utilizzato questa
prerogativa per sottrarsi all’individuazione e al conseguente rischio di
persecuzione da parte dei rivali Sunniti: questa pratica avrebbe consentito al
culto sciita di crescere e di diffondersi. Un caso di Taqiyya sunnita è invece
quello dei Moriscos in Spagna, che nel XVI sec. dissimulavano la propria
fede per evitare il rischio di una conversione coatta al Cristianesimo. Nel Cristianesimo la facoltà di negare i dogmi
di fede o a compiere gesti contrari ad essa si chiama Nicodemismo[vi];
ebbe un’applicazione marginale e limitata al periodo delle guerre di religione
tra cattolici e protestanti successive
alla Riforma nel XVI secolo. Sono facilmente intuibili le complicazioni che
questo istituto può introdurre nell’individuazione di fondamentalisti e di
potenziali terroristi di matrice islamica. RR
[i] “I credenti non si alleino con i
miscredenti, preferendoli ai fedeli. Chi fa ciò contraddice la religione di
Allah, a meno che temiate qualche male da parte loro. Allah vi mette in guardia
nei Suoi Stessi confronti. Il divenire è verso Allah.”
(Sura III,Versetto 225).
[ii] Traducibile come ‘riserva mentale’.
[iii] “Quanto a chi rinnega Allah dopo
aver creduto - eccetto colui che ne sia costretto, mantenendo serenamente la
fede in cuore - e a chi si lascia entrare in petto la miscredenza; su di loro è
la collera di Allah e avranno un castigo terribile.”
[iv] “Allah non vi punirà per la
leggerezza nei vostri giuramenti, vi punirà per ciò che i vostri cuori avranno
espresso. Allah è perdonatore paziente.”
[v] Vedi nota 1.
[vi] Da Nicodemo, il ricco seguace del Cristo che finse di non conoscerlo
sul Calvario
L’INGIUSTIZIA
DELLA GIUSTIZIA (2 agosto 2017)
Varie
vicende penali, alcune delle quali hanno coinvolto amministratori locali di
alcuni capoluoghi di provincia, stimolano riflessioni sull’attuale condizione
dell’esercizio della funzione giudiziaria nel nostro Paese: le considerazioni
che seguiranno prescindono dal merito di singoli contenziosi, che è difficile
valutare senza una conoscenza obiettiva dei fatti e una specifica preparazione
professionale. In questo contesto non possono nemmeno essere oggetto di una
generale censura le condotte degli operatori, in particolare dei magistrati.
Come in ogni categoria anche fra di loro è normale che accanto ad ottimi e
validissimi professionisti ce ne siano altri che esercitano la delicatezza di
queste attribuzioni con una preparazione inadeguata e con scarsa sensibilità e
attenzione. Agli organi giudiziari in linea di massima non possono essere
addossate responsabilità per l’inadeguatezza del sistema nel quale sono
chiamati ad operare. È evidente la necessità di una profonda riforma. In ambito
penale vengono fatte molte ipotesi, a cominciare dalla separazione delle
carriere fra magistrati addetti agli uffici giudicanti e quelli in servizio in
strutture inquirenti. Sono ipotesi tutte meritevoli di essere esaminate. Tuttavia
il processo di riforma dovrebbe essere più radicale, e cominciare dal valutare
la necessità di integrare la rigida applicazione dei principi di legalità
formale, a cui si ispira il nostro ordinamento giuridico, con elementi di
giustizia sostanziale. Per chiarire questa affermazione sono necessarie alcune
premesse. Il principio di legalità formale è il fondamento dello Stato di
diritto e consiste nella necessità che ogni attività dei pubblici poteri si
strutturi sulla legge. Ad essa si contrappone la legalità in senso sostanziale:
in questo caso la correttezza dell’esercizio di una funzione presuppone che
siano perseguiti i principi che sono il fondamento costituzionale dello Stato.
Il principio di legalità si declina nel diritto penale per definire la liceità
e l’illiceità delle condotte. Per la legalità formale sia il fatto che
costituisce reato sia la sanzione che si ricollega alla sua commissione devono
essere espressamente previsti dalla legge: esso viene sintetizzato dalla
formula latina di origine illuministica ‘Nullum crimen, nulla poena sine lege’.
Il principio di legalità, inteso in questa accezione, costituisce un’importante
garanzia della libertà degli individui in quanto vieta di punire i fatti che,
al momento della commissione, non siano espressamente previsti come reati, e di
sanzionarli con pene che non siano previste dalla legge. Per il principio di
legalità sostanziale vanno invece considerati reati i fatti socialmente
pericolosi. Consentendo di punire condotte offensive a prescindere da una
previsione normativa, la legalità sostanziale garantisce indubbiamente
un’efficace difesa sociale e consente un flessibile adeguamento della normativa
penale al divenire della realtà sociale. Ma irrogare pene senza una previsione
normativa può autorizzare provvedimenti arbitrari, mentre la vigenza del
principio di legalità formale costituisce un’irrinunciabile presidio di
democrazia. Nel tempo il principio di legalità formale - precludendo la
punibilità di condotte non previste espressamente come reato - si è trasformato
talvolta in uno strumento di cui possono servirsi coloro che riescono a
sfruttare le lacune delle norme incriminatrici, ponendo in essere azioni
riprovevoli non inquadrabili in alcuna fattispecie e perciò non punibili.
Inoltre, in base ad una applicazione inquietante ma giuridicamente ineccepibile
della legalità in questa accezione, sono state annullate per vizi formali
condanne a malavitosi e a mafiosi che sono costate agli investigatori lunghe
indagini, impegno, sacrifici ed esposizione a gravi pericoli. I Romani avevano
intuito questa possibile deriva del diritto con la massima ‘Summum ius, summa
iniuria’. Può accadere anche l’ipotesi simmetricamente opposta, ovvero che
individui paghino per infrazioni a norme commesse nell’interesse altrui o della
collettività poste in essere senza trarne nessun beneficio personale. Si tratta
in questo caso di condotte - talvolta di amministratori - ineccepibili da
un punto di vista sostanziale ma formalmente meritevoli di sanzione. Per questa
caratteristica il nostro ordinamento viene considerato appartenente alla
categoria dei sistemi di ‘Civil Law’, nei quali rileva solo la legge scritta.
Al contrario negli ordinamenti ispirati all’opposto principio del ‘Common Law’
(quelli anglosassoni), le codificazioni positive sono limitate al minimo mentre
il diritto è prevalentemente di formazione giurisprudenziale, ovvero i giudici
nel decidere si conformano alle sentenze adottate in passato per analoghi casi
tenendo presenti le esigenze di giustizia del caso concreto. In aggiunta le
caratteristiche spiccatamente formali del nostro ordinamento rendono
problematici gli esiti dei ricorsi alle corti internazionali di giustizia, dal
momento che l’attività di questi organi transnazionali si ispira alla verifica
di un’effettiva - e non formale - tutela dei diritti di cui esse sono garanti.
Fatte queste premesse appare necessario quindi che il nostro ordinamento, per
essere maggiormente ‘giusto’, sia rifondato tenendo in maggiore considerazione
i principi di giustizia sostanziale, evitando che l’applicazione delle
disposizioni in un rigido regime di legalità formale da strumento di garanzia
si trasformi in un alibi per la perpetuazione di abusi ‘legalizzati’. RR
INTERNET:
FINE DELLA STAMPA O RINASCITA DI CREDIBILITA’ (Su L’Azione del 28 luglio)
In
un recente convegno che si è svolto a Udine si è discusso del futuro del
giornalismo. In proposito l’inarrestabile calo delle vendite dei quotidiani
cartacei e l’aumento dei lettori che si affidano alla Rete è un tema di stretta
attualità. L’informazione digitale non ha sostituito quella che si avvale dei
mezzi tradizionali come la carta stampata, la radio e la televisione, ma ha
ridefinito il ruolo di questi ultimi. Con il Web disponiamo di una mole
illimitata di dati e la fatica di cercare informazioni è stata surrogata da
quella di selezionare. Con una felice espressione l’intellettuale elvetico
Starobinski ha affermato che Internet, per le sue potenzialità, è simile a una
sintesi fra la biblioteca di Alessandria e la cloaca Massima. Per la diffusione
di notizie l’informazione digitale punta su tempi più brevi rispetto a quelli
di un quotidiano cartaceo o a quelli imposti dal rispetto dei palinsesti
radiotelevisivi (a parte le edizioni straordinarie). Internet paga l’immediatezza
della notizia con il suo carattere scarno e superficiale, mentre i media
tradizionali possono garantire come specifica loro prerogativa un giornalismo
più meditato e articolato. Il rapporto fra Web e carta stampata è analogo a
quanto è avvenuto in occasione della nascita della televisione. Allora qualcuno
profetizzò che l’intrattenimento televisivo avrebbe causato la crisi del
cinema, dei periodici e dei libri. Non avvenne niente di tutto questo: la
televisione, ancora lontana dal divenire una cattiva maestra, introdusse
attraverso gli sceneggiati e gli adattamenti televisivi dei classici nuovi modi
di far cultura che non surrogarono il patrimonio preesistente ma lo
integrarono. Allora il servizio radiotelevisivo plasmò la lingua nazionale e
svolse un ruolo determinante nella formazione della classe media. Anche
Internet, in maniera diversa dai giornali, ha una sua specifica capacità di
approfondimento. Generalmente questo avviene mediante l’ipertesto, che
consente una navigazione non sequenziale, ovvero permette la possibilità di
accedere direttamente a contenuti mediante collegamenti a parole o a concetti.
In altri termini con l’ipertesto non vi è un ordine prestabilito dei
documenti da esaminare prima di accedere alla pagina che interessa. I network
radiotelevisivi e la carta stampata non dovrebbero entrare in competizione con
le prerogative del Web ma puntare sulla qualità dell’informazione, ovvero sulla
sua completezza, sulla sua comprovata oggettività, su un equidistante
approfondimento. Questi attributi, che sono incompatibili con la velocità con
la quale i dati viaggiano in Rete, consentono di ridefinire il ruolo dei media
tradizionali, nei quali peraltro non possono trovare posto le fake news.
I giornali di carta devono essere il presidio della credibilità e
dell’autorevolezza, uno strumento critico per un’obiettiva comprensione della
complessità del mondo che ci circonda. Affidabilità della Stampa non equivale a
riesumare il principio dell’ipse dixit: se i fatti esposti devono essere
oggettivi, le opinioni esprimono sempre posizioni soggettive. RR
Da Haiti un esempio su cui riflettere (pubblicato su L’Azione del 18 luglio 2017)
La
Juventus ha difficoltà a trovare un campo in cui disputare le proprie partite.
Ovviamente non si tratta del club torinese ma della Juventus des Cayes che,
dopo il passaggio devastante ad Haiti dell’uragano Matthew nell’ottobre del
2016, non ha più la sede e il proprio impianto in erba sintetica nella penisola
di Tiburon. Senza campo ma con un grande cuore la Juventus des Cayes valendosi
di giocatori locali ha cominciato a scalare le categorie dei campionati di
calcio nazionali fino al raggiungimento della massima serie. Coltiva la
speranza di vincere prima o poi lo scudetto: le sue aspirazioni si alimentano
della possibilità di un supporto da parte della sorella maggiore torinese. Le
vicende della Juventus des Cayes sono emblematiche di quelle attuali di Haiti,
che dopo aver subito la furia rovinosa di un terribile terremoto si sta
faticosamente risollevando grazie alla solidarietà internazionale, alla
generosa tenacia dei suoi cittadini, alla loro insopprimibile vitalità. Il
microcosmo della società sportiva haitiana è immagine di un calcio diverso da
quello al quale siamo abituati, quello che vive sotto volte dorate e necessita
di ingenti e inquietanti flussi di denaro. Confrontando il calcio haitiano con
quello europeo, sarebbe banale scandalizzarsi degli esorbitanti ingaggi dei
calciatori che giocano in Europa dal momento che l’entità dei loro appannaggi è
un’applicazione della legge più semplice del libero mercato, secondo la quale
il valore economico di un bene o di una prestazione è il risultato della
dialettica fra domanda e offerta. Resta tuttavia eticamente inaccettabile che
nel mondo ci siano individui o gruppi economici che possano disporre di
capitali così abnormi, e che li possano destinare con tanta disinvoltura alla
retribuzione di calciatori. Tutto questo è difficilmente tollerabile se si
pensa che solo una parte di queste somme sarebbe sufficiente a debellare malattie
o potrebbe essere utilizzata per sottrarre alla fame e alla povertà l’intera
popolazione mondiale. Ho sempre pensato che la parabola evangelica della
moltiplicazione dei pani e dei pesci celasse simbolicamente un monito: una
piccola quantità di beni (nella metafora evangelica cinque pani e due pesci) se
equamente distribuita è sufficiente a soddisfare i bisogni di tutta la
collettività. Al contrario una decina di uomini possiede la stessa ricchezza
della rimanente parte della popolazione mondiale. Influenti gruppi finanziari
continuano ad alimentare la disuguaglianza mediante il ricorso all’evasione
fiscale o massimizzando i profitti anche a costo di ridurre oltre il valore
minimo i salari e usando il loro potere per influenzare la politica. Nel
frattempo la moltitudine che subisce le ristrettezze dell’attuale congiuntura
economica, cieca come il volgo
manzoniano, plaude agli attori del calcio milionario. RR
VERSO
UNA DIFESA COMUNE EUROPEA? (pubblicato su L’Azione del 14 luglio)
L’obiettivo
di una difesa comune da sempre è parte integrante del progetto europeo, ma dopo
il fallimento del Pleven Plan (1950) questa aspettativa non si è mai
realizzata. Nel Consiglio Europeo del 22-23 giugno scorso gli Stati Membri
hanno concordato sulla necessità di avviare una cooperazione strutturata
permanente in campo militare non solo per rafforzare la sicurezza e la difesa
esterna, ma anche per fornire un contributo alla pace e alla stabilità globale.
Sarà prioritaria l’esigenza di dare impulso a progetti strumentali a colmare le
lacune che ostacolino questo programma. La partecipazione degli Stati aderenti
all’iniziativa dovrà essere coerente con i rispettivi impegni nazionali assunti
nell’ambito dell’ONU e della NATO. In proposito, è stato ribadito il ruolo centrale
di riferimento dell’Alleanza Atlantica. Il Presidente del Consiglio Europeo
Donald Tusk ha dichiarato che queste determinazioni sono…un passo storico,
perché questa cooperazione consentirà all'UE di procedere verso una più
profonda integrazione nel settore della difesa. La mancanza di cooperazione
in questo ambito ha un grave costo economico in termini di duplicazioni di iniziative
difensive. Se i Paesi dell’Unione potessero condividere mezzi, risorse, e
condurre insieme anziché separatamente attività di ricerca, ne trarrebbero
vantaggio l’efficienza e il risparmio delle finanze. Pertanto la Commissione
Europea ha proposto l’istituzione di un fondo per la difesa comune, la cui
finalità quindi non è la creazione di un esercito europeo da impiegare anche in
scenari di crisi - obiettivo ambizioso che necessità tuttavia della definizione
di una più precisa base giuridica - ma la razionalizzazione dell’impiego delle
risorse degli Stati in questo settore attraverso incentivi alla collaborazione.
Questa iniziativa, il cui principale valore aggiunto consisterà nell’unire gli
sforzi per permettere che le attività siano pianificate in maniera coordinata,
costituisce un nuovo efficiente approccio che potrà essere eventualmente esteso
anche ad altre aree di competenza. Dopo le necessarie affermazioni di principio
a livello di capi di Stato e di governo la questione si trasferirà nei tavoli
tecnici del Consiglio dell’Unione Europea, che avranno il difficile compito di
dare attuazione concreta all’ambizioso progetto. Ci saranno molte difficoltà da
superare, non solo di carattere tecnico. Le attività in questo ambito, anche se
hanno intenti solo difensivi, comportano valutazioni che per essere condivise
dai Paesi membri presuppongono coesione politica e solidarietà, mentre l’Europa
appare sempre più divisa, come dimostra il dibattito in tema di flussi
migratori. RR
LA
POSTDEMOCRAZIA E LA DITTATURA DELLE MINORANZE (pubblicato su L’Azione del 7
luglio)
Negli
Stati democratici il principio cardine è quello di maggioranza, in base al
quale nell’assunzione delle determinazioni di governo la volontà espressa dai
più deve essere considerata come il volere di tutti. Per evitare gli abusi
delle maggioranze il principio maggioritario è sottoposto a limiti e correttivi
a tutela delle minoranze. Un intellettuale libanese spesso controcorrente, N.
N. Taleb, con un saggio recente (Il più intollerante vince: la dittatura
delle minoranze - 2016) ha segnalato che i regimi occidentali attualmente
sono soggetti ad un rischio opposto, ovvero a quello di essere eccessivamente
condizionati dalle minoranze, che si affermano in virtù di un malinteso uso
della democrazia. Attraverso alcuni rilevamenti empirici lo studioso ha
concluso che alcune minoranze particolarmente attive e intransigenti necessitano
solo di un’esigua percentuale (3-4 %) per imporre con le loro rimostranze le
proprie preferenze all’intera popolazione. Così l’improbabile può governare
la nostra vita. Nello stesso tempo si produce un altro effetto, ovvero che
quelle scelte sembrino volute dalla maggioranza stessa. Tali possibili derive
dell’ordine democratico possono riguardare l’intera collettività: questo
avviene quando vere e proprie corporazioni (specifiche categorie di lavoratori
e professionisti) per perseguire i propri obiettivi causano disagi a tutta la
comunità. Ma le istanze di pochi possono anche condizionare le dinamiche
istituzionali: non è raro infatti che piccoli gruppi politici con iniziative ostruzionistiche
paralizzino l’iter parlamentare di provvedimenti normativi o, più in
generale, ostacolino il normale svolgimento delle attività istituzionali. Tutto
nel rispetto formale delle regole vigenti. Senza entrare nel merito delle
specifiche questioni, queste condotte sono un corollario dell’assenza di un
maturo e solido senso dello Stato: nei momenti di crisi agli interessi di parte
strutturati su differenze ideologiche sarebbe opportuno sforzarsi di anteporre
la prioritaria esigenza di un dialogo costruttivo fra poli opposti. Il potere
delle minoranze, secondo le deduzioni politicamente scorrette di Taleb,
troverebbe fondamento in un’eccessiva tolleranza e flessibilità della
maggioranza. Forse questa dinamica è anche conseguenza dell’avvento della post
democrazia, che ha come corollario una generale crescente passività e
disaffezione dei cittadini. Non si deve dimenticare inoltre che una vera
democrazia non deve diventare lo scudo di chi vuole imporre con la forza la
propria volontà. Paradossalmente il potere di una minoranza non sempre ha un
esito negativo, ovvero l’egoistica ipertutela di interessi particolari: la
creazione o l’evoluzione di valori morali nella società infatti non
necessariamente deriva da una più ampia base di consenso su di essi, ma può
scaturire anche dalle iniziative di un ristretto numero di persone che con la
propria intolleranza impongono a tutti una maggiore rettitudine. Ma anche
questa è una patologia dell’ordine democratico. RR
il Venezuela da Chavez a MADURO (pubblicato su
L'Azione del 1 luglio 2017)
La
storia recente del Venezuela è paradigmatica della parabola di molti regimi
sudamericani. Nel 1992 un giovane ufficiale, Hugo Chávez, tentò senza successo
un golpe alla guida di un manipolo di militari ispirati dalla ideologia
rivoluzionaria della svolta a sinistra del nazionalismo popolare, sintetizzata
nello slogan caudillo, esercito, popolo. L’iniziativa gli costò un
periodo di detenzione, ma giovò alla sua popolarità. Tornato libero Chàvez
venne eletto presidente e successivamente più volte riconfermato. Il suo
mandato, animato da un antimperialismo militante, da un demagogico
egalitarismo, da un cristianesimo modellato a proprio uso e consumo, attuò un
programma di riforme miranti allo sviluppo di un'economia di tipo socialista
vicina al modello cubano, e assunse spesso posizioni critiche verso gli USA. A
seguito di modifiche costituzionali il Paese intraprese una deriva autoritaria
e Chávez consolidò il suo potere. Seguirono travagliate vicende e un ulteriore golpe
che alla fine contribuirono ad accrescere il carattere assoluto del regime, sempre
meno rispettoso dei diritti civili, delle regole democratiche, delle garanzie
dell’opposizione, e molto disinvolto nel liberarsi dei nemici del nuovo
corso. Il leader venezuelano ereditò un Paese corrotto e con grandi
sperequazioni sociali. Il suo carisma si alimentava del successo di politiche
sociali che potevano contare sulle generose entrate che provenivano dal
petrolio - di cui il Venezuela è uno dei massimi produttori mondiali - e su un
populismo amplificato da media compiacenti. Il mito di Chávez è molto
vicino a quello del generale Aureliano Buendìa, il personaggio creato dal
realismo magico di Gabriel Garcia Marquez. Con la sua avventurosa e disinvolta
personalità che si nutriva di aneddoti e imprese, talvolta fortunose quanto
irreali che incantavano l’immaginario popolare, il generale Buendìa, dispotico,
violento, vendicativo, sanguinario, riusciva a controllare la complessità
sociale del proprio Paese. Il problema di molte realtà sudamericane è che alla
morte di un leader dotato di una personalità così ricca e forte è
difficile trovare un erede in grado di continuarne l’opera e di gestirne le
contraddizioni. Così sta avvenendo in Venezuela, dove alla controversa ma
coinvolgente e mitica soggettività di Chávez è subentrato alla sua morte il modesto
ex sindacalista Nicolas Maduro. In questo momento di transizione che segue la
morte del patriarca - scrive Gabo - le campane di giubilo annunciano …..al
mondo la buona novella che il tempo incalcolabile dell'eternità è finalmente
terminato. RR
I
PRINCIPI DELLA SOCIETA’ MULTIETNICA (pubblicato su L’Azione del 23 giugno
2017)
La
convivenza multiculturale, che anche a causa del costante flusso migratorio
caratterizza i Paesi occidentali, impone continue negoziazioni fra i vari
gruppi etnici al fine di evitare conflitti fra le diverse identità. Queste
negoziazioni tuttavia non possono riguardare i precetti dell’ordinamento
giuridico vigente, che sono un parametro di riferimento per valutare le
conseguenze della propria condotta a cui tutti devono indistintamente
sottostare. A tutti gli appartenenti alla comunità deve essere garantita
l’uguaglianza, che insieme agli altri principi illuministici della libertà e
della giustizia, è il cardine delle democrazie occidentali; l’uguaglianza per
essere realmente tale deve essere integrata da alcuni correttivi necessari per
assicurare una reale giustizia nei casi concreti. In particolare non possono
essere trattate allo stesso modo situazioni apparentemente uguali ma in
concreto diverse, mentre in maniera simmetricamente opposta non possono essere
considerate diversamente situazioni uguali. In altri termini va perseguita
l’uguaglianza sostanziale, non quella meramente formale. Spesso si fa
riferimento alla tolleranza per indicare la predisposizione individuale da privilegiare
nei rapporti interpersonali. Voltaire fondava la tolleranza sulla comprensione
dell’imperfezione umana. Tutti gli uomini senza distinzioni di razza, di sesso,
di religione, di condizioni personali e sociali, sbagliano; per questo, per
convivere in armonia si deve essere reciprocamente indulgenti. Paradossalmente
il concetto di tolleranza ha delle sfumature vagamente discriminatorie. Nella
pratica infatti dietro la benevolente accettazione dell’altro si cela un
implicito giudizio di superiorità, di diffidenza, o addirittura di biasimo o di
condanna. La convivenza dovrebbe invece essere strutturata sul riconoscimento
della pari dignità dell’altro. Segnatamente in materia di immigrazione la
demagogia politica, rigidamente polarizzata sui principi opposti
dell’accoglienza generalizzata o del respingimento indiscriminato,
strumentalizza le possibili derive conseguenti ai due atteggiamenti, rendendo
difficili approcci costruttivi che possano conciliare i principi di civile
solidarietà, con problemi di sovraffollamento e di criminalità indotta.
L’integrazione è un dovere civile, ma ha senso qualora sia reale e non si
esaurisca in affermazioni di facciata da spendere per fini politici o
elettorali. I mutamenti delle condizioni di vita e i costi sociali che richiede
la dimensione multiculturale devono essere tali da non alimentare una
contrapposizione o contrasti fra i cittadini del Paese ospitante e i nuovi
arrivati. Solo tenendo presenti questi presupposti e rinunciando ad alimentare
l’enfasi populista di un facile buonismo o all’opposto quella ad effetto di un
inconsistente intransigenza, le questioni connesse alla convivenza
multirazziale, seppur non risolte, potranno essere affrontate seriamente.
RR
LA
CRISI FRA QATAR E ARABIA SAUDITA (pubblicato su L’Azione del 16 giugno 2017)
La
recente crisi fra Qatar e Arabia Saudita (con la quale hanno solidarizzato in
particolare gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, l’Egitto e le islamiche
Maldive) dimostra in maniera palese l’esistenza di un grave frattura all’interno
del fronte arabo sunnita. Questo dissidio, pur essendo ben noto, finora era
rimasto allo stato latente; tale conflittualità non è determinata da fattori
religiosi o ideologici, ma esclusivamente da contingenze economiche e
politiche, cioè dalla malcelata aspirazione di entrambi gli Stati alla
leadership dei Paesi arabi sunniti alla quale conseguirebbe tra l’altro un
potere egemonico sull’intera area del Golfo. È conosciuta la potenza
finanziaria della monarchia saudita. Il Qatar è invece un piccolo emirato retto
dall’ambiziosa famiglia Al-Thani. Ha solo mezzo milione di abitanti ma è tra i
Paesi più ricchi del mondo potendo contare su una straordinaria estrazione di
petrolio ed essendo il più grande produttore di gas naturale liquido. Ha anche
una non trascurabile importanza strategica essendo proprietario di uno dei
fondi sovrani più attivi del mondo e ospitando Centcom, il Comando delle Forze
Armate USA in Medio Oriente. Lo Stato qatariota è anche sede dell’emittente
satellitare Al Jazzera, considerata scomoda dagli altri Paesi arabi per la sua
linea editoriale troppo disinvolta (ovviamente sempre fedele alla famiglia Al
Thani). Al Jazeera inoltre esercitando il diritto di cronaca ha dato voce in
passato ai comunicati di Al Qaeda. Nella complessa situazione mediorientale
vanno considerati gli obiettivi dell’Iran che da sempre necessita di un alleato
amico nella penisola araba per avere un punto di transito per meglio gestire i
suoi interessi nel continente africano. L’Iran sciita, accusato di destabilizzare
l’area mediorientale attraverso la sua crescente influenza in Siria, in Libano
e nello Yemen, è da sempre ostile alla monarchia saudita di cui non riconosce
la leadership religiosa islamica; si è pertanto affrettato a schierarsi con il
Qatar. Lo Yemen, che ha una posizione strategica di rilievo, dilaniato da
tragiche vicende belliche interne, si è diviso sui due fronti: il governo
riconosciuto internazionalmente è con l’Arabia Saudita, mentre i ribelli Houti
sono vicini all’Iran (e quindi al Qatar). Se si considera l’entità dei fondi
sauditi destinati ad alimentare il fondamentalismo jihadista in Europa,
appare del tutto pretestuosa (anche se fondata) l’accusa rivolta al Qatar di flirtare
con i terroristi, in particolare con Hamas e gli Hezbollah, e di essere rifugio
di leader dei Fratelli Musulmani (il Qatar è stato tra i principali sostenitori
del presidente egiziano ‘islamista’ Mohammed Morsi, deposto nel 2013
dall’allora ex capo delle forze armate Al Sisi). Questa crisi, seppur molto
grave e destabilizzante, probabilmente resterà solo diplomatica e politica.
Sarebbe devastante se avesse derive belliche. RR
CONTRO-TERRORISMO:
SCAMBI ESISTONO, MA SERVE PIÙ FIDUCIA TRA SERVIZI (pubblicato su L’Azione
del 9 giugno 2017)
Dopo
i tragici fatti di Londra della sera del 3 giugno si sono riaccese le
discussioni nei media su quali iniziative possano garantire una maggiore
sicurezza. Molti tornano ad insistere sulla necessità di un incremento dello
scambio di informazioni fra organismi di intelligence dei Paesi dell'Unione
Europea. Questa forma di cooperazione anche se codificata dai documenti
comunitari in maniera chiara e dettagliata da un punto di vista pratico non
sempre si articola in maniera efficace. I rapporti fra i collaterali organi di
polizia di Stati diversi hanno una confidenzialità molto formale, diversamente
da quello che avviene nel contesto nazionale. Pertanto le informazioni più
sensibili sono scambiate con prudenza finché non siano accertate nella loro
reale portata (e questo comporta una condivisione tardiva). È rischioso infatti
comunicare a livello transnazionale notizie da verificare, in quanto queste
iniziative possono mettere in moto all’estero attività che, se si rivelassero
infondate, potrebbero essere fonte di responsabilità e conseguenze anche gravi.
Si dice che esista una gelosia degli Stati circa le informazioni di polizia di
cui dispongono. Questo avviene soprattutto per quelle notizie inerenti indagini
in corso che potrebbero essere compromesse da una divulgazione impropria di
quanto acquisito. Deve essere considerato che spesso già all'interno di uno
stesso ufficio di polizia di livello locale per un generale principio di
prudente riservatezza operativa non c'è una generale condivisione di notizie
criminis, ovvero non tutti gli appartenenti alla struttura sono messi al
corrente di tutto. Le legislazioni nazionali possono creare difficoltà
concrete: non è di aiuto la mancanza di una nozione di terrorismo unanimemente
condivisa a livello internazionale. Quindi gli ostacoli a ben vedere sono
culturali, non dipendono da una mancanza di strumenti, che tuttavia vanno
costantemente implementati. Le diffidenze possono essere superate solo
attraverso una maggiore fiducia reciproca che può essere conseguita lavorando
insieme. Anche una più puntuale omogeneità strutturale e sostanziale fra gli
apparati giudiziari e di polizia degli Stati sarebbe auspicabile. Sicuramente
Europol è un riferimento importante per meglio strutturare la lotta europea
all’eversione jihadista. In conclusione non è necessario stabilire ulteriori
obblighi di collaborazione fra gli Stati, ma è necessario un salto culturale,
ovvero che gli operatori si sentano sempre più poliziotti europei e
acquisiscano una fiducia reciproca che può nascere solo dal lavoro congiunto.
La creazione di squadre investigative multinazionali per il contrasto del
terrorismo è una preziosa predisposizione in linea con questa direttiva.
L'Europa, prima di essere una entità politica, deve essere una realtà
culturale. RR
LA
SOCIETA’ CIVILE SFIDA LA POLITICA (pubblicato su L’Azione del 1 giugno 2017)
La
folla di 15mila persone che sabato 27 sera si è radunata a Tel Aviv per
chiedere un accordo di pace basato sulla formula ‘due popoli, due Stati’ ha
posto sotto i riflettori gli sforzi dell’associazione Save Israel - Stop the
Occupation (SISO), un movimento fondato nel 2015 da un centinaio di accademici
israeliani per promuovere il ritiro di Israele dai Territori occupati nel 1967
e arrivare così alla nascita di uno Stato palestinese. L’organizzazione annovera
personalità di primo piano nella storia di Israele, fra i quali lo storico ed
ambasciatore Eli Barnavi, il politologo Menachem Klein, la manager pacifista
Jessica Montell, per anni direttrice dell'organizzazione per i diritti umani
B'Tselem. Gli obiettivi del movimento nascono dall’amor di patria per Israele,
e dalla constatazione che solo un processo che assicuri l’autodeterminazione
del popolo palestinese potrà consentire una normalizzazione della vita civile
israeliana, con il raggiungimento di un’autentica sicurezza, democrazia e
prosperità. La fine dell’occupazione dei Territori condiziona inoltre il pieno
riconoscimento di Israele da parte della comunità internazionale. Il movimento
aspira a fare da centro di coordinamento delle attività dei gruppi pacifisti
ebraici nel resto del mondo. Lo scorso settembre SISO ha diffuso un
appello firmato da 500 personalità ebraiche israeliane e della diaspora per la
fine alla politica dell’occupazione dei territori palestinesi. Tra i firmatari
figuravano il premio Nobel per l'Economia Daniel Kahneman, la cantante Noah,
gli scrittori Amos Oz e David Grossmann, decine di ambasciatori e parlamentari
israeliani, 160 docenti universitari. L’appello va nella direzione opposta
della linea politica dell’attuale governo israeliano, che non sembra riflettere
il comune sentire di una parte importante della base popolare israeliana
ebraica, stanca di vivere in costante precarietà e pericolo. Naturalmente la
realizzazione delle prospettive di pace richiede la cooperazione dei
Palestinesi e la fine delle ostilità nei confronti di Israele. Le iniziative di
SISO sollecitano con forza la mobilitazione degli Ebrei della diaspora: come in
passato il loro supporto ha consentito la nascita dello Stato ebraico, oggi la
loro solidarietà potrebbe consentire allo Stato di Israele di ritrovare la sua
anima democratica e riaffermare i suoi fondamenti morali. Le analisi di SISO
individuano le barriere socio-psicologiche che impediscono ad Israele di
intraprendere un cammino di pace, cercando di diffondere nuove idee e
considerazioni che possano portare il popolo israeliano ad inforcare un nuovo
paio di occhiali con cui guardare alla questione palestinese. La consapevolezza
di questi ostacoli è il presupposto per il loro superamento e per l’individuazione
di azioni concrete la cui attuazione potrà essere concertata in un eventuale
tavolo negoziale. La convivenza pacifica va costruita pazientemente. In
proposito, Shimon Peres amava dire: “Non è vero che non c’è luce in fondo al
tunnel in Medio Oriente. Tutt’altro, la luce c’è. Il problema è che non c’è il
tunnel.” RR.
LA
NIGERIA E I TERRORISTI DI BOKO HARAM, PER ALCUNI PIU' PERICOLOSI DELL'ISIS (pubblicato
su L'Azione del 26 maggio 2017)
Lo
scorso 7 maggio dopo tre anni di prigionia sono state liberate 82 delle 276
studentesse nigeriane rapite nel 2014 dai miliziani dell'organizzazione
terroristica Boko Haram. Le vicende di questo gruppo terroristico evidenziano
come una banda di criminali sanguinari, che operi a livello locale, ovvero
nella sola regione nigeriana, si possa trasformare, sfruttando contingenti
favorevoli, in uno dei maggiori centri di riferimento del fondamentalismo jihadista
africano. Il ‘Popolo per la Propagazione degli Insegnamenti del Profeta e
della Jihad’- questo è il suo nome originario - ufficialmente si costituì nel
2001 come reazione alla corruzione del regime federale nigeriano e al malessere
sociale alimentato dalla disoccupazione. Sulla sua origine probabilmente hanno
inciso le vicende algerine. Com'è noto, in Algeria nelle elezioni legislative
del 1992 il Fronte Islamico per la Salvezza vinse ampiamente il primo turno;
con il secondo turno il FIS avrebbe conseguito la vittoria definitiva.
Tuttavia, l’esercito intervenne prima del secondo turno per interrompere il
naturale esito del processo elettorale. Si originò così quella guerra civile
nell’ambito della quale nacque il gruppo armato Gia, successivamente Gspc, il
Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento. Le reazioni poco
ortodosse dell’apparato di sicurezza algerino determinarono la
fuoriuscita dal Paese di membri dei gruppi fondamentalisti. Questi individui si
rifugiarono soprattutto nelle zone di frontiera fra Algeria, Mauritania e
Niger, evitando di andare verso la Libia, o altri Stati
Nord-Africani, in quanto questi Paesi erano maggiormente attrezzati per il loro
respingimento; diversamente la Mauritania, il Niger e il Mali non avevano le
risorse umane e tecnologiche per un adeguato controllo transfrontaliero.
Probabilmente questi fuoriusciti hanno costituito i nuclei originari di Boko
Haram, che nel dialetto locale (la lingua Hausa) può essere tradotto
'l'educazione occidentale è sacrilega'. Il suo obiettivo è l'opposizione alla
cultura occidentale ritenuta corruttrice della purezza dell’Islam. Per il
carattere regionale e isolato Boko Haram non può essere associato al jihadismo
internazionale. L’incerta linea gerarchica, la struttura poco
chiara, la divisione in fazioni, una catena di comando non univoca, si
traducono in un problema di rappresentatività che rende
difficili negoziazioni con le istituzioni governative nigeriane. I membri
di Boko Haram per il loro violento integralismo vengono definiti i 'talebani
nigeriani'. Il movimento jihadista si avvale anche di attacchi
suicidi eseguiti da bambini, che hanno come obiettivo interi villaggi, nei
quali vengono consumati massacri all'interno di scuole e chiese, e rapimenti di
intere collettività. Alcuni analisti, in relazione al numero e alla violenza
delle iniziative terroristiche e alla moltitudine delle persone trucidate,
considerano il livello di pericolosità del movimento superiore a quello
dell'Isis. RR
LA
LOTTA AL NARCOTRAFFICO IN MESSICO (pubblicato su L'Azione del 19-5-2017)
Nonostante
la globalizzazione, i media Europei rimangono etnocentrici. Basta
guardare l'edizione di un telegiornale straniero non europeo come Al
Jazeera, per rendersi conto di quante notizie non arrivino in Occidente.
L'elezione di Donald Trump e il successivo riacutizzarsi del contenzioso con il
Messico per la lotta all'immigrazione clandestina, ha richiamato l'attenzione
dei media non solo americani su questo Paese e sui mali cronici da cui è
afflitto. Non ha avuto invece molto spazio la notizia dell'assassinio di Miriam
Rodriguez Martinez, uccisa in Messico il 10 maggio da un'organizzazione
criminale. La coraggiosa donna, madre di un desaparecido, era attivista
di un'organizzazione di coordinamento delle iniziative delle famiglie che negli
ultimi anni avevano subito la sparizione di un congiunto in circostanze
misteriose legate al contrasto del narcotraffico. In proposito, nel 2016
i conflitti fra le organizzazioni messicane di narcotrafficanti hanno causato
23.000 morti circa. Solo la guerra siriana ha avuto nel corso dell'anno un
numero superiore di vittime (più di 50.000). È paradossale che siano gli
arresti di narcotrafficanti 'eccellenti' a generare sanguinose stragi: le
operazioni degli organi giudiziari e di polizia (come la cattura di Joaquin El
Chapo Guzman, capo di un potente cartello) creano infatti vuoti di potere
che scatenano lotte per un nuovo assetto nel controllo delle principali rotte
criminali. Negli ultimi anni si è assistito al notevole incremento dell'offerta
di oppiacei provenienti dal Messico e diretti prevalentemente agli USA (si
stima negli ultimi anni un aumento di più del 40% della coltivazione di
papavero). Questo incremento è legato alla conversione dei campi di marijuana
in campi di oppio dovuta alla maggiore convenienza della produzione della
relativa pasta rispetto alla marijuana pressata ed essiccata: la vendita di un
chilo di oppio rende ai campesinos circa 800 dollari, contro i 15 che si
ricavano da un chilo di marijuana. Anche il processo di legalizzazione della
marijuana in corso negli Stati Uniti ha inciso sulla contrazione del traffico
illegale di questa sostanza psicotropa a vantaggio della richiesta di eroina
(che è un oppiaceo). Teatro delle illegalità è il confine fra Stati Uniti e
Messico: il contrabbando è prevalentemente appannaggio delle organizzazioni
criminali messicane in stretto contatto con le loro controparti americane.
Oltre alle attività repressive dei due Stati nei loro rispettivi territori, è
importante una diretta collaborazione. Sono già in atto iniziative
transfrontaliere che prevedono una strategia congiunta mediante il
coinvolgimento delle rispettive polizie e unità antinarcotiche, nonché
l’uso di mezzi tecnologici. Nonostante le dichiarazioni di ostilità a livello
politico fra i due Stati, esiste una stretta collaborazione fra i
rispettivi operatori. Henri Ford amava dire che mettersi insieme è
un inizio, rimanere insieme è
un progresso, lavorare insieme un successo.
MIGRAZIONI,
UN'OCCASIONE PER IL DIALOGO FRA FEDI E CULTURE (pubblicato su l'Azione del
12 maggio 2017)
Il
recente viaggio del Papa in Egitto ha dato un importante impulso al dialogo
interreligioso. In proposito, Cristianesimo e Islam sono al centro di un
latente ma intenso conflitto globale per il loro rispettivo rapporto con la
cultura occidentale e con quella dei Paesi arabi. In correlazione a questa
situazione si è costituita un'alleanza di fatto fra tutte le forze
anti-occidentali che direttamente o indirettamente si ispirano alla fede
coranica. L'unico contributo concreto per una solida pacificazione è il
dialogo, che deve avere come presupposto una reciproca conoscenza fra
cristiani e musulmani. Nell'esortazione apostolica Evangeli Gaudium
(2013) si sottolinea l'importanza del confronto con i musulmani presenti in
Occidente, ovvero in Paesi di tradizione cristiana nei quali essi hanno la
possibilità di integrarsi e celebrare liberamente il loro culto. Il seme
della verità è contenuto anche negli scritti sacri dell'Islam: è comune la fede
nello stesso Dio (un versetto del Corano destinato a ebrei e cristiani afferma
che..il nostro Dio e il vostro Dio sono un solo Dio e noi gli siamo
sottomessi...); Gesù e Maria sono oggetto di venerazione, mentre giovani,
anziani, donne, uomini si dedicano quotidianamente alla preghiera e partecipano
a riti religiosi. La presenza degli islamici in Europa è direttamente
correlata ai flussi migratori che interessano i Paesi mediterranei. Al
riguardo, nelle more dell'individuazione di soluzioni che riescano a conciliare
le esigenze umanitarie con il contrasto dei predetti flussi, è necessario che
alla strategia dell'accoglienza indiscriminata si sostituisca una politica che
consenta una reale integrazione attraverso l'armonico inserimento dei nuovi
venuti nel tessuto sociale, mediante lo svolgimento di un'attività di lavoro e
la piena accettazione delle leggi e degli usi dello Stato ospitante, nonché la
fine di trattamenti normativi privilegiati che di fatto alimentano tensioni che
possono degenerare in violenze e dolorosi conflitti. In altri termini,
alla possibilità garantita agli islamici di professare liberamente la loro fede
e di vivere la loro identità culturale, deve corrispondere il pieno
riconoscimento della sovranità popolare - che è il principio su cui si fondano
le democrazie occidentali - nonostante essi provengano da Paesi nei quali le
norme civili sono corollario della religione, che con lo Stato forma un'unità
indissolubile. Una società realmente multiculturale non può fondarsi
sulla tolleranza, ma su un processo di riconoscimento reciproco che porti
all'estensione a tutti dei medesimi diritti, doveri e oneri sociali, nel
rispetto delle diverse identità linguistiche, religiose e culturali.
Parafrasando lo studioso statunitense Samuel Huntington, solo così un Paese
composto da più civiltà non sarà un Paese che non appartiene a nessuna civiltà.
Papa in Egitto, monito su fede violenza. Con Al-Sisi
passo su caso Regeni (pubblicato su L'azione del 5 maggio 2017)
Il
motto della recente visita di Papa Francesco Pellegrino di pace in un Egitto
di pace riassume i molteplici livelli del viaggio, che ha avuto un contenuto
politico ed ecumenico oltre a quello pastorale. In Egitto il Pontefice ha
incontrato Ahmed Al Tayeb, imam di Al Azhar, il più prestigioso centro
dell'Islam sunnita. Animato dalla realpolitik religiosa, papa Francesco
ha esaltato gli elementi comuni che uniscono le due fedi, sottolineando la
stessa base teologica. I due leader si sono poi trovati d'accordo sul ripudio
della violenza come strumento di proselitismo. Il rapporto fra Islam e violenza
resta un tema molto delicato, come anche le differenze fra i due monoteismi. Il
paradiso è sulla punta delle nostre spade recita una Sura del Corano.
L'interpretazione letterale dei versetti coranici che incitano all'intolleranza
è uno degli aspetti più problematici: anche nell'Antico Testamento sono presenti
affermazioni violente, che per una retta comprensione vengono però
contestualizzate dall'applicazione del metodo storico-critico alle Scritture.
Negli Stati che si proclamano laici nonostante il potere sia nelle mani di una
maggioranza musulmana non è ancora ipotizzabile che le istituzioni abbiano un
carattere neutro, ovvero che mantengano un'equidistanza a garanzia di
un'effettiva libertà religiosa. A causa della natura invasiva e
ideologica dell'Islam la fede difficilmente può essere separata dalla politica,
e gli effetti delle scelte religiose non possono rimanere confinate nella sfera
individuale. Una convivenza paritaria inoltre non può esserci laddove una fede
dominante autorizzi l'esistenza di un'altra. Il Papa ha avuto anche un incontro
informale con il presidente Al Sisi: con ogni probabilità nell'occasione si è
parlato anche del caso Regeni. Il regime egiziano si colloca nel solco della
tradizione nazionalista e militarista che ha avuto in Nasser il suo precursore.
L'Egitto non è uno Stato democratico, anche se Al Sisi si impegna a combattere
qualsiasi forma di fondamentalismo. Su questa base è stata presa la controversa
decisione di mettere al bando il movimento dei Fratelli Musulmani. Il tema più
sensibile dei colloqui con il Presidente è stato il problema delle garanzie a
tutela della comunità copta, che include l'8% della popolazione egiziana. Per
la loro storia i copti sono parte dell'identità nazionale. Tuttavia, vittime di
gravi attentati jihadisti, i copti si sentono minacciati e fortemente in
pericolo. La divisione e la disgregazione del tessuto sociale sono l'obiettivo
della strategia divisiva delle sanguinose iniziative terroristiche dello Stato
Islamico. In Egitto papa Francesco, oltre ad aver tenuto il suo intervento alla
presenza di altri leader e patriarchi come quello di Costantinopoli Bartolomeo,
ha incontrato in un momento di fraternità e preghiera Tawadros II, capo della
Chiesa ortodossa copta. Come confermano le iniziative del Papa un reale dialogo
inter-religioso ed ecumenico inizia con il pieno riconoscimento della pari
dignità dell'altro. RR
CHAMPS-ELYSEES,
NUOVA ONDATA DI ISLAMOFOBIA. MA I FRANCESI NON CEDONO (pubblicato su
L'Azione del 28 aprile 2017)
Giovedì
20 aprile la Francia ha subito l’ennesimo attacco terroristico di matrice
islamista: oltre all’attentatore, ha perso la vita un poliziotto e altri due
sono stati feriti. Analogamente a quanto avvenuto in passato, complici alcune
strumentalizzazioni politiche e mediatiche, l’attacco ha risvegliato un
atteggiamento di immotivata criminalizzazione dell’Islam, basato sulla
convinzione che ogni musulmano possa essere un potenziale terrorista. Tale
congettura, a livello globale e collettivo, equivale ad affermare che sia in
atto uno scontro fra le comunità islamiche e l’Occidente. In effetti, l’Islam
non è soltanto una religione ma è anche una realtà geopolitica con peculiari
contenuti ideologici; l’Islam tuttavia non può essere considerato una monade
unitaria, essendo un universo estremamente articolato, composito e diversificato,
nel quale tra l’altro manca un’autorità gerarchica che esprima una posizione
ufficiale su specifiche questioni. Affermare che le derive jihadiste rappresentino
l’Islam, oltre ad essere concettualmente sbagliato, è anche un errore
strategico, poiché le frange terroristiche, come ha evidenziato l’esperienza
degli apparati di sicurezza italiani nella lotta alle Brigate Rosse, devono
essere isolate per essere meglio contrastate e neutralizzate. Inoltre,
associare la religione musulmana al terrorismo di matrice islamica equivale a
favorire le aspettative dei terroristi, che hanno l’obiettivo di accreditarsi
come unici rappresentanti del vero Islam. L’Occidente come antidoto dovrebbe
impedire qualsiasi contingenza che possa favorire processi di solidarizzazione
con il radicalismo jihadista, ovvero con quella ridotta minoranza che
pratica il ricorso alla violenza come strumento di affermazione di una
malintesa fede religiosa. L’assenza di pluralismo religioso che si riscontra in
molti Paesi arabi non giustifica inoltre l’intolleranza nei confronti dei
fedeli musulmani che vivono in Europa:applicare in questi casi il principio di
reciprocità, come auspicato da alcuni, equivale a rinnegare la tradizione laica
e liberale che abbiamo ereditato dal movimento illuminista. Questi attentati
favoriscono le aggregazioni politiche che investono sulla demonizzazione della
presenza islamica in Occidente. L’affermazione del Front National al primo
turno delle elezioni presidenziali francesi è anche il prodotto di una propaganda
integrata da principi xenofobi. L’ingresso di Marine Le Pen all’Eliseo
rappresenterebbe un salto nel buio per la Francia e per l’Europa. RR
Balcani, fucina di radicalismo islamico che l’Ue non
può trascurare
(pubblicato su L'Azione del 21 aprile 2017)
Siamo
abituati ad associare i Balcani alle rotte della criminalità organizzata e
dell'immigrazione clandestina dimenticando che in questa regione si trovano
anche gli unici Stati del continente europeo nei quali è presente una
consistente maggioranza musulmana (di rito sunnita). Ci si riferisce in
particolare alla Bosnia Erzegovina (poco più del 50% della popolazione è
islamica), all'Albania (il 60%), al Kosovo (il 90%), che sono pertanto luoghi
privilegiati per la formazione di jihadisti e per il transito di
fondamentalisti diretti in Europa. La rilevanza dell'Islam nella penisola
balcanica è emersa nel lungo periodo di instabilità e durante i conflitti
seguiti alla scomparsa del leader comunista Tito, che era riuscito a garantire
l'accordo fra realtà religiose eterogenee. In questo contesto l'Islam assunse
specifiche peculiarità e un forte carattere politico, perché si coniugò con le
rivendicazioni autonomiste di alcune aree, diventando funzionale alla coesione
etnica e alla difesa di pretese integrità territoriali. Durante gli eventi
bellici dal 1992 al 1999 affluirono combattenti stranieri fondamentalisti. Il
loro intento non fu solo quello di dare attuazione alla jihad, ma anche
di riproporre in questo scenario la lotta per l'egemonia nel mondo islamico fra
Iran e Arabia Saudita. Fin dal crollo della nazione jugoslava infatti
entrambi gli Stati islamici hanno curato la costruzione di reti di influenza in
questa regione. Il proselitismo islamista, unito a criticità socio-economiche,
come gli alti tassi di disoccupazione giovanile, la povertà, la carente
istruzione, l'emarginazione, le discriminazioni e la scarsa incidenza delle
attività delle istituzioni statali, ha favorito fenomeni di radicalizzazione.
In proposito il Kosovo, che ha avuto un modesto sviluppo economico,
è il Paese più esposto al rischio di derive fondamentaliste, e costituisce un safe
harbour per l'estremismo. Erano kosovari i quattro terroristi che avevano
progettato di distruggere a Venezia il Ponte di Rialto. I Balcani ospitano le
basi logistiche di gruppi affiliati all'Isis e ad Al Nusra, che si finanziano
prevalentemente con il traffico di droga. Tuttavia il rischio di
terrorismo 'interno' rimane basso, perché queste articolazioni della galassia jihadista
sono destinate prevalentemente al supporto del transito di foreign fighters o
di returnees, che sono gli occidentali di ritorno dopo essere partiti
per arruolarsi con le truppe di Al Baghdadi in Siria o in Iraq. La
cooperazione di polizia e lo scambio di informazioni fra i Paesi della regione
è insufficiente. Peraltro, le sole misure repressive adottate dagli Stati,
disgiunte da iniziative strumentali all'integrazione, favoriscono la
marginalizzazione degli individui vulnerabili alla radicalizzazione. I Balcani
sono quindi una realtà strategica nella lotta al terrorismo di matrice islamica
che l'Europa non può trascurare, nella prospettiva di una maggiore stabilità e
sicurezza del nostro continente. RR
RIFLESSIONI
SULLA LEZIONE DI JOSEPH RATZINGER A RATISBONA (13-4-2017)
A
proposito di scontro di religioni, quando Joseph Ratzinger tenne nel 2006 a
Ratisbona la Lectio Magistralis su Fede, Ragione e Università prevalse in lui
la personalità di intellettuale e docente su quella di capo della
Cristianità Cattolica; il Pontefice, da studioso indipendente, citò nel corso
del suo discorso la nota frase di Manuele il Paleologo ("Mostrami pure ciò
che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e
disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che
egli predicava) che suscitò un acceso dibattito strumentalizzato dai pregiudizi
degli organi di informazione e segnato da risentite dimostrazioni negli
ambienti fondamentalisti. Successivamente le posizioni dell'opinione pubblica,
condizionate da reazioni mediatiche superficiali e di parte, si sono
polarizzate su posizioni radicali eludendo con emotività momenti di mediazione
e di riflessione. Il dibattito sulla questione islamica è stato spesso
suggestionato dall'errore di considerare la religione musulmana una realtà
monolitica. Diversamente, ci sono tanti Islam, tante articolazioni dottrinali,
fra le quali non è possibile individuare un interlocutore che possa
rappresentare tutti i fedeli. Si cerca di distinguere un Islam moderato da
quello contaminato dall'integralismo violento. Mentre alcuni individuano
nella cultura islamica un pericolo per la sopravvivenza dell'Occidente,
altri attribuiscono un'importanza imprescindibile al dialogo con i musulmani
moderati: tuttavia con il loro atteggiamento questi occidentali vengono
accusati di supportare inconsapevolmente le derive fondamentaliste. Queste
posizioni sono espressione di approcci ideologici estremi che hanno
atteggiamenti preconcetti come presupposti. Si deve invece considerare che
attraverso il dialogo costruttivo con l'Islam si emarginano le frange violente,
che, isolate, diventano vulnerabili. Gli scontri di religione o di civiltà,
sempre che la contrapposizione fra Islam e Occidente possa rientrare in questi
paradigmi, al contrario innescano conflittualità dagli esiti incerti che
generano spirali incontrollabili, pericolose per la pace mondiale. Se
l'Occidente intende contrastare l'attacco islamico deve difendere i principi di
libertà e giustizia che sono i tratti distintivi della propria cultura e
credere nella loro universalità. Al contrario l'Occidente è dilaniato da
una crisi di valori e dalla perdita di spiritualità, e sembra maturare un
odio contro sé stesso che mina la propria identità. Questo è l'implicito grido
di allarme che si è levato a Ratisbona in maniera coraggiosa dalle parole di
Joseph Ratzinger. RR
RIFLESSIONI
SUL MARTIRIO DEI CRISTIANI COPTI
I gravi
fatti avvenuti domenica scorsa in Egitto suscitano molte riflessioni.
Innanzitutto ancora una volta si è dovuto constatare che il martirio dei
cristiani non fa notizia. Subito dopo il grave recente attentato in Svezia
giustamente la Rai ha allestito uno speciale che ha occupato l'intera serata.
Il giorno dei due attentati in Egitto mi aspettavo un'analoga iniziativa,
non solo per la gravità in sé degli eventi, ma per le sensibili ripercussioni
legate alla situazione della sicurezza in relazione alla programmata visita di
Papa Francesco. Inaspettatamente i sevizi giornalistici del principale canale
televisivo della Rai domenica sera hanno ritenuto prioritario richiamare alla
memoria dei telespettatori con uno 'speciale' le vicende della nave Concordia e
del suo comandante Schettino. Volendo evitare spunti polemici, lascio ad
ognuno le valutazioni del caso. I crimini in questione hanno confermato che il
presidente Al Sisi, nonostante l'impronta autoritaria imposta al governo del
Paese, non sembra che riesca a garantire il controllo della sicurezza da
parte dei poteri centrali. Probabilmente la messa al bando dei Fratelli Musulmani,
movimento influente e radicato nel territorio, responsabile di un tentativo di
islamizzazione della nazione, non si è rivelata una scelta opportuna; al
contrario ha indebolito il regime. Come già accennato,
le stragi nelle chiese copte creano un allarme sulla programmata
visita in Egitto del Papa. Il Pontefice probabilmente non rivedrà il suo
programma pastorale, ma la visita risulterà sensibilmente condizionata dalle
esigenze di sicurezza. Lo Stato Islamico, interessato ad accreditarsi
all'interno della galassia islamica come unico esponente dell'Islam
autentico, persegue l'obiettivo di vestire di islamismo le sue spietate e
crudeli iniziative terroristiche, mirando a trasformare lo scontro in atto in
un conflitto di religione. La persecuzione dei cristiani nell'immaginario
musulmano si configura come un attacco all'Occidente. Ma i cristiani non vivono
solo in Europa o negli Stati più industrializzati. In realtà in una condizione
minoritaria, di insicurezza, di povertà e non considerati dalle istituzioni
nazionali e internazionali abitano in molti Paesi del Terzo Mondo. Le loro
storie, spesso drammatiche, sono ignorate. La tutela di queste comunità
cristiane non è una questione nè di religione nè di civiltà, ma esclusivamente
di crescita della sensibilità della coscienza civile dell'opinione pubblica
mondiale. Anche i fedeli islamici non sono più ai margini dell'occidente ma
risiedono al suo interno. Piuttosto che perderci nell'oceano delle
contrapposizioni o nella costruzione di barriere, sarebbe opportuno che in
tutti noi maturasse una giusta percezione delle esigenze di libertà, giustizia,
sicurezza, solidarietà e laicità, che possa rettamente orientare le nostre
scelte individuali e collettive. (pubblicato su L'Azione del 14 aprile
2017) RR
QUANDO
LO SCONTRO DI CIVILTÀ È PIUTTOSTO CONFLITTO GENERAZIONALE
La
questione è nota. A Bologna una ragazzina di 14 anni originaria del Bangladesh
ha manifestato ripetutamente la volontà di non indossare il velo 'islamico'; la
madre, che esigeva che lei e le sue sorelle non uscissero mai da sole e
non instaurassero rapporti con i loro coetanei maschi, per punizione le ha
rasato completamente i capelli. I servizi sociali competenti, d'intesa con la
procura per i minorenni, conosciuto l'episodio, hanno allontanato dalla
famiglia la ragazza, che attualmente, insieme alle sue sorelle, è ospitata in
una struttura protetta; i genitori invece sono stati denunciati dai carabinieri
per maltrattamenti. Come capita ormai abitualmente la strumentalizzazione
mediatica, unita a latenti tentazioni islamofobe, ha generalizzato questa
vicenda attribuendole dignità di circostanza emblematica di una cultura lontana
e in conflitto con quella occidentale, supportando così la tesi di Samuel
Huntington sullo 'scontro di civiltà'. Secondo le deduzioni dello studioso
statunitense le fonti attuali dei conflitti fra i popoli non sarebbero né di
natura ideologica né legate a rivendicazioni economiche, ma troverebbero la
loro origine nelle differenti identità religiose e culturali: in questo scenario
andrebbe collocato il confronto in atto fra Islam e Occidente. Tuttavia alcune
riflessioni inducono a formulare diverse valutazioni sulla vicenda in
questione. Preliminarmente va precisato che gli specifici abbigliamenti delle
donne musulmane non sono prescritti dal Corano - che si limita a suggerire
abiti rispettosi del pudore femminile - ma sono imposti da codici e tradizioni
locali; ed infatti non tutte le donne musulmane indossano il velo.
Il fatto sembrerebbe invece il prodotto di un conflitto generazionale,
analogamente a quello che potrebbe accadere nelle famiglie occidentali quando i
genitori non comprendono le condotte dei figli a causa di differenti abitudini
ed esperienze, o di una diversa formazione culturale e, talvolta, religiosa. Il
rispetto delle tradizioni non va nemmeno confuso con il rifiuto di laicità.
Negli anni ’60 i musulmani immigrati nei Paesi europei cercavano di integrarsi
abbandonando spontaneamente l’abitudine di portare gli indumenti tipici dei
Paesi di provenienza. Attualmente il gap generazionale fra padri e figli nelle
famiglie islamiche 'occidentali' si esprime attraverso due atteggiamenti
opposti: o attraverso il ritorno all’uso del niqab, dello chador,
del burqa e delqamis come mezzo per rivendicare
l’appartenenza a una cultura diversa da quella corrente, o attraverso
l'omologazione allo stile di vita occidentale. Peraltro nei giovani si
riscontrano spesso due esigenze confliggenti che non raramente alimentano un
acceso rapporto dialettico con i genitori: la necessità di ribellarsi per
affermare l'originalità della propria individualità, e quella
'autoconservativa' di conformarsi ai canoni della società. (pubblicato
su L'Azione del 7 aprile 2017) RR
IL
MANCATO CAMMINO DELL'ISLAM SU LAICITÀ E RAPPORTO FRA FEDE E RAGIONE
Il
martirio dei cristiani in alcuni Paesi islamici è una conseguenza della
suggestione della deriva jihadista su alcuni popoli di fede musulmana. Nei
contesti fondamentalisti l'avversione nei confronti dei seguaci di altre
religioni è una patologia resa fisiologica dall'incomprensione del concetto di
laicità e dall'ignoranza dei confini fra religione e politica; la
democrazia, assente in questi Paesi, è inoltre il presupposto essenziale per lo
sviluppo di valori quali la tolleranza, l’uguaglianza, il rispetto delle
libertà di pensiero e di culto. La concezione di società nell'Islam politico ha
invece natura teocratica: pertanto le linee governative sono fortemente
vincolate da principi di natura confessionale. Poiché in tali riflessioni non
esiste alternativa alla fede musulmana, la laicità è un concetto di difficile
comprensione, ed è confusa con la condizione di ateo. In termini più espliciti
per la logica islamista non essere musulmano equivale a non essere credente:
non è ammessa una terza possibilità, ovvero essere fedele di un altro credo.
Questa perentoria conclusione può essere imputata sia alla peculiare invasività
dell'Islam nella società civile, sia alla mancanza, nella storia dei popoli
arabi, di un movimento analogo all'Illuminismo, che in Occidente ha minimizzato
- forse in maniera troppo radicale - gli elementi spirituali riducendoli a
valori culturali, enfatizzando la necessità dell'uomo di esercitare la
conoscenza affrancato da schemi preconcetti e guidato esclusivamente dalla
razionalità. Da allora è stata accentuata la problematicità del conflitto fra
fede e ragione, dimenticando che queste due risorse non si escludono a vicenda
ma al contrario si completano reciprocamente e sostengono l'uomo nel cammino di
ricerca della verità. La mancanza di pluralismo religioso è anche un corollario
della più generale assenza di libertà. Nel mondo arabo la parola libertà viene
associata ai contesti occidentali: assume frequentemente pertanto una
connotazione negativa in quanto è considerata sinonimo di libertinaggio,
licenziosità ed anarchia. In sintesi è ritenuta un potenziale strumento di
eversione dell'ordine morale religioso. Queste motivazioni non sono sufficienti
a giustificare l'acredine islamista nei confronti dei cristiani e la drammatica
persecuzione di cui sono oggetto. Quando oggi il martire cristiano con serenità
e coraggio testimonia la verità della sua Fede, sembra che il tempo della
Storia sia tornato indietro di duemila anni. (pubblicato su L'Azione
del 24 marzo 2017) RR
1957-2017.
SOGNO INCOMPIUTO, MA L'UE RESTA UNA GRANDE OPPORTUNITÀ
Il
prossimo 25 marzo si festeggiano 60 anni dagli accordi istitutivi della
Comunità Economica Europea. Gli anniversari sono sempre occasione per un
bilancio. Questa ricorrenza cade in un momento di crisi delle istituzioni
comunitarie. Deve essere oggetto di riflessione innanzitutto l'influenza che
negli ultimi tempi hanno esercitato le scelte finanziarie della Germania, che
per favorire la propria economia ha promosso una politica di austerità
imponendo ai Paesi membri, soprattutto a quelli meno solidi, pesanti manovre
fiscali e tagli alla spesa pubblica. La conseguente spinta deflazionistica ha
prodotto una riduzione della circolazione del denaro e una contrazione dei
consumi, tra le cause di una generale recessione economica e di un diffuso
impoverimento. L'Unione ha intrapreso con disinvoltura un allargamento verso
est passando in poco tempo da 15 a 28 Stati senza che si realizzasse una reale
reciproca integrazione. In qualche occasione i nuovi Paesi membri hanno
evidenziato un'assenza di cultura della solidarietà, componente indissolubile
dello spirito comunitario. Molte aspettative che i Trattati avevano alimentato
sono rimaste deluse. Con l'Accordo di Maastricht (1992) l'Europa, che in quel
momento era solo una realtà economica, sarebbe dovuta diventare un'istituzione
politica; questo evoluzione, che aveva come presupposto la cessione da parte di
ciascun Paese di una quota della propria sovranità, non si è sufficientemente
realizzata a causa di alcune egoistiche resistenze
nazionali. L'introduzione della moneta unica non preceduta
dalla creazione delle necessarie sovrastrutture ha penalizzato alcune economie,
quella italiana in particolare. Il ritorno alla lira tuttavia comporterebbe
pericolosi dissesti finanziari. L'ingresso nell'Euro e più in generale
nell'Unione Europea ha avviato processi irreversibili che non consentono un
indolore ritorno al passato. Va ripristinato il ruolo di governo della
Commissione europea, che da esecutivo comunitario si è trasformata nel tempo in
uno sterile e burocratico gendarme concentrato sul controllo della condotta
degli Stati membri. Il malcontento può generare la tentazione di uscire
dall'Unione seguendo l'esempio britannico. Si tratta di pericolose derive dagli
effetti imprevedibili. L'Unione Europea resta un'irrinunciabile opportunità,
che richiede tuttavia un incisivo e coraggioso processo di riforma. Come molte
realtà, l'Unione Europea è un meccanismo perfetto in tempi di pace e
prosperità, ma evidenzia i suoi limiti nei periodi di crisi. (pubblicato su
L'Azione del 17 marzo 2017). RR
TRUMP
E LO SDOGANAMENTO DEL POLITICAMENTE SCORRETTO
Secondo
un sondaggio di CbsNews in poche settimane il tasso di gradimento del
neo-presidente statunitense è sceso al 39%. Poiché le iniziative di Trump
stanno rispettando gli impegni presi con gli elettori, tale circostanza
potrebbe imputarsi ad un calo del consenso sugli obiettivi della sua linea
politica, che può essere riassunta in una esplicita avversione al politicamente
corretto. Con l'espressione politicamente corretto si indica un
atteggiamento di preconcetta adesione a principi di consolidata considerazione
sociale ritenuti incomprimibili, ed il contestuale aprioristico rigetto di
qualsiasi presunto pregiudizio che contrasti con asserite conquiste della
nostra civiltà; questi presupposti bloccano il libero confronto su alcune
questioni. Ne è un esempio l'ipersensibilità per le problematiche razziali o di
genere che impedisce un'aperta discussione su argomenti che coinvolgono questi
temi. Al politicamente corretto si oppone il politicamente scorretto, che
consiste in opzioni che si oppongono al conformismo benpensante. Un esempio
pratico: da più di un decennio le società occidentali stanno attraversando una
crisi economica che si riflette sulle comunità con fenomeni indotti come la
diminuzione delle risorse disponibili a livello individuale e l'aumento della
criminalità; come corollario di questa situazione parte dell'opinione pubblica
propone che fondamenti etici che si ritengono intangibili, come l'accoglienza
indiscriminata di migranti stranieri, debbano essere rinegoziati. Trump nella
sua campagna elettorale ha investito su questo tratto della psicologia
collettiva, cioè sulla necessità di una ridefinizione del nucleo dei principi
che integrano il politicamente corretto. Lo ha fatto adottando un linguaggio
aspro, brutale, fuori dagli schemi della politica tradizionale e formalmente in
linea con il carattere non convenzionale dei contenuti. Alla luce di queste
considerazioni la strategia di Trump è risultata vincente: lungi dall'essere
estemporanea, è stata espressione di un disegno che ha posto in diretta
correlazione il diffuso malcontento popolare con le derive del politicamente
corretto. Analogamente, si è strutturato il recente successo dei movimenti
populisti in Europa. La crisi di credibilità post-elettorale di Trump deriva
probabilmente anche dall'acquisita consapevolezza generale che una visione
critica del politicamente corretto non può essere imposta dall'alto, ma richiede
un cambiamento culturale che maturi nel discernimento individuale. RR(pubblicato
sul L'Azione del 10/3/2017) RR
OLTRE
GLI STEREOTIPI: LA LUNGA MARCIA DELLE DONNE NEL MONDO ISLAMICO
La
Giornata Internazionale della Donna riaccende i riflettori sulla condizione
femminile nei Paesi a maggioranza islamica dove, come è noto, è molto
diversificata. Mentre la maggior parte delle donne arabe è vittima di
drammatici condizionamenti, una ridottissima minoranza favorita dalla buona
estrazione sociale delle famiglie di provenienza ha potuto intraprendere un
cammino di emancipazione anche in realtà arretrate e maschiliste come quelle
saudita (dove ci sono ben 20.000 imprese a guida femminile, benché il tasso di
occupazione femminile rimanga il più basso del mondo arabo, intorno al 13%) e
yemenita, dove diverse donne sono dirigenti e accademiche. Pur non potendosi
disconoscere la penalizzazione della donna nella società araba, da un sommario
sguardo alla cinematografia mediorientale si evince che spesso protagonisti dei
film sono personaggi femminili. Alcuni esempi: ‘Caramel’ e ‘Ora dove andiamo?’
della regista libanese Nadine Labaki, ‘Il Giardino di Limoni’ di Eran Riklis e
‘Free zone’ di Amos Gitai, entrambi israeliani, i lungometraggi iraniani ‘Il
Cerchio’ di Jafar Panahi, ‘Persepolis’ di Marjane Satrapi, ‘Donne senza uomini’
di Shirin Neshat. Lo scorso autunno poi tre film diretti e interpretati da
donne arabo-israeliane hanno scosso il panorama cinematografico dello Stato
ebraico: il pluripremiato “Sand Storm” (Tempesta di sabbia) della regista
israeliana Elite Zexer, “Personal Affairs” di Maha Haj e “In Between” di
Maysaloun Hamoud, hanno sfatato degli stereotipi e infranto dei tabù su come la
società ebraica israeliana si relazioni con la minoranza palestinese al suo
interno. Esiste un movimento femminista trasversale a tutta la comunità
musulmana che sostiene la parità di genere come corollario delle disposizioni
coraniche che sanciscono l’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Come avviene
solitamente nei contesti teocratici per altre problematiche sociali, la
soluzione della questione femminile richiede un approfondimento teologico, dal
quale emergerebbe che non è il Corano a discriminare le donne, ma
l’interpretazione che ne viene data. Il paradosso è che questo avviene mentre
in Europa il femminismo è spiazzato da tentativi di femminilizzazione del
modello maschile: gli uomini infatti per migliorare il loro aspetto ricorrono a
mezzi - come la depilazioni e l’uso di creme di bellezza - attribuiti per
pregiudizi consolidati solo all’universo femminile. (pubblicato su
L'Azione del 3/3/2017) RR
LE
RAGAZZE DI TUNISI: DALLE CURE ALL’ASCOLTO (26-2-2017)
Premessa:
Il
desiderio di comunicare questa esperienza è di testimoniare, non come esperta,
ma come ascoltatrice e “facilitatrice” (cit. Elena Croce) i discorsi dei
ragazzi e delle studentesse dell’ISTITUTO BOURGUIBA des Langues Vivantes
dell’università El Manar di Tunisi fondata nel 1965 allo scopo diffondere le
lingue e la cultura arabo-islamica.
l Contesto
L’esperienza
è iniziata nel nono mese del calendario lunare musulmano (8 luglio 2013) nel
Ramadan,mese in cui il Profeta Maometto ha ricevuto Il Corano. In questo
periodo in conformità al testo scritto, dall’alba al tramonto si pratica:
-Il
Digiuno
-La
Preghiera
-L’astinenza
sessuale.
L’Accaduto
L’esperienza
è nata in seguito ad un fatto accaduto e ad un precipitarsi di eventi: un
abbandono scolastico e la sospensione delle lezioni. Una ragazza araba-spagnola
era stata molestata ( palpeggiata, disturbata, offesa) dal bibliotecario. Il
comportamento era stato sottovalutato dal personale amministrativo soprattutto
femminile che avevano dichiarato: “ma tanto lui è così ,lo sappiamo…
scherzava”. Alcuni professori, avevano sospeso le lezioni e ritardato gli esami
come protesta all’inerzia del Direttore. La ragazza, scossa emotivamente dopo
aver pianto per due giorni, era ritornata in Spagna. Era nato un intenso
“chiacchierio” tra i giovani fino ad arrivare a degli scontri verbali animati
tra ragazze arabe di 2° generazione e altre convertite all’Islam che si
presentavano a scuola con il velo totale ”NIGAB”.
Effetti di discorsi e voci di corridoio.
I
discorsi sui corridoi hanno provocato effetti diversi:
1)
Una posizione privata e introversa che comportava sentimenti malinconici e
disinteresse allo studio e al piacere di apprendere di alcune ragazze.
2)
Una rivendicazione pubblica dei diritti negati e “rimossi” a cui sono seguiti
animati dibattiti ideologici e diatribe coraniche sull’interpretazione dei
versetti
delle
SURA.
Una richiesta di cura
Alcune
ragazze, conoscendo il mio interesse per la psicanalisi (enunciare chi siamo e
cosa facciamo è la prima regola di conversazione da imparare in un corso di
lingua Araba di sopravvivenza) hanno richiesto una “cura o una medicina per
studiare”. Era una domanda? Un bisogno? O una richiesta di garanzia e
protezione? Cercavamo forse un diritto che avesse le sembianze di un farmaco?
Quale offerta, non dal lato della risposta di cura, poteva essere migliore
della “Talking Cure” la cura della parola? Non essendoci le condizioni
favorevoli, ma solo il desiderio dell’operatore , la domanda è stata: “Perché
aprire un gruppo di ascolto in un contesto istituzionale non analitico? Come
utilizzarlo? Era possibile tracciare una traiettoria non rettilinea ,ma
rettificabile, verso unpreliminare non all’analisi, ma allo psicodramma?
Perché, come ha scritto, R. Gerbaudo: “Lo psicodramma ha come obbiettivo la
soggettivazione della domanda e la soggettivazione si basa sulla funzione della
parola”.
Una torre di Babele o una pluralità di parlanti?
I
partecipanti erano giovani studentesse di seconda generazione ed un
ragazzo,cit. “un collettivo sospeso di realtà diverse e conflittuali tra
culture familiari e mondi adulti”,ognuno ascoltato individualmente prima di
iniziare il percorso: Yu YU: ventenne cinese uscita da casa diciottenne, aveva
studiato in Spagna dove ha lasciato un fidanzato con cui era in crisi per la
lontananza. Amira : si definiva stilista, tunisina abitante nelle Marche con
doppia cittadinanza. Fin dall’inizio ha descritto un rapporto difficile con il
padre e la madre che preferiva i fratelli.
Yasmin:
tunisina-napoletana,o meglio “la signorina cinicamente cattiva” come si
definiva nel suo blog,soffriva di una grave forma di obesità e sentiva la
perdita per morte di un fratellino autistico. Enzo: un futuro giornalista
inquieto, viveva una storia d’amore con una egiziana senza futuro perché non è
“religioso ne convertibile”.
Mirna:
giovane araba- belga portava il velo moderato per obbligo familiare.
Fatima:
studentessa Tunisina abitante a Parigi, attivista femminista islamica.
Anna:
milanese madre di 2 bambini convertita all’Islam perché “aveva sentito la
Chiamata”; nei colloqui aveva confidato antipatia verso la sinagoga adiacente
al Bourguiba.
Naja:studentessa
araba che indossava volontariamente l’“hijab”,velo moderato che copre solo i
capelli.
Svolgimento
L’esperienza
si è svolta in una stanza vuota dell’ultimo piano della pensione-convitto El
Zahara, iniziata con fatica e con difficoltà a comunicare in lingue diverse
(Italiano,Arabo e Francese), ma i bisogni hanno prevalso sulle differenze. I
primi temi sono stati i diritti alla persona, i diritti umani e da parte di
Enzo su cosa avesse fatto la psicanalisi per i diritti delle minoranze , sembrava
difficile rompere gli stereotipi e presentarsi: “chi sono? perché sono qui?
Oltre il velo tra identità e sicurezza “Perché devo portare il velo?” “Perché
mi devo nascondere dallo sguardo della mia famiglia se non lo porto?” Con
queste due domande Mirna ha aperto il 3° incontro raccontando di essere
obbligata a indossare il velo e frequentare ragazzi dell’Islam su volere della
famiglia. Sentirsi obbligata a portare il velo è la stessa condizione di Amira
la quale dichiara:“per questo voglio fare la stilista: per disegnare una moda
diversa”, ma Amira è ostacolata dalla madre, donna dipendente che vuole tenere
la figlia in casa impedendole di trovare lavoro. Mentre per la donna araba
tradizionalista il velo è un’obbedienza al testo islamico per le nuove
generazioni non è considerato sicuro nella società occidentale. Da questi
frammenti si inizia a delineare una figura ideale e non ideale di donna con il
velo , non unitaria ma con molteplici identità. Le partecipanti iniziano cosi a
raccontarsi in prima persona :
Naja:
“è mia madre che ha rifiutato il velo, per me non è chiusura ma emancipazione”.
Il nuovo potere delle donne arabe, che però è ostacolato dalle famiglie che
impongono ai figli di sposare solo credenti musulmani o convertiti all’Islam.
Enzo raccontando la sua esperienza dichiara: “io non voglio convertirmi per
sposare la mia ragazza”. Dopo diversi incontri in silenzio, chiusa nel suo
spazio privato prende per la prima volta la parola Anna. “Per me la
ragazza ha sbagliato a vestirsi, andava in giro troppo scoperta” riferendosi
alla molestia oggetto dell’accaduto. Cita il versetto 31 del Corano per cui la
donna deve essere casta e coprirsi. A chi le si rivolge chiedendole:”perché
porti il velo totale?” Anna si irrigidisce e inizia a raccontare che il chador
conferisce rispetto e dignità alla donna e lei è così perché adesso è un’altra
donna, non è più Anna , ha un nuovo nome che ha ricevuto dall’Imam. -E come era
Anna prima? Anna si descrive prima della conversione “come tutte le altre,
andava in discoteca e vestiva provocante e mio padre non voleva”. Viene
proposto ad Anna il gioco di ruolo dello psicodramma.
Il Gioco
Anna
descrive il Padre come un uomo più anziano della madre,religioso e devoto alla
Madonna; E sceglie Enzo nella parte del padre. La scena si svolge nel momento
in cui Anna esce di casa per andare in discoteca e il padre la rimprovera per
come è vestita. Anna nella prima parte del gioco, interpretando se stessa, di
fronte ai rimproveri paterni abbassa lo sguardo e non risponde. Mentre nel
posto del padre Anna appare sicura e accanita contro Enzo che interpreta la
parte di Anna,ma cambia il proprio nome con il nome della sorella preferita dal
padre,perché accondiscendente. I diversi partecipanti in veste di osservatori
notano i passaggi del cambio di ruolo,il sentimento di vergogna e paragonano il
padre di Anna all’autorità “nominativa” dell’Imam. Il gioco sembra svelare il
dispiacere di una figlia non riconosciuta nel proprio nome e che ora velata è
in cerca di altre filiazioni e cittadinanze. Sembra che il gioco sia servito a
fare emergere un’ altra verità. La parola verità in greco (aletheia) vuol dire
svelamento e visione. In ebraico (emet) vuol dire fare,quindi azione. A questo
riguardo Lacan attribuiva alla verità una dimensione fondamentale
dell’esperienza analitica,in quanto non ha altro fondamento che la parola.
Faceva osservare che la verità è spesso rappresentata come un corpo nudo e
grazioso mentre esce in parte dal fango svelandosi e allo stesso tempo
nascondonsi. La fine della cura dovrebbe giungere ad una verità incurabile,”una
verità non senza sapere” Il Gioco non ristabilisce una verità storica, ma è
interessato ai detriti e alle fratture della parola. Il gioco ha infranto lo
specchio di Anna per portare alla
luce
quello che il velo nasconde,ovvero la questione di una figlia non nominata.
Riflessioni
Questa
testimonianza rappresenta ciò che non è psicodramma, ma è all’ interno di una
formazione analitica ed etica. Alla domanda esposta da Enzo sul contributo
della psicanalisi alla causa dei diritti umani le risposte restano aperte. Ma è
forse la roccia della castrazione freudiana che può offrire al soggetto
l’occasione d essere libero? In Tunisia dopo la rinascita della Primavera Araba
hanno seguito gli Inverni Arabi delle confusioni,delle mancanze di leggi e
della paura. I libri di Sigmund Freud e di J. Lacan sono esposti nelle librerie
,ma mancano le pratiche di lavoro analitico. Il paese è povero di servizi
sociali,sanitari,di comunità e luoghi di “cittadinanza di parola”. E’ un paese
dove il processo di separazione tra la parola del profeta e la parola dell’uomo
è stata minata da assalti estremisti. Per un proverbio arabo:”ogni parola è un’
uomo”. Per J. Lacan la parola è l’enigma di un soggetto nell’incontro con l’Altro
e F. De Saussure ha paragonato il valore di una parola ad una moneta. Una
moneta che circola può produrre uno scambio? Uno spazio limitato di ascolto,ma
non di un ascolto qualunque,può sciogliere o aprire nuovi legami
sociali? Dott.ssa Silvana Rosita Leali
EUROPA
A DUE VELOCITÀ, SPECCHIO DELLE TENSIONI INTERNAZIONALI
Ha
riportato in auge un dibattito avviato una decina di anni fa negli ambienti
politici europei la recente presa di posizione del cancelliere tedesco Angela
Merkel sulla possibilità di “un'Europa a due o più velocità”. Con questa
espressione si intende un rimedio alla mancanza di un consenso unanime fra
tutti gli Stati membri dell'UE su un progetto, a causa delle difficoltà
strutturali che impediscono ad alcuni di essi la partecipazione al conseguimento
di un obiettivo comune. Stabilire una diversa velocità significa limitare la
partecipazione al progetto agli Stati idonei, evitando che i non idonei frenino
i progressi degli altri. Ad esempio, la parziale adesione dei Paesi europei
all'unità monetaria o al Trattato di Schengen ha creato un passo diversificato
verso il programma di unificazione comunitaria. Se non fosse stata prevista
questa possibilità di scelta, sarebbe bastato il dissenso di un Paese membro ad
impedire la conclusione di questi accordi. Questi due esempi, Schengen ed Euro,
non sono tuttavia casi di Europa a più velocità, poiché questa non si basa
sulla libera opzione dello Stato membro circa la sua partecipazione ad un
comune traguardo, ma consiste in una esclusione imposta dalla sua incapacità di
essere partner dell'iniziativa. La possibilità di un'Europa a più velocità non
ha mai trovato molti consensi perché contraddice di fatto il metodo
comunitario, su cui si fonda l'Unione Europea. Prima della costituzione dell'UE
(con il Trattato di Maastricht, 1992), gli impegni degli Stati europei erano
basati sul metodo intergovernativo, ovvero su patti che si limitavano a
regolare gli impegni dei contraenti. Il metodo comunitario presuppone invece un
accordo attraverso il quale gli Stati per conseguire i loro obiettivi comuni
limitano la loro sovranità con l'istituzione di organi sovranazionali ai quali
viene trasferito il potere decisionale su determinate materie. Il metodo
comunitario è tipico dell'Unione Europea, un ente con personalità giuridica e
propri organi distinti da quelli degli Stati membri. Questa caratteristica
distingue l'Unione Europea da molte altre organizzazioni internazionali nelle
quali gli Stati membri restano pienamente depositari dei propri poteri
decisionali. Creare più velocità è un implicito riconoscimento della
disomogeneità fra gli Stati dell'Unione Europea: inoltre con questa scelta
strategica, anziché promuovere la solidarietà fra i Paesi più forti e quelli
più deboli, si creano posizioni differenziate e privilegiate. Al contrario la
solidarietà fra gli Stati membri è la premessa per una ritrovata consapevolezza
dei cittadini europei di essere parte di un destino comune. RR (pubblicato
su 'L'Azione' del 24/2/2017) RR
SCHENGEN,
GARANZIE PER TUTTI SE APPLICATO IN MODO UNIFORME (pubblicato su 'L'Azione'
del 17/2/2017)
Le
recenti misure previste dal governo per contrastare l'immigrazione clandestina
si inseriscono idealmente nel quadro più ampio della disciplina della libera
circolazione delle persone prevista dal Trattato di Schengen. Vista l'emergenza
terroristica, nei media si critica spesso la libertà di circolazione per il
timore che soggetti pericolosi possano entrare in Europa e spostarsi a loro
piacimento, senza tuttavia precisare che l'Accordo di Schengen prescrive
un'ampia gamma di misure compensative finalizzate alla prevenzione e al
contrasto del crimine. Oltre a potenziare la collaborazione fra le polizie
nazionali (che possono avvalersi di una comune banca dati costantemente
aggiornata) e quella fra le autorità giudiziarie degli Stati membri, per
rendere più efficaci lo scambio di informazioni e il coordinamento operativo,
l'Accordo prevede il rafforzamento delle frontiere europee esterne, che in ogni
loro articolazione devono garantire controlli puntuali, efficienti e,
soprattutto, uniformi. É proprio infatti l'attuazione difforme o parziale dei
dispositivi in alcuni tratti della frontiera a rendere più vulnerabili i
confini e a creare il rischio di ingressi illegali. Purtroppo l'obiettivo di
una comune strategia nella gestione dei confini esterni dell'Unione Europea è
fortemente compromesso dalle iniziative unilaterali di alcuni Paesi che fin dal
2015, per difendersi dall'arrivo massiccio di richiedenti asilo, hanno iniziato
a costruire barriere o sono ricorsi al ripristino dei controlli alle frontiere
con altri Paesi comunitari, consentito dalla Convenzione di Schengen per
temporanee esigenze di sicurezza e di ordine pubblico. Alcuni Stati hanno anche
preso in considerazione il ricorso all'art. 26 del Codice Schengen, che prevede
la possibilità di attivare i controlli alle frontiere interne per un periodo
massimo di due anni. Tali iniziative, sollecitate dalla recrudescenza di
nazionalismi ed istanze xenofobe, incidono sulla scelta delle destinazioni delle
rotte migratorie, che si concentrano verso Paesi, come l'Italia, ritenuti
maggiormente accessibili. È evidente che la gestione dei flussi migratori debba
essere affrontata globalmente, attraverso scelte strategiche unitarie, così
come previsto dallo spirito dell'Accordo di Schengen. Il recente pacchetto di
misure sull'immigrazione varato dal Governo è perfettamente in linea con questo
spirito perché riguarda esclusivamente le procedure per accertare le condizioni
che consentono la permanenza dei migranti nel nostro territorio, lasciando
inalterato il quadro normativo corollario dell'adesione alla Convenzione di
Schengen. RR
VELO
ISLAMICO, IL CRINALE SOTTILE FRA IDENTITÀ E DIRITTO (pubblicato su
'L'Azione' del 10/2/2017)
Si
torna a parlare della compatibilità con le leggi vigenti dell'abbigliamento
delle donne musulmane dopo l'approvazione in Austria di una legge che vieta il
velo islamico integrale. In Francia, dopo essere entrata in vigore nel 2011 una
legge che vietava di coprirsi integralmente il volto in pubblico, un facoltoso
imprenditore franco-algerino ha deciso di provvedere al pagamento delle multe
applicate alle donne che trasgredivano la prescrizione. Ma in seguito il
governo francese, pur di scoraggiare l'uso del velo con le norme sanzionatorie,
ha approvato un emendamento che impedisce di farsi carico di sanzioni altrui.
C'è da dire che la scelta di indossare il niqab (il velo
islamico che occulta completamente il volto) piuttosto che l'hijab (che
copre solo i capelli) ha un carattere prevalentemente culturale e non
religioso. Il Corano infatti invita le donne solo a vestirsi in modo sobrio e
moralmente conveniente. Un dovere che dovrebbe dunque esser declinato dalle
consuetudini locali. Perciò l'adozione di un abbigliamento che occulta l'identità
è il prodotto di un'interpretazione integralista e particolarmente rigorosa di
usi ritenuti di matrice religiosa. L'abbigliamento è anche un mezzo attraverso
il quale le donne musulmane rivendicano l’appartenenza a una cultura diversa da
quella occidentale, manifestando il rifiuto dell’omologazione occidentale e
della sua laicità. L'incompatibilità del velo islamico con le normative vigenti
è giustificato dalle esigenze di pubblica sicurezza: oltre ad impedire la
riconoscibilità della persona, esso potrebbe consentire l'occultamento di armi,
materiale esplodente, oggetti non consentiti. In Italia manca ancora una legge
statale in materia ma l'art. 5 della legge 22/5/1975 vieta l’uso, 'senza
giustificato motivo', di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo che
impedisca il riconoscimento della persona in pubblico. É opportuno chiedersi se
il rispetto di un principio di carattere religioso o culturale possa costituire
un 'giustificato motivo' per l'adozione di un abbigliamento che nasconda la
propria identità. In passato il Consiglio di Stato ha stabilito che la matrice
religiosa può essere un giustificato motivo per l'uso in pubblico di qualsiasi
tipo di velo islamico che copra il viso. É un parere tuttavia che alla alla
luce dell'attuale livello della minaccia terroristica andrebbe rivisto. Il
divieto di indossare il velo islamico integrale in pubblico è oggi in vigore in
Belgio, Francia, Olanda e in alcuni cantoni della Svizzera. Nel 2014 la Corte
Europea dei Diritti dell'Uomo ha precisato che questi provvedimenti non ledono
la libertà di religione. Resta sullo sfondo il più generale problema di come
conciliare fede, cultura, libertà, diritti individuali e sicurezza collettiva.
RR
QUEBEC
CITY, SE LA PROPAGANDA PLAGIA MENTI DEBOLI (pubblicato su 'L'Azione' del
3/2/2017)
La
sera del 29 gennaio il Centro culturale islamico di Quebec City è stato oggetto
di un attacco terroristico che ha avuto un bilancio provvisorio di sei
morti e otto feriti. Per la strage è stato incriminato un cittadino
franco-canadese che ha dichiarato di essere un ammiratore di Donald Trump, di
Marine Le Pen, delle forze di difesa israeliane. Ad essa è stato attribuito un
movente islamofobo. Questo crimine, congiuntamente ad alcuni recenti discussi
provvedimenti del neopresidente americano, rende di nuovo attuale il dibattito
sull'esistenza o meno di uno scontro fra l'identità culturale del mondo
occidentale e quella del blocco delle nazioni islamiche. La
contrapposizione fra i Paesi islamici e l’Occidente di fatto ha sostituito il vuoto
creato dal crollo dell’Unione Sovietica. Questo attentato e i precedenti di
matrice islamica sono stati prevalentemente compiuti da soggetti non
appartenenti ad aggregazioni terroristiche: sono stati quindi esclusivamente il
prodotto dell'efficacia suggestionante di una propaganda mediatica che ha
causato effetti devastanti su menti che per vari motivi erano predisposte a
recepirne i contenuti. Gli autori di questi atti, in quanto non strutturati in
gruppi terroristici, sono stati definiti cani sciolti. Si tratta di
una definizione impropria poiché questi attentatori, pur non essendo
incardinati in cellule terroristiche, fanno parte di un sistema virtuale,
integrato da una rete ipotetica di soggetti che unilateralmente si dichiarano
emissari di un'ideologia di carattere politico o confessionale. Dall'esame
delle loro personalità si è rilevato che questi criminali spesso sono afflitti
da gravi problemi personali che li confinano ai margini della comunità, oppure
sono vittime del disorientamento causato dalla mancanza di valori di
riferimento. Pertanto utili strumenti di prevenzione avanzata, accanto alla più
mirata azione dell'intelligence, sono le politiche di integrazione,
che dovrebbero neutralizzare il loro risentimento verso una società che
sentono ostile o nei confronti della quale si sentono inadeguati. Il carattere
isolato e individualistico di queste iniziative criminali contraddice le tesi
su un presunto scontro di civiltà nell'attuale conflittualità fra Islam e
Occidente. Se il conflitto fosse strutturale, infatti, questi individui
dovrebbero essere esponenti di realtà più ampie e complesse. Al contrario la
motivazione di questi atti è radicata solo in condizioni o vicende personali,
mentre la matrice confessionale o ideologica rimane sullo sfondo. RR
TRUMP
E IL MEDIO ORIENTE (29-1-2017)
E'
prematuro fare previsioni sulle scelte di politica estera che saranno compiute
dal neopresidente USA Donald Trump nello svolgimento del suo mandato. Non
possono essere considerate dirimenti le indicazioni fornite durante la campagna
elettorale: come è nella logica dell'essenzialità della propaganda, che è
strumentale solo ad ottenere il consenso degli elettori, tali indicazioni sono
state enfatizzate a prescindere dagli aspetti problematici conseguenti alla pratica
attuazione nella specificità dei contesti. Si deve tener presente che le scelte
di Donald Trump risentiranno della sua esperienza professionale: il
neopresidente americano non proviene dalla politica, né dall'alta
amministrazione, ma è esclusivamente un imprenditore di successo:
presumibilmente quindi sarà la logica della convenienza economica a guidare le
sue opzioni strategiche. Donald Trump, come parte dell'opinione pubblica
americana, considera negativamente l'accordo raggiunto con Teheran sul programma
nucleare. Questa posizione riflette un atteggiamento di diffidenza nei
confronti dell'Iran, condiviso dallo staff dei suoi collaboratori recentemente
nominati. Il dossier iraniano tuttavia va valutato con molta attenzione. L'Iran
sta uscendo dall'isolamento nel quale lo avevano relegato l'embargo e
l'interruzione delle relazioni commerciali, per tornare ad essere un
interlocutore per molti Paesi europei. La Repubblica iraniana potrebbe essere
quell'alleato strategico nel mondo islamico di cui l'Occidente ha un bisogno
vitale: la sua adesione all'Islam di tipo sciita la rende un partner affidabile
per contrastare le derive jihadiste e le ambiguità delle monarchie sunnite del
Golfo, che con difficoltà dissimulano la loro pericolosa prossimità ideologica con
gli ambienti del fondamentalismi islamico; questa 'contiguità' si concreta in
un supporto politico ed economico. È noto che l''Iran è stato in passato una
centrale del terrorismo internazionale finanziando gruppi sciiti, in
particolare gli Hezbollah, e movimenti sunniti, segnatamente Hamas:
l'integrazione nel contesto geopolitico renderà difficile queste pregresse
derive. È probabile che l'amministrazione americana subirà pressioni per il
mantenimento dell'accordo da parte di multinazionali e colossi industriali, che
hanno concluso accordi commerciali con partner iraniani. È comprensibile che
anche Israele consideri l'accordo con l'Iran un grave errore. Tuttavia i tempi
sono maturi per la stabilizzazione e la normalizzazione delle relazioni di
Israele con il mondo arabo attraverso l'implementazione degli accordi di Oslo,
per il riconoscimento dello Stato palestinese, e quello di Israele da parte dei
Paesi arabi e islamici. Sarebbe auspicabile, anche se appare poco probabile,
che gli Stati Uniti, con l'eventuale supporto del neoalleato russo, svolgano
una mediazione finalizzata a questa composizione di interessi. Con l'ascesa di
Donald Trump Israele tornerà ad essere un alleato fondamentale per la
diplomazia statunitense. Se questo però si tradurrà in un appoggio al leader
del Likud Netanyhau, si allontanerà la prospettiva di un accordo fra Israeliani
e Palestinesi, che sembra avere come unica possibilità la costituzione di due
Stati, ovvero quello palestinese accanto a quello israeliano. In proposito la reiterata
attualità del paventato spostamento dell'ambasciata statunitense presso Israele
da Tel Aviv a Gerusalemme non è un atto di distensione che va in questa
direzione, dal momento che i Palestinesi rivendicano Gerusalemme come loro
capitale. La crisi siriana ha un'importanza centrale nell'attuale contesto
geopolitico. Trump eredita la gestione poco incisiva, incerta, poco
lungimirante del suo predecessore. L'amicizia di Trump con Putin e la
prospettiva di una reciproca collaborazione cambia completamente lo scenario
consentendo di ipotizzare azioni militari congiunte, soprattutto per
contrastare lo Stato Islamico. L'alleanza fra Russia e Usa rafforza Bashar Al
Assad e avvicina la prospettiva di una soluzione negoziata del conflitto
siriano. Gli Stati Uniti, attraverso l'intesa con la Russia, si ritrovano di
fatto ad essere alleati dell'instabile Turchia e dell'Iran, in un contesto,
quello del vicino Medio Oriente, caratterizzato da delicati equilibri. Donald
Trump, dopo il riavvicinamento degli Usa all'Iran (a seguito dell'accordo sul
nucleare) dovrà trovare il modo di rassicurare della sua amicizia le monarchie
sunnite del Golfo, che presumibilmente continueranno ad essere strategicamente
alleate degli Usa, e che si contendono con l'Iran la leadership nel mondo
islamico. L'appoggio alla Siria non inciderà sui rapporti con Israele, che è
sempre rimasto fuori dai conflitti di difficile gestione e ad esito incerto,
soprattutto se non interessano direttamente la propria integrità territoriale:
ricorrono le condizioni che inducono lo Stato ebraico a rimanere estraneo alle
vicende belliche siriane. RR
RADICALIZZAZIONE
DELL'ISLAMISMO O ISLAMIZZAZIONE DEL RADICALISMO? (18-1-2017)
Si
è spesso affermato che gli attentati jihadisti siano
supportati da una visione radicale dell'Islam, ovvero da un modello che impone
una militanza - che si avvale anche dell'uso della violenza - con l'obiettivo
di instaurare una società ispirata ai principi del Corano interpretati in
maniera letterale. Questa tesi viene comunemente sintetizzata con
l'espressione radicalizzazione dell'islamismo[i]. Tuttavia,
dall'esame delle personalità degli autori delle stragi jihadiste si
è rilevato che essi spesso hanno gravi problemi personali, che li
confinano ai margini della società, vittime di un diffuso malessere e di un
disorientamento causato dall'assenza di valori di riferimento. Questa
condizione, caratterizzata anche da un vuoto ideologico, produce una
visione relativistica in un contesto di diffuso nichilismo, radicalizzando un
atteggiamento critico nei confronti della società. Diversamente l'Islam nella
sua interpretazione fondamentalista offre un modello che, seppur discutibile,
si basa su valori definiti e solidi, e che pertanto possono esercitare una
qualche seduzione su chi è alla ricerca di una identità definita per arginare
il proprio senso di inadeguatezza. Conseguentemente la contestazione radicale
della nostra società è esposta ad un processo di islamizzazione. Questa evoluzione
può essere descritta come islamizzazione del radicalismo, in
parziale contrapposizione alla già menzionata radicalizzazione
dell'islamismo. Questa diversa lettura del fenomeno alla base di
derive terroristiche individuali indica che la penetrazione della cultura
islamica fondamentalista non è il risultato di una preordinata aggressione
esterna, ma è la conseguenza di suggestioni che occupano il vuoto etico di una
civiltà in decadenza, che vive costantemente contraddizioni interne, e che è
passivamente esposta ad ogni tipo di influenza, prostrata da una crisi che si
declina nella cultura, privata della capacità di evolversi positivamente a
causa della mancanza di una dialettica costruttiva fra le forze politiche. RR
[i] Convenzionalmente con il termine 'islamismo' si
intende l'Islam considerato come ideologia politica.
TERRORISMO
E SINDROME DI ULISSE (12-1-2017)
Sfogliando
per caso una rivista divulgativa di psichiatria, inaspettatamente ho
trovato
un articolo che conteneva un interessante contributo al chiarimento della
controversa questione dei rapporti fra immigrazione illegale e terrorismo. La
questione - come ormai avviene abitualmente in Italia - è oggetto di una
visione 'polarizzata', ovvero di opinioni simmetricamente opposte senza
soluzioni intermedie. Mentre alcuni sostengono che, mediante i flussi
migratori, terroristi di matrice islamica possano facilmente introdursi nel
nostro Paese, altri escludono questa possibilità. In realtà è poco probabile
che un terrorista addestrato, ovvero oggetto di un sensibile investimento in
attività di formazione, possa affidarsi alla lotteria dei viaggi con i barconi
impiegati dai clandestini: per raggiungere l'Europa questi individui possono
utilizzare rotte più comode, valersi di connivenze, procurarsi senza troppe
difficoltà documenti contraffatti. Tuttavia può accadere che un migrante
clandestino, giunto in Italia con mezzi di fortuna, trovi nel nostro Paese
condizioni favorevoli per la sua radicalizzazione. Così, ad esempio, è avvenuto
per Anis Amri, il giovane tunisino responsabile dell'attentato a Berlino del 19
dicembre 2016. Il terrorista, approdato nel febbraio 2011 a Lampedusa insieme
ad altri profughi, successivamente fu coinvolto in alcuni disordini, a seguito
dei quali venne condannato a quattro anni per minacce aggravate, lesioni
personali e incendio doloso, ed espulso nel 2015 (il provvedimento tuttavia non
venne attuato). Prima di arrivare in Europa Anis Amri non era un estremista
religioso: progressivamente si radicalizzò, prima in Italia durante i quattro
anni passati in carcere, poi in Germania a seguito di contatti con una rete di
fondamentalisti islamici. La sindrome di Ulisse è caratterizzata da sintomi di
natura psicosomatica, che sono la conseguenza del malessere psichico, dello
smarrimento, del senso di fallimento e di perdita dell'identità, che può
provare chi abbandona il proprio Paese per trasferirsi in una nuova realtà. La
condizione di stress conseguente allo scomodo e incerto 'trasferimento'
mediante carrette del mare, e alle successive difficoltà di inserimento e alla
frustrazione delle aspirazioni 'di normalità', rendono questi individui
particolarmente vulnerabili alle suggestioni e al proselitismo della propaganda
jihadista, che fornisce loro delle certezze che si surrogano alla situazione di
precarietà. Questa tesi suggerisce due conclusioni. Innanzitutto le politiche
di integrazione potrebbero essere il più efficace antitodo contro le derive
terroristiche che hanno come presupposto il disorientamento e la sensazione di
estraneità che consegue alla sindrome di Ulisse. Inoltre, limitatamente a
questi casi, la tesi in questione, che sottolinea l'influenza dei disagi
conseguenti alle migrazioni, ridimensiona l'importanza dell'Islam come fattore
scatenante quel processo di radicalizzazione di giovani musulmani, che può
avere come esito il loro reclutamento alla causa 'jihadista'. Questo processo
sarebbe alimentato dall'aspirazione ad una malintesa emancipazione e ad un
riscatto che avrebbe natura politica e sociale, ma non religiosa. RR
LA
MEZZALUNA E LA SVASTICA (10-1-2017)
Come
ogni anno il 27 gennaio sarà celebrato il Giorno della Memoria in
commemorazione delle vittime dell'Olocausto; si tratta di una ricorrenza
internazionale istituita a seguito di una Risoluzione dell'Assemblea Generale
delle Nazioni Unite del 2005 (60/7). In relazione alla recente recrudescenza
dei contrasti fra Israeliani e Palestinesi è tornata di attualità la
problematica circa le radici storiche dell'antisionismo arabo. Un'ampia
letteratura approfondisce l'ufficiosa alleanza fra Nazismo e Islamismo
radicale. Il saggio di David G. Dalin e John F. Rothmann dal suggestivo titolo
'La mezzaluna e la svastica', uscito in Italia nel 2009, esamina il ruolo svolto
in questo contesto dallo spregiudicato leader islamico Hag Amin Al Husayni, che
nel 1921 venne nominato, con il decisivo appoggio delle autorità inglesi[i], Gran Muftì di Gerusalemme, di
fatto la suprema autorità politica dei musulmani sunniti. Al Husayni,
predicatore dell'Islam wahabita, è considerato il padre del moderno
fondamentalismo islamico e della militanza organizzata contro gli Ebrei[ii]. Fu
ammiratore di Hitler con il quale ebbe numerosi contatti. Condividendo la
politica nazista antisemita in quanto considerava le aspettative ebraiche
un ostacolo all'affermazione del nazionalismo arabo[iii], strinse un accordo con il regime
tedesco in virtù del quale 100.000 musulmani avrebbero combattuto come
volontari per la causa tedesca. Al Husayni manifestò in varie occasioni
un'inclinazione ad offrire un supporto alla politica nazista con l'obiettivo
primario di impedire l'esodo ebraico verso la Palestina, preferendo che gli
Ebrei venissero avviati ai campi di concentramento nella prospettiva della
'soluzione finale'. Fin dal 1933 si costituirono in medioriente gruppi politici
di ispirazione arabo-nazista, come lo 'Young Egypt', guidato da Abdul
Gamal Nasser, futuro Presidente dell'Egitto; lo slogan di queste formazioni
politiche era 'un popolo, un partito, un leader', lo
stesso motto dei nazisti. Dopo la Seconda Guerra Mondiale Al Husayni ebbe
intensi rapporti con Sayyid Qutb e con Hasan Al Bannah, rispettivamente teorico
e fondatore dei 'Fratelli Musulmani', movimento profondamente antisemita, di
cui divenne un membro particolarmente attivo. Fu successivamente mentore di un
giovane che diventerà un protagonista delle questione mediorientale, ovvero
Yasser Arafat. Di questo idillio storico fra Islam radicale e nazismo residuano
tuttora delle inquietanti tracce. Il 'Mein Kampf' di Hitler è un libro diffuso
e molto letto nel mondo arabo. Questa circostanza non è casuale, ma riflette
un'affinità concettuale: la nozione nazista della superiorità della razza
ariana è stata surrogata dal fondamentalismo islamico con la supremazia dei
popoli illuminati dall'Islam, che da religione si è trasformato in un'ideologia
politica che giustifica la conquista del mondo, i cui presupposti sono
l'aggressione e lo sterminio degli infedeli, a cominciare dall'eccidio degli
Ebrei già pianificato dai nazisti. Lo scrittore Hermann Hesse riteneva che in
generale l'odio contro gli Ebrei fosse un complesso mascherato di inferiorità[iv]. Questa
considerazione acuta pur nella sua astrattezza ha valore soprattutto con
riferimento all'antisemitismo nazista; quello arabo è invece connotato anche da
motivazioni politiche e religiose. La persistente ombra nazista sul radicalismo
islamico ha spinto il funzionario arabo (giordano) Zeid Raad Al Hussein, Alto
Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, nel febbraio del 2015 a
dichiarare che "....tutti noi dobbiamo ricordare quello che hanno fatto i
nazisti al popolo ebraico perché lo Stato Islamico vive e si nutre di quella
stessa ideologia nazista improntata sullo sterminio". RR
[i] La Palestina era allora sotto
il mandato britannico.
[ii] Ebreo
o ebraico? Il termine 'ebreo' ha natura sia di sostantivo che di aggettivo.
Come aggettivo è specifico dell'etnia. Il termine 'ebraico' ha natura di
aggettivo e si usa in tutti i casi eccetto quelli in cui è più corretto e l'uso
di 'ebreo'.
[iii] Infatti
con la fine del Califfato Ottomano dopo la Prima Guerra Mondiale, gli Ebrei
della diaspora si sentirono incoraggiati a raggiungere la 'terra promessa' come
premessa per la futura costituzione di uno Stato ebraico, che avrebbe tolto
alla regione interessata la natura di 'dar al Islam', territori
dell'Islam.
[iv] Più
precisamente Hermann Hesse nel 1958 scriveva: "L’uomo primitivo odia ciò
di cui ha paura, e in alcuni strati della sua anima anche l’uomo colto è
primitivo. Anche l’odio dei popoli e delle razze contro altri popoli e
razze non si basa sulla superiorità e sulla forza, ma sull’insicurezza e sulla
paura. L’odio contro gli ebrei è un complesso di inferiorità mascherato:
rispetto al popolo molto vecchio e saggio degli ebrei certi strati meno saggi
di un’altra razza sentono un’invidia che nasce dalla concorrenza e
un’inferiorità umiliante. Più fortemente e più violentemente questa brutta
sensazione si manifesta nella veste della superiorità, più è certo che dietro
si nascondono paura e debolezza."
IL
FONDAMENTALISTA ISLAMICO COME PERDENTE RADICALE (7-1-2017)
Nel
2007 fu pubblicato il libro "Il Perdente Radicale", scritto
da Hans Magnus Enzensberger, un raffinato intellettuale tedesco molto
attento all'analisi delle congiunture storiche e all'approfondimento
critico delle culture che dialetticamente le caratterizzano. Le riflessioni contenute
nel saggio - che già allora destarono molto interesse - sono di particolare
attualità in relazione al preoccupante aumento esponenziale di attentati
compiuti da elementi suggestionati da una incontenibile acredine nei confronti
del consesso sociale. L'intellettuale tedesco rileva che una costante
patologia della società occidentale nelle sue evoluzioni e varianti storiche è
stata la presenza di soggetti che, non integrati per diverse contingenze e
accumulando una frustrazione resa insostenibile da un disperato nichilismo, si
esaltano nel progettare e realizzare delitti per 'punire' indiscriminatamente
quella collettività che ritengono scientemente responsabile della loro
emarginazione. In una condizione di silenziosa afflizione questi individui sono
il sedimento di un incontenibile odio nei confronti della comunità e delle non
condivise manifestazioni della cultura dominante. L'esasperazione della loro
avversione nei confronti della società, unita all'isolamento e all'incapacità
di affrontare le contraddizioni e le sfide della vita ordinaria rendono
tali individui dei 'perdenti'; questo sentimento negativo si radicalizza
integrando il presupposto per crimini abnormi, nei quali distruzione e
autodistruzione si compenetrano per perseguire l'obiettivo estremo
dell'apocalittica fine dell'intera civiltà. Le iniziative di questi terroristi
consistono principalmente nell'assassinio individuale o di massa anche al
prezzo della propria vita. Premesse queste considerazioni, la tipologia del
perdente radicale è particolarmente varia. Con efficace sintesi sulla copertina
del libro si legge: "....Il perdente radicale ha mille volti. È qui. È il
padre che stermina la famiglia. È il soldato nazista. È il kamikaze islamista
che progetta il suicidio di un'intera civiltà...". Il saggio
fornisce un apprezzabile contributo alla comprensione delle iniziative
terroristiche di matrice islamica, e soprattutto all'analisi dei presupposti
delle azioni dei cosiddetti 'lupi solitari' o 'cani sciolti'. In proposito, la
definizione di 'lupi solitari', ormai convenzionalmente entrata nell'uso
corrente, è concettualmente errata. Il 'lupo solitario', pur non essendo
incardinato nell'organico di un gruppo terroristico, fa parte di un sistema, i
cui pilastri sono la propaganda fondamentalista - che si articola sfruttando
accuratamente le potenzialità multimediatiche e quelle della Rete - e la
diffusione di un appello alla 'jihad' contro l'Occidente diretto a tutti i
musulmani. Prima della strage di Nizza, Abu Muhammad Al Adnani, morto il 30
agosto 2016, già portavoce del sedicente Califfo Al Baghdadi, aveva detto:
"Preparatevi, siate pronti: portate disastro ovunque per gli apostati.
Loro non fanno distinzione tra civili e soldati, ricordatelo!". RR
LA
DECISIONE DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA DELLE NAZIONI UNITE DEL 23 DICEMBRE
2016 (30-12-2016)
Il
23 dicembre scorso (2016) il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha
approvato una Risoluzione, sollecitata dalla Nuova Zelanda, dalla Malesia,
dal Senegal e dal Venezuela, che chiede al Governo di Israele di
'interrompere ogni attività' di incremento di insediamenti nei cosiddetti
'territori occupati' e a Gerusalemme est, giudicando l’occupazione 'senza
validità legale' e dannosa per l'auspicato processo di pace. A favore della
Risoluzione hanno votato 14 Paesi su 15 (Membri del Consiglio), mentre gli
Stati Uniti hanno deciso di astenersi. In proposito, la Rappresentante
Permanente degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Samantha Power, ha
precisato che è contraddittorio promuovere iniziative per un accordo fra le due
etnie e nello stesso tempo tollerare la politica di ampliamento degli
insediamenti. La Risoluzione, anche se ha creato molto rumore soprattutto
per la dura reazione israeliana, ribadisce semplicemente quanto già in passato
questo consesso internazionale aveva affermato, ovvero l'illiceità
della politica espansionistica israeliana. L'astensione statunitense è
stata fortemente criticata dall'attuale Primo Ministro israeliano Netanyahu che
ha definito 'vergognosa' la Risoluzione, precisando che non osserverà la
richiesta contenuta nella determinazione del Consiglio 'di interrompere ogni
attività'. Il leader israeliano ha inoltre aggiunto di
confidare nell'imminente inizio del mandato presidenziale USA di Donald Trump,
che si insedierà a fine gennaio. Le preannunciate posizioni di Trump, a
cominciare dall'amicizia con Putin e dal sostegno alla Siria di Assad,
determineranno grandi cambiamenti negli equilibri mediorientali. Il carattere
aggressivo della reazione di Benjamin Netanyahu probabilmente fa
affidamento sul possibile appoggio del prossimo presidente americano, come
peraltro si evince indirettamente dalle sue stesse parole. Tuttavia, se è certo
che Trump rafforzerà l'amicizia americana con Israele, non è altrettanto sicuro
che questo atteggiamento si spingerà fino a condividere la desueta e
anacronistica linea politica del Likud al momento al potere nello Stato
Ebraico, considerato anche il carattere molto volubile delle esternazioni del
neopresidente USA. Il Segretario di Stato USA John Kerry in un discorso
dai toni forti tenuto il successivo 28 dicembre, pur confermando
l'amicizia nei confronti di Israele, ha fortemente censurato gli
insediamenti israeliani nei territori occupati precisando che queste
iniziative, alimentando tensioni fra Israele e l'Autorità Palestinese,
ostacolano gravemente il processo di pace in Medio Oriente, che sembra
avere come unico possibile obiettivo finale la costituzione di due Stati
(ovvero quello palestinese accanto a quello israeliano). RR
L'IRAQ
E L'ARTE BELLICA (16-12-2016)
Recentemente
Al Jazeera, la tv satellitare del Qatar, ha trasmesso un interessante
servizio, l'Iraq e l'arte della guerra, su due noti artisti
iracheni, le cui opere al momento sono esposte a Doha. Si tratta di Dia Al Azzawi
e di Mahmoud Obaidi. I loro lavori si propongono come interpretazioni, da un
punto di vista creativo, dei recenti tragici avvenimenti mediorientali.
Nell'intervista resa all'emittente araba Dia Al Azzawi e Mahmoud Obaidi si
soffermano in particolare sui massacri e sulle distruzioni che dilaniano
l'Iraq, sede 7000 anni fa di una delle più antiche civiltà. La difficile
condizione del Paese, sconvolto da una decennale guerra, è vissuta dagli
iracheni con un senso di rassegnazione e approssimativa neutralità rispetto
alle parti in conflitto, quasi essi fossero assuefatti e indifferenti al
degrado in atto. L'Arte, con il suo linguaggio non convenzionale, pertanto ha
la responsabilità di risvegliare in quel popolo un senso di consapevolezza che
stimoli una reazione che contrasti la tentazione di sentirsi parte di un cosmo
che non ha futuro. I movimenti artistici, sebbene traggano ispirazione da
questa realtà, sono entità esterne, quasi estranee, perchè nascono e si
sviluppano all'estero, dal momento che gli artisti mediorientali ormai vivono
quasi tutti in Paesi occidentali. Mahmoud Obaidi è un apprezzato scultore
concettuale: con la sua mostra 'Frammenti' ha esplorato la distruzione e il
saccheggio del suo Paese, producendo opere che ripetono manufatti, presenze,
dettagli che evocano una Baghdad parcellizzata e violentata dalla drammatica
aggressione bellica; utilizza superfici e materiali ricoperti di ruggine,
perchè è così - dice - che vede l'Iraq ora. Obaidi cita una sua opera che
raffigura la statua della libertà appesa con una corda al soffitto che sembra
manovrata in maniera sinistra e incombente, che è metafora dell'invasione
subita dai territori iracheni. Con una scultura composta da una testa di Bush,
circondata da scarpe, ha invece celebrato un noto episodio: quando,
durante un discorso del ex Presidente americano, un giornalista iracheno gli
scagliò contro le sue scarpe. Dia Al Azzawi ha avuto invece una formazione
culturale profonda e globale, che comprende anche studi di archeologia, grazie
ai quali ha potuto lavorare per due anni per il museo archeologico di Mosul.
La distruzione sistematica nel 2015 da parte dell'Isis dei reperti ivi
esposti, molti dei quali provenienti dalle rovine della città assira di Hatra,
ha cancellato una parte fondamentale della memoria degli iracheni. E il
popolo di un Paese senza memoria è disorientato e più debole, perchè è
compromessa e resa incerta la sua identità: questo probabilmente, oltre alla
lotta all'idolatria, è il vero fine delle scelleratezze dello Stato Islamico. Con
le sue opere Dia Al Azzawi realizza una ricognizione dei momenti
fondamentali della storia irachena, che dice radicata nel profondo della sua
anima. Le sue grandi superfici, talvolta monocromatiche, con intense
raffigurazioni che si avvalgono di un linguaggio tenacemente simbolico,
suscitano profonde suggestioni. Dal servizio di Al Jazeera emerge
l'importanza dell'impegno morale dell'Arte e della Cultura nella ricostruzione
dell'identità di un popolo travagliato dalle vessazioni della storia. La prima
vittima della guerra è sempre la verità. RR
Iraq
e Art of War (video) - https://vimeo.com/195265238
Al
Jazeera (sito) - http://www.aljazeera.com/
Dia
Al Azzawi (opere) - http://www.azzawiart.com/
Mahmoud
Obaidi (opere) - http://www.obaidiart.com/
AUTISMO:
NORMALITA' NON CONVENZIONALE (11-12-2016)
Ieri,
10 dicembre 2016, su invito e organizzazione dell'Accademia Rousseau, si è
svolto a Terni un incontro con Valentina Rapaccini, specializzanda in
Neuropsichiatria Infantile, su 'Autismo: Normalità non convenzionale', alla
presenza di un pubblico qualificato e numeroso. L'evento si inserisce in un
trend di manifestazioni culturali molto interessanti che si sono tenute
recentemente nella città umbra. In particolare mi riferisco alla mostra dell'artista
Grazia Cucco presso l'Accademia Rousseau e a quella del giovane, bravissimo
Giosuè Quadrini presso la Galleria Forzani, nonchè alla Conferenza sui
conflitti moderni e la minaccia jihadista, a quella sull'etica dei nuovi media
rispettivamente organizzate dai Lions, e dal G.O.I. Valentina ha trattato il
tema in maniera globale, ovvero, con ampi riferimenti storici, umanistici e
culturali. Personalmente ho particolarmente apprezzato il concetto, elaborato
da Valentina, di autismo come 'normalità non convenzionale', e non come
malattia, dal momento che questi disturbi concernono soggetti che talvolta
hanno un quoziente intellettivo superiore alla media, ma, mentre in essi alcune
qualità possono essere esaltate, altre manifestano un deficit. In altri termini
si tratta di bambini che non si conformano a quei parametri che consideriamo la
norma solo perché sono espressione dei comportamenti della maggioranza dei loro
coetanei. Questo concetto richiama le battaglie dell'antipsichiatria nella
seconda metà degli anni '70 ai tempi della 'legge 180', detta anche legge
Basaglia, lo psichiatra che ebbe il coraggio di affermare che i manicomi non
rispondevano ad esigenze terapeutiche, ma solo ad egoistiche necessità di
difesa sociale. Valentina ha anche trattato ampiamente e da un punto di vista
storico l'evoluzione del concetto di malattia mentale. Nel corso dell'incontro
sono stati proiettati brani del film indiano Stelle sulla terra, che racconta
la storia di un bambino dai tratti geniali, affetto da dislessia e disturbi
dello spettro autistico, e il piccolo capolavoro di animazione “Mon petit frère
de la lune”, che rappresenta la descrizione di un bambino autistico da parte
della sorella: un fratellino che guarda sempre la luna, perché secondo lei
forse è da lì che proviene. Fa cose strane, che però nella narrazione della
sorellina non hanno nulla di inquietante o problematico: sono semplicemente
bizzarre, curiose, divertenti. Al termine della presentazione i presenti hanno
formulato molte domande che hanno riguardato soprattutto risvolti pratici ed
esperienze personali e professionali, per lo più concrete, con bambini affetti
da questi disturbi. I quesiti sono venuti per lo più da insegnanti, che anche
nell'occasione hanno mostrato la loro sensibilità per queste problematiche,
come ha anche sottolineato Valentina. È emerso che l'autismo è ancora un mondo
tutto da esplorare. Come dice lo scrittore francese Daniel Pennac, è proprio
quando si crede che sia tutto finito, che tutto comincia. RR.
ISRAELE
NELL'ATTUALE CRISI MEDIORIENTALE (1-12-2016)
Domenica
27 novembre sulle Alture del Golan, al confine con la Siria, c'è stato il primo
scontro fra esercito israeliano e combattenti di Daesh; in particolare alcuni
terroristi sono stati uccisi dopo aver attaccato una
pattuglia di militari. Gerusalemme ha risposto bombardando alcune postazioni
dello Stato Islamico, uccidendo i miliziani fondamentalisti. Il raid aereo ha
avuto come obiettivo un edificio originariamente appartenente alle Nazioni
Unite, ma successivamente passato sotto il controllo di forze jihadiste.
L'aggressione ai soldati israeliani probabilmente è stata decisa in autonomia
da appartenenti del gruppo 'Shuhada al Yarmouk', che ha giurato fedeltà
all'Isis e che opera in una stretta fascia di territorio al confine tra Siria e
Israele. Come è noto, Israele si è impossessato nel 1967, al termine della
Guerra dei Sei Giorni, delle Alture del Golan, che allora erano in territorio
siriano. Nonostante la reciproca ostilità fra Israele e Stato Islamico, il
recente scontro del 27 novembre deve essere considerato un caso isolato e non
un cambiamento di strategia del sedicente neocaliffato, in quanto sia Israele e
sia lo Stato Islamico non hanno mai ritenuto opportuno aprire un
fronte l'uno contro l'altro. Israele inoltre ha sempre accuratamente evitato il
proprio coinvolgimento nella guerra siriana: questa
opzione presumibilmente ha una duplice motivazione. Innanzitutto il
governo di Gerusalemme ha sempre apprezzato i buoni rapporti con l'asse sunnita
al fine di controllare la minaccia siriana, conservando tuttavia nello stesso
tempo una posizione neutra ed equidistante nella contesa fra sciiti e sunniti.
Inoltre Israele, per tenere elevata la sua deterrenza militare nei confronti
dei nemici storici, evita iniziative che possano incidere negativamente sulla
sua reputazione di rivale temibile, lucido e determinato nel contrastare
qualsiasi aggressione alla sua esistenza. Per supportare questa dissuasività
strumentale alla propria autodifesa, Israele è sempre rimasto fuori dai
conflitti di difficile gestione ed esito incerto (ovvero che esulano dal suo
controllo nonostante il proprio potenziale militare), soprattutto se non
interessano direttamente l'integrità territoriale. In relazione a quanto
premesso ricorrono le condizioni che inducono lo Stato ebraico a rimanere
estraneo alle vicende belliche siriane, che tuttavia creano una pericolosa
instabilità nella regione mediorientale. Per quanto riguarda il rapporto con i
Palestinesi si è recentemente tenuto il Congresso Nazionale di Fatha, il
partito che rappresenta la maggioranza del movimento palestinese (l'ultima
assise risale al 2014). Al riguardo non è emersa una leadership diversa
ed è stato confermato al vertice il plenipotenziario ottantenne Abu Mazen, che
cumula su di sé anche le attribuzioni di dirigente dell'Olp e di capo
dell'Autorità palestinese. La sua linea è sempre stata finalizzata con scarso
successo ad ottenere il riconoscimento dello Stato palestinese da parte delle
Nazioni Unite (a seguito di una risoluzione del 2012 la Palestina è "Stato
osservatore non membro dell’Onu"); tuttavia Abu Mazen si è in concreto
dimostrato incapace di contrastare la politica di 'occupazione' della 'destra'
governativa israeliana. In altri termini, le aspirazioni dei palestinesi con
molta probabilità continueranno ancora a subire l'immobilismo e la politica
sterile e improduttiva dei vertici palestinesi. RR
I
CONFLITTI MODERNI, LA MINACCIA JIHADISTA E IL RUOLO DEI MEDIA
(18-11-2016)
Si
è svolto ieri (17 novembre) a Terni un incontro sui conflitti moderni, la
minaccia jihadista e il ruolo dei media,
organizzato dal Lions Club Host. Nell'occasione sono state svolte relazioni da
Matteo Bressan, Alessandra Robatto e Domitilla Savignoni. L'evento si inserisce
in una serie di altre preziose iniziative che recentemente si sono tenute nella
nostra città solo per iniziativa di organizzazioni culturali private. Matteo
Bressan, noto analista, ha fornito un quadro molto obiettivo ed esaustivo della
minaccia jihadista ad un anno dai tragici fatti terroristici
che hanno sconvolto alcune Capitali nel cuore dell'Europa, integrato da un
articolato riferimento al complesso fenomeno dei foreign fighters.
Particolarmente apprezzabile la chiarezza sistematica espositiva del dott.
Bressan: in questo momento in cui le banalizzazioni - che sono esiti di
un'informazione carente e di parte - generano pregiudizi, è un grande
valore aggiunto poter disporre di contributi selezionati per orientarci
correttamente nel sovraccarico cognitivo (information overloading) di
cui ci fa destinatari la Rete; questo approccio inoltre è un validissimo
supporto per contrastare la dilagante ignoranza e un inquietante
pressapochismo. Esaminando queste difficili realtà infatti è necessario evitare
l'emotività del primo impatto ed essere quanto più possibile obiettivi,
ancorando ogni riflessione a fatti concreti; senza forzare conclusioni gli
esperti devono fornire elementi che consentano a ognuno di maturare una propria
convinzione. È stata molto interessante la prospettiva dalla quale ha esaminato
questi conflitti Alessandra Robatto, Docente di Diritto Internazionale
Umanitario. Alessandra ha svolto un'articolata trattazione dei risvolti
applicativi ai conflitti bellici delle vigenti Convenzioni Internazionali. Così
l'approccio operativo di Bressan è risultato integrato da una chiara e puntuale
collocazione delle problematiche relative alla minaccia jihadista nel
quadro giuridico internazionale vigente. Resta impregiudicata - ma non era la
sede per affrontare questa problematica - la questione a monte, ovvero se sotto
il profilo dell'effettività giuridica internazionale possa riconoscersi a Daesh
la valenza di Stato. Ha concluso i lavori Domitilla Savignoni, giornalista del
Tg 5, che si è soffermata in particolare sulla trattazione mediatica e sulla
scelta da parte degli organi di informazione del materiale propagandistico
diffuso dall'Isis da divulgare mediante i Tg, da selezionare attentamente non
solo per motivi di opportunità, ma anche al fine di evitare reazioni alla spettacolarizzazione
dell'odio fondamentalista che possano favorire il proselitismo islamista. Si è
anche accennato a quel territorio virtuale senza regole costituito dal Deep
Web. I lavori dei tre relatori, perfettamente integrati e complementari, hanno
fornito un validissimo quadro di riferimento della minaccia jihadista attuale,
un contributo su cui riflettere attentamente. RR
L'ELEZIONE
DI DONALD TRUMP 1. IL TRIONFO DEL POLITICAMENTE SCORRETTO (14-11-2016)
Con
l'espressione, ormai ampiamente abusata, di 'politicamente corretto'
(dall'inglese politically correct) si indica un atteggiamento,
soprattutto esteriore, di estremo e formale rispetto nei confronti di principi
di consolidata acquisizione sociale, che in concreto si traduce soprattutto in
una specifica attenzione per i diritti di determinate categorie di persone. La
correttezza politica implica il rigetto di qualsiasi tipo di pregiudizio.
Talvolta il politicamente corretto si avvale di espedienti terminologici
per risolvere una problematica senza intervenire nella sostanza della
questione: ad esempio, chiamare 'afroamericani' e 'diversamente abili' i negri
e i disabili, né combatte il razzismo, né rimuove le barriere architettoniche;
si tratta solo di una soluzione ipocrita che non incide sui contenuti della
penalizzazione che deriva da una condizione in concreto potenzialmente
svantaggiata; sono mere sublimazioni verso risposte esclusivamente
linguistiche. Allo stesso modo non apporta vantaggi la trasformazione dei
ciechi in 'non vedenti' o dei sordi in 'non udenti'. Le condotte che derogano
da questo indirizzo vengono invece definite 'politicamente scorrette' (politically
incorrect); si tratta di opzioni che si traducono in concreto in una
provocazione che evidenzia come di fronte a problemi emergenti, il
politicamente corretto si sia trasformato in una forma di 'conformismo'
benpensante, in un pensiero unico istituzionalizzato che limita il libero
dibattito sui risvolti sostanziali di una data problematica, ovvero che
impedisce una discussione critica quando verte su idee consolidate. Il Corriere
della Sera in un articolo dello scorso agosto (6/8/2016 - 'Il politicamente
scorretto e la moda del pistolero') fece notare che in passato insospettabili
interpreti dell'anticonformismo del politically incorrect furono
Pier Paolo Pasolini e Oriana Fallaci: il primo evidenziò l'umanità dei
poliziotti e la loro origine proletaria - segnatamente nella poesia scritta
dopo gli incidenti a Valle Giulia nel marzo del 1968 - smantellando il luogo
comune per il quale 'essere dalla parte della polizia' significava essere un
reazionario; la seconda, suscitando accese reazioni, affermava la matrice
islamica delle degenerazioni terroristiche del fondamentalismo musulmano. Da
più di un decennio le società dei Paesi occidentali, Stati Uniti compresi,
stanno attraversando una grave crisi finanziaria che si riflette sul sistema
politico e sul tessuto sociale, con sensibili fenomeni indotti come l'aumento
della criminalità interna e la riduzione delle risorse economiche disponibili.
A torto o a ragione questi cambiamenti inducono parte dell'opinione pubblica a
ritenere che certi principi, come l'accoglienza di individui che fuggono dal
'sud del mondo' vadano in vario modo riconsiderati e rinegoziati. Qualcuno vede
anche un legame (improbabile) fra fenomeni migratori e terrorismo. Hilary
Clinton e Donald Trump sono stati l'una espressione di un approccio che
ribadisce l'opportunità di confermare i contenuti del politically
correct, mentrel'altro con modalità forti e apparentemente impopolari, al
contrario ha investito su quel sentimento sociale, variamente distribuito nella
popolazione, che avverte la necessità, che sia giusta o no, di riconsiderare il
nucleo dei principi che definiscono il politicamente corretto. La sollecitazione
di Trump è stata recepita da una parte consistente degli elettori molti dei
quali possono essere definiti 'silenziosi' (tecnicamente detti 'timidi')
in quanto, in relazione carattere 'imperante' del pensiero unico rigidamente
improntato all'intangibilità di alcuni diritti considerati una irrinunciabile
conquista della nostra civiltà occidentale, non hanno avuto il coraggio di
rivelare all'esterno le loro perplessità, che hanno invece espresso solo nel
segreto dell'urna. Questo meccanismo probabilmente spiega il fallimento delle
previsioni dei sondaggisti, tutte, tranne qualche isolata eccezione, in favore
di Hilary Clinton: molti cittadini americani infatti presumibilmente non hanno
dichiarato alle agenzie di sondaggi le loro reali intenzioni di voto. Credo
che, a prescindere dal merito dell'opportunità della scelta compiuta dal popolo
americano, quanto esposto possa essere una fondata prima immediata chiave di
lettura del successo del candidato repubblicano. Restano tante altre questioni
che saranno esposte in successivi post. Va detto che complessivamente i voti
conseguiti da Hilary Clinton sono stati di più di quelli di Donald Trump, che
tuttavia ha potuto giovarsi del discusso sistema dei così detti 'grandi
elettori'. Secondo questa procedura ogni quattro anni vengono scelti 538 grandi
elettori. Si tratta di delegati che si riuniscono per eleggere il Presidente;
sono individuati su base statale e il loro numero è pari alla somma dei
senatori e dei deputati dello Stato stesso. Per diventare Presidente serve
ottenere la maggioranza assoluta dei loro voti, ovvero 270. Ora si moltiplicano
manifestazioni, anche violente, di chi non riconosce in Trump il proprio
Presidente. Questo sentimento può essere comprensibile, viste le peculiarità
del personaggio, della sua storia professionale e l'asprezza del suo messaggio
politico, ma non si deve dimenticare che Donald Trump ha vinto libere elezioni
a seguito delle quali è necessario che la minoranza, pur rimanendo libera di
manifestare e di esercitare pressioni pacificamente, debba rispettare e
sottomettersi al volere della maggioranza. Comunque da queste elezioni
caratterizzate dalla radicale lontananza delle posizioni politiche dei due
candidati unita ad una differenza di voti non particolarmente rilevante, esce un
Paese diviso radicalmente e in maniera preoccupante. RR
I
FAKE ('BUFALE') DELLA RETE (7-11-2016)
In
questi giorni sulle pagine di accreditati quotidiani nazionali sono comparse
notizie su una particolare disponibilità del leader russo Putin ad inviare
ingenti aiuti in Italia per affrontare le emergenze del dopo-terremoto. Queste
informazioni, che avevano finalità propagandistiche in quanto finalizzate a
dare un rilievo positivo alle iniziative internazionali del leader russo, sono
risultate infondate. Ormai ci siamo abituati ai fake che
girano in Rete. Tuttavia in questo caso 'la bufala', anziché circolare su
canali paralleli rispetto a quelli dell’informazione tradizionale, ha impiegato
stimate testate nazionali. Normalmente le notizie diffuse da quotidiani
nazionali hanno un alto livello di attendibilità. Il terreno tipico della
propaganda fondata su false notizie è invece la Rete. Di fronte alle
informazioni fornite da un sito la prima rilevante questione è quella
dell’attendibilità. Per i mass media tradizionali (televisione
e giornali, in particolare) questo problema si pone in maniera molto ridotta,
in quanto essi sovente dispongono di una soggettività dai tratti definiti (ad
esempio, è nota la proprietà dell’organo di informazione, e può quindi essere
presumibile l'orientamento politico e ideologico). Al contrario, in mancanza di
indici di credibilità, l’atteggiamento del fruitore dei contenuti di un sito
può oscillare fra due poli opposti: chi è orientato a credere a tutto quello
che viene pubblicato, è indotto a ritenere vere anche informazioni improbabili
o poco verosimili. Chi invece è tendenzialmente scettico, è portato a non
credere aprioristicamente a tutto ciò che appare scarsamente verosimile, ma che
tuttavia potrebbe risultare vero. In proposito, rimane ancora attuale, sebbene
siano passati alcuni anni, lo studio compiuto dal Persuasive Technology
Lab dell’Università di Stanford (USA). L’esame di una grande quantità
di materiale consentì ai ricercatori di formulare alcune regole per elaborare
gli indici di credibilità. Uno degli indici è costituito dalla verificabilità
delle informazioni, che richiede senz’altro l’indicazione fonti. Anche la
disponibilità di materiale multimediale, come foto, video, scritti vari, può
contribuire a conferire veridicità a una asserzione. Naturalmente le specifiche
conoscenze del lettore sono un parametro di riferimento per valutare il valore
dei contenuti online; un medico, ad esempio, dispone di elementi
per giudicare un sito di contenuto sanitario. La facilità attraverso la quale
si può avere un contatto (ad esempio, via mail) con lo staff,
il blogger, il webmaster o il titolare delle
pagine web, è sicuramente un positivo segnale di trasparenza.
Il sito veicola l’immagine di se stesso: l’accuratezza, l’assenza di errori
anche di ortografia, il continuo aggiornamento, i link funzionanti,
l’informazione anche trasversale della competenza di chi o di coloro che lo
gestiscono, sono sicuri rivelatori di professionalità. Anche l’usabilità, cioè
l’aspetto semplice che ne faciliti l’uso, incide sulla sua positiva
valutazione; i siti complicati, sofisticati e con effetti speciali generano
diffidenza. Recentemente è nata una scienza, la captologia o tecnologia
persuasiva, che studia come i siti, per accrescere la propria credibilità,
possano manipolare l’attenzione dei lettori; la credibilità è il mezzo
attraverso il quale si conquista la fiducia dell’utente. L’informazione è in
ogni tempo verificabile nei media tradizionali: infatti nei
giornali scripta manent, nelle trasmissioni radiotelevisive si
conservano per un periodo di tempo le registrazioni. L’informazione sul Web è
invece facilmente rimovibile o manipolabile. La propaganda scorretta può
essere alimentata anche da informazioni vere. Nel 1984 la Corte di Cassazione
con una discussa sentenza della Prima Sezione Civile cercò di disciplinare la
libertà di stampa. La libertà di stampa è un ambito molto delicato perché se da
una parte si deve garantire il diritto di cronaca e la libertà di pensiero,
nello stesso tempo si deve evitare che le facoltà connesse a questi diritti
possano tracimare i loro limiti legittimi e degenerare in licenza di diffamare.
Anche se stampa e Web sono contesti del tutto diversi, la pronuncia della
Corte, definita dai giornali Decalogo della stampa per la
meticolosità delle prescrizioni, può fornire utili elementi di riflessione
anche su quanto circola in Rete. Per i giudici della Cassazione anche notizie
vere, riportate con segnate modalità (ad esempio, con enfatizzazioni), possono
originare travisamenti. Per evitare fraintendimenti la Suprema Corte nella
pronuncia precisò che la diffusione di notizie e commenti a mezzo stampa è
legittima se rispettano tre condizioni: a) l’utilità sociale
dell’informazione; b) la verità dei fatti esposti; c) la
forma civile. Si tralascia il primo punto, di evidente significato e non
applicabile per analogia agli spazi virtuali in considerazione della libertà di
fatto di caricare qualsiasi contenuto sul Web a prescindere dall’utilità
sociale. Per quanto riguarda il secondo punto i giudici precisarono che la
verità dei fatti esposti è equiparata a quella solo putativa, cioè
a quella incolpevolmente ritenuta vera. Inoltre, una verità incompleta, cioè
esposta sottacendo intenzionalmente o colposamente alcuni fatti, è da
assimilarsi alla notizia falsa. Un sito può sicuramente ricorrere a mezze
verità, cioè a verità incomplete, per promuovere un proprio punto di vista.
Per la Cassazione la critica non è civile quando eccede lo scopo informativo,
difetta di serenità e/o di obiettività, calpesta la dignità umana, e non è
improntata (intenzionalmente) a leale chiarezza. Per quanto riguarda la leale
chiarezza, il principio sarebbe violato quando si ricorre a subdoli
espedienti come il sottinteso sapiente, gliaccostamenti suggestionanti,
il tono sproporzionatamente scandalizzato o sdegnato,
le insinuazioni. Il sottinteso sapiente consiste
nell’uso di espressioni che, per il contesto nel quale sono inserite o per
l’uso di espedienti linguistici (come il racchiudere parole tra virgolette),
possono essere interpretate in maniera differente o addirittura opposta
rispetto al loro significato letterale. Mettere una frase fra virgolette può
infatti sottilmente suggerire il convincimento che l’espressione sia un
eufemismo o, in ogni caso, debba intendersi in senso diverso da quello
testuale. Gli accostamenti suggestionanti sono invece
caratterizzati dalla sequenza di proposizioni spesso autonome, cioè non legate
da alcun esplicito vincolo sintattico e che si riferiscono a fatti indipendenti
fra loro. Il lettore, a causa della loro medesima contestualizzazione, tende
anche inconsciamente ad associare queste proposizioni e i fatti in esse
contenuti, con conseguenze talvolta diffamatorie o che, in ogni caso, alterano
la verità. Ad esempio, nel narrare un fatto se ne possono citare altri che si
riferiscono ad ambiti diversi creando così delle connessioni implicite ma
inesistenti in concreto, che suggestionano il lettore inducendolo ad associare
fatti che sono invece distinti fra loro. Anche il tono eccessivamente sdegnato
o scandalizzato con il quale si espone un accadimento vero è in grado di
influenzare il lettore. Poi ci sono le insinuazioni, cioè le accuse velate,
anche celate dietro apparenti smentite, o le allusioni volte a insinuare malignamente
un sospetto. I difetti di chiarezza, di cui parla la Cassazione a proposito
della stampa (il Web nel 1984 naturalmente non esisteva), integrano espedienti
ai quali può ricorrere anche un sito per generare o rafforzare un assunto su
cui fondare una mirata propaganda. In ogni caso il difetto di chiarezza sempre
incide negativamente sull’indice di credibilità del sito. RR
I
GUARDIANI DI ISRAELE - LO SHIN BET. SEGUITO. (29-10-2016)
Di
seguito al precedente post, chi volesse vedere il film-documentario The
Gatekeepers - I guardiani di Israele in lingua italiana può clikkare
qui -https://archive.org/details/IGuardianiDiIsraele Il
documentario di Dror Moreh racconta la storia dello Shin Bet, il servizio
segreto israeliano per la sicurezza interna, attraverso approfondite interviste
a sei ex dirigenti, protagonisti delle azioni governative compiute nella Guerra
dei Sei Giorni dal 1967 a oggi. il film è stato nominato agli Oscar nel 2013
come miglior documentario. Si trascrive un breve profilo dei sei ex dirigenti
dello Shin Bet, pubblicato dal sito www.cineblog.it
Avraham Shalom (1980 – 1986) - Cominciò
la sua carriera militare prima che lo stato di Israele fosse fondato. Combatté
nel Palmach, un gruppo paramilitare clandestino che formò le basi dell’ IDF, si
spostò poi nello Shin Bet proprio nel momento in cui venne fondato. Dal 1959 al
1960 fece parte del team del Mossad e dello Shin Bet che rintracciò e rapì un
cittadino argentino, Riccardo Klement, meglio noto come, Adolf Eichmann,
conducendolo in giudizio in Israele. In seguito al massacro degli atleti
israeliani alle olimpiadi di Monaco del 1972 Shalom fu nominato capo del
servizio di sicurezza dello Shin Bet. Nel 1980 diventò capo dello Shin Bet. Il
turbolento mandato di Shalom fu scosso dal terrorismo Palestinese e, ancor di
più, dai fondamentalisti Ebrei che si opponevano a qualsiasi concessione e o
dialogo con la Palestina. La “Jewish Underground” composta da coloni radicali
del West Bank aprì il fuoco sul Collegio Islamico di Hebron, uccidendo tre
studenti, e piazzò bombe nelle macchine di alti funzionari palestinesi,
mutilando in modo permanente i sindaci di Ramallah e Nablus. Quando Shalom
catturò i membri di questa organizzazione scoprì un complotto per far saltare
in aria uno dei più grandi simboli islamici, la” cupola della roccia” un’azione
che avrebbe scatenato la rabbia dell’intero mondo arabo contro lo stato di
Israele. Nei primi anni ottanta Shalom fu una delle più importanti figure di
garanzia della pace in Israele, ma gli costò la carriera. Nel 1984 ordinò
l’esecuzione sommaria di due terroristi che avevano dirottato’ autobus 300 in
viaggio da Tel Aviv a Ashkelon. L’immagine di uno di questi terroristi portato
fuori dall’autobus in manette ancora vivo fece il giro del mondo e condusse ad
un’inchiesta ufficiale. Shalom non rispose mai delle sue azioni alla stampa e
rimase fu sempre reticente sull’accaduto.
Yaakov Peri (1988 -1995) - Sarebbe
stato perfetto per un romanzo di John Le Carré come contrasto per l’enigmatico
Smiley. Affascinante e affabile, un vero gentiluomo, avrebbe facilmente potuto
seguire una carriera in campo musicale ( suonava la tromba per l’orchestra di
Gerusalemme La Voce di Israele) Nato a Tel Aviv nel 1944, Peri entrò
nell’Università Ebraica dopo la sua uscita dall’IDF. Completò i suoi studi
all’università di Tel Aviv con un’ulteriore laurea in Studi sul Medio Oriente e
Storia Ebraica. Fu reclutato nello Shin Bet nel 1966, e fu addestrato come
ufficiale di campo nel settore Arabo. Nel 1987, in seguito all’incidente dell’
autobus 300, fu nominato vice direttore dello Shin Bet, e l’anno seguente il
Primo Ministro Yitchakz Shamir lo scelse come suo capo. La crisi che lo Shin
Bet dovette sostenere allora fu enorme. Era scoppiata l’Intifada, una
sollevazione di massa senza precedenti nei Territori Occupati. Perì, che aveva
trascorso anni studiando e lavorando nei territori, era stato fondamentale
nella creazione di una vasta rete di informatori e collaboratori nei primi anni
dell’occupazione Israeliana. Nonostante ciò, l’improvvisa eruzione
dell’Intifada arrivò inaspettata sia per lui che per gli altri membri dello
Shin Bet. Durante il suo mandato, furono fatte accuse sulle pratiche
eccezionali usate negli interrogatori dello Shin Bet di Gaza City.
Carmi Gillon (1994-1996) - Successe a
Perì come capo dello Shin Bet. Suo nonno fu l’unico giudice ebreo a servire
nella Supreme Court of the British Mandate of Palestine, suo padre fu un
avvocato dello stato e sua madre un Vice Procuratore Generale. Fu uno dei meno
preparati a condurre lo Shin Bet, e il suo breve mandato fu segnato dalla più
grande sconfitta dell’organizzazione – il fallimento nel proteggere il primo
ministro Rabin dall’agguato che gli costò la vita. Dopo aver completato il suo
servizio militare ha studiato Scienze Politiche all’università Ebraica. Fu
reclutato dallo Shin Bet dove trascorse la prima parte del suo servizio
lavorando per il Security Desk con l’incarico speciale di proteggere le
installazioni Israeliane oltremare, incluse le ambasciate e altre organizzazioni
governative. Nominato capo del Jewish Desk fu subito coinvolto nella cattura
dei membri del “Jewish Underground” e di Yonah Avrishmi, l’uomo che aveva
lanciato una granata durante la manifestazione di Peace Now a Gerusalemme nel
1983, l’attentato più grave commesso da Ebrei contro altri Ebrei nella storia
moderna di Israele. Nel 1994 fu selezionato con cura da Yaakov Perì per
succedergli nella direzione dello Shin Bet. Durante il suo breve mandato spostò
l’attenzione dell’organizzazione al terrorismo Ebraico, specialmente di destra.
Questa nuova direzione fu una seria sfida per Gillon. Richiedeva di sorvegliare
Israeliani che non avevano mai commesso un crimine, ma che lui sospettava
stessero preparando il più grave attacco contro lo stato e i suoi leaders. Ciò
che esacerbava il problema era il fatto che queste persone, la maggior parte
delle quali, coloni fanatici ma con una formazione militare, erano sostenuti da
molti politici importanti. Nonostante i molti successi nella guerra contro il
terrorismo ebraico, perse la battagli più importante. Aveva da lungo tempo
messo in guardia sul fatto che i terroristi avrebbero tentato di uccidere il
primo ministro Rabin per ostacolare il processo di pace, ma Israele non aveva
mai affrontato prima assassinii politici e questo fu un errore. Il 4 Novembre
de 1995 un assassino riuscì ad avvicinarsi al primo ministro e sparargli a
distanza ravvicinata. Gillon si assunse immediatamente la responsabilità del
fallimento e rassegnò le sue dimissioni.
Amy Ayalon (1996 – 2003) - E' stato
un outsider, destinato a riabilitare lo Shin Bet all’indomani del suo più
triste fallimento, l’ incapacità nel proteggere il Primo Ministro Rabin dalla
pallottola di un assassino. Da ragazzo Ayalon era cresciuto in un kibbutz, dove
eccelleva nel calcio, sebbene fosse ritenuto troppo basso. Gli amici a volte
dicono che proprio perché era troppo basso sentiva la necessità di compensare
questo limite con una perfetta forma fisica. Diversamente dai suoi predecessori
Ayalon arrivò allo Shin Bet direttamente dall’esercito dove era stato decorato
ufficiale. Come giovane commando nel 1969, fu insignito della più alta
onorificenza IDF, Medaglia al Valore, per il suo impegno nel leggendario “Green
Island Raid” contro una installazione militare egiziana. Durante gli ultimi
anni 70 e i primi anni 80 condusse personalmente delle squadre di subacquei in
numerose incursioni contro installazioni palestinesi lungo le coste libanesi.
Nel 1992 fu nominato capo della Marina Militare con il grado di Maggiore
Generale. La reputazione dello Shin Bet era allo sfascio dopo l’assassinio di
Rabin, cosi il Primo Ministro Peres decise di introdurre un outsider per
ristabilire la fiducia pubblica. Ayalon fu la sua scelta migliore per
quell’incarico. Non solo,era un amato eroe di guerra; era anche un comandante
resistente e testardo, con la reputazione di essere uno diretto. Schietto e
persino tagliente, avrebbe raccontato le cose “così come stavano.” Il più
importante traguardo come capo dello Shin Bet fu aumentare la sicurezza del
capo del paese. Durante i cinque anni di mandato, Ayalon condusse
un’implacabile battaglia contro il terrore sotto tre Primi Ministri molto
diversi tra loro: Shimon Peres, Benjamin Netanyahu e Ehud Barak. Pur
considerato il capo più a sinistra dello Shin Bet, fu proprio al ministro
laburista Ehud Barak che lui riservò le sue critiche più taglienti. Quando nel
2000 fallirono i colloqui di Camp David, il criterio comune ritenne che Barak
avesse offerto ogni cosa ad Arafat e che fosse stata solo l’intransigenza del
leader palestinese ad aver impedito un trattato di pace. Ayalon frantumò questo
mito sostenendo che Barak era arrivato impreparato e che avesse arrogantemente
prevaricato Arafat, invece di negoziare con lui. Ayalon sostenne inoltre che l’intifada
non opera da Arafat ma che fosse un sollevamento popolare dovuto alla
prolungata frustrazione del popolo palestinese.
Dichter (2003 – 2005) - Un
camaleonte a suo agio sia nella società palestinese che in quella israeliana.
Dopo aver completato la sua formazione militare nella Sayeret Matkal,
leggendario Commando Israeliano, Dichter si unì allo Shin Bet e fu di stanza
nel Comando Sud come responsabile della striscia di Gaza. Dal 1992 fu a capo
del Comando Sud e sovrintese alcune delle più ardite operazioni dello Shin
Bet,. Servì per un breve periodo come capo dello Shin Bet’s Security Desk a
seguito dell’assassinio di Yitzchak Rabin. Nel Maggio del 2003 il suo
precedente capo nello Sayeret Matkal, ora Primo Ministro Ehud Barak, promosse
Dichter nella posizione di capo dello Shin Bet e successore di Ami Ayalon.
Quando scoppiò la sanguinosa al-Aqsa intifada, a Dichter fu molto utile il suo
addestramento militare. Fu uomo di successo con Barak e si distinse anche sotto
Ariel Sharon. Lui e Sharon erano due pragmatici. Sebbene Israele avesse subito
molte vittime, ne furono risparmiate molte di più grazie alle tecniche
sofisticate che Dichter adottò per combattere i terroristi e arginare il
terrorismo, come la controversa tecnica dell’assassinio mirato. Dopo il
successo dell’attacco a Yahya Ayyash, fu largamente utilizzata sotto Dichter
con il pieno supporto del governo di Sharon. Dichter fece crescere il ruolo
dell’intelligence e l’utilizzo dello spionaggio informatico per prevenire gli
attacchi e fu uno degli ideatori del tristemente noto Muro di Separazione.
Yuval Diskin (2005 – 2011) - Si unì
allo Shin Bet nel Maggio del 1978 e fu nominato coordinatore per il Nablus
Disrtict. Nei campi dei rifugiati si rese conto della dura realtà della guerra
Israelo-Palestinese. Durante le operazioni di Pace per la Galilea servì a
Beirut 1982 e a Sidon 1983. Nell’Agosto del 1990 fu nominato Direttore del
Dipartimento Antiterrorismo e Antispionaggio per “l’Affairs desk” Arabo-
Israeliano. Nel Maggio del 97 fu nominato direttore del Comando Centrale dello
Shin Bet (Gerusalemme e West Bank Region), posizione che tenne fino a Giugno
del 2000. Durante questi anni turbolenti l’ala militare di Hamas effettuò una
serie di attacchi suicidi intesi a sventare il processo di pace. Deskin
capeggiò l’operazione che distrusse le infrastrutture militari di Hamas in
tutta la Giudea e la Samaria. Nel Luglio del 2000 fu nominato Vice Direttore
dello Shin Bet. Divenne capo dello Shin Bet nel Maggio del 2005. Mentre serviva
come Vice Direttore dello Shin Bet lavorò con l’IDF (Forze di difesa
Israeliane) per creare un protocollo antiterrorismo atto a contrastare gli
attacchi terroristici, ed in particolare gli attacchi kamikaze conosciuti come
“Ticking Time Bombs” (bombe ad orologeria). Si crede sia l’inventore e profeta
della dottrina del ”Targeted Assassination” (Assassinio Mirato). Una volta in
pensione dallo Shin Bet nel maggio del 2011 ha attirato l’attenzione dei media
Israeliani e Internazionali per la sua dura critica alla politica del governo
verso i Palestinesi." RR
I
GUARDIANI DI ISRAELE - LO SHIN BET. (27-10-2016)
Nel
2012 il regista gerosolimitano Dror Moreh ha realizzato un documentario
particolarmente interessante, The Gatekeepers, I
guardiani di Israele, che esamina le vicende belliche israeliane con
segnato riferimento al conflitto con i palestinesi. Il titolo allude al ruolo
forte e di primo piano che hanno svolto i membri dello Shin Bet nelle più
importanti scelte politiche dello Stato ebraico nel settore della sicurezza.
Questa organizzazione è la potente agenzia diintelligence che si
occupa degli affari interni del Paese. Collaterali organismi nazionali sono
l'Aman, il controspionaggio militare strutturato all'interno delle Forze
Armate, e il Mossad, che segue le stesse problematiche ma relativamente
all'analisi della minaccia esterna. Le agenzie di informazioni israeliane sono
state spesso oggetto di approfondimenti giornalistici. Tuttavia il lavoro del
regista Dror Moreh conferisce un importante valore aggiunto alla
conoscenza della questione rispetto ad altre analoghe iniziative mediatiche.
Infatti, la storia e le attribuzioni dello Shin Bet sono descritte
dall'interno, ovvero attraverso le testimonianze di sei ex suoi capi - Avraham
Shalom (1980 – 1986), Yaakov Peri (1988-1995), Carmi Gillon (1994-1996), Amy
Ayalon (1996 – 2003), Avi Dichter (2003 – 2005), Yuval Diskin (2005 – 2011) - e
quindi dal loro personale punto di vista. Nell'ombra l'organizzazione è stata
il consigliere occulto di molte strategie vincenti, ma spregiudicate e
violente, attuate in alcuni momenti decisivi per la storia dell'autodifesa e
della sopravvivenza della nazione ebraica, dalla Guerra dei Sei Giorni - che ha
consentito ad Israele il controllo di una vasta area nella quale viveva un'ampia
parte di popolazione ostile, e che gli impose conseguentemente fin da allora la
gestione del difficile rapporto di convivenza con gli arabi - ad oggi. Si
tratta di una documentazione assolutamente unica, che deve essere visionata da
chi è interessato a queste realtà; è una narrazione inedita, accompagnata da
immagini, filmati, ricostruzioni, efficaci animazioni elaborate su fotografie
raccolte durante le operazioni. La guerra non è mai una cosa nobile; non solo
ferisce i corpi, ma nella migliore delle ipotesi affligge e condiziona le menti
attraverso ricordi indelebili. Il conflitto arabo-israeliano ha toccato
altissimi e insoliti livelli di degrado, ed è stato anche caratterizzato da
atti di terrorismo reciproco. Come si dice nel documentario, la definizione di
terrorista in alcuni contesti come questo è molto relativa: chi per uno è un
terrorista, visto da un'altra angolazione potrebbe essere un combattente per la
libertà. Accanto ai gravi atti di terrorismo palestinese, vengono segnalate le
attività belliciste e guerrafondaie della Jewish Underground, integrata
da fondamentalisti ebrei che, dopo aver compiuto attentati contro gente comune
e alti funzionari arabi, pianificarono di distruggere la 'Cupola della Roccia',
uno dei più grandi simboli della religione islamica; questa azione avrebbe
scatenato la rabbia dell’intero mondo musulmano nei confronti di Israele.
Questo avvenne nei primi anni ottanta: allora pertanto fu necessario
fronteggiare non solo il terrorismo 'esterno', ma anche quello 'interno', praticato
da integralisti che si opponevano a qualsiasi forma di dialogo con i
rappresentanti della Palestina, sostenuti di fatto anche da esponenti politici.
Gli eventi bellici continuano ad essere inquinati dall'odio etnico e
dall'acredine religiosa. Si accenna anche a modalità poco ortodosse utilizzate
per contrastare l'Intifada. Un momento drammatico e una svolta cruciale della
recente storia di Israele è stato l'assassinio del Primo Ministro Yitzhak
Rabin, sostenitore della necessità di un dialogo e di negoziati con i
Palestinesi: il leader moderato, dopo aver partecipato a ad una manifestazione
in difesa della pace, venne ucciso a Tel Aviv la sera del 4 novembre 1995 da un
colono ebreo estremista. Ai suoi funerali che si svolsero a Gerusalemme parteciparono
circa un milione di israeliani e molti esponenti di rilievo della politica
mondiale. Furono presenti anche alcuni leader arabi i quali per la prima volta
entrarono in territorio israeliano. Dalle testimonianze degli uomini che furono
dirigenti dello Shin Bet si evince che l'organismo non fu un docile
strumento nelle mani della politica di governo, ma fu una sorta di coscienza
critica della nazione ebraica: nonostante l'apparente rigidità monolitica
della politica israeliana, questi uomini manifestarono dubbi sulle opzioni
strategiche nella gestione della questione palestinese, di cui
percepirono tutta la complessità che si declinava in tanti settori sensibili.
Queste perplessità hanno anticipato le contraddizioni che oggi dividono
l'opinione pubblica israeliana. Forse si è persa allora la possibilità di
un dibattito a tutti i livelli, che, a prescindere dagli esiti, sarebbe stato
il presupposto per la formazione di una solida coscienza morale. RR
DOCUMENTI
VARI SU ISRAELE E PALESTINA (20-10-2016)
Clikka sul titolo
RIFLESSIONI
A MARGINE DEL CONVEGNO SULL'ETICA DEI NUOVI MEDIA (15-10-2016)
Si
è svolto a Terni il 14 ottobre 2016 un convegno (organizzato dal G.O.I).
sull'etica dei nuovi media, nel corso del quale sono state svolte relazioni da
esperti del settore di varia estrazione professionale. L'impostazione
dell'evento è stata già significativa dell'approccio alla problematica, che è
stato globale e non limitatamente specialistico. Le prime presentazioni
infatti hanno trattato in generale il rapporto fra morale e media,
o, segnatamente, la funzione educativa e di orientamento che gli strumenti di
comunicazione possono svolgere. Il rapporto fra la morale e gli
strumenti che sono corollario della rivoluzione telematica si colloca nel più
ampio solco dei cambiamenti determinati dalle invenzioni di dispositivi per la
trasmissione del pensiero e delle idee, a cominciare dalle innovazioni
conseguenti all'introduzione nel XV secolo della tecnica a stampa con caratteri
mobili. Le successive relazioni sono state più specifiche, concentrandosi sulle
applicazioni telematiche in ambiti particolarmente sensibili quali la
scuola (Fausto Dominici) e il giornalismo (Arturo Diaconale). Anche se può sembrare
un'affermazione banale, deve essere preliminarmente ribadito il carattere
neutro del Web, che, come tutti i mass media, si
qualifica positivamente o negativamente solo attraverso l'uso che se ne fa
(Leopoldo Di Girolamo). Mi viene in mente il ruolo drammatico che hanno avuto i
giornali, la televisione e in particolare la radio nel genocidio di oltre
800.000 persone in Rwanda, nella primavera del 1994. I fatti furono esposti in
un libro, La radio e il machete, che evidenziò le
responsabilità oggettive dei media nel veicolare e
strumentalizzare idee estremiste; le colpe per queste condotte in sede
giudiziaria furono equiparate a quelle degli organizzatori materiali delle
stragi. La Rete promuove un sapere orizzontale, diffuso e vagamente
superficiale, perché vuole massimizzare la conoscenza nei tempi brevi e serrati
imposti dai ritmi della vita moderna. Per questi suoi caratteri il Web ha un
ruolo di primo piano nella globalizzazione dell'apprendimento; da questo punto
di vista la medialità telematica può considerarsi il correlato attuale
dell'omologazione - suo antecedente storico - di cui parlava Pasolini.
Tuttavia, mentre l’omologazione aveva creato un’uniformità culturale seppure di
un eclettismo di dubbio valore, la globalizzazione ha distrutto le peculiarità
delle diverse culture senza crearne una nuova. Le particolarità della
conoscenza promossa da Internet sembrano ripudiare la riflessività e
sacrificare la speculazione spirituale propria delle letture classiche. Come è
stato acutamente evidenziato (Sergio Rosso) questa asserzione è solo un
consolidato luogo comune, come si evince anche dalla formazione di Zuckemberg,
il fondatore di Facebook, che conosce il latino, ed è un appassionato cultore
della storia e dell'arte dell'Antica Roma. Con il Web disponiamo di una mole
illimitata di dati, e la fatica di cercare informazioni è stata surrogata da
quella di selezionare, filtrare, organizzare: in questo aggiornato contesto
saper leggere non basta, serve un nuovo tipo di competenza; da una pregressa
situazione di carenza di cognizioni, siamo passati alla disponibilità di una
loro grande quantità. Da questo punto di vista Internet ci ha emancipato,
perché ci ha consentito di interagire, di scegliere, di decidere;
tuttavia esplorando la Rete dobbiamo essere consapevoli che navighiamo in un
mare aperto e sconfinato nel quale c'è di tutto, dai beni preziosi
ai rifiuti. In proposito, l'intellettuale svizzero Starobinski ha
felicemente enunciato questa realtà dicendo che la Rete può essere metaforicamente
associata ad una sintesi fra la Biblioteca di Alessandria e la Cloaca
Massima. Come è stato suggerito in più occasioni si apre oggi un nuovo fronte
su cui riflettere: la disponibilità di più notizie equivale a più cultura
(Giancarlo Seri)? La Rete non si è sostituita a libri, giornali, radio e
televisione, ma ha introdotto solo un nuovo modo di educare, puntando sui tempi
e sulla sintesi. Il suo modo di informare scarno e immediato deve essere
complementare all'approfondimento che assicurano i mezzi tradizionali attraverso
modalità più articolate. Nell'apprendimento dell'era digitale tra i primi a
subire un pregiudizio sono stati gli insegnanti. Le spiegazioni di un docente
ora possono essere sottoposte ad un'immediata verifica su Internet; il sapere
dei precettori è pertanto in concorrenza con quello enciclopedico condiviso in
Rete (ad esempio, su Wikipedia).Tuttavia, ai custodi del sapere,
così chiama gli insegnanti il filosofo polacco Zygmunt Bauman, è rimasta
l'esclusività dell'istruzione individualizzata e della formazione
personalizzata della mente e del carattere dei ragazzi. Al contrario,
attraverso un'ossessione connettiva (Raffaele Federici), la Rete, per una
malintesa onnipotenza cognitiva, sta monopolizzando l'accesso al sapere e
all'informazione, al punto che senza connessione ci sentiamo isolati dalla vita
sociale. Nell'immaginario collettivo le potenzialità telematiche sono il
simbolo di una civiltà tecnologica che sta creando un nuovo modello umano
(Paolo Bellini), in parte mutuato anche da visioni fantastiche e
avveniristiche. Come è stato magistralmente sottolineato (Michel Maffesoli)
l'individuo tradizionale, che era caratterizzato da una razionalità che gli
consentiva di padroneggiare il mondo, sta perdendo le sue connotazioni
soggettive assorbito da nuove micro-aggregazioni che sono il presupposto di un
nuovo tribalismo, di un passaggio dall'ordine sistematico della verticalità
alla confusione anarchica dell'orizzontalità. Anche i concetti di spazio e di
tempo nella Rete hanno subito una revisione perdendo attribuzioni che
consideravamo naturali. La nozione di spazio non è stata cancellata ma è stata
messa in crisi dal carattere delocalizzato degli utenti; le distanze fisiche
fra le persone continuano a sussistere, ma si perdono nell'irrilevanza delle
posizioni delle postazioni virtuali. Anche il tempo subisce la stessa sorte:
l'immediatezza della virtualità rende non numerabile la percezione del tempo.
Lo spazio e il tempo costituiscono due termini strettamente correlati, al punto
da poter integrare un'unica dimensione, quella di spazio-tempo. A
causa della relatività dei concetti di spazio e di tempo introdotta dal Web
esiste sempre di più solo l'oggi: con Internet c'è esclusivamente
l'immediatezza. L'acceso dibattito che segue lo sviluppo dei nuovi media divide
studiosi, intellettuali, operatori e opinione pubblica fra apologeti dell'era
digitale e detrattori nostalgici di una dimensione perduta (Renato Carnevali).
È presto per trarre conclusioni: ogni rivoluzione deve essere metabolizzata per
essere compresa. Ma ogni serio approfondimento congiunto è particolarmente
prezioso. RR
IL
CARATTERE IRRISOLTO DEL CONFLITTO FRA ISRAELIANI E PALESTINESI (13-10-2016)
Come
sostiene il professor Daniel Bar-Tal[1],
i contrasti fra ebrei e palestinesi appartengono alla categoria dei conflitti
irrisolti. Questa tipologia è integrata da contrapposizioni che hanno un
carattere radicale in quanto le parti percepiscono i relativi interessi del
tutto incompatibili e inconciliabili fra di loro; conseguentemente le
rispettive soggettività politiche che sono referenti delle collettività
contrapposte non sono disponibili a compromessi. Queste premesse spiegano il
carattere permanente di certi scontri e l'oggettiva difficoltà di trovare
soluzioni che possano essere accettate dalle rispettive comunità. Spesso i
conflitti irrisolti per il loro carattere politico travalicano i confini locali
e possono esercitare effetti destabilizzanti a livello internazionale. Il
confronto fra israeliani e palestinesi non può essere ricondotto solo ad un
contrasto fra diverse confessioni, cioè fra ebrei e musulmani, né a una guerra
fra due popoli. Questo conflitto al contrario ha una natura estremamente composita
e complessa, in quanto in esso, oltre a componenti di carattere religioso ed
etnico, confluiscono elementi che incidono su equilibri geopolitici, mondiali e
regionali, o che sono mutuati da aspetti umani, storici e culturali. Per le
implicazioni transnazionali la soluzione di questo conflitto va oltre la mera
riconciliazione tra i due popoli. Le trattative fra israeliani e palestinesi
hanno sempre avuto le peculiarità di un dialogo fra sordi. Per Hamas,
l'organizzazione estremista politico-religiosa palestinese, gli attacchi
terroristici contro Israele sarebbero una modalità necessaria per difendere i
propri territori dall'aggressione sionista. Al contrario Israele rivendica il
diritto di occupare nuovi territori per insediare comunità; questi intenti
espansionistici sarebbero motivati anche da una carenza abitativa. Analogamente
israeliani e palestinesi rivendicano per opposti motivi la legittimità delle
loro pretese di sovranità su Gerusalemme. Quest'ultima ambizione ha anche una
matrice religiosa: Gerusalemme infatti è la terza città sacra dell'Islam dopo
La Mecca e Medina, mentre il nome della metropoli in ebraico significa
letteralmente il luogo dove apparirà il Messia. Le scelte
strategiche di israeliani e palestinesi, oltre ad avere margini di illegalità,
si traducono in concreti ostacoli a prospettive di pace. C'è una chiara
asimmetria fra gli attori dei negoziati: Israele è uno Stato moderno e solido;
il popolo palestinese non ha invece una chiara soggettività politica, né un
esercito regolare, e con difficoltà individua una leadership pienamente
rappresentativa e plenipotenziaria. La rispettiva propaganda interna delle due
parti, già a cominciare dai testi scolastici, demonizza il 'nemico'
descrivendolo come un interlocutore crudele, sanguinario, e soprattutto
disinteressato ad una composizione pacifica della vertenza. A causa di
quest'ottica negativa e deviata, nell'immaginario collettivo degli israeliani
tutti i palestinesi sono terroristi, mentre in quello dei palestinesi tutti gli
israeliani sono oppressori e usurpatori. Fortunatamente non mancano su entrambi
i fronti personalità moderate che auspicano la tolleranza e l'accettazione
dell'altro. Sia la società israeliana che quella palestinese hanno molti
problemi interni che rendono difficile la definizione di una propria condivisa
identità: l'esistenza di un nemico esterno, come avviene frequentemente in casi
analoghi, distoglie da questi problemi e unifica il sentimento nazionale. C'è
ancora una lunga strada da fare. Gli approfondimenti e le analisi del
Prof. Daniel Bar-Tal e di altri studiosi israeliani sugli aspetti che rendono
irrisolto (o intractable, come dicono gli inglesi con
un'espressione più pragmatica) il conflitto fra israeliani e palestinesi, non
sono una mera speculazione o un contributo intellettuale alla democrazia
israeliana, ma hanno importanti risvolti pratici, in quanto sono finalizzati
all'individuazione delle barriere socio-psicologiche che impediscono ad Israele
di intraprendere un cammino di pace. Essere consapevoli di questi ostacoli è il
presupposto per il loro superamento e per l'individuazione di azioni concrete
la cui attuazione potrà essere congiuntamente concertata in un eventuale tavolo
negoziale. In proposito, Shimon Peres amava dire: "...non è vero che non
c'è luce in fondo al tunnel in Medio Oriente. Tutt'altro, la luce c'è. Il
problema è che non c'è il tunnel....". RR
[1] Il
prof. Daniel Bar-Tal è docente emerito di Psicologia politica
all’Università di Tel Aviv. Dal 2000 al 2005 è stato direttore dell’Istituto
di ricerca Walter Lebachper la coesistenza tra arabi e ebrei attraverso
l’educazione; dal 2001 al 2005 è stato condirettore del Palestine
Israel Journal; dal 1999 al 2000 è stato Presidente della Società
Internazionale di Psicologia della Politica.
ISRAELE:
IL PROGETTO POLITICO DELL'ORGANIZZAZIONE SISO (7-10-2016)
SISO
(Save Israel - Stop the Occupation) è un movimento di recente costituzione,
segnatamente è stato fondato nel 2015, che intende favorire con mirate
iniziative una soluzione negoziata del conflitto in Israele fra
ebrei e palestinesi. SISO afferma il carattere prioritario del
ritiro di Israele dai territori occupati ed auspica la costituzione di uno
Stato palestinese. Questa posizione è ancora minoritaria nell'ambito
dell'opinione pubblica israeliana, in quanto superficialmente e a prima vista
potrebbe sembrare il corollario di un'opzione filo-araba o filo-palestinese. Al
contrario, gli obiettivi del movimento non sono motivati da scelte di carattere
politico, ma esclusivamente da una visione pragmatica della situazione. I tempi
sono sicuramente maturi per il generale riconoscimento di Israele da
parte di tutta la comunità internazionale. Tuttavia la piena legittimità di
Israele è condizionata dalle evoluzioni della questione palestinese, che
influiscono di fatto anche sulla normalizzazione della società civile
israeliana. In proposito, l'unica soluzione concreta in grado di porre fine
alla controversia interetnica e territoriale sembra essere la costituzione di
uno Stato indipendente che assicuri l'autodeterminazione del popolo
palestinese. Questa prospettiva - sottolinea l'associazione - è nell'interesse
sia dei palestinesi, sia degli ebrei, che finalmente potranno aspirare ad
un futuro di pace in un contesto di sicurezza, democrazia e prosperità; inoltre
questo nuovo assetto politico e territoriale influirebbe positivamente sulla
considerazione di Israele in ambito internazionale, che con il ritiro dai
territori palestinesi sarebbe meno controversa. Il movimento - che si avvale
del supporto anche di molte personalità israeliane, dal mondo scientifico a
quello della cultura - intende articolare la propria azione su due
direttive: oltre a promuovere proprie iniziative mediante tutte le
potenzialità mediatiche, si propone come centro di coordinamento e di raccordo
delle attività dei gruppi che operano per gli stessi obiettivi, ovvero per una
svolta pacifica del conflitto israelo - palestinese. Recentemente
il movimento SISO ha diffuso un appello di 500 personalità israeliane
(intellettuali, politici, diplomatici, scienziati, attivisti per la pace). Fra
di essi vi sono gli scrittori David Grossmann, Amos Oz e Orly Castel
Bloom, la cantante Noa, il regista Amos Gitai, gli intellettuali
Naomi Chazan e Daniel Bar Tal, l'ex-leader laburista ed ex-generale Amram
Mitzna, l'ex-deputata ed ex-vicesindaco di Tel Aviv Yael Dayan, il Premio Nobel
Daniel Kahneman. L'appello si rivolge agli ebrei di tutto il mondo affinché,
solidarizzando con gli israeliani, intraprendano un'azione coordinata che ponga
fine alla politica dell'occupazione dei Territori. L'appello va nella direzione
opposta dei piani rigidi e intransigenti dell'attuale governo israeliano. Tuttavia
l'approccio governativo alla questione palestinese non coincide con il comune
sentire della base popolare: dai sondaggi e dalle analisi della stampa che
hanno preceduto le ultime elezioni nel Paese si evince infatti che
l'inaspettato successo del leader Netanyahu si giustifica maggiormente con il
timore degli israeliani per le incertezze di un eventuale cambiamento che
inauguri una nuova linea politica, piuttosto che con un reale
convincimento circa l'opportunità di sostenere i desueti propositi del conservatore
Likud. Naturalmente la realizzazione delle prospettive di pace richiede la
cooperazione dei palestinesi, che devono uscire dal tunnel dell'odio
indiscriminato nei confronti di Israele. Le iniziative di SISO, a prescindere
dal fatto che siano condivise o meno, come importante corollario
stimolano un dibattito, libero da posizioni preconcette, sul futuro di Israele.
In proposito, nell'incipit dell'appello di cui si è detto si legge: "Se ti
interessa Israele, il silenzio non è più un'opzione". Secondo il
punto di vista del movimento SISO, come in passato la solidarietà degli Ebrei
ha consentito la nascita e lo sviluppo di uno Stato ebraico, oggi l'alleanza
fra gli ebrei israeliani e quelli della diaspora dovrà costituire uno strumento
che consenta ad Israele di ritrovare la sua anima democratica, di riaffermare
con coerenza i suoi fondamenti morali, di combattere con efficacia i pregiudizi
della comunità internazionale e l'impatto negativo sull'opinione pubblica
alimentato dal perdurare del conflitto con i palestinesi. RR
RIFLESSIONI
A MARGINE DELLA MORTE DI SHIMON PERES (30 settembre 2016)
La
recente morte di Shimon Peres ha richiamato l'attenzione sulla centralità
storica e politica di Israele, e sull'importanza della questione palestinese nel
contesto degli equilibri mediorientali. Siamo ormai abituati a convivere con la
convinzione che non sia possibile un accordo che ponga fine alla contesa fra
israeliani e palestinesi, una patologia geopolitica ormai diventata
fisiologica. Le attività di mediazione di Paesi terzi o di organizzazioni
internazionali si sono scontrate in concreto con la difficoltà di trovare
soluzioni che fossero legittime, ovvero che avessero le potenzialità per
assicurare un assetto equo degli interessi contrapposti. Infatti, da un punto
di vista politicamente neutro e imparziale le motivazioni addotte dalle parti
appaiono ugualmente meritevoli di considerazione: da
una parte gli ebrei rivendicano la regione dalla quale sono stati storicamente
cacciati, dall'altra i palestinesi reclamano i territori che hanno perso a
seguito della nascita di Israele. L'assetto stabilito dalla Risoluzione
dell'Onu 181 del 1947, denominata 'Piano di partizione della Palestina', ebbe
un'attuazione solo parziale in quanto determinò esclusivamente la nascita di
Israele, i cui confini sono stati poi modificati dalle successive note
vicende belliche, che hanno generato una escalation senza
ritorno: come disse Shimon Peres con un'efficace metafora, con le uova si può
fare una frittata ma dalla frittata non si può tornare alle uova. Si evince da
quanto premesso che questo conflitto non ha natura religiosa come in qualche
occasione è stato erroneamente ritenuto, ma si fonda solo su pretese
territoriali che in concreto hanno (e continuano ad avere) come corollario
la gestione della difficile convivenza fra arabi e israeliani.
Segnatamente vi è incertezza sulle frontiere che dovrebbero delimitare i
territori sotto la giurisdizione di Israele e sullo status da
conferire alla Palestina. Gli israeliani cercano di far prevalere le loro mire
espansionistiche attraverso l'occupazione di territori (militare o mediante
insediamenti), mentre la resistenza palestinese si avvale, come strumento di
intimidazione, dell'azione terroristica di gruppi armati. In proposito le
opzioni strategiche dei leader palestinesi sono state sempre
più impegnate a danneggiare Israele piuttosto che a porre positivamente le
premesse per una reale indipendenza. La comune aspirazione ad
una pace giusta sembra pertanto insidiata dalla difficoltà di fissare i
contenuti di una composizione degli interessi contrapposti ritenuta equa da
entrambe le etnie. Ragionando in termini pragmatici, che sia ritenuta giusta o
meno l'unica soluzione possibile consiste esclusivamente nella coesistenza di
due Stati, ovvero nella creazione di uno Stato palestinese accanto a quello a
maggioranza ebraica: tuttavia, l'istituzione dello Stato palestinese
impone ad Israele la rinuncia ai territori occupati e a parte della
giurisdizione su Gerusalemme (in particolare sulla città vecchia e sulla
spianata delle moschee). Non si tratta di richieste che possono essere
facilmente accettata dalle frange più nazionaliste e conservatrici della
società israeliana. La costituzione di uno Stato palestinese - che ha come
presupposto il ritiro dai territori occupati - dovrebbe essere perseguita anche
nell'interesse dei cittadini israeliani, stanchi di vivere perennemente sotto
assedio e desiderosi di offrire un sereno futuro di pace ai propri figli. Come
è stato già detto in precedenza, non è possibile valutare se la creazione dello
Stato palestinese possa essere obiettivamente la soluzione giusta, in
quanto i punti di vista delle due etnie sono - com'è noto - molto distanti.
Tuttavia questa è sicuramente in concreto è l'unica alternativa possibile ad
una condizione di eterna belligeranza. Ovviamente, intrapresa questa opzione,
non sarà facile fissare i contenuti dell'accordo. Come spesso accade in queste
occasioni, uno degli ostacoli con il quale devono misurarsi le rispettive diplomazie
consiste nel far accettare i sacrifici imposti dalla composizione della
vertenza alla propria base popolare, sempre particolarmente attenta e
sensibile, anche in maniera irrazionale, a qualsiasi rinuncia di sovranità
imposta al proprio Stato. In altri termini in questo tipo di contingenze
diplomatiche può essere più difficile trovare un'intesa con la propria base
popolare, piuttosto che con la controparte. La realtà israeliana non è
monoliticamente e aprioristicamente antiaraba, come erroneamente si è tentati
di ritenere, ma è caratterizzata da diversificate componenti che si
contrappongono in un animato, vivace e articolato dibattito democratico,
anche in ambiti istituzionali. In proposito, attualmente si nota una
frattura fra le istituzioni governative e la gente comune. Mentre alcune
componenti politiche persistono nel mantenere una linea rigida che rifiuta
compromessi, la maggior parte degli israeliani è provata dalla precarietà.
Inoltre, come corollario, si percepiscono segnali, che provengono dalla società
civile, che sono espressione del desiderio di una pacifica convivenza
interetnica e interreligiosa. Alcuni esempi. A pochi chilometri da Abu Gosh,
ritenuto il luogo nel quale 6000 anni fa venne depositata l'Arca dell'Alleanza,
e sulla via per Emmaus, il villaggio in cui Cristo si rivelò dopo la
resurrezione, sta sorgendo Saxum, un centro residenziale e multimediale,
nel quale saranno ospitati fedeli di tutte le religioni per una comune
esperienza spirituale. E' particolarmente significativo che all'edificazione
del centro partecipino, lavorando operosamente e in armonia fianco a fianco,
ebrei e arabi, musulmani e cristiani. A pochi chilometri dal muro che divide
Gerusalemme da Betlemme si trova l'ospedale pediatrico Caritas Baby, che ha
accettato la sfida e l’impegno di curare tutti i bambini, senza differenze fra
ebrei e palestinesi. Potrebbe sembrare normale prestare assistenza a malati non
tenendo conto dell'appartenenza etnica o religiosa, ma non lo è in questa terra
dilaniata dall'odio. Le attività sanitarie dell'ospedale, compreso il pagamento
mensile dei salari, sono sostenute dalla generosità di singoli cittadini e da
associazioni e organizzazioni, anche di altri Paesi. In questa prospettiva di
pace sta assumendo un'importanza centrale l'Associazione SISO (Save Israel -
Stop the Occupation), che sarà oggetto di un successivo specifico post.
RR
LA
TURCHIA DOPO IL FALLITO GOLPE (6-8-2016)
Nei
mesi che hanno preceduto il fallito golpe, in Turchia era cresciuta
l'opposizione interna nei confronti di Erdogan, che, per mantenere il controllo
dello Stato, era ricorso all'adozione di misure che, motivate da esigenze di
sicurezza, avevano inciso negativamente sulla vita democratica e sulle libertà
individuali. Il tentato colpo di Stato pertanto non deve considerarsi un
evento eccezionale e imprevedibile, ma il prodotto di queste tensioni,
che avevano avuto pesanti ricadute sulla coesione politica e sociale del Paese.
Tuttavia i moti insurrezionali della sera del 15 luglio hanno consolidato il
leader turco, che, rafforzato anche dalle manifestazioni popolari a suo
sostegno, ha avuto il pretesto per reprimere ogni forma di dissenso interno. La
Turchia resta destinataria di un duplice attacco terroristico, sia da parte del
PKK, sia da parte del radicalismo jihadista nonostante le spregiudicate e
ambigue relazioni con l'Isis. Da un punto di vista internazionale il Paese è in
una situazione di isolamento. Non ha alleati nel mondo arabo, essendo
espressione di un islamismo dai tratti ambigui e palesemente animato solo
da una volontà egemonica, quella di prevalere sugli altri. Il regime
turco sta cercando in di uscire da questa condizione di isolamento attraverso
alcuni tentativi di normalizzazione dei rapporti bilaterali con alcuni Stati, innanzitutto
con la Russia, con la quale le relazioni erano state gravemente compromesse dal
noto abbattimento di un jet russo al confine con la Siria il 24 novembre scorso
(2015). È stato avviato anche un processo di pacificazione con Israele. Sono in
crisi i rapporti con gli Usa, sia per le divergenze sulla questione curda, sia
per i sopravvenuti contrasti relativi all'estradizione di Gulen. Sono incerte e
fluttuanti i contatti con l'Unione Europea, motivati solo dalla convenienza
reciproca, come è provato dall'accordo sui migranti. L'ingresso nel
consesso europeo al momento è improbabile, nonostante la preziosa posizione
strategica della penisola anatolica, in quanto la nazione turca non soddisfa
gli standard richiesti per l'ammissione. Il PKK, che da tre decenni combatte
con ogni mezzo per l'autonomia curda, anche in assenza di specifiche
rivendicazioni viene individuato come il primo responsabile di qualsiasi fatto
criminoso eversivo. La Turchia da un punto di vista sociale al suo interno è
profondamente divisa: c'è una borghesia urbana - integrata dalle classi
benestanti e dagli studenti impegnati politicamente - che, seppur non omogenea,
è unita nel contrapporsi ai conservatori islamici che sostengono il presidente
Erdogan, sempre più autoritario e repressivo nei confronti della libertà di
opinione. Le sorti future del Paese dipendono sempre più da quale delle due
anime a lungo termine prevarrà sull'altra. RR
IL
FALLITO GOLPE IN TURCHIA (5-8-2016)
A
distanza di più di una quindicina di giorni, il fallito golpe in Turchia può
essere valutato con maggiore obiettività. Com'è noto, la sera del 15 luglio una
parte dell'esercito turco ha tentato di impadronirsi del potere e di destituire
il presidente Erdogan. Il colpo di Stato è fallito dopo qualche ora di scontri
e di incertezze. Il presidente turco nell'immediatezza ha cercato con un aereo
privato di fuggire dal Paese, e, mediante messaggi inviati via
smarthphone all'emittente televisiva Cnn Turkey che li ha diramati, ha
invitato la popolazione a scendere in piazza per manifestare pubblicamente il
sostegno al governo. Avendo acquisito la certezza del fallimento
dell'insurrezione, Erdogan è tornato ad Istanbul. Gli scontri sono proseguiti
fino all'alba, soprattutto ad Ankara, nelle adiacenze del palazzo presidenziale.
Alla fine si è registrato un bilancio particolarmente pesante: fra militari,
poliziotti e civili più di 260 persone hanno perso la vita, mentre almeno 1500
militari sono stati arrestati. Sono state inoltre minacciate pene
particolarmente severe per gli autori della rivolta, prospettando la
possibilità di un ripristino della pena di morte. Dopo aver ripreso il
controllo del Paese, Erdogan ha immediatamente dato inizio ad una massiccia e
capillare epurazione degli ufficiali golpisti. Nei giorni successivi la
destituzione dalle funzioni è stata estesa ad altri militari, a poliziotti, a
giornalisti, a docenti e insegnanti, e a chiunque altro avesse manifestato in
passato critiche o anche solo una tiepida opposizione nei confronti del regime.
Barak Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel hanno con prudenza subito
manifestato il loro sostegno alla leadership turca democraticamente eletta.
Erdogan ha attribuito a Fetullah Gulen la responsabilità di aver organizzato
l'insurrezione dalla sua dimora negli Stati Uniti. L'imam turco Fetullah Gulen,
che ha negato fermamente ogni addebito, è uno stimato studioso, ed è ideologo e
leader del movimento politico di ispirazione islamista Hizmet, che, attraverso
una fitta rete di contatti, influenza molte istituzioni sociali turche.
In passato Fetullah Gulen era amico e alleato di Erdogan. I suoi rapporti
con il leader turco si raffreddarono nel 1999, quando il predicatore decise di
'auto esiliarsi' negli Stati Uniti. La definitiva rottura avvenne nel dicembre 2013,
quando Gulen iniziò a criticare apertamente il governo turco per le sue scelte
e per il coinvolgimento in alcune inchieste giudiziarie. Dopo il fallito golpe
Erdogan con insistenza ha richiesto agli Stati Uniti l'estradizione di Gulen
come presunto responsabile dell'iniziativa. La questione è attualmente motivo
di attrito fra i due Paesi, in quanto gli Stati Uniti stanno valutando con
molta prudenza l'istanza turca e sembrano orientati a non ritenere sufficienti
le motivazioni addotte a sostegno della domanda. In concreto, il fallito
colpo di Stato ha rafforzato Erdogan, che ha avuto la possibilità sia di
liberarsi di oppositori, sia di distribuire ufficiali e funzionari fedeli in
tutti i vertici istituzionali e negli uffici di particolare importanza strategica
dell'amministrazione. È stato anche detto che già da alcuni mesi il Presidente
avesse elaborato una lunga lista di funzionari da allontanare in quanto
ritenuti 'non affidabili'. Inoltre, l'iniziativa golpista ha avuto come
reazione grandi manifestazioni popolari a sostegno del leader turco, che hanno
ulteriormente legittimato il suo attuale potere. Queste considerazioni hanno
alimentato alcune illazioni circa il possibile carattere fittizio
dell'insurrezione, ovvero hanno generato il sospetto che il tentato colpo di
Stato fosse stato architettato dallo stesso Erdogan. In realtà si è trattato di
un vero atto di insubordinazione al regime. Lo dimostrano soprattutto le
ricostruzioni dei fatti sulla base di dati e dettagli forniti da fonti attendibili,
che hanno evidenziato che si è trattato di un golpe particolarmente ben
organizzato, che ha di poco fallito i suoi obiettivi per una serie di
imprevisti, come quelli che hanno impedito l'arresto del ministro dell'interno
e l'abbattimento dell'aereo su cui viaggiava Erdogan, che i golpisti avevano
anche programmato di catturare nella località dove stava trascorrendo un
periodo di vacanza senza tuttavia considerare la pronta ed efficace reazione
della guardia presidenziale. Anche le manifestazioni di piazza hanno
contribuito ad impedire il successo dell'iniziativa. Gli insorti per qualche
ora hanno avuto il controllo di alcuni centri vitali del Paese (a cominciare
dalle comunicazioni). Quindi si è trattato di un vero e proprio tentativo di
golpe. Probabilmente per la riuscita del progetto eversivo sarebbe stato
necessario che i rivoltosi avessero potuto avere, come concreto e solido
riferimento, una personalità particolarmente carismatica e influente che
potesse integrare una valida alternativa ad Erdogan. Forse solo un personaggio
del calibro di Gulen poteva soddisfare questi requisiti, e da qui si sono
probabilmente originati i sospetti del leader turco. Probabilmente è stata
anche sottovalutata dai rivoltosi la popolarità di Erdogan, dovuta soprattutto
ai successi economici che hanno consentito un apprezzabile incremento del
reddito pro capite medio dei cittadini. RR
LE
POLEMICHE SULLE MISURE DI SICUREZZA DISPOSTE A NIZZA (26-7-2016)
In
questi giorni continuano in Francia le polemiche sull'adeguatezza e sull'efficienza
dei dispositivi di sicurezza predisposti a Nizza sul lungomare per le
celebrazioni dell'anniversario della Festa della Bastiglia, in occasione delle
quali è avvenuto il noto fatto criminale. È opportuno che sia una Commissione
di esperti a stabilire se ci siano stati errori, carenze o leggerezze che hanno
reso possibile o facilitato la commissione del folle gesto. Molte delle
critiche, pur sembrando fondate a prima vista sulla base del senso comune, non
tengono conto delle consolidate modalità di pianificazione delle misure di
sicurezza per eventi di questo genere, e delle problematiche concrete che ne
condizionano i tratti distintivi. La censura maggiore riguarda la destinazione
di una sola autovettura e relativo equipaggio a sbarrare l'accesso alla strada
teatro dei noti fatti. In realtà questa è la normalità. Come si chiude al
traffico una strada? È un dispositivo sufficiente destinare a questo fine
un'auto e alcuni operatori, oltre alle transenne. Credo che nessuno abbia mai
visto in Italia in analoghe contingenze strade interdette al traffico mediante
mezzi blindati o attraverso lo schieramento di decine di agenti o militari. È
accaduto in Turchia in occasione del fallito golpe, ma si trattava di
tutt'altro. Qualora per la chiusura al traffico si sia impiegato personale
della polizia municipale, questa scelta non deve essere censurata. Innanzitutto
il blocco della strada è una delle articolazioni dei servizi di sicurezza
predisposti sotto il coordinamento e la direzione di autorità di polizia (e
quindi non si tratta di un dispositivo che opera isolatamente al di fuori di un
generale coordinamento). Inoltre il concorso degli operatori della Polizia
Municipale è una circostanza ordinaria: infatti in occasioni di questa
importanza si deve ricorrere a tutte le forze disponibili sul territorio.
Sarebbe ottimale poter impiegare solo agenti della Polizia Nazionale, magari
super specializzati nell'antiterrorismo e dotati di mezzi efficientissimi, ma
le risorse sono limitate, e per questo è fisiologico che si impieghino tutti i
corpi 'territoriali', di cui fanno parte anche i dipendenti della polizia
municipale, che sono a tutti gli effetti agenti armati di pubblica sicurezza e
di polizia giudiziaria. Tuttavia, nei limiti delle possibilità, si cerca di
'usare' gli operatori in base alle specifiche peculiarità del corpo di
appartenenza. Così generalmente la 'municipale' è destinata alla cura della
viabilità. Si deve anche considerare che i servizi di ordine e sicurezza durano
molte ore, in quanto si ritiene che l'esposizione al rischio di atti criminosi
inizi ben prima dell'afflusso della gente e si estenda alla completa
evacuazione dei partecipanti alla manifestazione. Poiché ci sono prescrizioni
da rispettare che stabiliscono i limiti temporali di impiego dei singoli
operatori, è normale la turnazione fra elementi delle forze dell'ordine anche
appartenenti a corpi diversi. Le misure di ordine e sicurezza pubblica in
situazioni importanti come questa non sono garantite solo dalle forze locali:
anche in Francia ci si avvale del concorso di rinforzi di uomini e mezzi che
provengono da altre città. Pertanto, piuttosto che concentrarsi sulla presunta
insufficienza delle modalità di chiusura al traffico della Promenade, sarebbe
più sensato verificare la sufficienza dei rinforzi assegnati dal Ministero
dell'Interno francese alla polizia di Nizza per la serata del 14 luglio, ed
esaminare in che modo sono stati utilizzati dalle autorità locali. Queste
considerazioni non equivalgono ad un giudizio positivo sulle iniziative di
sicurezza in questione, ma intendono solo sottolineare che il giudizio sulle
responsabilità per l'accaduto è molto complesso e non può prescindere da
conoscenze tecniche. Pertanto, se non si vuole fare facile demagogia, sarebbe
meglio astenersi da critiche banali e superficiali. Sullo sfondo della polemica
c'è la cattiva abitudine - evidentemente non solo italiana - di voler sempre
trovare un colpevole, che non di rado viene individuato nell'ultimo esecutore
della catena di comando. Ammettere che non ci siano responsabili, non significa
ridimensionare l'accaduto e non dare valore alle perdite umane, ma equivale a
constatare che il nostro sistema sociale non è perfetto, e che quindi sia
possibile che si producano patologie anche quando ognuno fa il proprio dovere.
In alcuni casi la ricerca di un capro espiatorio è una deprecabile pratica
giacobina per contenere e dare soddisfazione all'indignazione della
gente. In altri casi questo atteggiamento ipocritamente intransigente è
cinicamente alimentato dai vertici politici, che, scaricando colpe su tecnici
incolpevoli o sulle amministrazioni, vogliono implicitamente rivendicare
che tutto sarebbe perfetto se non ci fossero errori umani. Un altro aspetto
oggetto di controverse valutazioni riguarda l'eventuale esistenza di complici
del franco tunisino autore della strage, ed il loro eventuale ruolo nella
triste vicenda. Si è cercato subito di chiarire se l'attentatore fosse un
'cane sciolto' - cioè una persona che aveva operato al di fuori di gruppi terroristici
- o fosse 'semplicemente' un balordo. In genere si tira un sospiro di sollievo
se si accerta che si versi nel secondo caso. Premesso che si possa essere
balordi e 'cani sciolti' nello stesso tempo, questa distinzione ha uno
scarsissimo rilievo. In entrambi i casi opera lo stesso meccanismo: l'evento
criminoso è il prodotto della nostra esposizione alle conseguenze che
l'efficacia suggestionante della propaganda jihadistaesercita su
menti deboli (siano esse di emarginati, di gente psichicamente instabile, di
aspiranti terroristi). Al contrario il vero elemento che rileva nella
ricostruzione dei fatti per tutte le relative conseguenti implicazioni, è
rappresentato dalla necessità di chiarire se l'atto terroristico sia il frutto
dell'azione di un individuo strutturato in un'organizzazione o si tratti di
iniziative estemporanee. RR
LA
STRAGE DI NIZZA E LA SICUREZZA FRANCESE (17-7-2016)
Come
è noto, la sera del 14 luglio intorno alle 22.30 a Nizza (in Francia) un
camion ha investito decine di persone che sul lungomare la 'Promenade des
Anglais' assistevano allo spettacolo pirotecnico con il quale si stavano
concludendo le celebrazioni per l’anniversario della presa della Bastiglia, la
festa nazionale francese. Nell’occasione sono state uccise 84 persone, mentre
più di un centinaio sono rimaste ferite; tra di esse una ventina versano
in condizioni gravi. Le modalità dell'incidente hanno subito indicato che
si è trattato di un atto terroristico premeditato: il camion è
proceduto alla velocità di circa 80 Km l'ora, zigzagando con il chiaro intento
di travolgere quante più persone potesse. Sembra inoltre che nel frattempo
l'autista sparasse sui passanti. La folle corsa è terminata dopo due
chilometri, quando il conducente, un cittadino francese trentunenne di origini
tunisine, è stato attinto dai colpi sparati dalla polizia. A 36 ore dai
drammatici fatti è giunta una blanda rivendicazione: l'agenzia Amaq, vicina
allo Stato Islamico, con un breve comunicato ha precisato che l'attacco è
stato portato a termine da un soldato del Califfato in risposta
all'appello di colpire i Paesi della coalizione. Sembrerebbe quindi trovare
conferma che l'atto è il risultato di un'iniziativa autonoma in adesione alla
lotta 'jihadista' proclamata dallo Stato Islamico, e non costituisce pertanto
l'attuazione di un ordine specifico. Fin dal giorno successivo si è discusso
nei media, spesso con una competenza inversamente proporzionale alla
presunzione, circa eventuali responsabilità delle forze dell'ordine francesi,
che con una maggiore attenzione forse avrebbero potuto impedire il fatto o
contrastarne le gravi conseguenze. Le attività di prevenzione di atti
terroristici si articolano attraverso due fasi: nella prima ha un ruolo
prioritario l'intelligence, che dovrebbe essere mirata a conoscere in anticipo
le pianificazioni delinquenziali, cosicché possano essere intraprese tutte le
iniziative operative finalizzate ad impedirne la realizzazione. La seconda fase
si occupa di tutte quelle situazioni - come le celebrazioni per la festa
nazionale francese - che possono costituire occasione per la commissione di
atti che mettano in pericolo l'incolumità collettiva ed individuale. In questi
casi le autorità elaborano delle ordinanze (ormai 'standardizzate') che
contengono le necessarie prescrizioni - di cui principalmente sono destinatari
gli appartenenti alle forze di polizia - necessarie a garantire la sicurezza
dell'evento. Quest'ultima attività di prevenzione globale si realizza mediante
specifiche tipologie di dispositivi, come posti di blocco, controlli di vario
genere, presidi, che hanno soprattutto un'efficacia dissuasiva; prevalentemente
costituiscono un deterrente, perché rendono difficoltosa l'attuazione di
un eventuale progetto criminale. Naturalmente, il proposito di un attentato, se
non viene scoperto dall'intelligence, arriva alla fase esecutiva; la sua
realizzazione in questo caso può essere impedita solo da queste generali
predisposizioni di sicurezza, che tuttavia, non essendo specificamente mirate,
possono essere aggirate. Naturalmente più puntuali sono queste misure, più è
difficoltoso portare a termine un disegno delittuoso. Come si può ben
comprendere, non esistono dispositivi che garantiscono in maniera assoluta. Ciò
premesso, tornando ai fatti di Nizza, se l'autore della strage è solo un 'cane
sciolto' non strutturato in una cellula terroristica, può essere comprensibile
la mancata previsione della sua iniziativa da parte dell'intelligence.
L'attenzione deve essere allora rivolta alle modalità dell'ingresso del camion
nell'area pedonale riservata ai festeggiamenti. In proposito, le possibilità
sono due: o sono state lacunose le prescrizioni di sicurezza emesse
dall'autorità per l'occasione, o ci sono state leggerezze da parte degli
operatori. Se è vera la tesi della Polizia francese, ovvero che il camion
avrebbe aggirato la barriera che chiudeva la strada salendo improvvisamente sul
marciapiede, è possibile che in concreto non ci siano responsabilità. Anche se
l'attentato è il risultato di una grave patologia non è detto che
necessariamente ci debba essere un responsabile, come viene sostenuto con il
solito giacobinismo. Se invece il franco-tunisino aveva dei complici e il
proposito criminoso è stato oggetto di una preventiva pianificazione, in questo
caso si dovrebbe prendere atto dell'ennesimo insuccesso delle capacità
dell'intelligence francese, ovvero dell'inefficacia della sua azione
informativa e di controllo. A bordo del camion sono state rinvenute copie
'giocattolo' di alcuni kalashnikov e qualche granate disinnescata. Questa
circostanza poco spiegabile potrebbe indurre a considerare anche la possibilità
che il piano originario dell'attentato fosse un altro e che potesse prevedere
la partecipazione di complici. La personalità dell'autore della strage, che aveva
gravi problemi personali che lo avevano confinato ai margini della società,
conferma la tesi, autorevolmente sostenuta, che le iniziative 'jihadiste' sono
il risultato di un 'islamizzazione del radicalismo', anziché di
'radicalizzazione dell'islamismo'. Infatti, nella società occidentale, che
versa in una fase di diffuso malessere, non esistono più valori oggetto di
riferimento, e tutto sembra dominato dalla mancanza di un'etica comune, da un
vuoto ideologico, da una generale visione relativistica in un contesto di
diffuso nichilismo. Questo clima nelle frange dell'emarginazione, nei giovani
che hanno difficoltà ad orientarsi radicalizza un atteggiamento critico nei
confronti della società. Al contrario l'Islam offre un modello che, seppur
discutibile, si basa su valori definiti e solidi, e che pertanto possono
esercitare una qualche seduzione su chi è alla ricerca di una identità definita
per arginare il senso di insicurezza. Così la contestazione radicale
della nostra società può subire un processo di islamizzazione. Pertanto la
penetrazione della cultura islamica fondamentalista non sarebbe il risultato di
un'aggressione esterna, ma è resa possibile dal nostro vuoto etico, dal clima
di costante contraddizione, da una generale crisi che si declina nella cultura,
nelle connotazioni sociali, in una dialettica che con difficoltà produce
convincenti esiti politici. Anche se - come appare probabile - l'autore
dell'attentato non era un militante dello Stato Islamico, è improcrastinabile
un'azione efficace da parte della coalizione occidentale che annienti il
Neocaliffato troncando innanzitutto i flussi finanziari che ne consentono
l'esistenza. Lo Stato Islamico, anche se la presenza del radicalismo in Europa
è ormai capillare ed endemica e perciò non cesserebbe con la sua fine, per i
cosiddetti 'cani sciolti', è un riferimento concreto e ideale; la sua presenza
incoraggia un potenziale terrorista ad agire per auto accreditarsi come suo
emissario. Come dimostrano i fatti di Nizza, le azioni dei cosidetti 'cani sciolti'
sono particolarmente imprevedibili e insidiose, perché oltre a colpire i 'soft
target', sono poste in atto da islamici non conosciuti dalla polizia in
quanto non strutturati in una organizzazione. E il potere dello Stato
Islamico trova fondamento nella nostra insicurezza. RR
LE
MADRASE. (9-7-2016)
Anche
se il commando che la sera del primo luglio ha assaltato un locale di Dacca
uccidendo 26 persone tra civili e poliziotti era composto da giovani benestanti
che avevano frequentato noti atenei all'estero, è tornato attuale il tema
dell'educazione nelle madrase. Infatti, il clima fondamentalista che in questi
ultimi anni ha caratterizzato il Bangladesh, Paese tradizionalmente tollerante,
è particolarmente influenzato dalla formazione che si riceve nelle scuole
coraniche, spesso parzialmente finanziate con fondi e donazioni provenienti
dagli Stati del Golfo Persico. Le scuole islamiche, note come madrase, presenti
principalmente in Medio Oriente, Asia Centrale e Sud-Est asiatico, fin dall'11
settembre del 2001 sono state destinatarie di una crescente attenzione da parte
delle agenzie di intelligence occidentali. Allora risultò che nelle madrase -
soprattutto in Pakistan - numerosi leader talebani e membri di Al Qaeda avevano
sviluppato le loro idee politiche radicali. Madrasa in arabo significa
'scuola'; tuttavia nel linguaggio comune convenzionalmente al termine si
attribuisce un significato più ristretto in quanto con esso si intendono gli
istituti che propongono un percorso educativo orientato e focalizzato
all’apprendimento dei fondamenti dell’Islam e della lingua araba,
all'approfondimento delle scienze giuridico-religiose islamiche, e quindi,
complessivamente, alla formazione di una cultura che ha un'esclusiva impronta
musulmana. Infatti, anche in quelle madrase nelle quali si insegnano materie
secolari, l'educazione ha sempre come riferimento lo studio del Corano e degli
Hadith (cioè le gesta del Profeta). In alcuni Paesi, come l’Egitto e il Libano,
prevale il significato generico del termine, ovvero quello di istituzione
scolastica, privata o finanziata dallo Stato, laica o religiosa. In altri
Stati, come il Pakistan e il Bangladesh, per 'madrase' si intendono invece le
scuole religiose islamiche, soprattutto di livello primario e secondario. Dal XIX
secolo alcune di esse hanno assunto la configurazione di università,
organizzandosi in facoltà e insegnando anche dottrine non teologiche; ne è un
esempio l'Università di Al Azhar (con sede al Cairo), principale centro della
cultura islamica, fondata nel 970-972 proprio come semplice madrasa. Le madrase
spesso sono associate a moschee ed a luoghi di residenza per studenti e
insegnanti: in questo caso l'istituto di istruzione diviene il centro di una
comunità confessionale e il processo educativo si articola all’interno di una
dimensione di vita nella quale esiste solo l’Islam, che convive con
l’incapacità di guardare in maniera obiettiva le altre culture. Si sviluppa
così un approccio alla vita di tipo fondamentalista, nel quale ogni problema
trova soluzione nella religione presentata in maniera acritica e dogmatica,
mentre il resto del mondo è considerato infedele poiché adotta una visione
laica della fede religiosa che, confinata nella sfera individuale, non può
imporsi come modello socio-politico. L’Occidente, per questo approccio laico, è
considerato in generale l’origine di ogni male e, da un punto di vista
economico e sociale, la causa di ogni disfunzione. La conoscenza della storia è
limitata agli avvenimenti che riguardano esclusivamente il mondo arabo,
considerato una monade impermeabile a qualsiasi influsso esterno, mentre lo
studio delle religioni è solo in funzione di una difesa dell’Islam; in questo
modo si favorisce lo sviluppo di un attivismo politico guidato da una
concezione teoretica modellata esclusivamente su principi confessionali. Si
consolida così un'incapacità di svolgere un’analisi obiettiva delle altre
culture o delle realtà politiche nelle quali la fede musulmana non sia
espressione di una maggioranza. Nelle madrase l’insegnamento è affidato a imam
e mufti. L’imam è un musulmano che, essendo particolarmente esperto nelle
prescrizioni relative ai riti del 'salat' (la preghiera obbligatoria professata
in forma collettiva), si pone davanti ai fedeli guidando l’orazione. L’Islam di
confessione sunnita non ha una gerarchia religiosa e pertanto l’imam, pur
avendo una leadership spirituale, non è un chierico, né è destinatario di una
designazione formale superiore, ma acquisisce questo titolo per attribuzione da
parte della comunità o per auto-proclamazione. Nell’Islam sciita il titolo di
imam ha un significato religioso e politico di maggior rilievo: gli imam sono i
successori legittimi di Maometto; in quanto tali, sono ispirati da Dio e hanno
l’autorità per fornire commenti e interpretazioni del Corano e per guidare
politicamente la comunità. Il muftì è invece un giurisperito. Anche se risulta
difficile provare una diretta correlazione fra l’insegnamento nelle madrase e
il terrorismo, è tuttavia innegabile che in esse si consolidi una cultura
anti-occidentale, che, a seguito di inclinazioni personali o condizionamenti
esterni, può incoraggiare azioni violente, che maturano individualmente o in un
contesto organizzato. Il tema dell'insegnamento nelle madrase ripropone la più
ampia questione delle relazioni fra Islam e terrorismo. In proposito, com'è
noto, si contrappongono due tesi estreme: quella di chi vede nel terrorismo di
matrice islamica un normale precipitato della religione musulmana, e quella
simmetricamente opposta di chi nega qualsiasi rapporto fra l'Islam e il
jihadismo violento. Come dimostra l'influsso che l'educazione fondamentalista
che si riceve nelle madrase ha esercitato sullo sviluppo delle personalità di
talebani e di futuri appartenenti ad Al Qaeda, non si può negare che esista una
relazione fra una malintesa interpretazione della religione musulmana e alcune
degenerazioni violente. In altri termini, obiettivamente esistono perversi
legami fra Islam e degenerazioni violente, anche se non si tratta di è un
fenomeno fisiologico in quanto non tutti i musulmani sono violenti, ma di una
inquietante patologia. RR
L'ISLANDA
AD EURO 2016. (7-7-2016)
I
vincitori morali di questi Campionati Europei sono i calciatori islandesi, con
il loro robusto ma corretto impegno, costante a prescindere dal risultato fino
all'ultimo minuto di gioco, e i loro tifosi, con il loro incitamento colorato e
festoso, e i loro rituali a metà strada fra una sana e disinvolta goliardia
sportiva e le reminiscenze di una cultura millenaria e ancestrale, celebrati
con la leggerezza ingenua di chi prende sul serio ogni cosa, e condivisi al
termine della gara con i giocatori come se fossero un tributo di gloria che si
deve a chi ha difeso con onore la propria patria. Non so molto dell'Islanda.
Nel corso di riunioni all'estero ho spesso incontrato e conosciuto colleghi
islandesi. Questo Stato insulare non fa parte dell'Unione Europea, ma ha
tuttavia aderito all'accordo di Schengen: conseguentemente i collaterali
colleghi di quel Paese partecipavano, soprattutto in qualità di osservatori, a
gruppi di lavoro pertinenti alle materie relative alla cooperazione di polizia.
Non ho familiarizzato molto con loro; parlavano tutti un inglese molto più
fluente del mio, ma con un accento un po' spigoloso simile a quello degli
irlandesi - forse a causa di qualche antenato celtico in comune - e con qualche
costruzione sintattica un po' troppo elaborata, improbabile per la semplicità
apparente della lingua inglese. Tuttavia, il mio eloquio 'friendly' non era
frenato da queste difficoltà tecniche di comunicazione, ma dalla loro
scoraggiante riservatezza, che mi faceva sembrare invasiva qualsiasi iniziativa
che cercasse di coinvolgerli maggiormente. In realtà ora so che
quell'atteggiamento non era frutto di timidezza. Era il disagio di chi, venendo
da uno splendido contesto naturale, si trovava fisicamente ristretto nei grigi
e artificiosi ambienti sigillati degli edifici dell'Unione Europea, nei quali
si respira un'aria secca e viziata. Era l'imbarazzo di chi, sensibile alla
priorità di stabilire le premesse che potessero rendere la reciproca convivenza
più piacevole e semplificata, si trovava immerso nella logica, qualche volta
perversa, dei burocratismi comunitari. Ho letto che un po' di mesi fa in
occasione di un incontro di calcio in casa con la nazionale italiana, un noto
calciatore islandese qualche ora prima del match si è recato
in un negozio sportivo di Reykjavík per comprarsi un paio di scarpini da calcio
nuovi. Assurdo. Che cosa ha in comune quel mondo con il nostro, nel quale,
mentre i giocatori affermati vivono sotto volte dorate e guadagnano milioni, il
sacrificio di uno studioso o di un ricercatore viene compensato con uno
stipendio da fame? Secondo un sondaggio mondiale sulla qualità della vita,
l’Islanda è uno dei Paesi con gli abitanti più felici. Noi siamo diversi,
viviamo nel pieno del progresso, e non in un isola nella quale le pecore sono
più degli esseri umani, che in media sono solo quattro per kilometro quadrato.
Perciò nelle nostre città sovraffollate abbiamo un gran numero di
scontenti, di disadattati, di malati di mente, e un'alta percentuale di
suicidi, come è normale che sia. L'Islanda è il Paese con più libri
pubblicati 'pro capite': in concreto, un islandese su dieci ne ha scritto e
pubblicato almeno uno. Noi ci comportiamo in un altro modo. In Italia siamo
molto presi da impegni, come trastullarci con le effimere suggestioni della
tecnologia digitale, per cui, secondo un sondaggio dell'Istat, nel 2015 solo il
42% degli italiani ha potuto leggere almeno un libro. In Islanda i
crimini violenti sono praticamente inesistenti e la gente si sente così sicura
da lasciare che i propri figli giochino da soli all'aperto o rimangano
incustoditi in carrozzina. Non esistono i cognomi, ma solo il patronimico, cioè
i bambini aggiungono al nome di battesimo del padre un suffisso che significa
'figlio di' o 'figlia di'. Come se io, anziché Roberto Rapaccini, mi chiamassi
Roberto figlio di Delfo (Delfo è il nome di mio padre). Che Paese strano! In
Islanda non ci sono nemmeno le zanzare. E questo non dipende dall'escursione
climatica, ma dall'ambiente inospitale per la sopravvivenza delle larve. In
Islanda non esistono tensioni sociali. Alcuni studi hanno rivelato che
solo l'1% circa degli islandesi si sente appartenente ad una classe
superiore, e solo il 1% a quella inferiore. Il rimanente 98% circa, si
percepisce come classe media. Noi invece siamo rassegnati all'idea che il 48%
della ricchezza mondiale sia in mano a un'ottantina di persone. Speriamo che i
nativi islandesi sopravvivano alla maligna penetrazione della nostra cultura.
Long live Iceland! RR
BREXIT:
LA PROCEDURA (2-7-2016)
Rientra
nei poteri di ogni Stato membro decidere unilateralmente di ritirarsi
dall'Unione Europea. L'ipotesi è disciplinata dalla norma contenuta
nell'articolo 50[1] della
versione consolidata del Trattato sull'Unione Europea[2] (introdotta
con gli accordi di Lisbona, entrati in vigore il I dicembre 2009[3]).
La previsione di una specifica disposizione esclude che per la procedura
di recesso dall'Unione Europea ci si possa avvalere di altre azioni sebbene
mutuate dai principi generali del diritto internazionale. Conseguentemente,
nell'attuale caso britannico, il naturale seguito del referendum
sull'uscita dall'Europa politica dovrebbe essere il ricorso a questa causola,
che può attivarsi solo su iniziativa formale del Regno Unito. Con la
presentazione della relativa istanza la procedura di uscita avrà
inizio ufficialmente; come corollario comincerà anche la negoziazione di intese
finalizzate a definire le modalità della 'separazione', e a delineare il quadro
di riferimento per i reciproci futuri rapporti fra lo Stato recedente, nel caso
di specie il Regno Unito, e l'Unione Europea. In proposito, l'articolo 50
prevede che le prescrizioni dei trattati comunitari cessino di essere
applicabili al Paese interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore
delle intese sopra menzionate propedeutiche al recesso; in mancanza di tali
accordi, gli effetti dell'uscita si produrranno automaticamente due anni dopo
la notifica dell'istanza di recesso, salvo che il Consiglio Europeo, d'intesa
con lo Stato membro, decida all'unanimità di prorogare tale termine.
Generalmente, considerata la loro complessità si ritiene che negoziati propedeutici
all'uscita impegnino un arco di tempo di almeno due anni; nell'attuale
specifico caso della 'Brexit', si prevede che i tempi saranno più lunghi[4].
L’organo del Paese recedente competente a proporre validamente l'istanza si
dovrà desumere dal suo ordinamento costituzionale. Nella specifica ipotesi del
Regno Unito la semplice notifica dell'esito del referendum non può essere
sufficiente a questo fine: peraltro il referendum indetto dal governo di Londra
è un atto consultivo interno non vincolante, seppure di grande rilievo;
quindi in linea teorica è possibile che il Parlamento, che ne dovrà ratificare
gli esiti, si pronunci per l'opportunità di non dare seguito ai suoi risultati
(ad esempio, per prioritari interessi nazionali superiori). È un'ipotesi
improbabile e paradossale, che ignorerebbe la volontà popolare, ma teoricamente
e tecnicamente possibile dal momento che ogni parlamentare con il suo voto sarà
chiamato a esprimere il suo punto di vista. L'uscita dall'UE non preclude la
successiva candidatura per una nuova adesione. In linea di massima, fino alla
data della sua uscita dall’Unione Europea, il Regno Unito dovrebbe essere
soggetto a tutte le regole e alle procedure comunitarie. Successivamente si
applicheranno le disposizioni dell’accordo di recesso, eventualmente integrato
dal ricorso ai principi generali di diritto, ove necessario. L'esito del
referendum produrrà già un effetto, ovvero l'implicita dichiarazione di
inesistenza dell'accordo che venne raggiunto il 19 febbraio u.s. (2016) fra i
leader dell'Unione Europea al fine rafforzare lo speciale 'status' del Regno
Unito. Poichè lo scopo dell'accordo era di evitare l'esito separatista della
consultazione referendaria, venne convenuto, come risulta dalle
Conclusioni del Consiglio Europeo[5],
che, nel caso di esito referendario favorevole all’uscita, l’accordo in
questione sarebbe 'cessato di esistere', cioè sarebbe divenuto inesistente. Il
concetto di inesistenza è molto più forte di quelli di invalidità e di
inefficacia: un accordo inefficace o invalido, rimane esistente seppur viziato
o privo di effetti, e quindi in peculiari circostanze potrebbe produrre esiti;
un accordo inesistente è come se non fosse mai esistito e quindi non è mai
suscettibile di conseguenze giuridiche. Forse siamo alla vigilia di cambiamenti
epocali. L'Europa non si caratterizza solo per la sua dimensione territoriale,
ma anche come teatro di vicende che si articolano in un comune contesto
storico, culturale e politico. La 'Brexit' apre scenari mai esplorati, dagli
esiti incerti, imprevedibili, inquietanti. Attraverso molte chiavi di lettura
si sta cercando di approfondire e di interpretare questa congiuntura. A
prescindere dai risultati specifici di queste analisi, appare
evidente che l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea sia il prodotto di
aspettative deluse, di un malessere diffuso, di insuccessi imprevedibili, sui
quali i 27 Paesi dovranno al più presto riflettere congiuntamente. RR
[1] Il
testo dell'articolo 50: "1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente
alle proprie norme costituzionali, di recedere dall'Unione.
2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio
europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l'Unione
negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del
recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l'Unione.
L'accordo è negoziato conformemente all'articolo 218, paragrafo 3 del trattato
sul funzionamento dell'Unione europea. Esso è concluso a nome dell'Unione dal
Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del
Parlamento europeo. 3. I trattati cessano di essere applicabili allo
Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso
o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo
2, salvo che il Consiglio europeo, d'intesa con lo Stato membro interessato,
decida all'unanimità di prorogare tale termine. 4. Ai fini dei
paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che
rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né
alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo
riguardano. Per maggioranza qualificata s'intende quella definita
conformemente all'articolo 238, paragrafo 3, lettera b) del trattato sul
funzionamento dell'Unione europea. 5. Se lo Stato che ha receduto
dall'Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della
procedura di cui all'articolo 49.".
[2] È
la versione del Trattato comprensiva di tutte le successive integrazioni.
[3] In
precedenza l'ipotesi del recesso di uno Stato dall'Unione non era
disciplinata.
[4] Infatti
al Governo britannico servirà altro tempo (secondo alcuni almeno otto anni),
per rinegoziare le relazioni con ogni singolo Stato dell'Unione sui temi più
vari come l'immigrazione o questioni economiche e bancarie, o come la
materia dell'approvvigionamento energetico. Il vuoto lasciato dalla
perdita dello 'status' di Paese membro dell'Unione Europea dovrà essere colmato
da specifiche pattuizioni bilaterali o multilaterali.
[5] Dalle
Conclusioni del Consiglio Europeo del 18-19 febbraio 20.16:"....Resta
inteso che, qualora il risultato del referendum nel Regno Unito fosse
favorevole all'uscita di quest'ultimo dall'Unione europea, l'insieme di
disposizioni di cui al punto 2 cesserà di esistere...."